Il rapporto tra pensiero e materia: una questione aperta

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Il rapporto tra pensiero e materia: una questione aperta
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Il rapporto tra pensiero e materia: una questione aperta
Il pensiero e le cose
Viviamo in un mondo di cose, in una natura materiale che conosciamo attraverso gli
strumenti del pensiero. Noi stessi ne siamo parte, perché siamo cosa tra cose, corpo tra
corpi. Ma il nostro pensiero non è una cosa. Il problema della nostra identità di uomini è
dato dal fatto che una semplice esser-cosa non esaurisce tutto ciò che sentiamo di essere, perché il pensiero, e più in generale la coscienza, sfuggono a una determinazione di
questo tipo.
Tutto ciò che conosciamo, tuttavia, è realtà materiale. Solo il nostro pensiero non lo
è. Più esattamente, solo nella propria coscienza ciascuno di noi fa esperienza di una realtà che non è riconducibile alla materia. Sappiamo che altri uomini come noi hanno coscienza e pensiero, ma non abbiamo alcuna esperienza diretta della spiritualità della loro
vita interiore, perché non vi abbiamo accesso: la vita interiore di ciascun uomo - la mente, lo spirito - è chiusa nella soggettività. Perché io possa conoscere che cosa pensa un
altro uomo, i suoi pensieri devono essere tradotti in parole, in segni grafici, in espressioni del volto o dello sguardo: devono cioè rivestirsi di materia, in modo che io possa
coglierli con i miei organi di senso e interpretarli nel loro significato. Se manca questo
passaggio attraverso la materia, il pensiero e la coscienza non possono essere trasmessi
tra persone diverse.
Il problema filosofico della conoscenza nasce poi dal fatto che ciascuno conosce solo
in se stesso e per conoscere il mondo esterno – dove tutto è materia oppure ci è noto attraverso la materia –, deve addurre la materialità delle cose in oggetti interiori, oggetti
che possano essere colti da uno spirito pensante.
Pensare il pensiero. Ci è difficile comprendere che cosa sia il pensiero perché ne abbiamo esperienza solo in noi; non conosciamo direttamente alcuna altra mente pensante.
Se parliamo con un altro uomo, conosciamo in noi, e non in lui, quanto ci dice, e comprendiamo i sentimenti o le idee di cui ci parla solo perché li traduciamo in sentimenti e
in idee nostri. Inoltre il pensiero è in sé realtà estremamente sfuggente: non comprendiamo di che cosa è fatto (di che cosa sono fatte le idee? Qual è la loro “materia”?), né
la sua origine (da dove vengono le nostre idee? Come si formano nella mente?), né la
sua natura (posso non pensare? Che cosa accade alle mie idee quando non sono cosciente di esse? Come permangono nella memoria?).
Pensare la materia. Neppure la materia, però, è comprensibile sino in fondo. Essa ci è
nota solo attraverso le rappresentazioni soggettive che ce ne facciamo, che derivano
dall’oggetto materiale ma appartengono alla coscienza, non alla cosa: se guardo fuori
dalla finestra e vedo un giardino alberato, lo vedo in me, non nello spazio esterno, e
posso continuare a “vedere” gli alberi anche chiudendo gli occhi, perché ne ho una rappresentazione che rimane nella mia coscienza e viene memorizzata. Della materia conosco solo le immagini visive, auditive, tattili ecc.
Solo immagini, tuttavia, non la materia in se stessa. Anche da un punto di vista teorico mi è difficile comprendere che cosa sia la materia. Di che cosa è fatta? Quali sono i
suoi componenti? È divisibile all’infinito? Come si è prodotta? È sempre esistita? Come
mai può trasferirsi da un corpo all’altro?
I Greci rimasero molto colpiti dai fenomeni biologici: come mai il cibo può nutrire il
corpo dell’uomo, trasformarsi nei suoi componenti? Come può una pianta nutrirsi
dell’aria, dell’acqua e della terra, producendo cose del tutto diverse come legno, foglie,
frutti? Molte delle domande poste dai Greci hanno trovato oggi una risposta, più o meno
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esauriente. È però ancora difficile sfuggire alla domanda sul rapporto esistente tra spirito e materia, perché lo spirito – come mente – è uno dei caratteri del corpo materiale
dell’uomo, e la materia è l’oggetto della conoscenza della mente. Ma la mente non è riducibile alla materia, né la materia allo spirito.
