Stralcio volume

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Capitolo I
I diritti sociali alla salute e all’assistenza
SOMMARIO: I-1. I diritti sociali nell’ordinamento nazionale. – 1.1. Diritti sociali e Stato sociale. –
1.2. Portata e contenuto del principio personalistico nella Costituzione. – 1.3. La responsabilità della Repubblica nella garanzia dei diritti sociali. – 1.4. Diritti sociali e diritti di libertà. –
I-2. Diritti sociali e integrazione europea. – 2.1. La sovranità nazionale nella tutela dei diritti sociali e il Trattato di Roma. – 2.2. Dall’Atto unico europeo al Trattato di Amsterdam. –
2.3. I diritti sociali nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. – 2.4. Prospettive per una integrazione sociale dell’Unione. – 2.5. Diritti sociali e servizi di interesse generale. – I-3. Il diritto alla salute. – 3.1. L’evoluzione della nozione di salute. – 3.2. La tutela della salute e l’impegno della Repubblica. – 3.3. Il diritto dell’individuo e l’interesse della collettività. – 3.4. Diritto alla salute e autodeterminazione dell’individuo: il consenso informato. –
I-4. Il diritto alla assistenza sociale. – 4.1. Vita dignitosa e diritto all’assistenza sociale. – 4.2.
I caratteri del diritto all’assistenza sociale. – 4.3. Assistenza sociale e beneficenza. – 4.4. Assistenza sociale e previdenza. – I-5. I principi in materia di diritti alla salute e all’assistenza. –
5.1. Il principio di solidarietà e il criterio di sussidiarietà. – 5.2. Universalismo e cittadinanza
sociale. – 5.3. Pluralismo e libertà dell’assistenza. – Indicazioni bibliografiche per approfondire.
I-1. I diritti sociali nell’ordinamento nazionale
1.1. Diritti sociali e Stato sociale
La Costituzione Italiana contempla e disciplina diversi diritti qualificati
dalla scienza giuridica diritti sociali.
La principale ragione dell’aggettivazione come “sociali” di tali diritti è
da rintracciarsi nella esigenza di distinguerli da quelli cosiddetti “di libertà”, già da tempo presenti nelle costituzioni liberali. I diritti sociali sono
infatti diritti costituzionali di seconda generazione che fanno il loro ingresso nelle carte fondamentali a partire dal secondo dopoguerra e caratterizzano, come vedremo, una nuova forma di Stato, quella dello Stato sociale di
diritto che, non a caso, contiene nella sua denominazione lo stesso aggettivo “sociale”.
L’espressione Welfare State (letteralmente Stato del benessere, che poi
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sarà tradotta come Stato sociale) entra nell’uso in Gran Bretagna negli anni
del secondo conflitto mondiale e descrive in maniera sintetica un complesso di politiche pubbliche che, anche attraverso una redistribuzione della
ricchezza generata dalle forze del mercato, sono rivolte a sostenere determinate categorie sociali in situazioni di difficoltà.
Con la costituzionalizzazione dei diritti sociali, come nel caso dell’ordinamento italiano, ma anche di quello tedesco o spagnolo, si fa qualcosa di
più: si individuano specifici diritti individuali, propri della persona in quanto tale e non di categorie di soggetti bisognosi, che attivano una doverosità
dello Stato nella realizzazione delle prestazioni di servizio che sono necessarie a soddisfarli.
L’inclusione dei diritti sociali nelle carte fondamentali li pone sul medesimo piano dei diritti di libertà, con i quali quindi, in caso di conflitto, vanno bilanciati secondo una ponderazione che trova comunque nei fondamenti costituzionali la guida per la ricerca di un punto di equilibrio.
La nostra Costituzione contempla espressamente diversi diritti sociali:
– il diritto al lavoro (artt. 4, 35, 36, 37)
– il diritto alla salute (art. 32)
– il diritto allo studio (art. 34)
– il diritto alla previdenza e alla assistenza (art. 38)
– i diritti della famiglia (artt. 29, 30, 31).
Tali diritti trovano fondamento, ancor prima che negli specifici articoli
che li contemplano e disciplinano espressamente, nei principi fondamentali del nostro testo costituzionale e in particolare nel principio personalistico
e nel principio di eguaglianza sostanziale, rispettivamente sanciti dagli articoli 2 e 3.
L’articolo 2 riconosce e garantisce i “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, ponendo la persona e i suoi diritti al centro e a fondamento di tutto il sistema
costituzionale. Su tale previsione si considera basato per l’appunto il principio personalistico che anima la nostra come molte altre delle costituzioni
del dopoguerra, che hanno rinnegato il criterio del superiore interesse dello Stato rispetto all’individuo e con ciò hanno escluso la stessa possibilità di
sacrificare quest’ultimo (l’individuo) alla soddisfazione delle finalità del primo (lo Stato).
Il riferimento all’inviolabilità dei diritti dell’uomo in quanto tale rappresenta innanzi tutto un limite per la legge e con ciò per le scelte politiche della maggioranza, che non possono mai trasformare la persona, destinatario e
fine ultimo della tutela costituzionale, in uno strumento per il raggiungimento delle finalità pubbliche. In ciò è forte l’eco della condanna delle scel-
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te che durante il regime fascista sacrificarono i diritti delle donne, dei minori, dei disabili, di fronte alle esigenze della protezione della razza, ma anche i diritti dei lavoratori di fronte al superiore interesse dell’impresa, ecc.
L’articolo 3 della Costituzione contiene un altro principio fondamentale,
quello che sancisce, oltre all’eguaglianza di ciascuno di fronte alla legge e al
divieto di discriminazione, l’impegno della Repubblica a garantire l’eguaglianza sostanziale. Quest’ultima ha una rilevanza centrale nella ricostruzione dei diritti sociali e della forma di Stato che su di essi si fonda, dal momento che si basa sul presupposto che garantire le semplici libertà a tutti e
senza discriminazione alcuna sia necessario a rendere gli uomini liberi, ma
non sia sufficiente a renderli uguali. Perché tale ultimo passo possa dirsi
compiuto occorre uno specifico impegno delle istituzioni nella rimozione
degli ostacoli di ordine economico e sociale (non giuridico, si badi bene, per
questo infatti è sufficiente prevedere l’eguaglianza di fronte alla legge e il divieto di discriminazione) che impediscono alle persone di avere le stesse opportunità di vita e di sviluppo.
Al fondo del grande e ambizioso progetto costituzionale di eguaglianza
sostanziale c’è l’idea che un regime democratico possa dirsi pienamente
compiuto solo laddove gli individui siano effettivamente e non solo formalmente uguali e quindi siano tutti, allo stesso modo e con le stesse possibilità,
messi in condizione di contribuire alla vita politica e sociale del Paese.
