La teologia del Cuore di Cristo alla luce della redenzione vicaria DA

Transcript

La teologia del Cuore di Cristo alla luce della redenzione vicaria DA
CESARE GIRAUDO / BCE / Cap. 3: I sacramenti come “porte di giustizia” / PUG TP1015 & Sezione San Luigi / 2009-2010
Lettura spirituale
16
(proposta a chi la desidera)
La teologia del Cuore di Cristo
alla luce della redenzione vicaria
DA CHIESE EVANGELIZZATE A CHIESE EVANGELIZZATRICI
«... uno dei soldati con la lancia gli aprì il fianco,
e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34)
Si sa che, prima del Concilio Vaticano II, il nostro atteggiamento nei confronti della fede ancestrale
dei popoli verso i quali andavano gli annunciatori del Vangelo non era certo improntato a criteri di comprensione, né tanto meno di apprezzamento. Non vi era missionario che si sottraesse al dovere di condannare qualsivoglia manifestazione della tradizione ancestrale indistintamente come paganesimo, feticismo,
idolatria, vuote credenze e costumi fuorvianti. Ma per grazia di Dio vi fu il Concilio, che allargò gli orizzonti. Oggi i missionari sanno che non è più consentito tacciare di idolatria, ad esempio, le preghiere al
Creatore che, in contesto di tradizione ancestrale, si continuano a fare in occasione di un sacrificio o di un
rito di riconciliazione, oppure per compiere un voto, o ancora per impetrare una grazia.
La religione tradizionale africana: preparazione al Vangelo
Con il suo recente viaggio apostolico in Africa, Giovanni Paolo II ha concluso i lavori del Sinodo Africano. Si è trattato di una meravigliosa esperienza di fede, che ha coinvolto attivamente tutte le Chiese
d’Africa e Madagascar. Essa era iniziata con l’Angelus del 6 gennaio 1989, allorché il Papa annunziava al
mondo la sua decisione di convocare un Sinodo tutto Africano sul tema: «La Chiesa d’Africa verso il Terzo
millennio». In questa grande avventura, durata ben sette anni, si possono distinguere tre periodi: la lunga e
laboriosa preparazione del Sinodo all’interno delle singole Chiese (1989-94), la sua solenne celebrazione in
Vaticano (10 aprile - 8 maggio 1994) e la sua festosa conclusione in terra d’Africa (14-20 settembre 1995).
Nell’esortazione apostolica post-sinodale La Chiesa in Africa, firmata a Yaoundé (Camerun) il 14
settembre 1995, Giovanni Paolo II ha fatto proprie le linee d’azione suggerite dai Padri sinodali. In essa il
Pontefice si sofferma a lungo sul problema dell’inculturazione della fede, che ha rappresentato la preoccupazione maggiore del Sinodo. Così scrive il Papa: «Il Sinodo considera l’inculturazione come una priorità e
un’urgenza nella vita delle Chiese particolari per un reale radicamento del Vangelo in Africa, un’esigenza
dell’evangelizzazione, un cammino verso una piena evangelizzazione, una delle maggiori sfide per la Chiesa nel continente all’approssimarsi del Terzo millennio... Quanto alla religione tradizionale africana, un
dialogo sereno e prudente potrà... assicurare l’assimilazione di valori positivi, quali la credenza in un Essere Supremo, Eterno, Creatore, Provvidente e giusto Giudice che ben s’armonizzano con il contenuto della
fede. Essi possono anzi essere visti come una preparazione al Vangelo, poiché contengono preziosi germi
del Verbo in grado di condurre... un grande numero di persone ad aprirsi alla pienezza della Rivelazione in
Gesù Cristo attraverso la proclamazione del Vangelo» (Ecclesia in Africa, nn. 59.67).
