gioco - Golf e Gusto

Transcript

gioco - Golf e Gusto
gioco
gioco
alberto carpinetti
The Open
Un giorno
all’Open
Championship
IL P R I V I L E G I O
[h. 5.30]
D I E S S E R E S P E T T AT O R E
È
una piovigginosa domenica mattina
londinese. Di quelle che invitano a stare a letto.
Soprattutto chi , come me, ama dormire. Ma oggi
non è una domenica qualsiasi. È da un anno che
aspetto questo giorno. Da quando Carla mi ha
comprato i biglietti. Oggi è “La Domenica”. La
giornata conclusiva dell’Open Championship. Ieri
mi sono preparato come per una gara; anzi
meglio. Cena di carboidrati, pudding, passeggiata
e a letto presto. Sarà una lunga giornata oggi.
Londra è a due ore di auto dalla sede di gara. Due
ore in un giorno normale, ma non “La Domenica”.
I giornali mi hanno già avvisato che la mia idea
non è poi così originale. Stimano che oltre 40.000
12
persone la abbiano avuta. Chiudo ancora un
attimo gli occhi e me li vedo. 40.000 giacche a
vento colorate ciascuna contenente un golfista
tecnico e competente che corrono verso la tribuna
del green che hanno scelto per seguire la gara.
Sarà meglio che mi alzi se non voglio passare il
mio tempo lungo il più insignificante dei fairways.
Autostrada A2. Direzione Est. Destinazione
Sandwinch. Proprio la contea che un creativo [h. 7.10]
domestico di tre secoli fa ha reso famosa nel
mondo quando procurò al suo Signore che non
voleva staccarsi dal tavolo da gioco un petto di
pollo e una foglia di insalata inseriti tra due fette
di pane. Ma Sandwich è per il golfista una delle
sedi a rotazione della competizione più antica e
prestigiosa del mondo, che qui chiamano
semplicemente The Open. Insomma una terra di
passione per il gioco questa! Che la strada sia
quella giusta più che il Tom Tom me lo assicura il
flusso di scatolette di latta ordinato ma sempre in
aumento, nonché i cartelli segnaletici luminosi.
Meglio non fare i furbi con la velocità. Gli
autovelox sono ovunque. E la guida contromano
(almeno per me) necessita di più attenzione
soprattutto quando si deve svoltare.
[h. 8.40] Più i minuti passano meno ci si muove. Pare tutti
vogliano andare al parcheggio verde, proprio
quello che mi aspetta grazie al pass procuratomi
da una amica giornalista (italiana ovviamente).
Guardo dentro alle vetture in coda davanti e
dietro a me (di fianco nessuno, avete mai visto una
coda inglese?). Ci sono uomini donne e bambini.
Un po assonnati come me. Dalle cilindrate e dai
modelli si capisce che ceti sociali e professioni sono
le più diverse. Da italiano so riconoscere un tifoso.
E questi non sono sguardi di tifosi. Da italiano so
riconoscere un turista. E queste non sono
espressioni da turista. Sono occhi pieni di
esperienza, per le tante palle giocate, e spesso
perse, su un links. Sono occhi pieni di speranza, di
incontrare i campioni visti solo in tv. Sono occhi
pieni di desiderio di partecipare dal vivo
13
gioco
gioco
The Open
Inghilterra
all’Evento. Sono occhi pieni di passione che ha solo
chi considera la settimana di lavoro come
l’intervallo tra due giri di 18 buche. Sono occhi
pieni di emozione verso un qualcosa che non si sa
come sarà, ma si sa che ci sarà. Come quando si
imbucherà in uno direttamente dal tee. Sono
talmente preso da questi occhi così diversi, ma così
uguali, che è un Bobby, il poliziotto locale, a darmi
la sveglia. Ho bloccato il traffico, proprio davanti
all’agognato parcheggio verde. Da qui posso
evitare le navette, ovviamente bus a due piani, che
collegano gli ingressi con gli altri parcheggi. La
coda ai tornelli è lunga, ma britannica. Lineare ed
ordinata. E ovviamente più veloce delle nostre.
