L`Aquila-Haiti: le sventure esponenziali dei terremotati

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L`Aquila-Haiti: le sventure esponenziali dei terremotati
 L'Aquila-Haiti: le sventure esponenziali
dei terremotati
di Antonio Gasbarrini
A vedere quelle inenarrabili scene apocalittiche haitiane tinte di grigio
(polvere e macerie), rosso (sangue) e nero (morti), senti il tuo corpo – di
terremotato aquilano scampato fisicamente alla tragedia del 6 aprile –
pervaso dalle stesse scosse di un elettrochoc inferte ad un malato mentale.
La realtà da cui sei attorniato non coincide più, dopo il Big One, con il topos, il
luogo in cui credevi di aver ben impiantato le salde radici della tua sfuggevole
esistenza terrena: “un’affacciata di finestra”, come dice saggiamente un
proverbio marsicano.
Rivivi così al rallentatore la zigzagante dinamica di una traumatica
sofferenza, amplificata fino al parossismo da numeri usciti fuori controllo con
le centinaia di migliaia di morti e feriti ed i milioni senza cibo né tetto. Al
momento, nelle discariche a cielo aperto ne hanno buttati dai camion, come
inerti sacchi d’immondizia, 70.000. Subito ricoperti dal sordido lavorio delle
ruspe in quelle fosse comuni della collinetta di Tytanien, già ampiamente
utilizzate per altre decine di migliaia di oppositori, dai dittatori Duvalier, padre
e figlio. L’impressionante cifra coincide con gli ex abitanti dell’intera città
dell’Aquila: tutti sotterrati, quindi!
La tua impotenza e quella degli sventurati fratelli e sorelle haitiani di fronte
alle ferocia devastatrice di una natura maligna – sono sempre i più poveri, i
diseredati dimenticati da qualsivoglia dio, a “crepare” per primi – ti obbliga,
comunque, una volta di più a guardarti intorno.
Il tuo piccolo cosmo di riferimento, il Paese dell’anima (Silone), visto dalla
costa teramana in cui sei tuttora esiliato, è ancora la città natale, L’Aquila, o
meglio la “Grande Aquila” comprensiva delle sue frazioni. Distrutta subito
dopo la sua edificazione nella metà del Duecento da Manfredi, nuovamente
legittimata poi da Carlo I D’Angiò (“Sey anni stette sconcia”, Buccio di
Ranallo), ancora “messa giù” nei quattro secoli successivi da alcuni terribili
terremoti, come quello del 1703.
Ma, l’aggettivo “terribile” non regge più di fronte all’ipertragedia haitiana, dove
il peggio del peggio del Male è riuscito a scatenare tutte le energie negative
d’una furibonda Natura, non contrastabili né da preghiere riparatrici, né tanto
meno da esorcizzanti riti vudoo. Il vocabolario, d’ora in avanti, avrà bisogno di
nuovi lemmi per significare l’orrore di tutto ciò che oltrepassa le
inimmaginabili soglie del lutto, della sofferenza e della disperazione. Lo
sterminio nei lager nazisti di circa 6 milioni di ebrei, zingari e omosessuali, ha
già insegnato nel secolo scorso qualcosa in merito (si rileggano, in proposito,
alcune pagine esemplari di George Steiner).
Un difficile confronto speculare tra il sisma aquilano delle 3.32 e quello
haitiano delle 16.53, sembra mettere in luce due inconciliabili realtà: il
“Paradiso terremotato” dei ricchi (i bianchi, occidentali aquilani, con le loro
tende, casette, camere d’albergo, sotto la paterna ala protettiva emergenziale
targata Protezione Civile) e l’ “Inferno sismico” dei pezzenti (i neri, caraibici
haitiani, senza acqua, cibo, ospedali, medicine, ricoveri di fortuna; in un paio
di parole, alle prese, da sempre, con la trionfante anarchia istituzionale).
Ti accorgi, inoltre, come le macerie, ogni tipo di macerie, si somiglino in modo
impressionante. Perciò Haiti = L’Aquila, anche per quanto riguarda il cemento
“disarmato”, taroccato dalla cupidigia dei costruttori-assassini, attecchiti,
come nefasta gramigna, in ogni parte del globo.