Qualche cristiano appartenente alle Chiese di antica fondazione potrebbe pensare che il problema
dell’inculturazione della fede in Africa riguardi unicamente gli Africani. Altri sono forse convinti che, in
fondo, si tratta di un problema marginale, limitato tutt’al più al fatto di sapere se la liturgia possa, non solo
tollerare, ma conferire diritto di cittadinanza a danze e a tamburi. In ogni caso, all’idea di un’inculturazione
più impegnativa, più d’uno potrebbe domandarsi che cosa mai abbiano da insegnare a noi gli Africani.
I lavori del Sinodo Africano stanno a dimostrare a codesti cristiani la totale inconsistenza di simili
convinzioni, preoccupazioni e perplessità, e ciò per tre ragioni. Anzitutto perché il problema dell’inculturazione, intesa sia in rapporto alla fede pregata (cioè alla liturgia) sia in rapporto alla fede annunciata (cioè
CESARE GIRAUDO / BCE / Cap. 3: I sacramenti come “porte di giustizia” / PUG TP1015 & Sezione San Luigi / 2009-2010
17
alla teologia), deve essere affrontato in profondità; in secondo luogo, perché l’inculturazione condotta
nell’ambito di una Chiesa particolare concerne la Chiesa universale; in terzo luogo, perché le Chiese
d’Africa e Madagascar hanno molto da insegnare alle Chiese Occidentali che hanno inviato loro i missionari, e d’altra parte oggi le Chiese Occidentali hanno molto da imparare.
Per non lasciare il discorso nel vago, voglio illustrare, con un esempio concreto, quanto io — cristiano e sacerdote proveniente da una cristianità di antica data — ho appreso in seno a una giovane Chiesa.
La teologia del Cuore di Cristo: nuova luce dalla religione tradizionale del Madagascar
Mi riferisco a una mia esperienza recente, vissuta allorché mi fu data l’occasione di partecipare a un
rito di riconciliazione alla Costa-Est del Madagascar. Accadde durante la visita pastorale nel villaggio di
Anàlamàry (= La-vera-foresta), in territorio Antanàla. Giunto nel
villaggio la sera del 30 settembre 1994, il re mi manda a dire che il
giorno seguente ci sarà un rito di riconciliazione (fàfy) e mi invita
a prendervi parte.
Ecco quanto era successo. Alcuni anni prima uno dei figli del
re si era reso colpevole, unendosi a una cugina: matrimonio impossibile a causa della parentela. Qualcosa di analogo era accaduto
pure a una sua figlia, che aveva commesso una colpa con un giovane suo parente. Faccio presente che, in fatto di matrimonio, la
legge ancestrale del Madagascar ha del legame di consanguineità
una concezione più rigida rispetto a quella prevista dal diritto canonico ecclesiastico. Successivamente, tanto il figlio quanto la figlia del re si erano sposati a dovere con persone libere da vincolo
di consanguineità. Ma a ognuna di queste giovani coppie del tutto
regolari era morto un bambino. Lo stesso re, coinvolto soprattutto
dalla colpa del figlio maschio, aveva perduto credito di fronte al
villaggio. Conclusione: sabato mattina 1° ottobre si laverà la colpa
nel sangue del bue. Prima di accettare l’invito che mi viene rivolto,
provo a scusarmi un po’ per il fatto che sono straniero, e chiedo se
questo non possa rappresentare una difficoltà. Risposta: «Assolutamente no! La tua presenza è graditissima». Non aspettavo di me- Oggi questo quadro del BATONI, cui molto spesso
è stata collegata la devozione di tanti cristiani, forglio.
se non risponde più alla nostra sensibilità. Sta di
Ci accordiamo per fare al mattino presto la liturgia con la fatto che la devozione al Sacro Cuore poggia su un
reale e saldo fondamento teologico.