«Non avremo una concezione generale adeguata del mondo finché non potremo
spiegare come, quando una quantità di elementi fisici sono messi insieme nel modo giusto, formano non solo un organismo biologico funzionante, ma un essere cosciente. Se
la coscienza stessa potesse essere identificata con un certo tipo di stato fisico, si aprirebbe la strada per una teoria fisica unificata di mente e corpo, e quindi, forse, per una
teoria fisica unificata dell’universo. Ma le ragioni contro una teoria puramente fisica
della coscienza sono abbastanza forti da fare apparire probabile che una teoria fisica
di tutta la realtà è impossibile: la scienza fisica ha progredito lasciando la mente fuori
da quanto cerca di spiegare, ma può esservi di più nel mondo di quanto la scienza fisica
possa comprendere.» (T. Nagel1)
I termini del problema che abbiamo fin qui esposto sono stati chiariti nella filosofia greca tra il V e il IV secolo a.C., quando sorgono le due fondamentali teorie del materialismo, il cui primo esponente è Democrito, e dell’idealismo, che si contrappone al materialismo e ha in Platone il più importante interprete. L’età classica si conclude poi con
la grande opera di Aristotele. Nel corso della storia della filosofia antica successiva, la
posizione di Platone viene ripresa piuttosto tardi, con il neoplatonismo del III secolo
d.C., mentre l’aristotelismo influenza la cultura araba e, attraverso questa, quella
dell’età tardo-medioevale in Europa. Il materialismo trova invece presto un esponente di
rilievo in Epicuro, fondatore di una scuola tra le più importanti nell’età ellenisticoromana.
A queste due posizioni in età greca se ne affianca una terza, espressa dalla scuola
stoica, che non ammette né l’idealismo né il materialismo, ma propone una nuova interpretazione dei concetti arcaici di Lógos e di phsis, ripensando in termini nuovi il rapporto tra spirito e materia ed elaborando un’interpretazione monista fondata su quella
che, con terminologia dell’età moderna, si chiamerà teoria dell’immanenza.
Queste scuole, come le altre del periodo ellenistico, intendono la filosofia come esercizio di perfezione dell’uomo, di autoeducazione a una vita felice. L’interpretazione del
rapporto spirito-materia si riflette nella loro concezione della felicità e della perfezione
della vita, perché il fondamento di una vita felice è nello spirito, e il variare del modo di
intendere questo comporta necessariamente anche il variare del concetto di felicità.
Materialismo
Il materialismo parte dal presupposto che tutto ciò che esiste è riconducibile alla realtà
fisica. Il mondo è fatto di cose, in costante mutamento, ora lento, ora veloce, e le cose
occupano uno spazio. Al di là della materia di cui sono composti i corpi e dello spazio
che li contiene non vi è nulla. Se pensiamo alla divinità, dobbiamo concepirla composta
dalla stessa materia di cui è composto il resto dell’universo. Se pensiamo ai cieli e ai
corpi celesti, dobbiamo pensarli della stessa materia della terra. Il problema è solo determinare quali leggi presiedono al ciclo del cosmo e al perenne divenire delle cose (le
stesse leggi per l’intero cosmo), ma le leggi devono essere pensate come inerenti ai corpi, come un loro carattere, non come una forza di natura non fisica.
Il materialismo concepisce la mente come un’espressione della materia, come un
corpo capace di acquisire coscienza delle proprie modificazioni. Le sensazioni sono
pensate come effetto del rapporto esistente tra la materia che compone gli organi di senso e il corpo esterno che entra in contatto con essi. Le idee astratte sono pensate come il
prodotto dell’accumularsi delle sensazioni nella memoria.
