Resilienza: l`arte di adattarsi
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Resilienza: l`arte di adattarsi
Resilienza: l'arte di adattarsi Marco Belpoliti* Domenica del Sole24 Ore del 18 dicembre 2013 *Marco Belpoliti è scrittore e saggista, collabora a La Stampa e L'Espresso, insegna all'Università di Bergamo Resistenza addio. È il momento della resilienza. Perché il termine, con cui è stato definito persino un movimento della nostra storia recente, lascia il posto a una parola d’origine anglosassone? Oggi si parla di “comunità resilienti” di Detroit dove, dopo il crollo della General Motors e la brutale deindustrializzazione, la città si è svuotata dei suoi abitanti e il Comune ha dichiarato bancarotta. Eppure arrivano a Detroit settimanalmente ricercatori e attivisti di tutto il mondo per studiare le pratiche collaborative come gli orti di comunità, le fabbriche trasformate in parchi giochi, le reti di vicinato. E non c’è solo Detroit, ma anche altre esperienze negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. “Resistere” è un verbo con una storia molto antica; indica una situazione per cui si “sta fermi e saldi contro una forza che si oppone, senza lasciarsi abbattere”. “Resilienza” è più recente, rimonta al Settecento (“capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi”), sebbene il suo uso in campo metallurgico sia del 1932. L’etimo è esplicito: “saltare indietro”. Tuttavia la sua apparizione nel dibattito attuale (nel web ora sono migliaia i siti e gli articoli connessi al termine resilience) è merito degli psicologi. Emmy Werner lo usò per la prima volta nel 1955 studiando 698 neonati dell’isola Kauai nelle Hawaii nell’arco di trent’anni. Secondo la psicologia tradizionale molti di loro avrebbero presentato in futuro situazioni di disagio psichico, per via delle condizioni delle famiglie d’origine. Werner verificò che invece 72 di loro erano riusciti a migliorare le loro condizioni nell’età adulta, raggiungendo un livello di vita buono. Merito della loro resilienza. La metafora del materiale che resiste e non si spezza, passò nell’arco di qualche decennio nella biologia per indicare la capacità di un organismo di autoripararsi dopo un danno, nell’ecologia e anche nel linguaggio informatico: un sistema operativo capace di adattarsi e resistere all’usura. Laura Peveri, una ricercatrice della Bicocca, in un’ampia tesi leggibile in rete, spiega come una persona resiliente non è un super-eroe, bensì un uomo o una donna comune dotata di qualità che può andare incontro a rotture e depressioni. Il maestro di questa giovane studiosa, Luigi Anolli, ha sintetizzato questo tema in un agile libretto, Ottimismo (il Mulino), dove definisce la resilienza come una competenza a sviluppare fattori protettivi “in grado di contrastare e di ridurre gli esiti di situazioni difficili e di eventi negativi che, di norma, accadono a tutti nella vita”. Un concetto molto antico, presente già nei miti greci, ripreso dalla psicoanalisi con il termine di “difesa”, e che ora viene definito come “adattabilità attiva” tra fattori di rischio e fattori protettivi; l’interazione tra i due dà origine a quello che gli psicologi chiamano “gradiente di rischio”. E non c’è solo l’aspetto personale; si parla di resilienza della comunità prossima e anche delle comunità estese. Nel campo della psicologia è in corso un dibattito tra chi ritiene che si tratti di una qualità propria di certe personalità e chi invece lo considerano un processo dinamico che varia secondo i contesti. Leggendo il libro di Anolli si capisce come mai questa forma di resistenza attiva, se possiamo tradurre così il termine, sia più presente nel mondo anglosassone, e americano in specie, e molto meno, ad esempio, in quello giapponese. Perché a Detroit sì, e Fukushima no? L’ottimismo assume differenti configurazioni a seconda della cultura di appartenenza. Si è più o meno ottimisti, o pessimisti, per via dell’appartenenza a una comunità o ad un’altra. Nella società nordamericana il benessere soggettivo è quasi un obbligo sociale, un mandato sociale. La ricerca della felicità, scritta nel DNA di quel paese sin dalla sua fondazione, costituisce lo scopo ultimo della vita degli individui: autoaffermazione, autostima, autogiustificazione sono caratteri ben presenti in quel paese; l’individualismo stesso predispone a una forte dose di ottimismo. Al contrario, nelle società