piccola comunità cristiana. Dopo la messa, con un battesimo e una
lunga omelia, arrivo alla casa del re. Sono all’incirca le otto e il
bue è appena stato sgozzato. Lo hanno ucciso i giovani all’Est della «Grande-casa» (Tranobè). Entro. Mi
danno il posto d’onore, a Nord della porta Est. Davanti alla porta Est — attraverso la quale non si passa —
vi è già sulla stuoia un piatto con il sangue del bue, mescolato ad acqua lustrale. Si tratta del primo sangue
sgorgato dal collo dell’animale colpito a morte. Mi salutano con molto riguardo, come al solito. Intanto i
giovani stanno facendo a pezzi la vittima. I ragazzini, che già sono stati impegnati a procurare le grandi foglie di ravinàla (= foglie-di-foresta) da stendere sotto il bue, sono indaffarati essi pure. Tutti hanno in mano
qualcosa che sono riusciti ad arraffare dal ventre della povera bestia. Ognuno di loro poi, compresi i piccolissimi, ha diritto a un pezzetto di fegato.
A un certo punto un giovane porge dall’esterno attraverso la porta Est il cuore del bue, che viene deposto nel piatto dove già c’è il primo sangue. Il re si fa dare un coltello e apre con cura il cuore, in maniera
tale che il sangue del cuore si mescoli con il primo sangue. Poi vi versa anche una porzione di rhum di
canna da zucchero, che chiamano «acqua forte». Quindi immerge nel miscuglio di sangue e acqua una
grande moneta d’argento appartenente al tesoro della collettività.
Questi elementi del rituale, che per la prima volta contemplo con i miei occhi, li conosco e me ne servo in catechesi. Servono in particolare a spiegare quel passo di Giovanni che dice: «... uno dei soldati con
CESARE GIRAUDO / BCE / Cap. 3: I sacramenti come “porte di giustizia” / PUG TP1015 & Sezione San Luigi / 2009-2010
18
la lancia gli aprì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). Ci potremmo domandare perché
mai il soldato abbia voluto trafiggere il cuore di Gesù. Si vedeva chiaramente che era già morto. A che pro
infierire su un morto? La risposta è semplice. Non sono tuttavia gli esegeti a fornircela. Essa proviene dalla
religione tradizione del Madagascar. È una risposta eminentemente teologica. Come per il bue, l’animale
sacro della fede ancestrale, è tutta la sua vita, significata dal cuore aperto, che redime i colpevoli, così è anche per Gesù, il vero Agnello pasquale della nostra fede: è tutta la sua vita, è tutto il suo sangue, significato
dal suo Sacro Cuore squarciato, che lava la colpa. A proposito del sangue del cuore, aggiungo ancora un
particolare. Qualora, per disattenzione, accadesse di rovesciare il piatto contenente il primo sangue, si procederebbe ugualmente all’aspersione, giacché il sangue del cuore da solo è sufficiente, in quanto riassume
la totalità di una vita data.
Ci si prepara per l’aspersione, che avverrà nel quadro dell’invocazione al Creatore e agli Antenati. Il
re domanda: «Dov’è la coda?». Immediatamente la padrona di casa, sua moglie, tira fuori da una cesta
l’estremità della coda del bue, che già aveva riposto al sicuro. È con quella che si compirà l’aspersione.
Si fanno entrare i colpevoli. Un vecchio prende la parola e spiega come devono disporsi, e cioè:
l’uomo seduto sulla stuoia e rivolto verso la porta Est, la donna seduta contro di lui e rivolta verso la porta
Ovest. Non si guardano in faccia, poiché non possono essere marito e moglie. Più tardi vengo a sapere che
l’improvvisato cerimoniere è il vecchio che la sera prima, in prossimità del villaggio, avevo notato intento
a trapiantare il riso nell’acqua ancor fredda della primavera australe. Mi ero meravigliato nel vederlo occupato in quella mansione solitamente affidata alle donne. Per giunta, siccome le gambe lo reggevano a fatica, aveva trovato più comodo accovacciarsi nell’acqua. Vedendolo in quelle condizioni, avevo provato pena e, con quelli che erano con me, avevo abbozzato un sorriso di compassione. Sarà lui poco dopo a farsi
riconoscere ricordando l’incontro della sera precedente, quando dirà, davanti a tutti, la sua grande gioia nel
vedermi presenziare al loro rito. Dirà: «Da quando sono persona, non ho mai avuto una gioia così grande».
