Cresco solo, come un orfano. Una mamma ce l`avrei

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Cresco solo, come un orfano. Una mamma ce l`avrei
09/11/2016
Pag. 53 N.46 - 16 novembre 2016
diffusione:155028
tiratura:252752
II film Educazione
siberiana (2013),
di Gabriele
Salvatores, segue
la storia di 4
bambini che,
in Moldavia,
crescono in una
comunità senza
alcun affetto ma
con rigide regole.
SOLI, MA
CON MAMMA E PAPA
Orfani bianchi
di Antonio Manzini
(Chiareiettere, 16
euro). Protagonista
una badante,
che lascia il figlio
in Moldavia.
Cresco solo, come un
orfano. Una mamma
ce l'avrei, ma fa
la badante a casa tua
Secondo l'Unicef, solo in Romania sono
350mìla i bambini che vivono senza
genitori, lOOmila in Moldavia. Alcuni
vanno incontro alla depressione, altri
alla dipendenza da alcol e droga.
Lontane da loro, le madri si prendono
cura di malati e anziani abbandonati
dai proprifamiliari. «Sono duefacce della
stessa disperazione», dice uno scrittore che
a questa tragedia ha dedicato un libro
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irta racconta via mail a Ilie, il figlio
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dodicenne, come trascorre le giornate a
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Roma, a casa di Olivia, un'anziana che i figli
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non vanno mai a trovare. Scrive al bambino,
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che ha lasciato in Moldavia: «Quando se ne
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andrà, forse avrà accanto solo gli occhi di
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una sconosciuta che le sta vicino per il
mensile». Non sarà così, perché Olivia finirà in un ospizio: i figli
vendono la casa e Mirta, che ama quell'anziana come se fosse sua
nonna, perde il lavoro. Inizia così Orfani bianchi, il racconto che
Antonio Manzini fa della vita di tante donne straniere che lasciano i
loro afFetti, i loro figli, i loro Paesi - la Moldavia e la Romania,
l'Ucraina o il Perù e tanti altri - per venire in Italia e accompagnare
i nostri nonni, i nostri anziani verso la fine delle loro vite. Per molti
Mirta e tutte altre donne che ogni giorno cambiano pannoloni o •
La proprietà intellettuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato
STORIE
della settimana
09/11/2016
Pag. 53 N.46 - 16 novembre 2016
SENZA PUNTI
DI RIFERIMENTO
A destra, un'altra scena
di Educazionesibehana.
Figli di deportati,
all'epoca di Stalin,
i ragazzi si perdono tra
dipendenze e reati.
puliscono gradino dopo gradino decine
di piani di scale, sono invisibili come
fantasmi. E i loro figli, orfani bianchi.
Secondo l'Unicef sono almeno 350mila
in Romania e lOOmila in Moldavia i
bambini che crescono in un istituto o
affidati a parenti o vicini di casa, perché i
genitori devono cercare lavoro lontano
da casa. Molti di loro sono depressi e
spesso sviluppano dipendenze da droghe
e alcol. Soffrono per un distacco che non
possono accettare. Così tanto che, nei
casi più drammatici, si tolgono la vita a
dieci, undici anni. Non hanno mezzi per
capire che la mamma se ne è andata per
dar loro un futuro, e credono di aver
meritato una punizione, o forse pensano,
morendo, di farla tornare indietro.
E le madri, come si sentono?
«Stanno malissimo. Vorrebbero spiegare
ai figli perché li hanno lasciati, ma non
ce un perché. L'economia? La storia? La
miseria? Le loro voci mi hanno ricordato
quando da Napoli partivano i bastimenti
carichi di uomini che emigravano:
ognuno teneva in mano il capo di un
gomitolo di lana mentre sul molo le
donne tenevano l'altro capo. Quando i
bastimenti si allontanavano, restavano
solo tanti fili colorati, insieme al vuoto
del distacco. Nei racconti delle donne
straniere che lasciano i bambini per
lavorare qui, quei fili di lana sono come
cordoni ombelicali fatti di sensi di colpa
che si dipanano tra madri e figli. Pesano
e schiacciano come quei bastimenti».
