Margareth Hagen Il PROGETTO DRAMMATURGICO - BORA

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Margareth Hagen Il PROGETTO DRAMMATURGICO - BORA
Margareth Hagen
Il PROGETTO DRAMMATURGICO DI GIAMBATTISTA GIRALDI
Retorica e tematica di un dramma moderno
Dr. art
Universitetet i Bergen
2000
2
INDICE
1.
1.1
1.2
1.3
INTRODUZIONE
Lo sfondo ideologico e istituzionale della rinascita della tragedia
Un tragediografo alla corte estense
La fortuna critica
2.
PREMESSE METODOLOGICHE E PROPOSTE DI LAVORO
2.1
2.2
2.3
2.4
2.5
L’ideologia della tragedia a corte
Lettori e pubblico
L’autore tra teoria e prassi drammatica
L’intertestualità
Un crogiolo di generi
3.
UNA NUOVA TRAGEDIA: DILETTARE E EDUCARE A CORTE
3.1
Il concetto dell’imitazione: verosimiglianza, la fabula ficta e il meraviglioso
3.2
Un dramma decoroso
3.3
Una nuova poetica tragicomica
3.3.1 L’eroe, la catarsi e lo stile
3.3.2 Il prologo, la suddivisione in atti
3.3.3 Il coro
3.3.4 Il lieto fine
3.3.5 La tragedia mista
3.3.6 La tragedia doppia
3.3.7 Tragicommedia? Giraldi vs Guarini
3. 4
I personaggi esemplari
3.4.1 Il personaggio drammatico
3.4.2 Una nuova eroina
3.4.3 Il ruolo del sovrano
3.4.4 Il cortegiano
3.4.5 I conflitti
4
UN DRAMMA ESEMPLARE
4.1
giustizia, mescolata colla gravezza del supplizio: la struttura esemplare
4.2
Un dramma narrato
4.3
La vista
3
5
LETTURE DEI DRAMMI
5.1
L’Orbecche e l’assenza della fede
5.1.1 Negoziare con il tragico antico
5.1.2 Un’eroina malinconica
5.1.3 Persuadere un tiranno
5.1.4 Un gioco di maschere
5.1.5 La falsità e la fede
5.2
L’Altile: Una Ghismonda cinquecentesca
5.2.1 Lo scontro diretto
5.2.2 La mediazione
5.2.3 Il dialogo sull’amore
5.3
Gli Antivalomeni: la mediazione
5.3.1 Un conflitto “comico”
5.3.2 La fede
5.3.3 Mediare e attenuare
4.3.4 L’ambiente cortigiano e la fuga
4.3.5 La lezione del coro
5.4
Le antitesi esemplari: L’Euphimia
5.4.1 Un principe nuovo
5.4.2 Un exemplum meraviglioso
5.4.3 La onore e il pathos: una nuova erocità
5.4.4 Lo spazio ideologico
5.5
La Selene e la catarsi della corte
5.5.1 Il male a corte
5.5.2 La fortuna e la providenza
5.6
L’Arrenopia e la prudenza
5.6.1 Tre nodi intricati
5.6.2 L’ideale della maturità
5.7
L’Epitia e la clemenza
5.7.1 La violazione della giustizia
5.7.2 La retorica della clemenza
5.8
Le lezioni sull’amore
6.
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
4
1.
INTRODUZIONE
1.1
LO SFONDO IDEOLOGICO E ISTITUZIONALE DELLA RINASCITA DELLA
TRAGEDIA
Il presente studio vuole essere una lettura critica sulla tragedia dell'autore tardorinascimentale Giambattista Giraldi Cinzio e, più specificamente, sul problema del genere del
suo dramma. Con le sue opere Giraldi ha influenzato la creazione delle premesse, plasmando
in tal modo, la tragedia moderna. Occorre quindi inizialmente una presentazione della vita e
dell'operato di questo autore ferrarese del pieno Cinquecento. Non solo. Per comprenderne la
posizione storica e teorico-pratica è utile compiere un excursus sul retroterra storico relativo
alla nascita della tragedia moderna, per conoscere in quali forme la tragedia italiana si sia
manifestata nel Cinquecento prima del Giraldi.
Quando si affronta la letteratura cinquecentesca non si può non tener conto dello
sviluppo ideologico di questo secolo, caratterizzato da profondi contrasti in tutti i campi del
sapere, che ben presto darà luogo a una rigidità etica e normativa anche in ambito letterario.
L’assetto geografico svolge un ruolo centrale in queste differenziazioni; infatti, nonostante vi
fosse tra gli intellettuali la coscienza di una comune identità nazionale, che si basava sull'unità
linguistica e sulla comune derivazione dalla antica cultura latina, l'Italia del Rinascimento si
trovava, di fatto, divisa in molti e diversi centri intellettuali. I primi decenni del Cinquecento
segnano tuttavia una svolta nella geografia culturale italiana: da una parte Firenze perde la sua
posizione privilegiata come centro indiscusso dell'umanesimo italiano, e, dall'altra, dopo il
Sacco di Roma, viene meno l’intenso fermento intellettuale ed artistico che si era sviluppato
intorno alla corte papale. Pertanto il peso decisivo della bilancia culturale si sposta verso le
corti del Nord e verso la repubblica di Venezia.