Ti si stringe il cuore poi, quando ti tocca constatare come nella tua “fu città”, a
circa 10 mesi dal sisma, i cumuli delle rovine stiano ancora tutti sparsi là,
misurati e misurabili in tonnellate e metri cubi smaltibili in vari anni. Nel
frattempo le crepe delle miglia di case non puntellate, si sono allargate a vista
d’occhio. Con l’arrivo della inclemente stagione invernale, tra uno
spanciamento e l’altro dovuti a piogge e gelo, case, palazzi, chiese e
monumenti continueranno a cadere a pezzi o a crollare del tutto nelle
disabitate zone rosse ancora presidiate da militari, quasi fosse ancora in
corso una guerra: tra chi e che?
Ti viene irresistibile, allora, la voglia di urlare alla Münch. Più del 70%
dell’ingente patrimonio monumentale, artistico e architettonico accumulato in
circa 8 secoli dai progenitori, sta irrimediabilmente andando in rovina: lo ha
coraggiosamente denunciato qualche giorno fa, con un’apposita lettera
indirizzata al Capo del Governo, il Presidente d’Italia Nostra Alessandra
Mottola Molfino, reclamando il varo di una legge speciale, finanziabile con il
dirottamento dei vari miliardi di euro che saranno fagocitati dal faraonico
Ponte di Messina. Né sono stati da meno il Presidente del Consiglio
Nazionale del Ministero dei Beni Culturali Andrea Carandini ed il consigliere
Gianfranco Cerasoli nel chiamare in causa l’esclusiva responsabilità della
Protezione Civile per i mancati stanziamenti, inesistenti anche per la
semplice copertura delle chiese sventrate (per tutte, l’ex gioiello della
martoriata chiesa Capo quarto di S. Maria Paganica).
Di fronte all’oltraggio perpetrato, al limite del sacrilegio, ti chiedi e lo chiedi ad
alta voce ai tuoi concittadini, cosa fare per rimediare a tanto scempio.
Dovresti alzare le mani in segno di resa, come hanno già fatto molti aquilani
beneficiati dal sisma. Nelle disgrazie collettive c’è sempre qualcuno che ci
guadagna. Eppure non puoi non ribellarti. Quei Beni culturali che stanno
andando in malora, facevano parte integrante del “tuo intangibile patrimonio
spirituale”, una sorta di uso civico da te goduto gratuitamente sin dalla più
tenera infanzia, allorché giocavi a pallone davanti al gigantesco spazio
antistante la Basilica di S. Maria di Collemaggio, anch’essa ridotta a brandelli.
Poiché sei stato offeso ed impoverito difenditi, attaccando. Continuando a
denunciare tutte le malefatte governative sulla inesistente ricostruzione
dell’Aquila-città-fantasma. Chiedendo di nuovo i danni, materiali e morali, con
una Class action azionabile non solo da te e dagli aquilani tutti, ma da coloro
che nel futuro, se non cambierà la direzione di marcia, saranno privati per
sempre della ineguagliabile Bellezza emanata da quelle pietre imbevute di
storia e di memoria, ora declassate ad anonimi sassi. Smentire la fatale
attrazione gravitazionale d’una tremante terra maledetta, con una bella frase
dello scrittore Erri De Luca: “La macchina che negli alberi spinge linfa in alto
è bellezza, perché solo la bellezza in natura contraddice la gravità”.
Bellezza vs Ignoranza. Già. Crassa ignoranza di chi (sig. b. in primis) ha
semplicemente chiuso gli occhi, fatto finta di “non udire” i crescenti rantoli di
quegli affreschi sminuzzati, di quei quadri e sculture ancora seppelliti, di
quelle bifore, capitelli, portali, altari smembrati dalla incontenibile furia degli
elementi. E tutto ciò, non già a causa di un destino cinico e baro, ma per
l’insipienza, la superficialità, il dilettantismo, la tirchieria governativa in fatto di
risorse finanziarie non-messe a disposizione per la “vera ricostruzione” di
un’intera città, dove al momento non c’è più posto né per gli aquilani, né tanto
meno per fantasmi e spettri. Dopo i reiterati, quindicennali bluff sulla
riduzione delle tasse promesse dall’imperturbabile faccia bronzea del sig. b.,
risulta patetico il persistente lamento mantrico del Sindaco dell’Aquila
Massimo Cialente sulla indifferibile istituzione di una tassa di solidarietà
nazionale finalizzata alla riedificazione del Centro Storico. Tassa ch’era
accettabile dagli italiani a stretto ridosso del sisma generatore anche di una
forte onda emozionale, diventata vieppiù improponibile dopo lo
sconquassante terremoto haitiano. Ridimensionante, con le sue vertiginose
immagini mediatiche, l’evento aquilano, peraltro già scomparso
dall’attenzione dei mass-media, com’è già percepibile dai ridotti servizi del
TGR3 Abruzzo.