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Il pensiero è quindi ricondotto alla sua radice materiale: pensare è una funzione di
determinati organi del corpo, come camminare è una funzione degli organi motori.
L’identità dell’uomo, la sua personalità, la coscienza e il complesso della vita interiore:
tutta questa sfera, che comprendiamo nel termine spirito, va ricondotta alla materia di
cui è espressione. L’anima, quindi, è concepita come un elemento materiale che vivifica
il corpo.
Il materialismo ricorda all’uomo che senza la sua base materiale (il contatto fisico tra
le cose e gli organi di senso) egli non avrebbe alcuna esperienza del mondo esterno, non
saprebbe nulla, non avrebbe alcuna coscienza: nel campo della conoscenza umana non
c’è alcuna esperienza di una mente senza un corpo, perché non può esservi. La mente è
una funzione della parte vitale della persona, composta esclusivamente di materia. Senza il corpo, non c’è mente. Il materialismo ricorda all’uomo che egli appartiene al mondo animale, con il quale condivide le necessità fondamentali dell’esistenza, e che anche
i sentimenti o i pensieri più nobili ed elevati possono essere ricondotti a impulsi vitali,
cioè biologici, in ultima analisi materiali.
Nell’uomo, sostengono i materialisti, non c’è alcuna conoscenza che sia del tutto astratta, tale cioè da essere radicalmente separata dalla sfera emotiva. Per quanto astratto
sia il nostro pensiero, c’è sempre un sentimento che lo accompagna, perché la persona
umana è un organismo le cui funzioni non possono essere completamente isolate le une
dalle altre. Il materialismo ricorda all’uomo che la vita reale coinvolge sempre la persona nella sua interezza, che sempre il piacere o il dolore (un’emozione positiva o una negativa) sono compagni dell’astratto pensare, che c’è sempre un contesto di interessi, di
bisogni, di azioni concrete accanto al più nobile e puro dei valori e dei pensieri.
Il legame tra il sentire e il pensare fa della coscienza qualche cosa di assai complesso: in un unico atto della mente conoscenza e sentimento si fondono fino a costituire
l’elemento unitario della vita dello spirito, che non è altro che la vita dell’organismo
riflessa nella coscienza. Non c’è alcun pensiero senza emozione, non c’è alcuno spirito
senza materia. La vita, con i suoi impulsi, genera il pensiero. L’universo spirituale
dell’uomo non ha quindi reale autonomia.
Applicando queste riflessioni alla sfera morale, i materialisti concludono che non
possono esistere valori assoluti – il bene e il male –, se non come caratteri propri della
materia, e quindi come dolore o piacere. Non c’è alcun bene, a parte ciò che concretamente è bene per i viventi (ossia ciò che produce piacere), non c’è alcun male, a parte
ciò che concretamente produce male ai viventi (cioè dolore). Non ci sono valori oggettivi. Ci sono solo corpi e lo spazio che li contiene. Tutti i valori sono inganno e illusione,
come il pensiero della vita futura. Ciò che conta nella vita è qui e ora ed essa è segnata
dal ritmo del piacere e del dolore.
Come può nascere il pensiero dalla materia? Il problema centrale del materialismo è
quello di determinare con esattezza come sia possibile che la materia, di per sé del tutto
estranea alla coscienza e alla spiritualità, generi il pensiero. L’idealismo platonico fa valere contro il materialismo il carattere di verità delle idee – ad esempio di quelle matematiche –, che non può dipendere dalla mutevole realtà materiale delle cose in costante
divenire. Esso ne è indipendente.
Il dibattito tra materialismo e idealismo, che sono su posizioni antitetiche per
quanto riguarda la concezione dell’uomo e della realtà, ruota intorno a questo nucleo
tematico: la difficoltà di concepire in termini materiali la mente e le sue attività.
Vediamo come Nagel ha impostato la questione2:
«Quale potrebbe essere la relazione tra coscienza e cervello? Chiunque sa che ciò
che accade nella coscienza dipende da ciò che accade al corpo. Se batti il dito del piede
ti fa male. Se chiudi gli occhi non puoi vedere cosa ti sta di fronte Se addenti un pezzo
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di Droste senti il gusto del cioccolato. Se qualcuno ti colpisce in testa svieni.