1.2. Portata e contenuto del principio personalistico nella Costituzione
La portata del principio personalistico nel nostro sistema ordinamentale
e le sue conseguenze sul modo di intendere, e quindi anche di garantire, i
diritti sociali si comprende a fondo solo mettendolo in rapporto con il principio di eguaglianza sostanziale.
Sostenere che il nostro Stato sociale di diritto si fonda sulla centralità
della persona non è infatti sufficiente a comprendere sino in fondo in che
modo tutto ciò si rifletta sui diritti dei singoli e sulla doverosità delle istituzioni di garantirne la soddisfazione: occorre, infatti, intendersi prima di tutto sull’idea di persona che c’è dietro.
Molto semplificando e, come si fa in questi casi, eliminando le opzioni
intermedie, possiamo riferirci a due visioni contrapposte. Da un lato abbiamo un’idea unitaria di persona, un soggetto per così dire astratto e, in quanto tale portatore di un patrimonio di caratteri, esigenze e quindi di diritti
fondamentali comuni e indifferenziati. Dall’altro abbiamo invece un’idea
concreta di persona, necessariamente plurale e diversificata, come diversi
sono gli individui. Ciascuno è considerato, oltre che come portatore di di-
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ritti comuni a tutti, anche per il suo essere singolare, e perciò suscettibile di
avere una propria e specifica visione di bene, visione che non può non incidere sul modo in cui i suoi diritti debbono essere tutelati.
Nel primo caso, tutela della persona e autodeterminazione di questa possono anche entrare in contrasto. Un individuo, in altre parole, potrebbe dover essere difeso da se stesso, laddove intenda, ad esempio, realizzare il proprio bene in modi che altri, la maggioranza magari, considera invece lesiva
dei diritti fondamentali e con ciò della dignità della persona, astrattamente
intesa. Alcuni giuristi (M.R. MARELLA), in questa prospettiva, hanno messo
in guardia di fronte a certi impieghi dell’argomento della “dignità dell’uomo”, che pure alcune costituzioni come quella tedesca, in ciò ripresa anche
dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza),
contemplano espressamente. Quando allo Stato è riconosciuto il potere non
solo di tutelare, ma anche di predefinire il contenuto della dignità dell’uomo, quest’ultima rischia di essere eterodeterminata sulla base dell’identità
dominante all’interno di un gruppo, divenendo strumento di imposizione
di valori maggioritari anche contro le scelte che i singoli facciano nell’esercizio della propria autodeterminazione.
Più vicino alla seconda idea di persona è invece quel concetto di dignità
dell’uomo che ritiene di non poter prescindere dall’autodeterminazione di
quest’ultimo e che quindi non può essere interamente né predeterminato,
né eterodeterminato. In questa impostazione prevale l’idea che a diversi individui corrisponda una visione diversa del proprio benessere. La concezione di vita, realizzazione sociale, integrazione, salute, ecc., di cui ciascuno
è singolarmente portatore possono infatti non coincidere e perciò non pare
possibile regolare una volta per tutte ed in maniera indifferenziata il modo
in cui ciascuno può veder tutelato il proprio bene.
Approfondire la contrapposizione fra questi due diversi modi di intendere la persona non soddisfa solo la necessità di chiarire il significato delle
parole a cui ci si riferisce, ma consente di capire in che modo l’affermata
centralità della persona nell’ordinamento si riflette sulla tutela dei suoi diritti sociali.
Su questo aspetto si tornerà ampiamente in seguito, ma un esempio contribuirà a chiarire sin d’ora cosa si intende.
Se lo Stato ritiene lesivo della dignità della persona astrattamente intesa
interrompere certe cure di sostentamento vitale, l’autodeterminazione di un
individuo che, in previsione di una sua perdita definitiva di coscienza, chieda invece di poter rinunciare ad esse quando non sarà più cosciente, può
entrare in insanabile conflitto con il modo in cui l’ordinamento ritiene debba essere tutelata la sua salute. Se invece il diritto alla salute si ritiene strettamente interconnesso con l’autodeterminazione dei singoli, è evidente che
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tale diritto sarà considerato pienamente tutelato nella misura in cui risponda all’idea di personale benessere che l’individuo abbia per sé, anche quando questa coincida con la sospensione di trattamenti pur idonei a tenerlo in
vita. Si tratta del dibattito, non ancora sopito nel nostro Paese, sulla portata e l’efficacia delle dichiarazioni anticipate di trattamento (cosidetto Testamento biologico), nel corso del quale, con particolare evidenza, si fronteggiano le due diverse idee di persona alle quali abbiamo sopra fatto riferimento.
Come prima accennato, per comprendere la portata del principio personalistico nella nostra Costituzione e, quindi, anche l’idea di persona su cui
si fonda, con tutte le conseguenze che da ciò dovrebbero derivare, è necessario fare riferimento non solo all’articolo 2, ma anche al successivo articolo 3 ed al modo in cui il principio di eguaglianza sostanziale viene in esso declinato. In particolare si ritiene significativo il passaggio in cui, nel comma 2
di tale ultimo articolo, si prevede che l’impegno della Repubblica alla rimozione degli ostacoli economici e sociali sia rivolto a permettere “il pieno sviluppo della persona umana”, liberandola, quindi, dal bisogno, dalla sofferenza, dall’emarginazione sociale, dalle difficoltà economiche, ecc. Il riferimento ad un processo di piena realizzazione di sé, che passa attraverso una
liberazione da ciò che ostacola e impedisce tale processo, rimanda ad
un’idea di persona che l’ordinamento fa propria senza, tuttavia, poterla definire una volta per tutte. A ciascun individuo dovrebbe essere consentito di
divenire autenticamente se stesso, autodeterminandosi senza condizionamenti; un’idea, quindi, plurale di persona, non predefinibile a priori e strettamente interconnessa con l’autodeterminazione.
Come avremo modo di vedere nel prosieguo, questa impostazione è un
seme che germoglierà, non senza qualche difficoltà, negli anni successivi all’adozione della Costituzione e che, sotto certi profili, non ha ancora dato
tutti i suoi frutti.
1.3. La responsabilità della Repubblica nella garanzia dei diritti sociali
Una fondamentale caratteristica dei diritti sociali è, come accennato, il
fatto che la loro garanzia attivi corrispondenti doveri della Repubblica che,
oltre a riconoscere, “garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2) e assume il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana” (art. 3).