Nella prima metà del secolo tra i centri più importanti e autonomi sia sul piano della
produzione culturale che dell’utenza, si trovano le corti del nord e Firenze. Giancarlo
Mazzacurati spiega che si trattava di due orbite confinanti: l’una (quella toscana), compatta e
chiusa, l'altra (quella centro-padana), aperta e variopinta. Le aree culturali di Firenze e del
Veneto sono da Mazzacurati collegate a «due divergenti condizioni di costume intellettuale e
di responsabilità politica tra le classi guida». Infatti, mentre la cultura fiorentina fino al 1540 e
oltre portò uno scarso ed eterodosso contributo alla costituzione di un'idea normativa della
letteratura e della poesia, la coeva cultura veneto-padana offriva «modelli pedagogici e
formali sempre più selettivi, tali da designare all'esercizio poetico e retorico uno spazio chiuso
e controllato, tendenzialmente asettico di passioni e turbamenti realistici» (Mazzacurati,
1977:24).
Anche Eugenio Garin addita a Firenze e a Venezia come ai due poli della filosofia e
dell'arte italiana rinascimentale: Firenze rappresenta nell’arte l'ideale, nella filosofia lo
5
spiritualismo; il Nord, invece, è caratterizzato dal realismo, dal razionalismo aristotelico, dallo
spirito esatto e positivo. Il centro dell'aristotelismo nel Cinquecento è lo Studio di Padova,
dove era fiorita una tradizione aristotelica, scolastica e naturalista, spesso indicata come
averroismo. Garin tuttavia mette in guardia contro questo mito della critica, legato a una
partizione troppo netta, e ci fa notare che: «se non a Padova, certo a Ferrara» si diffuse
«quell'alone iniziatico così caratteristico del platonismo ficiniano, e si mescolò con il
cabbalismo pichiano, e con il gusto di misteri orientali e delle cerimonie nascoste, dei simboli,
delle cifre, dei gesti e dei segni allusivi, in un'atmosfera stupita che sa di magia e di mistero»
(Garin, 1969:343). Ferrara è infatti una città adatta a illustrare l'impossibilità di concepire due
centri culturali nettamente distinti per quanto – come il Garin rileva in un altro passo -, sia un
errore confondere la cultura aristotelica padovana con quella ferrarese anche se
geograficamente vicine; a questo proposito, gran parte della letteratura e dell'insegnamento
filosofico a Ferrara, fu, nel Rinascimento, platonica, o venata di platonismo (Garin, 1979). In
linea con Garin, anche Mazzacurati precisa: «queste due orbite approssimative non si possono
ovviamente raffigurare come blocchi, ma piuttosto come nebulose variamente ammassate,
insieme differenziate e confluenti, sotto molti profili, ma non mai tanto che non si possano
segnare sempre visibili linee di demarcazione, zone della prassi, del costume, della realtà
ideologica di inesorabile specificità.» (Mazzacurati, 1977:231)
Accanto alla classificazione geografica della cultura rinascimentale si trova quella
istituzionale. La cultura nel Cinquecento non si limita solo alle corti e, per quanto concerne la
letteratura nei suoi livelli più alti, sono le accademie, insieme alle università, le istituzioni
culturali più importanti vicino alla cultura cortigiana. La produzione letteraria di questi
cenacoli intellettuali presenta comunque molti tratti simili a quella cortigiana. L’accademia,
così come la descrive Amedeo Quondam, produce al suo interno un testo perché venga poi
letto e censurato nell'ambito della sua autonomia, proponendosi spesso all'esterno come un
prodotto collettivo. Sia nella corte sia nell'accademia si ha dunque una comunicazione
autoreferenziale, e ambedue le istituzioni, per ricorrere alla definizione di Quondam,
appartengono ad »un campo semantico di fortissimo rilievo tipologico-culturale, di ampia
capacità modellizzante» (Quondam, 1982:829).
Sono queste due istituzioni, la corte e l'accademia, quali principali istituti di
produzione di spettacoli e di testi teatrali, a far risorgere la tragedia moderna.
Nell'introduzione alla raccolta di saggi Il teatro italiano del Rinascimento, Fabrizio Cruciani
suggerisce quindi che per la tragedia del Cinquecento si possa adottare la distinzione fra
"teatro di Corte" e "teatro della Cultura" (Cruciani, 1983); la tragedia rinasce appunto in Italia
come teatro della Cultura.
La sperimentazione accademica con il teatro si manifesta in vari modi. A Firenze
l'Accademia Platonica è coinvolta nell'organizzazione dei trionfi, mentre gli Orti Oricellari
riscoprono la tragedia: la senese Accademia degli Intronati regola, nel Cinquecento, la
6
produzione teatrale della città e le prime rappresentazioni di tragedie latine avvengono a
Roma per merito dell'Accademia romana o Pomponiana, nell'Accademia degli Infiammati,
fondata a Padova nel 1540 da letterati come Sperone Speroni, Alessandro Piccolomini e
Daniele Barbaro, si sperimenta con vari generi teatrali. Infine, vi è sempre un'accademia che
sovraintende alla costruzione del teatro Olimpico di Vicenza.1 Gli esempi potrebbero
facilmente venire moltiplicati; ciò che preme ora è far notare che anche in ambito erudito la
produzione teatrale è prevalentemente comica. Le tragedie degli accademici fiorentini degli
Orti Oricellari rivelano però uno scopo nettamente diverso di quello della produzione comica,
perché non si tratta tanto di un modulo di scrittura rivolto verso l'esterno, piuttosto del fatto
che l'accademia, rinchiudendosi in se stessa, produce opere legate ad una ricerca esclusiva e a
un dialogo fra dotti; proprio come aveva avvertito Quondam. I drammi si rivolgevano così a
un ambiente piuttosto circoscritto di intellettuali, che avevano in comune la formazione di
stampo neoplatonico e l'interesse per la storia e la politica; difatti, in quella culla della
tragedia moderna costituita dagli Orti Oricellari a Firenze, erano presenti figure come il
Machiavelli, il Trissino, il Bembo e il Diacceto, erede spirituale del Ficino. È nell’ambito di
questo progetto culturale che Giangiorgio Trissino si avvicina al genere letterario più alto e
scrive la prima tragedia classica in volgare, la Sofonisba (1514), la quale, con la sua
impostazione ellenizzante, diventerà il modello della successiva produzione tragica. Molte
tragedie degli Oricellari sono traduzioni o rifacimenti dei capolavori greci, ma presentano
anche soggetti storici, come la Rosmunda (1515), di Giovanni Rucellai, la Dido in Cartagine
(1524) di Alessandro Pazzi de' Medici, la Tullia (1533) di Ludovico Martelli.