L’evidenza mostra che per ogni cosa che accade nella tua mente o coscienza, qualcosa deve accadere nel tuo cervello. (Non sentiresti alcun dolore per il colpo sul dito se
i nervi della gamba e della spina dorsale non portassero gli impulsi dal dito al tuo cervello.) Non sappiamo cosa accade nel cervello quando pensi “Mi chiedo se questo pomeriggio avrò il tempo di farmi tagliare i capelli”. Ma siamo abbastanza sicuri che
succede qualcosa che implica mutamenti chimici elettrici nei bilioni di cellule nervose
di cui è fatto il tuo cervello.
In certi casi sappiamo come il cervello influisce sulla mente e come la mente influenzi il cervello. Sappiamo, per esempio, che la stimolazione di certe cellule cerebrali vicine alla parte posteriore della testa produce esperienze visive. E sappiamo che quando
decidi di prenderti un’altra fetta di dolce certe altre cellule cerebrali mandano impulsi
ai muscoli del tuo braccio. Non conosciamo la maggioranza dei dettagli, ma è chiaro
che vi sono relazioni complesse tra quello che accade nella mente e i processi fisici che
si verificano nel tuo cervello. Fin qui tutto ha a che fare con la scienza, non con la filosofia. Ma vi è anche una questione filosofica sulla relazione tra mente e corpo, ed è la
seguente: la mente è qualcosa di diverso dal tuo cervello, sebbene a esso connessa, oppure è il tuo cervello? I tuoi pensieri e sentimenti, le tue percezioni e sensazioni, e i tuoi
voleri sono cose che accadono in aggiunta a tutti i processi fisici nel tuo cervello, o sono in se stessi parte di quei processi fisici?
Cosa accade per esempio quando addenti un pezzo di cioccolato? Il cioccolato si
scioglie sulla tua lingua e causa mutamenti chimici nelle tue papille gustative; le papille gustative inviano alcuni impulsi elettrici lungo i nervi che vanno dalla tua lingua al
tuo cervello, e quando quegli impulsi raggiungono il cervello vi producono ulteriori
mutamenti fisici: infine tu senti il gusto del cioccolato. Che cos’è questo? Potrebbe essere solo un evento fisico in alcune cellule, o deve trattarsi di qualcosa di completamente differente?
Se uno scienziato ti togliesse la calotta cranica e guardasse nel tuo cervello mentre
stai mangiando il pezzo di cioccolato, tutto quello che vedrebbe è una grigia massa di
neuroni. Se usasse strumenti per misurare che cosa sta accadendo all’interno, scoprirebbe complicati processi fisici di tipo molto differente. Ma troverebbe il gusto del
cioccolato?
È come se non potesse trovarlo nel tuo cervello perché la tua esperienza del gusto
del cioccolato è chiusa nella tua mente in un modo che la rende inosservabile da parte
di chiunque altro anche se ti apre la calotta cranica e ti guarda dentro il cervello. Le
tue esperienze sono dentro la tua mente con un tipo di internità che è differente dal modo in cui il tuo cervello è dentro la tua testa. Qualcun altro può aprire la tua testa e vedere cosa c’è dentro, ma non può aprire la tua mente e guardarci dentro - almeno non
nello stesso modo.»
Idealismo
L’idealismo platonico parte da una posizione diametralmente opposta. Platone constata
che la realtà sensibile è interamente dominata dal movimento, dal perenne fluire e mutare dei corpi. Osserva che l’identità di ciascuna cosa è destinata a evolversi più o meno
rapidamente, che l’essere della materia è instabile, precario. Interpreta quindi il divenire
come il segno della non verità del mondo, di un vuoto ontologico, di una mancanza
dell’essere. Sottolinea poi l’incertezza che regna nella sfera della conoscenza sensibile:
ogni informazione che ci giunge dal mondo esterno attraverso i sensi è una possibile
fonte di errore. I sensi ci parlano di una realtà instabile, e lo fanno senza alcuna precisione e senza il rigore necessario alla conoscenza.