Al fine di rendere possibile tale piena realizzazione dell’individuo, la tutela di ciascun diritto sociale è collegata a precisi doveri della Repubblica:
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– il diritto al lavoro si collega al dovere di promuovere “le condizioni che
rendano effettivo questo diritto” (art. 4) e di curare “la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori” (art. 35);
– i diritti della famiglia si collegano al dovere di agevolare “con misure
economiche e altre provvidenze” la sua formazione e “l’adempimento dei
compiti relativi” e di proteggere “la maternità, l’infanzia e la gioventù” (art.
31);
– il diritto alla salute si collega all’ampio dovere di tutelarla e di garantire “cure gratuite agli indigenti” (art. 32);
– il diritto all’istruzione si collega al dovere di istituire “scuole statali per
tutti gli ordini e gradi” (art. 33) e di rendere effettivo il diritto allo studio
con “borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze” (art. 34);
– il diritto alla previdenza e all’assistenza sociale si collega al dovere di
istituire o integrare organismi che realizzino gli adempimenti necessari a
soddisfarli (art. 38).
Si tratta di doveri, per così dire, minimi, che non impediscono alla Repubblica di attivarsi anche in altri modi per garantire quegli stessi diritti sociali. In alcuni casi, del resto, la formulazione del contenuto della doverosità
è talmente ampia da consentire una larga serie di scelte attuative per adempiervi. Si pensi, ad esempio, al dovere di tutelare la salute. Questo può realizzarsi attraverso interventi anche molto diversi con una varietà di decisioni regolative e organizzative che graduano anche in modi differenti l’intervento della Repubblica.
Ma quali sono le istituzioni, i soggetti, i poteri ai quali la Costituzione fa
riferimento quando chiama in causa la Repubblica?
A questo fine è fondamentale riferirsi a quanto disposto dall’articolo 114
che, per l’appunto, articola la nozione di Repubblica, chiarendo che questa
“è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle
Regioni e dallo Stato”. Una pluralità di soggetti, quindi, sui quali grava
complessivamente la doverosità di consentire, attraverso l’assicurazione dei
diritti sociali, quella liberazione della persona, che realizza il principio di
eguaglianza sostanziale e conferisce pienezza al principio democratico.
Naturalmente i ruoli e i compiti che la legislazione attuativa ha assegnato a questi soggetti istituzionali sono diversi e verranno successivamente approfonditi con specifico riferimento agli interventi che realizzano il diritto
alla salute e il diritto all’assistenza. Ma alcuni aspetti sono comuni a tutti i
diritti sociali.
Il primo riguarda le fondamentali scelte che debbono essere fatte per assicurarne la piena tutela. La doverosità pubblica di garantire i diritti sociali
si realizza in molti casi attraverso la predisposizione di apparati organizzati-
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vi che provvedono alla fornitura dei servizi a ciò connessi: le strutture sanitarie, nel caso del diritto alla salute, i servizi sociali, nel caso del diritto all’assistenza, gli istituti previdenziali, nel caso del diritto alla previdenza, le
scuole pubbliche, nel caso del diritto all’istruzione, e così via. In molti altri
casi, anche laddove non ci sia un preciso dovere di realizzare enti e apparati, le istituzioni pubbliche debbono provvedere attraverso contributi economici: le borse di studio per garantire il diritto all’istruzione, le provvidenze economiche per agevolare la formazione della famiglia, ecc.
Si tratta di scelte che debbono tenere conto delle risorse a disposizione e
del modo di impiegarle e che si sostanziano in decisioni di natura eminentemente politica. A chi spettano tali decisioni? Naturalmente per una parte
al livello di governo al quale compete la responsabilità di fornire le prestazioni che sostanziano i diritti. Ma, pur nella pluralità dei soggetti istituzionali coinvolti, ci sono due aspetti che richiedono l’intervento della legge
dello Stato in quanto massima fonte primaria e regola capace di imporsi su
tutto il territorio nazionale: la decisione di fondo sull’equilibrio fra risorse a
disposizione e modalità di soddisfazione del diritto, e la tipologia di prestazioni che devono comunque essere assicurate al medesimo livello in tutto il
territorio nazionale. L’articolo 117, comma 2, lettera m) della Costituzione
prevede, infatti, a tal proposito che spetti al legislatore statale la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Una scelta,
questa, che mira a garantire eguaglianza nel godimento dei diritti sociali, indipendentemente dall’istituzione, statale, regionale o locale, che si occuperà
poi di organizzare i relativi servizi o di erogare i finanziamenti.
Soprattutto in fasi di recessione economica e comunque in generale, data la non inesauribilità delle risorse a disposizione della sfera pubblica, si
tratta di scelte che, oltre a fissare standard comuni, debbono anche combinare le esigenze di garanzia dei diritti sociali con i condizionamenti finanziari e assumere decisioni che di volta in volta espandono o comprimono i
servizi che forniscono le prestazioni. In diversi casi la giurisprudenza costituzionale ha dovuto riconoscere che i diritti sociali sono finanziariamente e
organizzativamente condizionati, non potendo la Repubblica garantire
“tutto a tutti” secondo un certamente desiderabile, ma altrettanto certamente insostenibile, principio di assoluto universalismo nel godimento dei
diritti sociali. Anche per questo motivo è fondamentale che sia la legge dello Stato e non altre fonti ad assumere le decisioni fondamentali (e fondamentalmente politiche) in merito.
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1.4. Diritti sociali e diritti di libertà
Il necessario intervento pubblico per la garanzia dei diritti sociali e la
correlata circostanza per cui la loro piena realizzazione deve conciliarsi con
la finitezza delle risorse organizzative e finanziarie a disposizione della sfera
pubblica sono caratteri spesso enfatizzati per segnalare la differenza fra tali
diritti e i diritti cosidetti di libertà.
Di questi ultimi si è a lungo sostenuta la natura negativa, che si sostanzierebbe nella pretesa, costituzionalmente garantita, ad una astensione dello Stato dall’intervenire in certe sfere protette della libertà individuale. Ciò
li configurerebbe come diritti pieni, direttamente azionabili, differenziandoli dai diritti sociali, che, invece, richiedendo un intervento pubblico “positivo”, dipenderebbero per la loro soddisfazione dalla esistenza e consistenza di tale intervento. A partire da ciò si è anche negata la natura di diritti soggettivi dei diritti sociali, ricostruendo le disposizioni della Carta fondamentale che li prevedono come idonee ad imporre unicamente obblighi
alla Repubblica e non a riconoscere diritti agli individui. Secondo questa
impostazione, i diritti sociali non sarebbero in quanto tali direttamente
azionabili di fronte ad un giudice, ma consentirebbero al loro portatore unicamente di contestare il modo in cui la sfera pubblica interviene a garantirli. Ciò comporta che laddove mancasse completamente qualsiasi intervento,
mancherebbe anche in radice la possibilità di rivendicare tali diritti.