A fianco dei due giovani che stanno schiena contro schiena, prende posto la figlia del re che
dev’essere essa pure aspersa. A questo punto il re si alza, quindi si siede sui calcagni davanti alla porta Est,
e così rivolto a Oriente dà inizio all’invocazione. Invoca anzitutto il Creatore, dicendo: «A te, il Creatore!
Creatore che sei all’Est, volgiti a Ovest; Creatore che sei all’Ovest, volgiti a Est; Creatore che sei al Nord,
volgiti a Sud; Creatore che sei al Sud, volgiti a Nord!». Evidentemente non si tratta di quattro diversi Creatori, bensì dell’unico Creatore, che a partire dai quattro punti cardinali è pregato di rivolgersi là dove si trova la comunità in preghiera. Il re lo invoca con numerosi titoli onorifici, tra i quali figurano «Signore della
vita» e «Colui che ha fatto i piedi e le mani». Gli racconta la storia della colpa dei giovani. Gli notifica che
l’aspersione in corso è voluta da lui. Quindi si alza, prende il fiocco della coda del bue, lo intinge nel sangue e asperge sul capo i colpevoli, per tre volte, dicendo: «Ecco, noi li aspergiamo con il sangue del bue.
Fa’ che non vi sia più colpa, che sia lavata, giacché noi li aspergiamo, noi li laviamo». Si tratta di
un’autentica dinamica sacramentale, che potremmo dire ex opere operato. All’invocazione al Creatore fa
seguito l’invocazione agli Antenati, di cui vengono pronunziati i nomi segreti.
È un momento di grande intensità. L’orante è visibilmente emozionato nei tratti del volto e nella voce. Sa quello che sta facendo, e ognuno dei circostanti lo sa. Egli sa bene che il Creatore e gli Antenati, «i
compagni del Creatore», sono presenti nel momento in cui la comunità, attraverso il suo ministero, li invoca. Al termine dell’invocazione si rivolge ai presenti e chiede: «Ho forse dimenticato qualcosa?». «No —
risponde l’assemblea —, hai detto tutto. Va bene così».
Fuori i giovani riprendono a dividere quel che resta del bue. In verità rimane poca cosa. Ci sono tanti
mucchietti sulle foglie di ravinàla. Ogni famiglia avrà diritto alla sua porzione di carne sacrificale, di quella carne che chiamano «il pezzo di carne che ristabilisce la relazione» (nòfon-kèna mitàm-pihavànana).
Anch’io ho diritto alla mia porzione. Essendo l’ospite di riguardo, mi mettono a parte della porzione del re,
e me la offrono con un breve discorso.
Così si svolge ancora oggi un rito di riconciliazione alla Costa-Est del Madagascar. In altre regioni
dell’«Isola Rossa», in particolare sull’Altopiano, questi riti sono scomparsi da oltre mezzo secolo. È facile
prevedere che un giorno — che personalmente mi auguro il più lontano possibile — essi spariranno anche
dalle regioni della Costa-Est. La storia segue il suo corso e la modernità tecnologica non favorisce certo il
mantenimento delle forme rituali. Dal punto di vista cristiano dobbiamo tuttavia augurarci che resti almeno
CESARE GIRAUDO / BCE / Cap. 3: I sacramenti come “porte di giustizia” / PUG TP1015 & Sezione San Luigi / 2009-2010
19
la teologia soggiacente a codesti riti. In caso contrario la comprensione stessa della fede cristiana risulterà
irrimediabilmente impoverita.
Posso confortare il mio augurio con un esempio. Sappiamo che dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme il sacrificio dell’agnello pasquale non è più possibile, come pure tutti gli altri sacrifici. Ma la
teologia soggiacente al sacrificio dell’agnello pasquale si è mantenuta, e rimane essenziale, non solo per
comprendere la pasqua ebraica, ma soprattutto per comprendere la pasqua cristiana, cioè l’eucaristia.