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L’esteriorità del mondo non è decisiva per il filosofo, perché nel mondo la verità è presente solo come ombra, oscuro segno di qualche cosa di diverso, di una verità che è altrove. La via di ricerca che passa attraverso i sensi deve quindi essere abbandonata. La
realtà esterna può solo fornire l’occasione e lo stimolo per progredire nella conoscenza
della verità attraverso una strada diversa.
Allievo di Socrate, Platone sviluppa la via interiore di ricerca della verità, che pone
al centro dell’attenzione filosofica la coscienza, come valore massimo dell’uomo, esplorata attraverso la dialettica, l’arte del dialogare con un’altra persona per penetrare con
maggiore sicurezza nelle profondità della propria coscienza.
In questo percorso di ricerca Platone scopre nella realtà della mente un mondo dal
carattere assai diverso dal mondo materiale delle cose. L’essere delle idee che la mente
contempla è pieno, la loro identità è stabile, la loro verità intangibile, non soggetta a
mutamento. Come il mondo delle cose è soggetto al tempo, così il mondo delle idee ne
è indipendente, è eterno.
Il pensiero e la materia si mostrano ai suoi occhi come due realtà ontologicamente
differenti. L’idealismo antico assume con Platone una posizione dualista perché ci mostra due volti completamente differenti dell’essere. Il pensiero non dipende affatto dalla
materia, perché, se così fosse, le nostre conoscenze sarebbero sempre incerte e mutevoli
come mutevole è il mondo esterno. Noi facciamo invece interiormente esperienza di
un mondo immutabile e vero, di cui un modello è, ad esempio, la matematica. Proprio
perché la nostra mente possiede sin dalla nascita, del tutto indipendentemente
dall’esperienza sensibile, un simile bagaglio di conoscenze vere, è possibile intendere
quel barlume di verità che è nel mondo: l’uomo può interpretare la realtà perché ha sicuri criteri mentali per farlo. Se osserviamo che due corpi sono eguali, poiché la loro identità è destinata a mutare nel tempo, possiamo osservare la loro trasformazione, per cui
da eguali divengono differenti. Ma l’idea di eguaglianza non muta per questo.
L’anima dell’uomo è interpretata da Platone alla luce di antiche teorie religiose, legate forse all’orfismo e al pitagorismo. Essa è spirito, realtà la cui essenza è differente dalla materia e affine al mondo intelligibile delle idee.
Nella vita ci è dato osservare l’interazione tra spirito e materia, ma i due mondi sono
in sé indipendenti. La materia c’è sempre stata, non dipende dallo spirito, anche se il
suo ordine interno (che pur esiste, anche se con grandi limiti) è interpretato nel Timeo
secondo un complesso mito cosmologico che in qualche modo lo fa dipendere
dall’universo dello spirito, le cui idee sono viste come archetipi, modelli eterni.
L’anima, però, è solo prigioniera del corpo e anela a tornare nel suo regno di purezza
spirituale. Il comportamento corretto dell’uomo dipende dall’appartenenza della sua anima a un mondo differente da quello dell’esteriorità della materia. L’uomo trova nella
sua anima valori eterni, come quelli di giustizia e di bellezza, e soprattutto trova una suprema misura di valore, un’idea che nella sua perfezione ordina e orienta le altre: l’idea
del Bene, indipendente da tutto ciò che accade qui sulla terra, dai semplici tratti della vita sensibile, destinati a passare, come il piacere e il dolore. La vera vita è altrove.
Come può avere vera realtà, vera esistenza, un mondo soggetto al tempo?
L’idealismo platonico risolve quindi il problema del rapporto tra materia e pensiero negando che l’uno derivi dall’altra e ponendo il pensiero come realtà autonoma. In questa
impostazione della metafisica non si pone il problema, che è invece centrale nel materialismo, dell’origine del pensiero dalla materia. Tuttavia l’idealismo platonico attribuisce la vera realtà a una dimensione della vita e dell’essere completamente differente da
quella di cui facciamo esperienza. Come può esistere un mondo non soggetto al tempo?