E evidente che le conseguenze di tale modo di intendere i diritti sociali
possano essere tali da abbassarne in maniera estremamente consistente il livello di garanzia, anche in considerazione del fatto che, come sopra considerato, essi sono, perlomeno in parte, finanziariamente e organizzativamente condizionati. In realtà tale chiave di lettura denuncia una interpretazione
liberale di una Costituzione che, come la nostra, fonda invece una diversa
forma di Stato, quella sociale.
La circostanza per cui, come abbiamo sopra considerato, la nostra Carta
costituzionale poggia le sue fondamenta sui principi di centralità della persona e di eguaglianza sostanziale assegna ai diritti sociali, che contribuiscono a realizzare tali principi, una natura per l’appunto “fondamentale”. Ciò
ne impedisce senz’altro una lettura debole, imponendone una piena valorizzazione e una lettura integrata con i diritti di libertà.
Del resto anche la presunta dicotomia fra diritti negativi (che cioè richiedono l’astensione dello Stato) e diritti positivi (che invece ne presuppongono e impongono l’intervento) cade di fronte alla constatazione che
anche i diritti di libertà necessitano di una serie di regolazioni e organizzazioni pubbliche per essere effettivamente goduti. Si pensi ad una libertà come quella personale e a come sia necessario che la Repubblica non solo det-
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ti una disciplina che la garantisca, ma predisponga anche le strutture e le organizzazioni necessarie a farla rispettare; o, ancora, alla libertà di circolazione, che, senza regole sul modo di circolare e strade ben manutenute su
cui circolare, non avrebbe piena consistenza.
A ciò si aggiunge che, se, come si è prima sostenuto, la liberazione della
persona, che passa attraverso l’assicurazione dei diritti sociali, non può prescindere dalla autodeterminazione dell’individuo che di questi diritti è concretamente portatore, è evidente che, per così dire, dentro i diritti sociali ci
sia sempre una quota di “libertà”: la libertà del malato di scegliere se farsi
curare, la libertà dello studente di scegliere come realizzare il proprio diritto all’istruzione superiore, la libertà del lavoratore di organizzarsi sindacalmente, ecc.
La lettura “forte” dei diritti sociali ridimensiona anche la discrezionalità
della scelta politica che, come sopra considerato, spetta alla legge dello Stato nel momento in cui individua le modalità per garantirli. La decisione legislativa non potrà mai essere tale da privare un diritto sociale di effettività,
ma dovrà sempre garantirne in una certa misura la necessaria soddisfazione.
Certo quale sia questa misura non sempre è dato cogliere dalla Costituzione. Le diverse disposizioni che declinano i diritti sociali hanno consistenza differente e dettano una disciplina che può essere più o meno ricca.
E anche laddove la regolazione del diritto sia articolata, come accade, ad
esempio, per il diritto all’istruzione, non è sempre possibile fissare un limite al di sotto del quale la disciplina legislativa sulle modalità di soddisfazione del diritto non può spingersi. Più che cercare una regola generale, occorre piuttosto riferirsi ai casi puntuali che hanno visto il giudice delle leggi ritenere incostituzionali scelte in ordine alla organizzazione e garanzia dei
servizi che realizzano i diritti sociali. Nel caso del diritto all’istruzione, ad
esempio, la Corte ha ritenuto incostituzionale la fissazione per legge di un
limite massimo nella determinazione del numero degli insegnanti di sostegno, considerando come tale numero vada determinato in considerazione
delle effettive esigenze delle persone disabili, a costo, altrimenti, di sacrificarne in maniera inammissibile il diritto all’istruzione scolastica e all’integrazione sociale. Quanto al diritto alla salute la Corte ha segnalato, invece,
come le esigenze della finanza pubblica non possano assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il
nucleo irriducibile del diritto alla salute in casi come quello di cittadini in
stato di indigenza che richiedano cure mediche anche fuori del territorio
nazionale, o in casi come quello del ricorso a forme di assistenza indiretta
nelle ipotesi in cui le strutture del servizio sanitario non siano in grado di assicurare un tempestivo intervento. L’impiego dell’espressione “nucleo incomprimibile” segnala efficacemente come esista un limite alla discreziona-
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lità del legislatore, da rintracciarsi proprio nella consistenza non sacrificabile del “cuore” dei diritti sociali.
In questo modo i giudici costituzionali, pur pronunciandosi su casi particolari, hanno confermato in generale la natura eminentemente soggettiva
dei diritti sociali, chiarendo come la piena tutela del loro nucleo costitutivo
non sia rimessa né a decisioni politiche, né alla disponibilità economica, ma
sia funzione essenziale della Repubblica di fronte alla quale i cittadini possono direttamente pretendere l’adempimento dell’obbligo di soddisfazione
di un loro diritto.
I-2. Diritti sociali e integrazione europea
2.1. La sovranità nazionale nella tutela dei diritti sociali e il Trattato di
Roma
Nello sviluppo storico delle forme di protezione dei diritti sociali è centrale la stretta connessione fra il ruolo pubblico, nel finanziamento, disciplina e organizzazione delle forme di tutela, e la territorialità, intesa come
confine, necessariamente delimitato, entro il quale è possibile godere di tale protezione. A ciò è legata anche la stretta interrelazione fra diritti sociali
e cittadinanza, che ha storicamente connotato la disciplina dei primi, l’arricchimento dei contenuti della seconda e il consolidamento e la piena democratizzazione dello Stato nazione. Tutti i sistemi solidaristico distributivi, infatti, non affidandosi alle dinamiche di mercato per il loro funzionamento, ma presupponendo un impegno economico finanziario della sfera
pubblica, hanno bisogno di confini (GIUBBONI, 2012) e quelli statali sono
stati, perlomeno fino ad ora, quelli fondamentali.
Nel corso del processo che portò alla stipula del Trattato di Roma (istitutivo, nel 1957, della Comunità economica europea) si scelse espressamente di lasciare fuori dal progetto di integrazione europea dei mercati l’armonizzazione dei sistemi sociali nazionali, con l’idea che questa sarebbe spontaneamente seguita all’instaurazione di un mercato comune. Le differenze
fra i sistemi nazionali di welfare vennero così preservate dall’integrazione,
anche nella consapevolezza che la gran parte delle scelte in materia di tutela dei diritti sociali hanno una dimensione propriamente politica e quindi riservata alla sovranità statale. Vi era, oltre a ciò, anche la convinzione che i
diritti sociali assicurati all’interno degli Stati, attraverso l’aumento di ricchezza complessivo promosso dall’integrazione dei mercati, avrebbero vista
aumentata la capacità della sfera pubblica di soddisfarli.