Il sole ingrigito dalle polveri haitiane oscurerà per sempre – non ci teniamo ad
essere malauguranti profeti – i nitidi azzurri sovrastanti i solidificati silenzi
della città-morta, geograficamente posizionata alla latitudine di 42,21 ed alla
longitudine di 13,23: numeri magici la cui rispettiva somma, pari a 9, ha
favorito da parte di alcuni studiosi, una lettura esoterica legata alla genesi del
taumaturgico numero 99.
Avrà buon gioco allora, ne siamo sicuri, la propaganda governativa tesa ad
esaltare il “miracolo italiano-aquilano” della sistemazione di 15.000-16.000
concittadini nelle “verdeggianti oasi delle c.a.s.e.tte”, miracolo da
contrapporre al caos, alle violenze di ogni tipo ed alla completa
disorganizzazione dei soccorsi in terra haitiana. Sottacendo un particolare
non secondario: L’Aquila faceva e fa parte integrante dell’Italia e dell’Europa,
cioè dell’Occidente opulento; l’Haiti francofona, da secoli sfruttata
colonialisticamente ed i cui abitanti già soffrivano la fame prima del sisma, è,
invece, tra i Paesi più poveri e arretrati del mondo. Un confronto, perciò,
improponibile. Per di più offensivo per le decine e decine di migliaia di orfani
isolani che costituiranno un vero banco di prova per la verifica di una nonpelosa, interessata solidarietà internazionale. L’infido neo-capitalismo
globalizzato, soprattutto finanziario, sa perdere il pelo, ma non il vizio.
Anche se a prima vista potrà sembrare un paradosso, la riedificazione di
buona parte della capitale Port-au-Prince e degli altri centri minori
“appoltigliati” dal sisma di magnitudo 7.3 del 12 gennaio, presenterà aspetti
problematici meno complessi di quelli facenti capo al Centro Storico
dell’Aquila.
Là, infatti, è solamente un problema quantitativo, data la marginale presenza
di edifici di pregio. Con risorse adeguate, peraltro provenienti esclusivamente
dal sostegno finanziario di altri Paesi, sarà possibile ripianificare e
riqualificare urbanisticamente il distrutto, senza prevedibili complicazioni di
rilievo. Qui, a L’Aquila e negli altri centri storici dei dintorni, la salvaguardia
dell’aspetto qualitativo (sintetizzabile nella parola d’ordine “dove era e come
era”) sarà propedeutica ad una riuscita, sana e salvifica resurrezione. Non si
tratterà semplicemente di ricostruire la città e gli altri centri storici minori
devastati con criteri antisismici più affidabili e meno malandrini di quelli del
passato. Piuttosto urge e sempre più sarà indifferibile, riprogettare ab ovo,
ripensare con agguerriti strumenti scientifici, intellettuali e creativi, una cittàterritorio al momento inopinatamente smembrata dagli avventati, sciagurati,
insediamenti popolari delle 19 little-towns (come continuo a definirle, al posto
di new-towns).
Di nuovo, questi anonimi, standardizzati, costosissimi alloggi (chi e quanto ci
ha guadagnato?), non hanno proprio niente, mentre di piccolo-piccolo, molto.
Ad iniziare dalla caratteristica di essere, e lo saranno ancora per vari anni,
dei semplici ghetti-dormitorio dove sarà consentito ai precari occupanti di
sopravvivere alla meno peggio.
Un futuro meno opprimente per loro, per gli altri concittadini già rientrati in
zona nelle loro abitazioni e per i circa 30.000 desparecidos nelle autonome
sistemazioni e negli alberghi, ha un solo nome e cognome – L’Aquila / Città
d’Europa – ed un univoco indirizzo: Centro Storico.
*
Critico d’arte – Art Director del Centro Documentazione Artepoesia Contemporanea Angelus Novus,
fondato nel 1988 (L’Aquila, Via Sassa 15, ZONA ROSSA). Attualmente “naufrago” sulla costa teramana.
[email protected]
giovedì 21 gennaio 2010, 12:42