Biglietto. Controllo. Sono dentro! Finalmente. È da
un anno che aspettavo questo momento. O forse
da quando ho iniziato a colpire una pallina. O
forse da sempre. Un momento tanto atteso. Ma
non immaginato. Non sapevo esattamente cosa
attendermi. Certo mai avrei immaginato di trovare
Lui. Il benvenuto all’Open Championship lo da il
più grande. Cinque gigantografie di Severiano
Ballesteros ripreso nei suoi tipici atteggiamenti da
vincitore. E proprio qui all’Open. È lui che sembra
prenderti per mano ed accompagnarti in un altro
mondo. Il mondo dell’Open. Di nuovo a svegliarmi
è un addetto alla sicurezza. Ha una corda in mano
e vuole chiudere una strada ed aprire la sua
perpendicolare per fare passare i cart che portano
[h. 9,15] i giocatori dagli spogliatoi al campo pratica. E io
sto per essere investito dall’autista di Phil
Mickelson. A pensarci bene avrei potuto chiedere
14
un buon indennizzo, ma mi sarei rovinato la
giornata. Meglio ringraziare l’addetto e spostarsi.
[h. 10,10] Vedo due persone entrare in una
costruzione e, da pecora, li seguo. Incredibile ai
miei occhi. Una struttura che sembra il tendone di
un circo. Centinaia di persone alternano
l’attenzione verso lo schermo dei loro pc a quello
di tre maxitelevisori che trasmettono al gara. Un
leaderboard enorme occupa una intera parete. Gli
addetti che si arrampicano sulle scale per
aggiornare gli score. E persino dei fotografi che
asciugano col phon i loro strumenti di lavoro dopo
la pioggia della mattinata (per l’emozione non me
ne ero nemmeno accorto). E ancora decine di
postazioni per tv e radio sommerse tra microfoni
cavi e enormi guide con ogni tipo di dato
statistico. Ma anche qui qualcuno mi da la sveglia.
Col pass del parcheggio verde che con italica faccia
tosta ho prontamente esibito non posso stare in
[h. 10.25] sala stampa! Vengo accompagnato fuori, praticamente buttato sul green della 18 ancora
deserto. Le tribune sono tre. Enormi. E si stanno
popolando. Sovrastate da due giganteschi
leaderboard gialli. Mi domando che emozioni può
provare un giocatore quando si avvicina sotto lo
sguardo di approvazione o condanna in base allo
score di così tanti occhi competenti. Forse è meglio
riordinare un po’ le idee. Non so che ora possa
essere, ma inizia a diventare tardi e non ho ancora
visto niente! Una cosa che non può più aspettare è
una visita al campo pratica.
Eccomi. Eccoli. Sono davvero vicini e ricono-
scibilissimi. Sono in tanti tra giocatori tecnici e
spettatori ma nessuno fiata. Si sente solo il sibilo
degli swing e il rumore dell’impatto. Movimenti
perfetti. E incredibilmente uguali uno all’altro.
Sembra senza fatica. Con la palla che cade
sempre nello stesso posto. Quello che più
impressiona è il tempo, dopo l’impatto, durante
il quale riescono a tenere in equilibrio la
posizione di finish: praticamente fino a che la
palla non tocca terra. Un fotogramma che
sembra non sbiadire mai. L’area per il putt
invece… sembra una piazza invasa dai “vù
cumprà”. Tutti per terra hanno qualcosa oltre
alle palline. Chi uno specchio, chi una bacchetta,
chi un supporto a forma di mezzaluna, chi una
telecamera manovrata dal fido coach. Mi viene il
sospetto di sbagliare qualcosa nella mia
preparazione visto che al massimo per allinearmi
io ho usato i disegni del tappeto davanti alla tv
nelle serate noiose e non passo sul putting green
prima di una gara più di due minuti privilegiando
15
gioco
gioco
The Open
Royal St.George’s G.C.
stretching, colpi dal tappeto e soprattutto
colazione e rifornimento al bar.
[h. 11.40] Usando lo stratagemma del pass del posteggio
verde agitato velocemente riesco ad intrufolarmi
nell’area riservata ai motor home delle case
costruttrici che costeggia il driving range. Sembra
di essere ad un gran premio di formula 1. Enormi
Tir i cui cassoni scorrevoli generano con un
movimento salotti tv, palestre, sale di ristoro. Ma
soprattutto officine di fitting. Dove nerboruti
signori apportano modifiche minimali, ma
determinanti a grip, loft, pesi. Un tipo che si sta
fumando un sigaro mi dice che di solito seguono
il tour solo dal lunedì al mercoledì. Per la gara
non c’è n’è bisogno. Ma non qui. Qui siamo
all’Open. E tanti Open sono stati vinti (o persi)
anche grazie alle modifiche fatte poco prima di
drivare alla uno in queste officine mobili.