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L’ottimismo liberale, che immaginava una maggiore integrazione dei diritti sociali a livello europeo e una loro miglior tutela da parte degli Stati come duplice frutto dell’integrazione mercantile, traspare bene da quanto
previsto dall’articolo 2 del Trattato di Roma, che testualmente dispone che
“la Comunità ha il compito di promuovere, mediante l’instaurazione di un
mercato comune e il graduale ravvicinamento delle politiche economiche
degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più
strette relazioni fra gli Stati che ad essa partecipano”.
Da ultimo non può non considerarsi come la scelta di non citare i diritti
sociali nel Trattato istitutivo rappresentasse anche un modo per rassicurare
gli Stati membri sul mantenimento della propria sovranità in materia, mettendoli al riparo dal rischio di una incontrollata espansione delle competenze delle istituzioni comunitarie in ambiti diversi da quelli funzionali alla
costituzione di una comunità economica.
2.2. Dall’Atto unico europeo al Trattato di Amsterdam
Il fatto che praticamente tutti gli Stati membri abbiano adottato un modello di Stato sociale di diritto non è restato tuttavia senza conseguenze.
Un trentennio dopo l’istituzione delle Comunità europee, l’Atto unico
europeo (1986) procede ad una sorta di correzione di rotta in materia di politica sociale e introduce espressamente una politica comunitaria di coesione economica e sociale. L’intento era quello di controbilanciare gli effetti
della creazione di uno spazio europeo di libero mercato sugli Stati membri
in condizioni economiche peggiori, anche al fine di ridurre il divario tra le
diverse regioni europee.
Le competenze solo statali in materia sociale non vengono tuttavia minimamente intaccate: sono gli Stati infatti che si impegnano a raggiungere
l’obiettivo di una maggiore coesione anche sociale, attraverso le loro politiche interne. La Comunità “appoggia”, per così dire, dall’esterno questa realizzazione, promuovendola attraverso gli strumenti finanziari a sua disposizione e soprattutto attraverso i Fondi a finalità strutturale, come il Fondo
sociale europeo (art. 130 B).
Una maggiore e più specifica attenzione è data alla protezione dei lavoratori, anche nella prospettiva di una migliore garanzia della loro libera circolazione. Le disposizioni in materia contemplano l’impegno degli Stati
membri a “promuovere il miglioramento in particolare dell’ambiente di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori” e individuano come
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obiettivo” l’armonizzazione, in una prospettiva di progresso, delle condizioni esistenti in questo settore” (art. 118 A).
Il successivo Trattato di Maastricht (Trattato sull’Unione europea del
1992) sancisce un altro importante passaggio e per la prima volta accresce
in maniera sensibile le competenze comunitarie nella politica sociale. Di
nuovo, tuttavia, queste riguardano unicamente i lavoratori e i loro diritti di
protezione, mentre per quanto concerne gli altri diritti sociali, quali sanità e
istruzione, non si va oltre meri richiami.
Molto diverso è l’approccio usato per i diritti di libertà, che, invece, vengono presi direttamente in considerazione per il tramite del riferimento alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.
Negli anni che precedono Maastricht la giurisprudenza comunitaria aveva infatti progressivamente costruito un sistema di tutela dei diritti di libertà, in risposta anche alle sollecitazioni provenienti in tal senso dalle corti costituzionali nazionali. Tutto ciò porta ad una sempre maggiore attenzione per l’incidenza delle politiche comunitarie sui diritti fondamentali,
ma limita questa considerazione ai diritti di libertà, avvalorando quell’ideologica contrapposizione fra questi e i diritti sociali che, come già considerato, porta inevitabilmente ad una lettura “debole” di questi ultimi.
Non stupisce quindi che il Trattato di Amsterdam (1997), pur riferendosi espressamente ai diritti sociali fondamentali contenuti nella Carta sociale europea e nella Carta comunitaria dei diritti fondamentali dei lavoratori, configuri tali diritti come obiettivi da raggiungere attraverso l’attività
della Comunità e soprattutto degli Stati membri, e non come posizioni soggettive direttamente azionabili dagli individui. In realtà sono gli interessi
sociali che stanno sullo sfondo di tali diritti ad essere oggetto di tutela da
parte del Trattato e non direttamente i diritti sociali che, in questo modo,
ricevono una garanzia solo indiretta (GIUBBONI, 2005). Resta evidente l’asimmetria con le libertà, soprattutto economiche, direttamente protette dal
Trattato.
Si ritrova in questa contrapposizione quella interpretazione liberale dei
diritti sociali come diritti programmatici, che acquistano sostanza e concretezza unicamente a valle di un intervento delle istituzioni pubbliche destinato a soddisfarli.
2.3. I diritti sociali nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
Con la solenne proclamazione a Nizza nel 2000 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (modificata e proclamata una seconda
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volta nel dicembre 2007 a Strasburgo) ha luogo il primo tentativo di costituzionalizzazione dei diritti sociali.
Così come avviene nella nostra Costituzione, la Carta pone diritti sociali
e diritti di libertà su un medesimo piano nel presupposto di una loro indissolubile connessione. Nelle diverse partizioni in cui è articolata la Carta diritti sociali e diritti di libertà non sono distinti, ma piuttosto ricomposti a
partire da alcune macro-aree, quali: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia.
Nel capo primo, all’affermazione dell’inviolabilità della dignità umana si
collegano le disposizioni sul necessario rispetto dell’autodeterminazione in
materia di cure mediche, che, come abbiamo visto, è un elemento chiave
per comprendere le modalità attraverso le quali la centralità della persona si
riflette sulle modalità di tutela di un diritto sociale quale quello alla salute.
Nel capo secondo, intitolato “Libertà”, sono contemplati diversi diritti
sociali: il diritto di costituire una famiglia, il diritto all’istruzione, il diritto al
lavoro, ma anche il diritto alla protezione della vita privata e familiare, un
diritto, quest’ultimo, le cui potenzialità espansive in ambiti quali la salute e
l’assistenza sono state ben evidenziate dalla giurisprudenza che lo ha applicato a partire dalla sua ben precedente inclusione nella Carta europea dei
Diritti dell’Uomo.