Firenze godeva di una ricca e variegata tradizione di spettacoli, all’interno della quale
la critica ha unanimemente constatato come la tragedia italiana, a differenza di quella
spagnola e inglese, sia nata tanto da una rottura teorica con il suo antecedente più vicino (la
sacra rappresentazione medievale); quanto da una diretta imitazione di modelli greci e
senecani assunti dalle teorie estetiche classiche, giacché Seneca era stato letto in qualità di
esercizio retorico a partire dal Medioevo, e anche inscenato dall’Accademia Pomponiana a
Roma negli ultimi decenni del Quattrocento.2 A differenza delle commedie, però, non
abbiamo testimonianze certe di rappresentazioni tragiche nell'ambito degli Oricellari.
La novità fondamentale di Giraldi risiede dunque pure in questo: a partire degli anni
'40, egli per primo scrive e mette in scena tragedie per un pubblico di corte con esigenze ben
diverse da quelle degli accademici, e in tal modo si trova a misurarsi non solo con i modelli
1
Sull'Accademia degli Intronati e gli spettacoli senesi del '500 si veda: D. Seragnoli, Il teatro a Siena nel Cinquecento,
Bologna, Il Mulino, 1980; per il teatro e lo spettacolo romano nel Rinascimento, rimando a: Cruciani, Teatro nel
Rinascimento. Roma 1450-1550, Roma, Bulzoni, 1983; sull’Accademia degli Infiammati: F. Bruni, “Sperone Speroni e
l'Accademia degli Infiammati”. Filologia e letteratura, Napoli, 1967, XIII, pp. 24-71.
2 All'inizio del secolo Firenze poteva vantare una ricca tradizione rappresentiva che si manifestava in forme e modi diversi:
i trionfi, che culminarono con quello dell'età dell'oro allestito in occasione del carnevale del 1513, la tradizione medievale
delle sacre rappresentazioni e una ripresa di recite latine e di commedie, fra le quali spicca l'allestimento del 1488 dei
Menaechmi di Plauto con il prologo del Poliziano (Attolini, 1988:165-204; Pieri, 1989:9-53).
7
eruditi dei fiorentini e degli antichi, ma anche con un pubblico-spettatore più variegato. In
questo senso Giraldi è un pioniere, come egli stesso sottolinea nel Discorso intorno al
comporre delle comedie e delle tragedie: «ai nostri tempi hanno avuto da me principio le
rappresentazioni delle tragedie, per tanto spazio di anni tralasciate» (DCT, 203).
8
1.2
UN TRAGEDIOGRAFO ALLA CORTE ESTENSE
Nel delineare la produzione letteraria di Giraldi Cinzio, è bene, allo stesso tempo, enucleare i
tratti salienti della cultura e della politica ferrarese nel Cinquecento. Ferrara, definita da Jacob
Burckhardt come «la prima città moderna d’Europa», viene spesso considerata la città italiana
in cui si manifestò con maggior chiarezza la creazione e il funzionamento di una classe
dirigente intellettuale, curata attentamente dagli Estensi che nel Cinquecento potevano
vantarsi di essere tra le più antiche dinastie italiane (Burckhardt, 1984:47). Nella prima metà
del Cinquecento la politica estense premeva al fine di ottenere una conciliazione con il papa,
insieme al mantenimento dell'autonomia tramite l'alleanza con la Francia; gli intellettuali a
corte erano quindi impegnati nel costruire un programma che giustificasse questo delicato
equilibrio di giochi politici. Ma, fino all'elezione del papa farnese Paolo III, nel 1534, con il
conseguente cambiamento di politica da parte del duca Ercole II a favore di Roma, Ferrara era
una città caratterizzata da una vita intellettuale che, proprio perché godeva di un certo
eclettismo politico, talora si opponeva dall'autorità culturale della Chiesa Romana. La città
estense era uno dei centri principali dello scontro tra Riforma e Controriforma, e la sua
università, anche se subiva un forte controllo politico poiché i professori erano nominati
direttamente dai duchi, era una sede di sviluppo di nuove idee. Come abbiamo già accennato,
la cultura elaborata dallo Studio ferrarese determina una cultura alternativa all'umanesimo
fiorentino, per quanto non in netta opposizione: a Ferrara si verifica infatti una specie di
fusione fra l'aristotelismo e il neoplatonismo ficiniano, che nel Cinquecento diventerà di
stampo bembesco e cortigiano. Una delle maggiori differenze tra Firenze e Ferrara rimane
però il carattere delimitato dell'umanesimo nella città estense; come ha spiegato Antonio
Piromalli, a Ferrara l'aristocrazia fa trionfare l'umanesimo e la cultura come propria e non
popolare, tendendo così a diminuire il valore dell'individuo (Piromalli, 1975:83). All'interno
della stessa famiglia ducale ritroviamo poi una delle ragioni principali dell'influsso calvinista
e dell'inquietudine perché Renata di Francia, moglie di Ercole II, era di fede protestante, e il
suo circolo intellettuale attirava anche personalità definite scandalose, come lo stesso Calvino.
