Notiziario Accademia Italiana Cucina

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Notiziario Accademia Italiana Cucina
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IL RISOTTO DI CASA VERGANI
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casa, nonostante l’aureola gastronomica di mio
padre, fondatore dell’Accademia Italiana della Cucina, e la nostra milanesità, il risotto arrivava invariabilmente scotto in tavola: poco zafferano, tritato di cipolle non ben soffritto e pallido, viscido, economia di
burro, niente midollo, chicchi imbevuti sino a gonfiarsi
di un brodo melenso di dadi e aggrumati in una sorta di
“palta” giallina. Ai fornelli mia madre badava poco e tirando via, sia che ci stesse lei, sia che ci stesse la cameriera addestratissima non alla cucina ma alla polvere, alle pulizie, di cui la mamma era ossessivamente maniaca
e per le quali passava la mattina a strofinare. Mio padre
Orio era tanto conscio del quotidiano disastro cucinario
e tanto rassegnato che, ogni giorno, tornando dal “Corriere”, allungava il tragitto sino a una salumeria di via
Solferino o di via Turati e “metteva in tavola” qualche
leccornia, qualche antidoto allo squallore del risotto
scotto e delle scaloppine al limone. Mio fratello Leo e io
sapevamo di poter contare su quella “compensazione” e
non ci ribellavamo a quel “primo” pervicacemente cementizio.
Erano gli anni dell’inoltrato dopoguerra e di un miracolo economico agli albori. Dopo tanta fame, la felicità
di Orio senior era di vedere i suoi ragazzi mangiare, di
portarci al ristorante. Ma, in quella stagione, la gastronomia milanese pagava un forte pedaggio alla cucina toscana che (le dinastie dei Pepori, di Bice e Cesarina
Mungai) dagli anni Venti monopolizzavano i ristoranti
della città. Andavamo spesso al “Bagutta”, luogo di trippe, di ribollita, di fagioli, ma non di risotti. La sublime
delizia del riso al salto e all’onda invase il nostro palato
e la nostra giovanile ingordigia solo dopo l’approdo al
“Biffi Scala”, dove lo chef Alfredo Valli (oggi è al “Gran
San Bernardo” di Milano, il pontefice del culto gastronomico meneghino) saziava la gran fame della “divina”, di
Maria Callas: Camilla Cederna la vide papparsi due risotti al salto, mezzo pollastrello ai ferri, una gamba d’anatra
bollita, una scodella di peverada veronese, frutta e panettone.
Solo allora potemmo misurare tutta l’ignominia del
“cemento” casalingo. Era (ed è) il “salto” di Alfredo, basso, croccante, ma non duro di chicchi, non unto. Era (ed
è) come quando il mare s’avvalla e poi rimonta, l’onda
del “mantecato”.
Fu allora che scoprii i portenti del risotto. Il “Biffi” e,
via via, la “Brasera meneghina” in via Circo (ahimè è ormai soltanto memoria) con il suo grande glicine, la
“Trattoria milanese” dei Villa in via Santa Marta sono sta-
te le mie università risottare. Il “salto”, la “Brasera” lo cucinava tenendogli il “cuore” sottile, ma morbido. La “Milanese” lo serviva e lo serve più alto e soffice. Queste facoltà non mi hanno laureato. Del “salto” manco a parlarne: mi si è sempre frantumato nella padella. Quello “all’onda” non mi viene malaccio. L’ho usato anche come
arma di seduzione e ha funzionato. Ma non bisogna dirlo a Giorgio Bocca che, provetto cuoco, mi ha, tanti anni fa, maledetto per un risotto che sapeva di fumo, di
bruciato. Lo avevo cotto con tutti i crismi, mescolando e
rimescolando nel brodo-brodo e aggiungendo noci di
burro per mantecarlo, ma lo avevo fatto dentro una pentola rastremata sul fondo. Errore imperdonabile. Il risotto s’era “attaccato”, schifando Bocca e i commensali.
GUIDO VERGANI
Accademico di Milano
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NOVEMBRE
GIOVEDÌ
Santa Cecilia
Si ricorda a tutti i Delegati che questa sarà la giornata che l’Accademia intitola al cioccolato, con
una riunione conviviale dedicata a questo prodotto e alle cucine che usano questo ingrediente non
solo per i dolci o i gelati. Molte sono infatti le pietanze della nostra cucina tipica che richiedono
l’uso del cioccolato: è compito dei Delegati individuare quelle ricette che più si adattano alla tradizione locale. Ove possibile, sarà anche opportuno
organizzare convegni o tavole rotonde sul tema. Il
cioccolato, specialmente dopo le recenti direttive
comunitarie, è un prodotto da salvare nella sua
integrità tradizionale, senza l’impiego di componenti estranee.
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