Il capo terzo, dedicato all’uguaglianza, è naturalmente quello nel quale
meglio emerge il riconoscimento dei diritti sociali come strumenti essenziali ad assicurare la pari dignità degli individui. Particolare attenzione è quindi riservata alle situazioni di svantaggio e di debolezza. In questa parte si
trova il diritto alla parità fra uomini e donne, ed espressamente si ammettono le azioni positive per assicurare pari diritti al sesso sottorappresentato; i
diritti del bambino, anche come diritti alla protezione e alle cure necessarie
per il suo benessere; i diritti degli anziani a condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale; e, infine, i diritti dei
disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità.
Il capo quarto, dedicato alla solidarietà, dopo aver declinato diversi diritti sociali dei lavoratori, riconosce anche il generale diritto alla salute come diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche.
La formulazione usata più di frequente nella disciplina dei diversi diritti
sociali finora elencati è quella ai sensi della quale “l’Unione riconosce e rispetta” tali diritti. E qui evidente come, diversamente da quanto abbiamo
rilevato a proposito della declinazione dei diritti sociali nella nostra Carta
costituzionale, non vi sia alcuna assunzione di doverosità da parte delle istituzioni dell’Unione in ordine alla necessità di assicurare l’effettiva tutela di
tali diritti. L’Unione infatti li riconosce, in quanto elementi fondanti la cul-
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Diritto sanitario e dei servizi sociali
tura giuridica europea, e li rispetta, impegnandosi a non violarli, ma non si
assume in alcun modo il compito di assicurarli. Anche laddove la formulazione sia apparentemente idonea a fondare un diritto e con ciò ad assegnarne la responsabile attuazione a chi lo riconosce, ci si affretta a rinviare alle
legislazioni nazionali: è il caso, ad esempio, del diritto alla salute, a proposito del quale si prevede che ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche, ma unicamente “alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali”. In altri casi al riferimento alle legislazioni nazionali si affianca quello al diritto comunitario, ma anche qui non si intende aprire alla possibilità di una articolata disciplina europea dei diritti sociali, ma unicamente richiamare quanto, eventualmente
già disciplinato in materie di competenza delle istituzioni europee, è suscettibile di incidere sulle modalità di godimento di un diritto, come nel caso
delle previsioni sulla libera circolazione dei servizi, di cui si dirà più avanti.
Nessuna intenzione, quindi, di fondare sul riconoscimento dei diritti sociali nuove competenze dell’Unione, come del resto, a scanso di equivoci, è
espressamente previsto all’articolo 51, comma 2, della Carta, in cui si precisa che questa “non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai
trattati”.
In questa prospettiva non stupisce allora che anche in materia di accesso
ai servizi di previdenza e assistenza e ai servizi di interesse economico generale, la Carta si limiti a riferirsi al rispetto di quanto stabilito dal diritto comunitario e previsto dalle legislazioni e prassi nazionali. Nessuna capacità,
né volontà di dare sostanza, attraverso una diversa e più ampia disciplina
dell’accesso ai servizi, ad un’idea di cittadinanza sociale dell’Unione.
In questa prospettiva, la circostanza per cui, con l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona (2009), la Carta ha acquistato il medesimo valore giuridico dei Trattati e si è posta come pienamente vincolante per le istituzioni
europee e gli Stati membri, non rappresenta quella rivoluzione in materia di
diritti sociali che pure da diverse parti era stata auspicata.
2.4. Prospettive per una integrazione sociale dell’Unione
Se l’inversione del rapporto fra Europa economica ed Europa sociale
non è avvenuta, è tuttavia possibile considerare come le condizioni perché
un tale processo possa prendere avvio stiano progressivamente configurandosi.
Nel quadro definito dalla nuova strategia europea di Lisbona per la crescita e l’occupazione si è previsto che debbano trovare coerentemente svi-
I diritti sociali alla salute e all’assistenza
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luppo le politiche di inclusione, coesione e protezione sociale, affinché le
politiche economiche, sociali ed occupazionali si rafforzino reciprocamente
in un processo di progressiva integrazione tra i tre ambiti, cosi da garantire
– in linea con gli obiettivi previsti dall’Agenda sociale europea – non soltanto l’innalzamento della partecipazione al mercato del lavoro e la crescita
economica del paese, ma anche un solido e coeso tessuto sociale.
Le versioni dei nuovi trattati, il Trattato sull’Unione europea (TUE) e il
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), contengono previsioni che introducono fra i principi su cui si fonda l’Unione una forte connotazione sociale, inserendo elementi di evidente rottura del paradigma libero mercantile e affiancando all’obiettivo del mercato aperto e in libera
concorrenza altre finalità che con questa originaria debbono necessariamente essere bilanciate. Basti in questo senso fare riferimento all’articolo 2
del TUE, in cui è previsto come primo obiettivo che l’Unione si prefigge
quello di “promuovere un progresso economico e sociale e un elevato livello di occupazione e pervenire a uno sviluppo equilibrato e sostenibile ...” o
all’articolo 9 del TFUE, in cui si prevede che, nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, “l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di
un’adeguata protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana”.
Nel 2010 la Commissione europea ha presentato la strategia “Europa
2020” per uscire dalla crisi e preparare l’economia dell’Unione ad affrontare le sfide che ciò comporta. In essa si sono individuati tre “motori di crescita”: crescita intelligente, crescita sostenibile e crescita inclusiva.
Quest’ultima dovrebbe essere realizzata incentivando la partecipazione al
mercato del lavoro e potenziando la lotta alla povertà.
Si tratta di importanti aperture che potrebbero preludere alla effettiva
costruzione di una cittadinanza sociale europea, anche se non c’è dubbio
che tale processo non possa prescindere da una capacità di redistribuzione
della ricchezza e, quindi, anche da una capacità impositiva che l’Unione è
ancora ben lontana dal pretendere e ottenere dagli Stati membri.
2.5. Diritti sociali e servizi di interesse generale
Un altro aspetto di centrale importanza per comprendere l’approccio
europeo ai diritti sociali è il modo in cui sono disciplinati i servizi necessari
a soddisfarli. Come si è già considerato, esiste una indissolubile relazione
fra servizi e diritti sociali. La doverosità nella soddisfazione di questi ultimi,
che, attraverso la loro costituzionalizzazione, sorge in capo alla sfera pub-
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Diritto sanitario e dei servizi sociali
blica, si sostanzia nell’impegno a organizzare e regolare le attività di servizio
che realizzano prestazioni idonee a tutelarli.
L’obiettivo europeo della creazione di uno spazio di libero mercato non
ha trascurato l’intervento pubblico nel settore dei servizi, cercando di limitare il più possibile i condizionamenti alla libera concorrenza che ciò determina. Per comprendere in che modo questo sia avvenuto e stia avvenendo, occorre partire dalla nozione di “servizi di interesse generale” che
è stata precisata con la Comunicazione della Commissione del 2007
(COM(2007)724).