D'altra parte il duca non era in grado di opporsi alla presenza protestante, altrimenti avrebbe
corso il grave rischio di perdere l'appoggio della Francia. Anche per questo motivo, quindi, la
vera e propria persecuzione degli intellettuali eretici a Ferrara non iniziò certamente prima
degli anni sessanta.
In un saggio sugli scritti apologetici di Giraldi, Guy Lebatteux ci offre un quadro
illustrativo del programma propagandistico estense, svelando come la casa d'Este puntasse
sull’antichità delle proprie origini, vale a dire su sulla tradizione e sui valori di leggenda e di
poemi cavallereschi (Lebatteux, 1974). Sarà superfluo ricordare che i due maggiori poeti epici
di corte, Boiardo e Ariosto, avevano riattualizzato l'antica materia cavalleresca cristiana,
palesandone talvolta un intento parodistico, rendendola quasi una favola e un gioco in cui la
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corte potesse ispirarsi e, nel contempo, celebrare i gloriosi discendenti della Casa d’Este.
Oltre alla loro simulata giocosità questi due poemi svolsero del resto un'importantissima
funzione culturale, quella cioè di riepilogare la materia cavalleresca, venendo in tal modo a
concludere, nella mutata forma del poema epico, un intero genere. Il modello cavalleresco era
assunto dal pubblico cortigiano non senza la consapevolezza della sua appartenenza a
un'epoca ormai conclusa, dove tuttavia i valori della fede, dell'onore e della virtù guerresca
erano ammirati con nostalgia. La fama di Giraldi presso i contemporanei è narrata nella «Vita
di Giovambattista Cinthio Giraldi scritta di Ieromnimo Giovanni da Capegnano Bolognese»,
che si trova in appendice all'edizione veneziana del 1593 della raccolta di novelle di Giraldi,
gli Ecatommiti:
Era conosciuto 'l Giraldi, per uno de' i più singolari intelletti, che in Italia fossero, però
maraviglia non fu, se Ercole Duca di Ferrara molto l'apprezzasse, facendo capitale del
suo valore, come a un tale Principe convenivasi mentre che nell'anno 1547 il di
ventesimo di gennaio, spontaneamente, e non pregato il fece suo principal Segretario, e
da lui servito fu in questa carica per sedici anni bene, e insino che fu vivo. Possedeva
egli certamente quelle maniere tutte, e quei modi, che ad un uomo di stato, e di tanti
affari dovevano essere propri. Onde acquistò molto di riputazione, appo chiunque in
quella Corte avea maneggi, e con la dovuta fede, ricco si fece del cuore de' molti... E
quel che maraviglioso fu nel Cinthio, sappiasi che l'officio del Segretario, esercitando
continuamente lesse Umanità, ne già mai un'ora intramesse de i suoi studi, parendo che
a quello propriamente ei fusse nato.
Vediamone ora i dati oggettivi. Giambattista Giraldi (1504-73) segue i corsi dello Studio
ferrarese addottorandosi in medicina nel 1531; intraprende la carriera letteraria, insegna e
ottiene nel 1537 la cattedra di filosofia, e poi, nel 1541 quella di retorica, dopo la morte di
Celio Calcagnini. Nel 1547 ottiene la carica di segretario del duca. La cultura che Giraldi
apprende è caratterizzata dalla consapevolezza della complementarietà delle dottrine
scientifiche, filosofiche e umanistiche, dall’aspirazione ad un sapere reale più che verbale.3
Nel 1541 Giraldi scrive e fa rappresentare, nel suo teatro privato, alla presenza del duca, la
sua prima tragedia, l'Orbecche, la cui fabula è desunta dagli Ecatommithi. Il successo fu
immediato e la tragedia fu stampata appena due anni dopo, nel 1543 a Venezia, quindi
pubblicata tredici volte fra il ‘43 e il ’94, e anche l’unico dramma giraldiano a essere
pubblicato in vita dall’autore.
Già con il suo primo dramma allora, Giraldi prende le distanze dal modello
ellenizzante fiorentino proposto da Trissino con la Sofonisba, rivalutando invece Seneca e
dando un'interpretazione prettamente moralistica del genere tragico.4 L’Orbecche rappresenta
in questo modo una vera svolta nello sviluppo della tragedia moderna, in quanto la fusione fra
3
Cfr. Susanna Villari nell’introduzione al Carteggio, 1996, p. 12.
Per l’influsso di Seneca su Giraldi si veda L. Dondoni L’influence de Sénèque sur les tragédies de
Giambattista Giraldi, in Les tragédies de Sénèque et le théâtre de la Renaissance, par J. Jacquot, Paris, Editions
du Centre National de la Recherche Sciéntifique, 1964, pp. 37–46.
4
10
Seneca e la fonte novellistica propone un’alternativa alla Sofonisba, già proclamata prototipo
della nuova tragedia italiana. La prima tragedia di Giraldi introduce anche la suddivisione in
atti e scene, presenta un prologo separato e un ampio uso di monologhi.