Africa missionaria: l’evangelizzazione delle altre Chiese a partire dalle Chiese d’Africa e Madagascar
Ci auguriamo pertanto che il giorno in cui il sacrificio di riconciliazione sparirà dalle regioni della
Costa-Est del Madagascar, si mantenga perlomeno la comprensione che vi soggiace. Essa ci è indispensabile, se vogliamo comprendere la teologia della redenzione vicaria attraverso il sangue di Cristo, e di conseguenza anche la spiritualità che la fede cristiana ha legato alla devozione al Cuore di Gesù. I cristiani del
Madagascar sono ancor oggi in grado di comprendere in maniera vitale il messaggio della Scrittura, di
comprendere in maniera adeguata il sacrificio della croce e la natura sacrificale delle nostre messe che rinnovano il memoriale del sacrificio unico.
Consci di questa loro ricchezza, essi devono rendersi conto anche dei loro doveri verso le comunità
cristiane delle vecchie Chiese. Si tratta d’un dovere di riconoscenza e di carità nei confronti di quelle
Chiese che hanno portato loro l’annunzio del Vangelo, ma che oggi non sanno più parlare della messa se
non in termini di festa e di gioia conviviale dovute al fatto che ci raduniamo intorno alla stessa mensa. Certo, la dimensione conviviale è essenziale alla messa; ma non dimentichiamo che essa non è primaria. Primaria resta la dimensione sacrificale, quella che noi, cristiani d’Occidente, continuiamo giustamente ad affermare, ma la cui comprensione profonda ci sfugge.
Dopo una presentazione così elogiativa della religione tradizionale malgascia, intravvediamo, perlomeno nel pensiero di qualcuno, un’obiezione che sembrerebbe sufficiente da sola a smantellare tutto il
precedente discorso: se la religione tradizionale è così buona, che senso ha voler insistere nell’opera missionaria? Non è difficile rispondere. Basta fare riferimento a ciò che è accaduto in rapporto all’Antico Testamento.
Tutti riconosciamo che la rivelazione veterotestamentaria, non solo era buona, ma rimane essenziale
per comprendere il Nuovo Testamento. Un solo esempio: allorché vuole annunciare ai discepoli di Emmaus la logica della croce e la sequenza di morte-risurrezione, Gesù non fa un discorso — per così dire —
di pura logica neotestamentaria, ma si rivolge all’Antico Testamento. Fu così che, «incominciando da Mosè e da tutti i Profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che si riferivano a lui» (Lc 24,27). Gesù sa bene che il Nuovo Testamento non può esistere né si comprende senza l’Antico, e a codesta naturale continuità apre la mente dei discepoli. Considerato dal punto di vista cristiano, il peccato dei Giudei di cui parla
il Vangelo consiste nell’essersi rifiutati di entrare nel Nuovo Testamento. Hanno preferito rinchiudersi
nell’economia dell’annuncio, senza raggiungerne il compimento. Se avessero compiuto questo passo, essi
avrebbero compreso il valore preparatorio dell’annuncio, un annuncio sempre presupposto e richiesto, poiché il Nuovo Testamento non può esistere senza l’Antico.
Così avviene pure per la religione tradizionale africana e malgascia. Il missionario ha il dovere di carità di predicare il Nuovo Testamento e di invitare i pre-cristiani a riconoscere nel Cristo il compimento di
quanto era stato prefigurato loro dalla rivelazione ancestrale. Siamo certi che, con l’aiuto dello Spirito, i
credenti d’Africa e Madagascar comprenderanno il valore provvidenziale della rivelazione fatta ai loro Antenati, giacché, senza l’apporto della loro religione tradizionale, la loro e nostra comprensione del Nuovo
Testamento risulterebbe più povera.
È questo il nuovo ardore missionario che oggi, alle soglie del Terzo millennio, la Chiesa universale
attende dalle giovani Chiese d’Africa e Madagascar: approfondire, secondo il proprio dono di grazia, il
comune patrimonio di fede, al fine di evangelizzare le stesse Chiese sorelle.
(da Il Messaggio del Cuore di Gesù 19 [5/maggio 1996] 338-347)