Il granderisikoafricano degli sceicchi sauditi

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Il granderisikoafricano degli sceicchi sauditi
il manifesto
VENERDÌ 24 DICEMBRE 2010
pagina 9
INTERNAZIONALE
TERRE ALL’ASTA
Per garantirsi la sovranità
alimentare e mettersi al riparo dalle
oscillazioni dei mercati
internazionali, l’Arabia saudita
ha lanciato un grande piano
di acquisizione di terre all’estero. Ma
nel regno non tutti sono d’accordo
con la strategia del re Abdullah
UN MOMENTO
DELLA
GULF-AFRICA
INVESTMENT
CONFERENCE,
CHE SI È TENUTA
A RIYADH ALL’
INIZIO DI
DICEMBRE.
L’AFFITTO DELLE
TERRE È STATO
AL CENTRO
DELLE
DISCUSSIONI
FOTO ALFREDO
BINI/COSMOS
Stefano Liberti
INVIATO A RIYADH
«Q
uesto è il futuro. Riusciamo a produrre una tonnellata di erba medica
con un metro cubo d'acqua». L'ingegner Mofareh Aljahbli quasi si
commuove mentre mostra la camera idroborica in cui fa crescere i
suoi prodotti: un container di metallo, dentro al quale sono impilate
tante vaschette di plastica piene di
semi. Grazie alla circolazione dell'acqua e all'ambiente umido, i semi germogliano a una velocità incredibile. «Il prodotto è pronto in
una settimana. Abbiamo cominciato a gennaio e gli affari già vanno a
gonfie vele».
Siamo a Kharj, cittadina polverosa a un'ora di macchina da Riyadh,
capitale dell'Arabia Saudita. Un posto dove la pioggia è un evento eccezionale e l'acqua una merce rara.
Eppure, nonostante la scarsità, il
paesaggio intorno all'azienda di
Aljahbli è una teoria di appezzamenti agricoli di piccole e medie dimensioni. Producono, come tante
oasi verdi in mezzo al deserto, zucchine, melanzane, broccoli. Sono
nate negli anni '70, quando il governo del regno ha cominciato a sovvenzionare l'agricoltura locale per
garantirsi la sicurezza alimentare e
non dipendere troppo dagli aiuti
esteri.
Gli sceicchi accaparratori
Un sistema di produzione costosissimo, finanziato a botte di petrodollari, che sfrutta l'acqua di una
falda sotterranea. Lanciato dopo lo
shock petrolifero del 1973, quando
il presidente Usa Jimmy Carter rispose a Riyadh, che aveva interrotto l'erogazione di oro nero, minacciando il blocco del cibo, il programma ha raggiunto livelli strabilianti: nel 1984 l'Arabia Saudita ha
raggiunto l'autosufficienza, impo-
Il grande risiko africano
degli sceicchi sauditi
MOHAMMED AL AMOUDI
Il jolly di Riyadh
in terra etiope
Uno dei più grandi fautori del
leasing di terre all’estero è il
miliardario Mohammed AlAmoudi (nella foto) - 77esimo
uomo più ricco del mondo secondo Forbes. Etiope per parte
di madre, l’uomo ha spinto
per incrementare gli investimenti agricoli sauditi in Etiopia. Lui stesso controlla
un’azienda - la Saudi Star che ha acquisito decine di migliaia di ettari nel paese africano. Produce ortaggi, ma soprattutto riso, tutti destinati
all’esportazione verso la Penisola arabica.
nendosi addirittura negli anni successivi come un importante esportatore di grano nel Medioriente.
Oggi, il vento è cambiato. I responsabili sauditi si sono accorti
che l'acqua è una fonte esauribile,
esattamente come il petrolio. Privo
di laghi e di fiumi, il regno scava
sempre più in profondità per garantirsi il prezioso oro blu. E il governo
ha pensato che il gioco non vale
più la candela. Ha deciso così di
bloccare gradualmente la politica
di sussidio al grano, che sarà completamente abbandonata entro il
2016. Nel contempo, ha avviato
una nuova strategia per garantirsi
la sicurezza alimentare: cercare terre all'estero, in paesi con un potenziale agricolo ma con scarse risorse
per sfruttarlo. La King Abdullah Initiative for Agriculture Investments
Abroad (Kaiaia) è stata lanciata in
pompa magna nel gennaio 2009
per stimolare – grazie a prestiti agevolati e ad altre forme di facilitazioni – investitori sauditi interessati a
esplorare i mercati esteri.