Da quel momento prende via la produzione drammatica di Giraldi su commissione, la
quale mira a dare rappresentazioni in occasione dei più importanti eventi di corte; la maggior
parte delle sue nove tragedie viene difatti commissionata dagli Estensi, e lo stesso Ercole II
interviene più volte direttamente, scegliendo anche l'argomento delle due tragedie storiche di
Giraldi.
Il periodo più fecondo dell’attività letteraria del nostro autore è il ventennio compreso
fra il '40 e il '60, durante il quale egli scrive e fa rappresentare la maggior parte delle tragedie,
e in cui compone i suoi trattati poetici. La prima delle due tragedie di argomento storico,
entrambe commissionategli dal duca, è la Didone - composta contemporaneamente
all'Orbecche - e mai messa in scena, per quanto sia stata probabilmente letta in pubblico. La
Didone, si basa sul quarto canto dell’Eneide e fu oggetto di pesanti critiche, alle quali Giraldi
risponde nel 1543 con una Lettera in difesa di Didone, che segna l'inizio del suo lavoro
teorico sulla tragedia.5 Nella Lettera l'autore difende la divisione in atti, l'alto numero di
personaggi nel dramma, e spiega la propria concezione del coro, che non dovrebbe, come
presso i Greci, stare in scena durante l'azione. Il comporre tragedie storiche non era conforme
alle idee poetiche di Giraldi, il quale preferiva attingere alla novellistica che gli concedeva
una maggiore libertà e possibilità di introdurre il meraviglioso. Nella Lettera l’autore
commenta anche le difficoltà legate all’altezza dell'argomento: «per la maestà delle persone
che v'intervengono, che ne sono rimasto spaventato». Le reazioni alla nuova tragedia di
Giraldi non si fanno attendere da parte degli accademici, e non giungono solo in forma di
lettere e trattati. Come risposta al modello proposto dall'Orbecche, Sperone Speroni scrive la
sua Canace, e Giraldi replica a sua volta nel 1543, con una nuova lettera. L'anonimo Giudizio
di una tragedia di Canace e Macareo, pubblicato nel 1550, fu prima attribuito al Cavalcanti
ma poi la paternità giraldiana è stata dimostrata da Christina Roaf (Roaf, 1959). La seconda
tragedia storica di Giraldi è la Cleopatra che, nonostante sia commissionata
contemporaneamente alla Didone (1541), non fu rappresentata prima del 1555.6 Nella
riscrittura drammatica della storia di Cleopatra Giraldi, pur attenendosi piuttosto strettamente
alle Vite di Plutarco, ha polarizzato l'azione intorno alla decisione politica di Ottaviano su
come agire nei confronti di Cleopatra e Antonio, e sulla tragica scelta della regina egiziana.7
5 La Lettera funge da prefazione all'edizione postuma delle tragedie (1583) che fu curata da Celso Giraldi, figlio
dell’autore.
6 Nella lettera in difesa della Didone, datata 1541, Giraldi rivela di non aver concluso la stesura della Cleopatra. Per la
rappresentazione si veda Scritti estetici, a cura di M. Antimaco, I, Milano, 1869, p. XXXII e la Dedica all’Orbecche
(Weinberg, 1970:413).
7 Come è stato rilevato dalla critica, alle Vite di Plutarco, si aggiungono anche quali fonti centrali del dramma,
la Storia Romana di Cassio Dione e il trattato senecano De Clementia (Lebatteux, 1974; Solimano, 1981).
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Ad eccezione, comunque, delle due tragedie storiche, Giraldi assume sempre dal
proprio novelliere l’intreccio per le sue composizioni tragiche; questo avviene pure con
l'Altile, mediante la quale Giraldi ritenta il successo conseguito con l'Orbecche. L’Altile
doveva essere rappresentata in occasione delle celebrazioni della visita del papa Paolo III a
Ferrara nell'aprile 1543, ma la rappresentazione fu sospesa a causa dell’uccisione dell’autore
che doveva interpretare il ruolo dell’eroina. L’Altile segna una tappa fondamentale nella
scrittura drammatica di Giraldi perché inaugura la serie delle tragedie a lieto fine concepite
per «servire agli spettatori, e farle riuscire più grate in iscena», come scrive Giraldi nel suo
trattato poetico (DCT, 184). Segue in ordine cronologico Gli Antivalomeni, scritta e
rappresentata nell'estate del 1548 in occasione del matrimonio della figlia del duca, Anna con
Francesco di Lorena, duca di Guisa. Il dramma, che si descrivere come una versione regale
dei Menaechmi, è la tragedia di Giraldi che più si avvicina alla commedia. Quasi
contemporaneamente scrive la sua unica commedia, Gli Eudemoni, conclusa verso la fine del
1549. Ci è invece ignoto l’anno preciso della stesura della Selene, per quanto lo si possa
stabilire con certezza prima del 1554, essendo il dramma menzionato da Giraldi nel suo
Discorso sulla letteratura drammatica.8 La Selene venne rappresentata nel 1547 e poi nel 1551.
L'Euphimia poi, che presenta in un ambiente cavalleresco il tema dell'eroica fedeltà coniugale,
fu portata sulla scena nel ‘54);9 mentre l’Arrenopia fu composta e rappresentata in casa
dell’autore, a spese del duca nel 1563, alla vigilia della partenza di Giraldi da Ferrara, «sol per
lasciar, su questa sua partenza [...] grata memoria», come si legge nel Prologo del dramma.