Tale nozione ha innanzi tutto la funzione di isolare, nell’ambito della generale categoria delle attività di fornitura di prestazioni, quei servizi che gli
Stati ritengono essenziali per soddisfare i diritti la cui tutela la sfera pubblica ha assunto come doverosa. Si tratta di quelli che nel linguaggio nazionale chiameremmo “servizi pubblici”.
La nozione europea di servizi di interesse generale comprende un’ampia
gamma di attività che vanno da quelle poste in essere dalle grandi imprese,
come la distribuzione dell’energia elettrica, il trasporto, le telecomunicazioni, fino all’istruzione, ai servizi sociali e a quelli sanitari. Si tratta di attività
che, da un lato, sono accomunate dal fatto di riguardare tutte prestazioni essenziali alla collettività e perciò di interesse pubblico generale, ma che,
dall’altro, includono sia servizi propriamente economici, che possono essere astrattamente svolti in regime di concorrenza, sia servizi non economici,
ma a caratterizzazione pubblico-sociale, che non hanno un vero e proprio
mercato, né, quindi, l’attitudine ad essere svolti in regime di concorrenza.
L’attenzione della disciplina europea riguarda essenzialmente i primi,
qualificati come “servizi di interesse economico generale”. Solo questi, infatti, ricevono specifica considerazione nel TFUE, il quale dispone che “le
imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale ... sono sottoposte ... alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata” (art. 106, c. 2). Tale previsione
mira, da un lato, ad affermare in linea generale che anche ai servizi pubblici sono applicabili i principi a tutela della concorrenza, dall’altro, a consentire allo Stato di introdurre regole suscettibili di limitare la concorrenza, unicamente, però, nel caso in cui queste limitazioni siano necessarie ad
assicurare che i servizi siano effettivamente in grado di soddisfare i diritti
per la cui tutela sono stati costituiti. E così che uno Stato potrà prevedere
che l’impresa o l’ente che fornisce un servizio pubblico siano destinatari di
vantaggi fiscali, di finanziamenti, della riserva di una fetta di mercato, o altro, a patto di dimostrare che si tratti di misure necessarie, senza le quali
l’impresa o l’ente non potrebbero garantire il servizio alle condizioni im-
I diritti sociali alla salute e all’assistenza
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poste dall’ordinamento. Nel caso in cui, ad esempio, la prestazione debba
essere fornita a tariffe predefinite, si potrà prevedere un finanziamento
pubblico idoneo a compensare i costi non coperti dai ricavi o riservare una
fetta di mercato per consentire economie di scala.
Diversamente da quanto accade per i servizi di interesse economico generale, i servizi che pure sono di interesse generale, ma non hanno caratterizzazione economica, non sono invece regolati dal diritto dell’Unione, nel
presupposto che si tratti di attività che, non avendo un mercato, non richiedono di essere disciplinate sotto il profilo della concorrenza.
E allora molto importante distinguere fra servizi a rilevanza economica e
non, dal momento che da ciò discende o meno l’applicabilità ad essi delle
norme europee. Tale distinzione, tuttavia, non può essere fatta a priori, dal
momento che la rilevanza economica dipende dal modo in cui ciascuno Stato organizza e regola un servizio. Né per questo si può dire in generale che
i servizi destinati a soddisfare i diritti sociali appartengano all’una o all’altra
categoria. Ci saranno sicuramente attività di servizio senza caratterizzazione
economica, come nel caso di certe forme di assistenza ai disabili o agli anziani svolte da organizzazioni di volontariato su incarico delle istituzioni
pubbliche in modo da garantire parità di accesso indipendentemente dal
patrimonio o dal reddito, ma anche attività di carattere economico, come ad
esempio case di riposo private, i servizi prestati dalle quali possono affiancarsi ai primi. A questo proposito occorre anche considerare come i requisiti per qualificare una attività come economica siano stati intesi in maniera
sempre più larga dalle istituzioni europee e particolarmente dalla Corte di
Giustizia, che con la sua giurisprudenza ha progressivamente esteso il campo dei servizi economici. Perché un servizio sia qualificato come tale, la
Corte ha ritenuto infatti sufficiente che sia soggetto ad una remunerazione
intesa in senso rigorosamente obiettivo. Laddove, in altri termini, il fornitore del servizio riceve un compenso per la prestazione che fornisce, l’attività
si qualifica come economica, indipendentemente dal fatto che la remunerazione provenga da chi ha goduto della prestazione o da altri e indipendentemente dall’intento con il quale il compenso è percepito. Sotto quest’ultimo profilo il fatto che un soggetto fornitore di un servizio non persegua alcuno scopo di lucro non è di per sé sufficiente ad escludere che quel servizio sia di carattere economico.
Un altro elemento importante è l’esistenza di un mercato. Perché questo
possa dirsi presente è sufficiente che esistano più operatori disponibili ad
offrire un determinato servizio, indipendentemente dal fatto che si tratti di
operatori di diversa natura e con diversi scopi. In questa prospettiva può essere considerata economica anche l’attività di prestazione offerta a scopo
solidaristico da una cooperativa sociale che opera senza scopo di lucro, lad-
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Diritto sanitario e dei servizi sociali
dove la medesima prestazione sia offerta anche da una struttura privata a
carattere imprenditoriale. A ciò si aggiunge l’ampia nozione di impresa che
la Corte in questi anni ha mostrato di far propria, adottando criteri sostanziali che non le hanno impedito, ad esempio, di considerare in certe circostanze come imprenditoriali anche le organizzazioni di volontariato (sent.
29 novembre 2007, C-119/06).
Alla luce di questi criteri così larghi la Corte ha qualificato come attività
economiche molte attività di servizio che soddisfano diritti sociali, quali le
attività di collocamento svolte dagli uffici pubblici per l’impiego, i servizi di
trasporto dei malati, i servizi medici, compresi quelli offerti dagli ospedali
pubblici, e così via. Di conseguenza la stessa Commissione, nella citata comunicazione del 2007, ha considerato in generale come un numero sempre
maggiore di attività svolte quotidianamente dai servizi sociali vadano progressivamente rientrando nella categoria dei servizi a carattere economico.
E indubbio che la qualificazione come servizi economici di molte prestazioni relative alla soddisfazione dei diritti sociali, aprendo la strada alla
verifica della compatibilità della disciplina statale che li riguarda con i principi di concorrenza (art. 106 TFUE) e di libera circolazione dei servizi (art.