Tutto è cominciato con la crisi
alimentare del 2007-2008. Se nelle
piazze del sud del mondo sono
scoppiati un po' ovunque moti per
la fame per l'aumento dei prezzi
del cibo, un silenzioso tsunami ha
attraversato anche i palazzi che
contano della Penisola arabica. Gli
uomini al potere in Arabia Saudita,
ma anche in Qatar, in Bahrein e negli Emirati arabi uniti, sono rimasti
scottati dal bando alle esportazioni
decretati da diversi paesi – fra cui
l'India, il Vietnam, la Thailandia.
Hanno capito che il mercato poteva tradirli, anche se avessero avuto
una disponibilità infinita di fondi.
Hanno così pensato di proteggersi
affittando terre altrove ed esternalizzando di fatto la propria produzione. Prodotti agricoli di prima
scelta sono coltivati in Etiopia o in
Sudan e trasportati in aereo nella
Penisola arabica. L'iniziativa è partita, attirandosi gli strali delle organizzazioni non governative e di vari movimenti contadini, che accusano gli sceicchi di neo-colonialismo
agrario.
«Diversificare la provenienza»
«Ma quale neo-colonialismo.
Noi portiamo investimento e sviluppo. Stabiliamo delle partnership», si è infiammato il vice-ministro dell'agricoltura Abdullah A. AlObeid a margine di una conferenza
per investimenti Golfo-Africa che
si è tenuta recentemente a Riyadh.
Al-Obeid ha fatto parte delle varie
delegazioni di ministri e di accademici che si sono recati in visita nei
paesi più interessanti, sai dal punto
di vista della vicinanza geografica
che da quello delle possibilità di investimento, dall'Etiopia al Sudan,
RIYADH · Agricoltura al centro della conferenza sugli investimenti della penisola arabica in Africa
«AAA, affittasi terre fertili a un dollaro l’ettaro»
RIYADH
«Q
uesta è la tabella dei nostri prezzi. L'affitto costa 1 dollaro all'ettaro». A parlare è il ministro dell'agricoltura del Mozambico José Pacheco. Dopo aver fatto una presentazione in dettaglio dei vantaggi del suo paese
– clima straordinario, porti attrezzati, governo stabile, ambiente favorevoli agli investitori stranieri,
ettari di terra non coltivata – il ministro cerca di
assestare il colpo finale agli indecisi rendendo noti i prezzi da super-saldo per l’affitto delle terre.
Siamo a un panel sull'agricoltura alla conferenza Gulf-Africa Investments, che si è tenuta a Riyadh il 4 e il 5 dicembre scorso. Il pubblico è composto da funzionari dei paesi della Penisola arabica, qualche investitore privato e molti ministri e
funzionari africani. I mozambicani non sono i soli a mettere sul piatto il loro potenziale agricolo.
Appena Pacheco finisce di parlare, prende la parola un responsabile dell'agenzia degli investimenti etiopi. «Noi abbiamo promosso da ormai
tre anni investimenti nell'agricoltura. Abbiamo
messo sul mercato tre milioni di ettari di terra
non utilizzata. Il clima nel nostro paese è ottimo,
la produttività dei campi altissima, le leggi molto
favorevoli agli investimenti. I canoni di affitto variano da zona a zona, ma in alcune regioni possiamo affittare la terra a 0,50 dollari l’anno».
Non ha ancora finito di parlare il funzionario
del ministero dell’agricoltura e dello sviluppo rurale di Addis Abeba che si alza una mano dall’altra parte della sala. A prendere la parola è un sottosegretario della Repubblica centrafricana. «Il
nostro paese è ricco di terre da sfruttare. Non abbiamo un accesso al mare, ma prevediamo grandi facilitazioni per investitori interessati a venire
da noi. Stiamo costruendo molte infrastrutture e,
per i primi che verranno e chiederanno in affitto
terre, siamo disposti a un canone di assoluto favore: zero. Diamo la terra in prova completamente
gratis».
Questa piccola asta che si è tenuta all’Hotel Intercontinental di Riyadh è lo specchio di quanto
sta avvenendo sul terreno in molti paese africani.