caratterizzate da un sistema sociale severo, autoritario, disciplinato, in cui prevale la collettività a scapito dell’individuo, domina il pessimismo. È convinzione diffusa nella società giapponese che l’infelicità viaggi a ruota della felicità, come mostra Takeo Doi in Anatomia della dipendenza (Cortina) o i romanzi di Murakami Haruki. In Cina, invece, l’impronta lasciata da Confucio nella cultura sposta dall’individuo alla società la spiegazione degli eventi, e consente di perseguire una teoria del cambiamento ciclico: è la via cinese all’ottimismo. Una questione complessa, ma assai interessante per valutare le diverse reazioni allo stato di crisi che ha colpito il Sistema-Mondo, e in particolare i paesi occidentali, e che si connette con un altro tema vicino alla resilienza: l’empatia. Una psicologa, Edith E. Grotberg, studiosa di resilienza, ha proposto un modello per il mondo infantile per superare le situazioni traumatiche fondato su: I have, I am, I can (io ho, io sono, io posso). Come non sentire in questo l’eco dello stesso slogan elettorale di Obama? Ma ci sono altri psicologi che, come nel caso delle esperienze di Chicago, o di altre città e gruppi locali, parlano di promozione della resilienza attraverso la narrazione, lo storytelling: “zone di sicurezza narrativa”, come le definiscono. Un paradigma, quello della resilienza, che s’avvia a diventare nei prossimi anni un tema politico, oltre che sociale, nell’autorganizzazione delle singole comunità. Cosa è la Resilienza? Di Braian Walker* Sole 24ore 8 luglio 2013 *Brian Walker, ricercatore presso il Commonwealth Scientific Industrial Research Organization (CSIRO) in Australia e presso lo Stockholm Resilience Center. Per rispondere a questa domanda, bisogna cominciare ponendone un’altra: Quanto pensate si possa cambiare senza diventare una persona diversa? Quanto può cambiare un ecosistema, una città, o un’attività economica prima di apparire e funzionare come un diverso tipo di ecosistema, di città, o di attività economica? Questi sono tutti sistemi auto-organizzati. Il corpo, per esempio, mantiene una temperatura costante di circa 37 gradi. Se la temperatura corporea si alza, si inizia a sudare per raffreddarsi, se la temperatura scende, i muscoli vibrano (rabbrividiscono) per riscaldarsi. Il vostro corpo si basa su reazioni retroattive per mantenere le stesse modalità di funzionamento. È questa la definizione basilare di resilienza: la capacità di un sistema di assorbire le perturbazioni, riorganizzarsi, e continuare a funzionare più o meno come prima. Ma ci sono dei limiti, o delle soglie, alle capacità di recupero del sistema, oltre le quali questo viene ad assumere una diversa modalità di funzionamento - una diversa identità. Molte barriere coralline, un tempo dimora di una grande varietà di pesci, ad esempio, sono diventate degli ecosistemi di alghe o di manti erbosi con pochissimi pesci. Due soglie principali dettano questo cambiamento all’interno delle barriere coralline. Più sostanze nutritive si immettono nell’acqua (defluendo dai terreni circostanti), più le alghe sono alimentate, fino a quando, ad un certo punto, prendono il sopravvento. Allo stesso modo, se troppi pesci erbivori vengono rimossi, le alghe ottengono un vantaggio competitivo rispetto ai coralli. Queste due soglie interagiscono: più nutrienti ci sono, meno pesca è necessaria per “capovolgere” il sistema in uno stato algale, e minore è il numero di pesci, meno nutrienti sono necessari. Inoltre, le soglie possono spostarsi appena l’ambiente cambia. Nell’esempio della barriera corallina, sia la soglia delle sostanze nutrienti che quella dei pesci si abbassano quando si alzano le temperature dei mari e gli oceani diventano più acidi. Dunque, quando il cambiamento climatico avanza, anche piccoli aumenti incrementali nei livelli dei nutrienti, e una modesta riduzione del patrimonio ittico potranno far precipitare le barriere coralline in uno stato algale. Questo tipo di soglie esistono anche nei sistemi sociali: si pensi alle mode o, più seriamente, al comportamento tumultuoso delle folle. Nel mondo degli affari, il rapporto debito /reddito è una soglia ben nota, che può muoversi al passo con i tassi di cambio. Gli effetti di soglia sono stati identificati anche nell’offerta di lavoro, nei servizi di trasporto, e in altri fattori determinanti della società del benessere. Data l’importanza degli effetti di