Non abbiamo esperienza di una simile realtà. Come superare il dubbio che le idee siano
solo astrazioni, creazioni della mente? Non è forse vero, ad esempio, che i valori che
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Platone considera eterni e oggettivi, come il bene, vengono interpretati dagli uomini in
maniera assai differente? che ciò che è bene per uno non lo è per un altro? Questo dipende, come argomenta Platone, dall’incerta e imperfetta costituzione della nostra mente limitata dal corpo in cui è racchiusa, o dipende piuttosto dal fatto che i valori sono
una creazione umana?
Il monismo e la teoria dell’immanenza
Una terza risposta al problema del rapporto tra spirito e materia è stata data in età ellenistica dallo stoicismo, una scuola filosofica sorta ad Atene nel III secolo a.C., e da lì diffusasi anche nell’area romana fino al definitivo affermarsi del cristianesimo.
Lo stoicismo riprende l’antica visione dell’universo propria di pensatori presocratici
come Eraclito. Nella cultura greca del periodo arcaico la natura è considerata come un
tutto ordinato, un cosmo regolato da leggi rigorose, interpretato sul modello di un organismo vivente. Eraclito concepisce come fuoco il Lógos che vivifica il mondo, esprimendosi nella molteplicità del divenire.
Questa posizione filosofica è anteriore alla distinzione, ormai matura nell’età di Platone, tra spirito e materia, perché vede la materia come realtà in sé vivente e lo spirito
come la vita della materia.
Lo stoicismo rifiuta il dualismo platonico, ma non accetta neppure il materialismo,
perché vede dispiegarsi nella natura la razionalità: come è possibile che la materia casualmente abbia potuto disporsi e organizzarsi in modo così perfetto? La bellezza del
mondo è segno della sua perfezione, e la perfezione deve essere il frutto di una mente
intelligente, di un Lógos che presiede all’eterno divenire del cosmo. Come per Epicuro,
anche per gli stoici tutto diviene costantemente, tutto è sottoposto alla legge del divenire, secondo l’antica intuizione eraclitea. Ma il Lógos, che è concepito come qualcosa
che agisce all’interno della natura, vivificandola e ordinandola, deve essere una forza
spirituale e al tempo stesso materiale. In quanto ragione, essa è spirituale, in quanto
principio di movimento e di vita, è materiale.
In un solo universo, una sola realtà razionale. Lo stoicismo ha contrapposto alla visione dualista platonica il monismo, interpretando nell’uomo l’anima e il corpo come
espressione diversa della stessa forza vivente. Mentre in Platone lo spirito trascende
il mondo, nello stoicismo esso è concepito come realtà immanente. L’ordine della
natura e lo splendore dei cieli sono lo specchio della razionalità insita in ogni cosa, della
quale anche l’uomo, come ogni essere della natura, partecipa pienamente. Tutto dunque
accade secondo intima necessità: il caso, teorizzato dai materialisti epicurei, è bandito
dall’interpretazione fisica dell’universo perché non compatibile con il rigore della razionalità naturale.
Poiché il cosmo è governato dalla ragione, la visione stoica della vita umana è ottimistica: non viene certo negata la realtà del dolore e del male, ma si afferma che
l’uomo partecipa del movimento dell’universo. Poiché questo movimento è razionale, il
male non è definitivo, ma può certamente venire superato attraverso un opportuno stile
di vita e rigorose pratiche di controllo della mente sulle passioni. Nel suo ottimismo il
monismo stoico si accosta al materialismo epicureo: per ragioni diverse entrambe queste
scuole ritengono che il male possa essere limitato e controllato. Per il dualismo platonico, invece, c’è un limite oltre il quale non è possibile andare: è il limite della materia
che frena la libertà e la razionalità dello spirito. La differenza fra le tre scuole su questo
punto è quindi dovuta alla differente valutazione del rapporto tra la materia e il male.
Solo Platone – e con lui una lunga tradizione successiva – considera il corpo prigione
dell’anima.