Perché ha deciso di scrivere questa
storia?
«Ascoltando e osservando Maria, la
badante rumena di mia nonna. Aveva
lasciato sua figlia in Romania, e così è
stato per tre anni, prima che riuscisse a
portarla con sé a Roma. Ho cominciato a
chiedermi quale prezzo paghino le
donne che vediamo ogni giorno per
strada con i nostri anziani. Anche se
Maria diceva di essere fortunata perché
poteva contare sui genitori e sugli zii,
e appena poteva tornava in Romania.
Qui sono sole, pronte a ogni sacrificio».
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Mirta è la voce narrante, ma a quante
donne presta la voce?
«A tante donne di tanti Paesi. Come la
sua amica Nina, che sente via mail da
Milano, o come Dolores, la peruviana che
va a vivere con lei quando perde il lavoro e
che da due anni non torna a casa, perché
il viaggio costa duemila euro. Mentre
guarda una foto della sua coinquilina,
Mirta vede che c'è stato un tempo in cui
gli occhi le brillavano, ma quella gioia è
sparita. Oggi quella donna è solo un
corpo, uno strumento per arrivare alla fine
della giornata di lavoro. Dolores, come
Besiana e Denisa, le albanesi, come Inna,
Nida e Damla, le moldave, come la
colombiana Wendy, trascina i suoi giorni,
le settimane e i mesi con il pensiero fisso
di tornare a casa».
È quello il pensiero dominante?
«Queste donne, queste madri, che
vediamo come badanti o come colf,
mandano i soldi a casa, spediscono vestiti
e giocattoli, provvedono al benessere
materiale dei figli e della famiglia
ammazzandosi di lavoro. Si domandano
fino a quando potranno resistere
rinunciando ai figli, all'orgoglio e alla
dignità. Il massimo per loro sarebbe
restare a casa, nel loro Paese, con i
bambini che hanno lasciato ai parenti o
in un istituto. Non mi sembra un sogno
inarrivabile, ma nel 2016 è diventato,
appunto, un sogno».
Per gli italiani descritti nel libro, queste
donne sono invisibili. Il giardiniere
filippino della villa dove Mirta trova il
terzo lavoro è stato ribattezzato
Filippo: i "padroni" ignorano persino il
suo vero nome.
«Non per tutti noi italiani gli stranieri
sono trasparenti. Ho descritto un
atteggiamento sociale e culturale che
trasforma gli esseri umani in oggetti
utili. Mi serve un giardiniere, ma non mi
interessa sapere come si chiama, e tanto
meno conoscere la sua storia. Se è
filippino si chiamerà Filippo, perché
Jaypee Orliber Sinfronio è complicato.
Questo vale anche per le badanti, infatti
Mirta viene chiamata Marta, o per le
colf, che è lo stesso se sono moldave,
ucraine, rumene, bulgare o peruviane.
Sono colf».
Le badanti si meravigliano che noi
italiani non siamo in grado di accudire
gli anziani e lo facciamo fare a loro,
pagandole.
«L'essere umano è fatto per vivere in un
clan. Lo dice l'anziana Eleonora, la ricca
signora che vive in una mega villa
sull'Aventino e di cui Mirta si prende
cura. Ed è proprio così. Una volta la
famiglia era un clan fatto di nonni e
nonne, zii e zie, sorretto dal sacrificio
delle donne che rinunciavano ai propri
sogni e ai propri desideri per essere le
architravi di questo solido nucleo. Oggi
invece manca coesione, e la badante è
una delle risposte ai nostri problemi, nati
da quando abbiamo smesso di occuparci
gli uni degli altri».
Le straniere lasciano le loro famiglie e
noi abbiamo distrutto le nostre?
«Un dialogo tra Mirta ed Eleonora, che
si specchiano l'una nell'altra, fotografa lo
stato della nostra famiglia. "Nella
disperazione siamo uguali, Mirta".
"Lei ha fatto una bella vita. Io no".
"Mia cara, la disperazione la puoi
giudicare solo se non ti coinvolge.
Altrimenti è uguale per tutti"». H
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