soglia, come può essere mantenuta la resilienza di un sistema? Per cominciare, aumentare la resilienza di una determinata caratteristica di un sistema può comportare la perdita di resilienza di un altra. Quindi dobbiamo capire e migliorare la resistenza generale - la capacità di un sistema per far fronte a una serie di scosse, in tutti gli aspetti del suo funzionamento. Dalla ricerca su una varietà di sistemi, i seguenti attributi hanno dimostrato di conferire una resilienza generale: Un elevato grado di diversità, soprattutto la diversità di risposta (diversi modi di fare la stessa cosa, spesso erroneamente considerata come “ridondanza”). Una struttura relativamente modulare che non sovra-connetta le sue componenti. Una forte capacità di rispondere rapidamente ai cambiamenti. Una “apertura” significativa, che consenta l’emigrazione e l’immigrazione di tutte le componenti (i sistemi chiusi rimangono statici). Il mantenimento di riserve adeguate - per esempio, le banche di semi per quanto riguarda gli ecosistemi o la memoria nei sistemi sociali (che si contrappone ai servizi di fornitura just-in-time). L’incentivazione dell’innovazione e della creatività. Un elevato capitale sociale, in particolare affidabilità, leadership, e le reti sociali. Una governance adattiva (flessibile, distributiva e basata su sistemi di apprendimento). Questi attributi comprendono gli elementi essenziali di un sistema resiliente. Ma la resilienza di per sé non è né “buona” né “cattiva”. Sistemi indesiderati, come ad esempio le dittature e gli ambienti salini, possono essere molto resilienti. In questi casi, la resilienza del sistema dovrebbe venire ridotta. Inoltre, è impossibile comprendere o gestire la resilienza di un sistema ad una sola scala. Se ne devono includere almeno tre - la scala centrale ed almeno una superiore ed una inferiore – in quanto le connessioni a scala incrociata determinano con frequenza maggiore una resilienza di sistema a più lungo termine. La maggior parte delle perdite di resilienza costituiscono le conseguenze non intenzionali di un ottimizzazione strettamente focalizzata (come obiettivi di “efficienza”), che non riesce a riconoscere gli effetti di feedback sulla scala centrale che derivano da cambiamenti prodotti da tale ottimizzazione ad un’altra scala. Non si deve confondere la resilienza con la resistenza al cambiamento. Al contrario, nel tentativo di evitare cambiamenti e turbative un sistema riduce la sua resilienza. Una foresta che non brucia mai alla fine perde le specie in grado di resistere al fuoco. I bambini a cui viene impedito di giocare nella sporcizia crescono con sistema immunitario compromesso. Per costruire e conservare la resilienza è necessario sondarne i confini. Se è già avvenuto un cambiamento in uno stato “peggiorativo”, oppure esso è inevitabile e sarà irreversibile, l’unica alternativa è la trasformazione in un diverso tipo di sistema un nuovo modo di vivere (e di guadagnarsi da vivere). La trasformabilità e la resilienza non sono termini opposti. Affinché un sistema rimanga resiliente rispetto ad una certa scala, parti di esso potrebbero doversi trasformare rispetto ad altre scale. In Australia, per esempio, il bacino del Murray-Darling non può continuare ad essere una regione agricola resiliente se tutte le sue parti continuano a fare quello che fanno ora. Semplicemente non c’è abbastanza acqua. Quindi alcune parti dovranno trasformarsi. Naturalmente, la necessità di trasformazione per creare o mantenere la resilienza può anche influenzare la scala più alta: se alcuni paesi e regioni presentano le condizioni per restare (o diventare) sistemi socio-ecologici resilienti ad alto benessere umano, può essere necessario trasformare il sistema finanziario globale. La trasformazione richiede sempre la negazione del passato, la creazione di alternative per il cambiamento, ed il sostegno di novità e sperimentazioni. Il sostegno finanziario da livelli superiori (governo) prende troppo spesso la forma di aiuto a non cambiare (il salvataggio di banche “troppo-grandi-per-fallire”, per esempio), piuttosto che aiutare a cambiare. La resilienza, in breve, consiste in gran parte nell’imparare come cambiare per non subire il cambiamento. La certezza è impossibile. Il punto sta nel costruire sistemi in grado di mettersi al sicuro nel momento in cui falliscono, non nel cercare di costruire sistemi al sicuro dai fallimenti.