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Lo stoicismo si contrappone poi al materialismo sul tema dei valori, perché, al pari di
Platone, concepisce la realtà come dominata dalla razionalità, e quindi dal bene come
supremo scopo dell’attività del Lógos nella natura. Obiettivo della vita umana è vivere
secondo natura, rispettando cioè il Lógos che è in noi come in ogni cosa e i doveri che
esso ci impone: è proprio il rispetto di questi doveri che potrà rendere l’uomo felice,
perché felicità è vivere in armonia con il Tutto di cui siamo soltanto un esile frammento.
Al contrario di Platone, tuttavia, il dovere non è concepito come derivante da valori
ideali, indipendenti dal nostro mondo, perché non esiste per gli stoici alcun mondo ideale. I valori della vita, ciò per cui la vita è degna di essere vissuta, sono interni alla vita
stessa. Il filosofo si esercita solo a rispettarla.
“Il cervello in una vasca”
Chiudiamo con una celebre immagine, una sorta di paradosso (ripreso di recente dal cinema americano con l’idea di fondo del film Matrix). È presentata anche questa volta da
un filosofo americano, Hilary Putnam, nel saggio del 1981 “Brains in a Vat”.
«Immaginate che un essere umano (potete immaginare di essere voi) sia stato sottoposto a un’operazione da parte di uno scienziato malvagio. Il cervello di quella persona
(il vostro cervello) è stato rimosso dal corpo e messo in un’ampolla piena di sostanze
chimiche che lo tengono in vita. Le terminazioni nervose sono state connesse a un computer superscientifico che fa sì che la persona a cui appartiene il cervello abbia
l’illusione che tutto sia perfettamente normale. Sembra che ci siano persone, oggetti, il
cielo ecc., ma in realtà l’esperienza della persona (la vostra esperienza) è in tutto e per
tutto il risultato degli impulsi elettronici che viaggiano dal computer alle terminazioni
nervose. Il computer è così abile che se la persona cerca di alzare il braccio la risposta
del computer farà sì che “veda” e “senta” il braccio che si alza. Inoltre, variando il
programma lo scienziato malvagio può far sì che la vittima “esperisca” (ovvero allucini) qualsiasi situazione o ambiente lo scienziato voglia. Può anche offuscare il ricordo
dell’operazione al cervello, in modo che la vittima abbia l’impressione di essere sempre
stata in quell’ambiente.[...]
Potremmo anche immaginare che tutti gli esseri umani ... siano cervelli in
un’ampolla. Naturalmente lo scienziato malvagio dovrebbe trovarsi al di fuori. Dovrebbe? Magari non esiste nessuno scienziato malvagio; magari l’universo ... consiste
solo di macchinari automatici che badano a un’ampolla piena di cervelli. Supponiamo
che il macchinario automatico sia programmato per dare a tutti noi un’allucinazione
collettiva ... Quando sembra a me di star parlando a voi, sembra a voi di star ascoltando le mie parole. Naturalmente le mie parole non giungono per davvero alle vostre orecchie, dato che non avete (vere) orecchie, né io ho una vera bocca e una vera lingua.
Invece, quando produco le mie parole quel che succede è che gli impulsi efferenti viaggiano dal mio cervello al computer, che fa sì che io “senta” la mia stessa voce che dice
quelle parole e “senta” la lingua muoversi, ecc., e anche che voi “udiate” le mie parole,
mi “vediate” parlare ecc. In questo caso, in un certo senso io e voi siamo davvero in
comunicazione. Io non mi inganno sulla vostra esistenza reale, ma solo sull’esistenza
del vostro corpo e del mondo esterno, cervelli esclusi.»
1
Thomas Nagel, nato a Belgrado nel 1937, è un filosofo morale, che si occupa anche di epistemologia e filosofia della mente. Il saggio del 1979 Questioni Mortali (Il Saggiatore, 1986), è diventato un punto di riferimento riguardo al
tema della coscienza.
2
T. Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, trad. it. di A. Besuzzi, Il Saggiatore, Milano 1999, pp. 37-39.