[h. 12.10] Un applauso mi distrae. Stanno iniziando sul tee
della uno le partenze che contano. Con Ivor
Robson il mitico speaker sempre in giacca verde e
camicia bianca (cambia solo la cravatta a seconda
del torneo) che gira il mondo e passa le giornate
sotto l’ombrellone con l’unico compito di
presentare (indicando nome e paese di
provenienza) i contendenti. Lo fa da 25 anni.
Sempre allo stesso modo. Ovunque. Dimenticando ogni bisogno fisiologico. Con il naturale
e contagioso entusiasmo di un bambino che
presenta ai nuovi amici i vari formati dei barattoli
di Nutella.
[h. 12.25] Il campo mi attende. Ormai i 40.000 sono già
schierati da tempo. LE tribune che circondano
tutti e 18 i green sono già piene. O quasi. Una
lunga coda di persone in fila indiana è in realtà
regolamentata dai Marshall che evitano che
qualsiasi forma di distrazione possa disturbare i
giocatori in azione. I posti vuoti sono comunque
pochi anche perché chi ne ha conquistato uno
non è certo disponibile a cederlo a nessuno. Qui
si tratta di scegliere: coda per la tribuna o
campo? Mi dico: se tutti vanno in tribuna ci sarà
un perché. Da single in breve conquisto il mio
seggiolino. Aspetterò qui che passino tutti.
Anche perché sembra di essere dentro ad un
enorme televisore. È vero mancano i replay, ma
davvero pare di essere in campo, di discutere le
strategie con i caddie, di leggere con loro le
pendenze, di puttare indirizzando la palla a 10
metri dalla buca ma facendola fermare a 10
centimetri. Rido (ma sono il solo!) all’intervento
solitario di quello che sembra un antennista, ma
in realtà è un signore con tanto di rastrello che
solo qui sostituisce il caddie del giocatore nel
16
rimettere a posto i bunker. Scoprirò più tardi che
questi signori sono i migliori greenkeeper
d'Inghilterra, ciascuno a rappresentare con onore
i più importanti campi del regno ed a garantire
la perfezione della superficie di sabbia ai
successivi giocatori dopo ogni indesiderata visita.
Minileaderboard, tabelloni mobili e la radio che
ho noleggiato e che trasmette per oltre 15 ore al
giorno la diretta della gara non mi fanno sentire
spaesato e riesco a seguire bene quel che accade
sul mio e sugli altri green, a differenza di altri
sport che ho seguito di recente dal vivo come
l’automobilismo o il ciclismo. E capisco che posso
lasciare nello zaino il tricolore che avevo
ottimisticamente portato con me. In realtà più
che tifare qui si fa da supporter nel vero senso
britannico del termine. Gli incitamenti sono per
tutti, anche se finalmente non si applaude chi
sbaglia un approccio o un facile putt come
avviene da noi. Anzi il clamore del battimano è
proporzionale alla distanza dalla buca a cui si
ferma la pallina. Certo quando arrivano il grande
Tom Watson o il leader Darren Clarke il green
diventa quanto di più simile ad uno stadio di
Premiership.
[h. 14.35] Passati i primi della classe le tribune si svuotano.
Ed io mi trovo ad essere guidato dall’istinto di
sopravvivenza: ho fame! Mi basta seguire il flusso
di birre medie ed arrivo in un enorme unico fast
food multietnico. Sarà l’appetito, sarà l’atmosfera, sarà l’allegria dei vicini, ma un fish & chips
così buono non lo avevo mai mangiato. E non mi
perdo nulla della gara grazie a dei maxischermi
degni (da noi) di una finale di Champions.