Dove i governi, che spesso sono formalmente
proprietari delle terre, danno in affitto a prezzi
stracciati decine di migliaia di ettari a investitori
stranieri, che si dedicheranno prevalentemente
alla coltivazione di prodotti destinati all’esportazione. (s. li.)
dall'Ucraina alle Filippine. Dopo il
lancio dell'iniziativa, i primi accordi sono stati firmati, i primi progetti avviati, anche se siamo ancora in
una fase embrionale. Nella conferenza di Riyadh si è discusso proprio di questo, con diversi ministri
di stati africani venuti apposta per
offrire le proprie terre agli sceicchi
sauditi (si veda l'altro pezzo nella
pagina).
Ma non tutti nel regno sono convinti che quella lanciata dall'anziano monarca Abdullah sia una buona iniziativa. «In realtà il programma non può funzionare», assicura
Fawaz Al Alamy, ex ministro del
commercio e membro del team
che ha negoziato l'ingresso dell'Arabia Saudita nell'Organizzazione
mondiale del commercio (Wto) nel
2005.
Oggi
responsabile
di
un'azienda che vuole imporsi come distributore di materie prime
alimentari prodotte altrove grazie
ad accordi mirati con grandi società dell'agrobusiness (come l'americana Cargill), Al Alamy considera
molto più producente «diversificare la provenienza degli alimenti,
senza affittare direttamente nei paesi. Ogni paese può, in caso di scarsità di cibo, bloccare le esportazioni». Al Alamy non critica direttamente il re, ma dice di considerare
il programma «non interessante
per un investitore privato e troppo
rischioso». «Io di mio non ci metterei un centesimo», dice seduto nel
suo ufficio mentre mostra una presentazione in power point degli
obiettivi strategici della sue società
di distribuzione.
Al Alamy non è solo. Molte persone tradizionalmente impegnate nel
settore dell'agricoltura rimangono
sulla difensiva. Ad essersi lanciati
nella corsa alle terre all'estero sono
soprattutto personaggi non precedentemente coinvolti nel settore
agricolo. È il caso di Mohammed
Al-Amoudi, il miliardario etio-saudita che ha preso in affitto alcune
centinaia di migliaia di ettari in
Etiopia per produrre riso e ortaggi.
Le sue entrature con il primo ministro Meles Zenawi e con l'Ethiopian people's democratic party
(Eprdf), il partito al potere, non sono estranee al suo nuovo interesse
negli investimenti agricoli.
«Al Amoudi è etiope e ha legami
più che solidi con il partito al potere. Queste sono le sue garanzie», fa
notare Turki Faysal el Rasheed. Direttore della Golden Grass, azienda
che da quasi trent'anni è impegnata nel comparto agricolo, questo
businessman elegante dall'inglese
impeccabile è anche lui poco convinto dalla politica di leasing all'estero. «Non è sicuro. Chi ti dà la
certezza che il contratto non sia rivisto e che il paese ospite non ti impedisca improvvisamente di esportare?». Inoltre, aggiunge Rasheed,
«l'agricoltura ha una funzione sociale. Se lo stato non investe nelle
comunità rurali, queste si svuotano
degli abitanti, che emigrano verso
le città. Il che fa aumentare la povertà urbana, la criminalità, la prostituzione». «Io penso – conclude –
che il governo dovrebbe lavorare
su due linee: una locale e una internazionale, assicurandosi l'aprovviggionamento diversificato e senza
però fare leasing diretti».
Il dibattito resta aperto. Ma la linea ufficiale per il momento è quello di re Abdullah, che ci ha messo
la faccia e i soldi: bisogna cercare
accordi di acquisizione o di gestione diretta di terra all'estero. «Mentre il governo e gli imprenditori vicini alla famiglia reale vanno a caccia
di buoni affari oltre-confine, noi ci
ingegniamo per aumentare la produttività in casa», lamenta Aljahbli,
l'ingegnere della camera idroborica. «Ho mostrato la tecnica al ministro dell'agricoltura. Ne è rimasto
entusiasta, ma poi non è successo
niente. Perché la politica ufficiale
ormai è una sola: investire all'estero». Ma poi, accarezzando le sue
piantine, mostra uno scatto d'orgoglio: «Io comunque continuo a produrre e a fare profitti, anche senza
l'aiuto dello stato. Prima o poi si accorgeranno che questo è il futuro».