L'ultima tragedia, l'Epizia, fu composta dopo il ‘63 e quindi dopo la partenza dell'autore dalla
città estense.
Quando nel 1547 Giraldi mette la sua penna interamente al servizio della corte in
qualità di poeta e segretario personale di Ercole II (sostituendo Ariosto), egli deve affrontare
le responsabilità di portare avanti l'eredità e i valori della cultura letteraria ferrarese. Difatti,
non solo l'epica, ma anche il teatro ferrarese godeva di una antica e variegata tradizione che
comprendeva cortei, trionfi, traduzioni da Plauto e composizioni teatrali del Boiardo e
dell’Ariosto. Come scrive Luciano Chiappini:
Già alla corte di Leonello con la rappresentazione nel 1445 della commedia Isole di
Francesco Ariosto II Pellegrino, si era esperito un tentativo di riproduzione di scene
mitologiche, ma si può addirittura risalire ad uno spettacolo teatrale nella piazza di
Ferrara tenutosi nel lontano 1329, ai tempi cioè di Obizzo III, per seguire a ritroso le
tracce di un gusto e di una sensibilità caratteristici dell'ambiente. (Chiappini, 1967:168)
E lo stesso Giraldi, nel suo Commentario fa notare tra i molti meriti di Ercole I, il suo grande
interesse per il teatro:
8 Quando Giraldi parla della Selene nel suo trattato poetico, ci dà però informazioni che non coincidono con l’intreccio
della tragedia (DCT, 184).
9 Lucas, 1984:138. Horne sostiene invece che la tragedia deve essere stata composta dopo il 1554 (Horne, 1962:18).
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Ne solamente il Duca Hercole si dilettò di così fatte lettere, ma talmente favorì le
Comedie, che con grandissime spese, e reale apparato rinovò i giochi delle scene, il cui
uso s'era dismesso affatto al suo tempo. Et già havea cominciato à provedere un
bellissimo luogo à posteri per recitare quelle favole, e lo havrebbe fornito, se la crudel
morte non havesse rotto i suoi disegni. (Com, 122)
A Ferrara la tradizione delle rappresentazioni manifesta una netta separazione tra lo spettacolo
popolare e quello elitario: la famiglia regnante organizza giostre, cortei, mascherate e parate
per il popolo, cioè manifestazioni che esaltano i valori della corte e servono
contemporaneamente a scopi diplomatici, mentre il teatro drammatico ha un suo pubblico
esclusivamente cortigiano. Ora, la sperimentazione teatrale a Ferrara è in primo luogo
cortigiana, quindi presumibilmente più libera da severi vincoli dottrinali ma al contempo più
condizionata dal gusto del pubblico, desideroso di evasione, di spettacolarità e di un testo
facilmente fruibile. Prima di Giraldi, il teatro a Ferrara significa prevalentemente le commedie
dell’Ariosto e del Ruzzante, allestite e recitate sul cortile del Palazzo ducale, a Palazzo
Schifanoia, o sulla piazza del Duomo. La stagione d'oro della commedia ferrarese si conclude
però dopo gli anni trenta. Dalla metà del secolo, infatti, anche in seguito all'incendio del teatro
stabile avvenuto nel ’32, subito dopo il suo completamento, l'interesse del duca per la
commedia sembra attenuarsi; di conseguenza si moltiplicano le rappresentazioni nei teatrini
delle case private e delle accademie (Zorzi, 1977).10
Giraldi è attivo come scrittore dagli anni '30 quasi fino alla morte. Nel periodo 154154, di pari passo con l’attività drammatica, il tragediografo ferrarese compone la sua più
articolata teorizzazione dei generi letterari: il Discorso intorno al comporre delle commedie e
delle tragedie, che fu pubblicato nel 1554 unitamente alla Lettera ovvero discorso sovra il
comporre le satire alla scena e al Discorso intorno al comporre dei romanzi.11 Se
effettivamente composto nel ‘43, come pretende lo stesso Giraldi, il suo commento sulla
Poetica aristotelica risulterebbe la prima poetica in volgare del secolo.12
La produzione letteraria di Giraldi non si limita però affatto alla tragedia. La sua prima
pubblicazione (1532), è una raccolta di poesie in latino; poi scrive orazioni, ed esprime un
intento storiografico componendo un Commentario sulle cose di Ferrara, ove narra la vita e il
governo degli Estensi. Il suo dramma pastorale-satirico Egle è dato alle stampe a Venezia fra
il ‘45 e il ‘47, compone il canzoniere Le Fiamme (1548), e poi la sua unica commedia, gli
Eudemoni, non pubblicata prima del 1877. Il Cinzio compone anche un poema apologetico
dedicato al duca: l'Hercole, iniziato nel ‘44 e uscito incompiuto a Modena nel ‘57.
10 Su questa linea, alle spalle della produzione teorica e drammatica di Giraldi troviamo un'accademia: quella degli
Elevati, presieduta dal filosofo padovano Vincenzo Maggi, scioltasi nel 1541, e ripristinata nel ‘54 come l'Accademia dei
Filareti (la cui produzione, a differenza di quella di Giraldi, sarà di carattere prevalentemente comico).
11 Se altro non è specificato, cito dall’edizione dei Discorsi poetici del 1973, a cura di Guerrieri Crocetti. Da questo
momento in poi si indicherà con Discorso, il Discorso intorno al comporre delle commedie e delle tragedie.