Soddisfatti i bisogni primari (per dirla alla
Maslow, che però non so se giocava anche a
golf), inizio a razzolare tra gli stand. Come
immaginavo c’è n’è per tutti. E c’è di tutto. Ci
sono binocoli (anche a noleggio) macchine
fotografiche, itinerari turistici a fondo sportivo,
immancabili banche e società finanziarie. Tranne
– sorpresa – l’attrezzatura da golf! Poco male
visto che non ho intenzione di cambiare i miei
ferri. Neanche il tempo di pensare che avrei però
17
gioco
gioco
The Open
Royal St. George’s GC. Sandwich
bisogno di cambiare lo swing che la soluzione si
materializza. Con 10 sterline offerte in
beneficenza posso concedermi 10 minuti di
lezione con un professionista PGA. Gli basta
vedere un mio swing per trovare il difetto e
consegnarmi una chiavetta USB con il passaggio
video su cui devo lavorare. E funziona! Per chi
non ha seguito la gara in tv è bene dire che il
Royal Saint George non è un campo adatto agli
alti di handicap. Vento e pioggia a parte, il rough
è ingiocabile e oltre ai green ondulati e
velocissimi, è costellato da un centinaio di bunker
invisibili dal tee grandi come una vasca da
bagno. Nel senso che le loro sponde costruite in
mattoncini d’erba (periodicamente sostituiti)
sono alte e verticali come una vasca da bagno
messa in piedi. Mentre mi domando se sarei
capace ad uscire da quelle trappole, la solita
banca me ne offre l’opportunità. Vero bunker,
vera sabbia, vere sponde, vero pubblico. Metto la
palla quasi in bandiera, ma pantaloni e maglietta
vincono un passaggio in tintoria dal momento
che la pioggia lo aveva reso pozzanghera di
fango.
[h. 16.10] Un grande coda. Ho capito che sono arrivato.
Sono al pro shop, qui chiamato Merchandise
Pavillon. Che da meglio l’idea della sua enormità.
Ho una lunga lista di regali da fare ad amici (per
simpatia) e nemici (per fare loro rabbia!). Si entra
con il contagocce, aspettando che esca qualcuno
come nei parcheggi del centro all’ora
dell’aperitivo. Ho visto in giro bellissimi ombrelli.
E anche i capellini non sono male. Poi mi
piacerebbe una cravatta e dei gemelli da esibire
nelle riunioni di lavoro. Ho anche verificato che
la carte di credito non fosse arrivata al limite.
Inizia a piovere ma io non mollo il mio posto in
coda. Tanto dura il tempo di una doccia. Peccato
che l’acqua che scende è pari a quella di una
doccia. Ecco perché qui le chiamano shower.
Finalmente è il mio turno per entrare. Ma…
delusioneee. È praticamente vuoto. Sugli infiniti
scaffali qualche maglietta XS. Niente maglie.
Niente cappellini, niente alzapitchmark. Niente
di niente. Solo qualche vecchio attrezzo o pallina
con tanto di certificato di chi li ha usati e vecchie
stampe in tema. Riesco a portare a casa solo un
peluche per Lei che mi ha regalato il biglietto e
qualche pallina col logo. Sul sito si può acquistare
tutto mi dicono. Che gusto c’è a ricevere un
pacco via DHL? Ribatto sconsolato.
[h. 17.25] All’uscita vengo quasi travolto. Tutti corrono. Che
succede? Un attentato? C’ è Tiger che regala
18
magliette autografate? No. Siamo solo alla
72esima buca mi dice uno correndo. Di colpo
capisco. La 72 buca è l’ultima del quarto giro.
L’ultima buca giocata dal fly dei migliori. Salvo
spareggi è l’ultima dell’Open. Il pubblico può
invadere il campo dietro ai giocatori e calpestare
la mitica erba (che in realtà anche sui fairways è
molto poca, mentre oltre il rough è alta mezzo
metro). I giornalisti hanno persino un pass
specifico per seguire da vicino questo momento.
Altro che permesso per il parcheggio verde!
Vedo da lontano l’ormai certo vincitore che
cammina commosso. Ce l’ha fatta dopo 21
tentativi. Tutto il pubblico è in piedi ad
applaudire. Così come un cordone di Marshall e
volontari in giacca verde. Mi fermo e chiudo gli
occhi. Penso e sento che un po’ di quegli applausi
sono anche per me. E per quelli come me che
sono li. Per la mia più bella giornata di golf
anche senza tirare un colpo (bunker bancario a
parte) dopo quella in cui ho preso l’handicap.
Del ritorno a casa non ricordo quasi nulla. Così
come della settimana successiva. Fino al sabato in
cui mi sono trovato su un tee della 1. Drive in
mano. Mi è partito un colpo diverso da solito.
O meglio il colpo era il solito. Ma la sensazione
diversa. Ho provato il piacere del gioco al di là di
ogni attesa di piattino o virgola.
Con lo sguardo alla pallina che vola e nel cuore le
vere emozioni del Golf.
19