56 TFUE), possa portare progressivamente ad incidere sulle scelte organizzative pubbliche con il rischio che, soprattutto in fasi di recessione economica, la sostenibilità dei sistemi nazionali di welfare possa essere messa in
discussione dalla progressiva erosione della sovranità statuale. Questo porta con sé il pericolo di una destrutturazione dei modelli, senza che contemporaneamente sorga e si consolidi una cittadinanza sociale europea che necessiterebbe di una non ancora avvenuta fondazione costituzionale del processo di integrazione.
I-3. Il diritto alla salute
3.1. L’evoluzione della nozione di salute
Per comprendere appieno la portata e il contenuto del diritto alla salute
occorre partire dalla definizione del bene che esso mira a tutelare: la salute.
Di tale nozione si è data a lungo una spiegazione cosidetta “medicale”
che partiva dal binomio concettuale salute-malattia e configurava la prima
come mera assenza della seconda. In questa accezione la salute aveva un
contenuto eminentemente biologico, collegato all’integrità fisica e funzionale del corpo e della mente. Tale visione risulta però già superata a partire
dalla metà del secolo scorso.
I diritti sociali alla salute e all’assistenza
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Al termine del secondo conflitto mondiale, sull’onda delle grandi perdite umane e soprattutto di fronte all’orrore degli stermini razziali, emerge come centrale l’esigenza di un pieno riconoscimento e garanzia della persona,
anche al fine di scongiurare per il futuro qualsiasi possibilità di un suo sacrificio in nome di un preteso superiore interesse. In questa fase si avverte
anche la necessità che le forme di tutela a tal fine predisposte tengano conto della molteplicità degli aspetti costitutivi dell’individualità umana e, in
tale prospettiva, anche la nozione di salute si arricchisce di elementi ulteriori.
Mentre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adotta la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ed entra in vigore la nostra Carta costituzionale che, come abbiamo sottolineato, pone il principio personalistico a
fondamento della sua stessa struttura, viene istituita l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che nell’atto di costituzione definisce la salute come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non una mera assenza di
malattia o infermità”.
Lo “sganciamento” della nozione di salute dal solo aspetto fisico-funzionale ed il suo allargamento alla sfera sociale apre la strada all’inclusione in
essa di elementi che vanno oltre la mera rimozione dello stato di malattia e
rimandano alla dimensione relazionale di partecipazione alla vita civile e sociale e, più in generale, a quella piena realizzazione di sé, alla quale abbiamo
visto fa riferimento il principio di eguaglianza sostanziale accolto nella nostra Costituzione.
Tale definizione è valida ed attuale ancora oggi ed è normalmente richiamata quando si vuole qualificare la nozione di salute assunta come oggetto del relativo diritto. La sua formulazione ampia e omnicomprensiva
ne ha decretato la fortuna, nonostante le condizioni storiche nelle quali è
stata elaborata siano profondamente mutate negli anni successivi. Così è
stato innanzi tutto per la struttura demografica e le condizioni epidemiologiche della popolazione che, in particolare nei Paesi più sviluppati, è passata da una prevalenza di persone giovani, per le quali le malattie acute
rappresentavano la principale ragione di ricorso alle cure mediche, ad un
aumento consistente delle persone in età più avanzata anche grazie alle aumentate possibilità di sopravvivere alle malattie, con il conseguente sviluppo della cronicità, che oggi assorbe la maggior parte delle risorse dei sistemi sanitari.
Tenuto conto di tali aspetti, anche all’interno dell’OMS ci si è interrogati sull’opportunità di rivedere l’originaria definizione di salute con particolare riferimento all’assolutezza del termine “completo” riferito al “benessere” in essa contenuto. La principale obiezione sollevata in proposito è quella per cui il requisito di una salute “completa” spingerebbe verso un ecces2.
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Diritto sanitario e dei servizi sociali
so di medicalizzazione, lasciando peraltro aperta la questione della mancanza di una salute, per l’appunto, “completa” nel caso in cui si debba convivere con una malattia cronica. A restare sottovalutato in questa prospettiva sarebbe l’aspetto della capacità individuale di adattamento ad uno stato
cronico, che, in presenza di determinate caratteristiche di pienezza della vita sociale e relazionale, potrebbe condurre a condizioni di vita qualificabili
come “benessere” in senso ampio. Di qui la proposta di spostare l’attenzione da una dimensione statica di salute ad una dimensione dinamica, basata
sulla capacità di fronteggiare, mantenere e ripristinare la propria integrità,
il proprio equilibrio e senso di benessere. Sul punto tuttavia non si è andati
oltre mere riflessioni scientifiche, anche se una qualche eco di tutto ciò può
rintracciarsi nella Carta di Ottawa, adottata dagli stati membri dell’OMS
nel 1986, in cui si considera come per raggiungere uno stato di completo
benessere fisico, mentale e sociale “an individual or group must be able to
identify and to realize aspirations, to satisfy needs, and to change or cope with
the environment”.
Un ulteriore importante passaggio nell’evoluzione del concetto di salute
è quello che ne lega il contenuto alla dimensione identitaria ed individuale
del soggetto, coerentemente con un’idea di persona plurale, alla quale va riconosciuta la capacità di incidere sul contenuto delle prestazioni che ne realizzano il diritto alla salute.
Nel nostro ordinamento questo processo di individualizzazione della nozione di salute attraverso l’inclusione in essa non solo di una dimensione più
ampia del benessere, ma anche del modo attraverso il quale il singolo lo percepisce e lo ricostruisce per sé, si sviluppa a partire dalla fine degli anni ’70
e trova concretezza in previsioni legislative quali quella sull’interruzione volontaria di gravidanza (l. 194/1978), in cui la salute della donna è considerata anche nella sua dimensione psichico individuale, o quella in materia di
transessualismo (l. 164/1982), che consente una lesione dell’integrità corporea attraverso interventi chirurgici irreversibili volti ad adeguare i caratteri sessuali alla percezione di sé che ha la persona.
Indicazioni utili per una rilettura del diritto alla salute attraverso il prisma dell’individuo che ne è portatore possono essere tratte anche dalla giurisprudenza costituzionale. Sin dal 1985 (sent. n. 161) la Corte, nel respingere una questione di legittimità costituzionale relativa alla appena citata
legge sulla rettificazione di sesso, osservava in un passaggio argomentativo
come il transessuale, attraverso l’intervento chirurgico, veda riconosciuta la
propria identità, conquistando “uno stato di benessere in cui consiste la salute”. La saldatura fra identità e salute consente una ricostruzione di quest’ultima alla luce della specifica individualità del paziente e alla sua personale visione di sé. Ma è con la sentenza n. 309 del 1999 che la Corte, affer-