12 È un dato accertato che l’autore lavorò sul trattato per un periodo più lungo.
13
La carriera di Giraldi alla corte estense viene interrotta nel 1561 in seguito all'ascesa di
Alfonso II che lo sostituisce con il suo allievo Giovan Battista Pigna nell'incarico di
storiografo e responsabile della cancelleria ducale. Giraldi, costretto ad abbandonare pure la
cattedra allo Studio di Ferrara, passa in Piemonte dove insegna retorica nello Studio di
Mondovì, e si sposta in seguito, nel 1566, a Torino, causa il trasferimento di quel Studio (due
anni dopo il suddetto insegnamento sarà affidato ai Gesuiti, e Giraldi dovrà emigrare a Pavia).
A Mondovì completa e pubblica nel ‘65 la sua massiccia raccolta di novelle, caratterizzata da
un’impronta controriformistica: Gli Ecatommithi, che contengono anche i tre Dialoghi della
vita civile. Il novelliere di Giraldi rappresenta senz'altro il suo più grande successo editoriale –
ben sette edizioni italiane prima del 1608 (Berthé Le Besaucele, 1964:258-60).13 Il novelliere
è un’opera che lo ha seguito lungo tutta la sua vita, egli sostiene di averne iniziato la stesura
già nel 1528, di averla messa da parte, per poi riprenderla dopo qualche decenni. Insieme
all'Orbecche, la raccolta di novelle è dunque senz'altro la sua opera più influente, se è vero
che molti drammaturghi e scrittori nel Seicento, come Shakespeare, Sidney e Robert Greene,
adoperarono gli intrecci dalle novelle, mentre Lope de Vega attinge sei delle sue commedie
dalle novelle di Giraldi. In questi anni in esilio il Cinzio compone anche l’Epizia, la sua
ultima tragedia, e un suo discorso sulla vita a corte: il Discorso intorno a quello che si
conviene a giovane nobile e ben creato nel servire un gran principe, pubblicato nel 1569.
Malato, è costretto a ritorna a Ferrara nel '71, dove muore due anni dopo.
La scelta di aprire con un quadro geografico-culturale rivelerà che la produzione di
Giraldi dimostra una coscienza del fatto che Ferrara ormai rappresenta un modello culturale
capace di misurarsi con quello fiorentino. Infatti, nel suo Discorso sui romanzi egli celebra
l’Ariosto come il nuovo Petrarca, nel suo Commentario delle cose di Ferrara (che può anche
essere letto come una sfida alle Istorie fiorentine del Machiavelli), instaura dei paralleli tra
Ercole II e Lorenzo il Magnifico, mentre le sue tragedie rappresentano un deciso distacco dal
modello proposto dal Trissino, al quale Giraldi non risparmia una serie di critiche nei suoi
trattati poetici.
Va rivelato che la sua carriera presso la corte estense è singolare nel '500 per la sua
durata: operò come segretario del duca per ben sedici anni. I suoi drammi sono
indiscutibilmente legati alla cultura e al potere degli estensi. Marzia Pieri osserva su Giraldi
che l'ossequio alle autorità ecclesiastiche si accompagna con la necessità di soddisfare le
esigenze di novità e di grandezza della politica culturale ferrarese di questi anni, che
promuove, a scopo propagandistico, «la ricerca di una letteratura nazionale, libera dagli
egemoni toscani e a questi contrapposta» (Pieri, 1978 b:45). Ed anche Franco Gaeta scrive
che la carriera di Giraldi è un esempio di «come l'utilizzazione dell'uomo di lettere da parte
del potere - la dinastia estense impersonata da Ercole II - sia basata ormai su una formazione
precisa e differenziata, e come la funzione ufficiale e l'obbedienza dello scrittore a
13
Se altro non è specificato, cito dall’edizione del 1566 degli Hecatommithi (Venezia, Scotto).
14
sollecitazione esterne, politico-dinastiche, divenga stimolo essenziale per la creazione
letteraria, che decresce e s'interrompe quando egli si allontana dalla corte» (Gaeta, 1982:287).
È chiaro che la posizione assunta dal nostro letterato presso la corte, lo costrinse ad adeguarsi
all'interscambio fra propaganda dinastica e attività letteraria, «esser grato a chi io era già
debitore, ed il voler servire a chi potea comandare» (DCT, 203). Non è questo il luogo
speculazioni biografiche su Giraldi,
Gli anni centrali del '500 testimoniano l'agonia dei miti ottimistici della cultura
umanistica, che rende difficile, ma nel contempo più pressante, il tentativo delle virtù
dell’humanitas di dominare le forze disordinate della storia. Delmo Maestri osserva su Giraldi:
«egli appartiene ad una generazione delusa, per la quale il sacco di Roma è davvero la fine
dell'Italia, e gli urti e gli sbalzi di fortuna colpiscono a distanza ravvicinata, rendendo
problematici i tentativi della virtù» (Maestri, 1971:315). I valori umanistico-rinascimentali
assumono con la Controriforma l'aspetto di un'accentuazione morale e religiosa della vita,
dove l'abilità astuta e il calcolo sono sostituiti dall'onore e dal discorso decoroso.
L’indole creativa di Giraldi fu ben diversa di quella genialmente giocosa di Ariosto:
fra le righe di tutta la sua produzione si legge quella fiducia umanistica nella funzione civile
ed educativa della letteratura. Di qui, l'originalità, o meglio le innovazioni nascono in lui da
una dotta sperimentazione con i generi letterari mediante uno studio attento, mirando a
soddisfare le esigenze del pubblico e del suo duca. La provocazione, poi, è rarissima se non
inesistente in Giraldi: tutta la sua produzione rappresenta un'accurata smorzatura di ogni
eccesso, e questa smorzatura non si deve essenzialmente ad un'autocensura di fronte al potere,
oppure alle istituzioni della Controriforma, ma, a mio avviso, va anzi letta come parte della
sua convinzione sia estetica che etica. Ciò che colpisce maggiormente nel nostro autore è una
costante ricerca che lo porta ad affrontare tutti i generi letterari, e ad accompagnare la propria
prassi con un'attenta indagine teorica, per la qual cosa, ogni sua opera diventa quasi un
manifesto. Scrive trattati, o comunque elabora teorie, su tutti i generi letterari che sperimenta.
Ma oltre ad essere un pioniere nella teorizzazione e nella sperimentazione dei generi
drammatici, la produzione di Giraldi rimane singolare perché è il primo nel Rinascimento a
comporre tragedie che ricercano come scopo primario la rappresentazione. Ciò rende Giraldi
Cinzio, per citare il giudizio di Carmelo Musumarra, uno dei «più coscienti ed esperti uomini
del teatro del Cinquecento» (Musumarra, 1972:93).
15
1.3
LA FORTUNA CRITICA
Per secoli i critici letterari hanno trascurato i drammi di Giambattista Giraldi. Nel quadro
generale però, non è stato solo Giraldi ad essere perso di vista, giacché la sua scarsa fortuna
critica lo ha accomunato alla maggior parte dei tragediografi cinquecenteschi. È sintomatico
che nella Storia del teatro drammatico del 1953, Silvio D'Amico dedica solo due pagine alla
tragedia rinascimentale italiana, nelle quali afferma: «la tragedia del rinascimento difette di
quello che sempre fu, è sarà alla base d'ogni grande teatro tragico: il fuoco spirituale»
(D’Amico, 1953:154). Mentre il Folena nell'introduzione alla raccolta saggistica Lingua e
struttura del teatro italiano del Rinascimento, che significativamente contiene unicamente dei
saggi sulla commedia, spiega che «il predominio di un modello di lingua lirica, l'impossibilità
di portare davanti al pubblico conflitti drammatici attuali, l'assenza di un retroterra medievale,
hanno impedito, [...] l'affermarsi di una tradizione di lingua tragica, se non nell'elegiaco filone
tassiano che confluisce poi nel melodramma» (Folena, 1970:XIX). Dunque, per secoli le
tragedie del Rinascimento italiano sono state giudicate faticosi tentativi intesi soltanto a
plasmare una forma, quella classica e aristotelica. Tuttavia, all’interno di questo registro di
esercizi formali, le tragedie di Giraldi non furono certo le più rigide, perché – e sono parole di
Federico Doglio - «la sua allegra rivolta rappresentò un'eccezione» (Doglio, 1972:XLVII). E
già il giudizio crociano, del resto, mette in risalto l'aspetto innovativo della tecnica giraldiana:
il pur mediocre Giraldi, abile letterato, che aveva dato prova di sé in versi latini e
italiani, e autore di molte tragedie, tra le quali l'Orbecche, che ebbe molto influsso sui
tragici posteriori, non escluso il Tasso del Torrismondo.... Egli fu il maggiore di quegli
innovatori che possono chiamarsi meccanici o materiali, e tentò tutti i generi, in tutti
innovando in simili modi e cercando di venire incontro ai nuovi bisogni del pubblico
non più finemente umanistico. (Croce, 1967:328-9, c.n.)
La rarità delle edizioni delle tragedie può ritenersi senz’altro una delle ragioni per la quale la
critica si è interessata così poco di Giraldi Cinzio. Esiste infatti un’unica raccolta completa
delle nove tragedie di Giraldi, e si tratta di un'edizione che risale al 1583 per la stampa di
Cagnacini, curata dal figlio dell’autore. Negli ultimi decenni i drammi di Giraldi hanno avuto
nuove edizioni.14 Dagli anni settanta in poi si è anche verificata una sempre maggiore
attenzione critica per la tragedia cinquecentesca in generale, della quale ha goduto anche
Giraldi Cinzio. Invero, il modello tragico da lui proposto è stato uno fra i più considerati dalla
14
L’Orbecche è inclusa in La tragedia del Cinquecento, I, a cura di Marco Ariani, Torino, 1977, pp. 79-184; nonché nel
Teatro del Cinquecento, I, a cura di Renzo Cremante, Milano, 1988, pp. 258-448; mentre l’Arrenopia è stata pubblicata in
Teatro Antico Italiano, V, Milano, 1809, pp. 49-191. Nel presente studio consulto l’edizione dell’Orbecche del 1988, e
l’edizione del 2007 dell’Arrenopia, curata da Davide Colombo. Per la Selene cito dall’edizione di Irene Romera Pintor
(2004), mentre per le restanti sei tragedie di Giraldi adopero le edizioni del 1583. Per una bibliografia complete delle
edizioni dei drammi di Giraldi rimando a Romera Pintor, Selene (2004) e………
16
critica degli ultimi decenni; la quale ha fissato l’attenzione lungo un percorso quasi obbligato
che, partendo da Trissino si sofferma poi cronologicamente su Giraldi, Speroni, Tasso,
concludendo con la tragedia di Torelli. Per ragioni di spazio non è possibile, in questo luogo,
dare una rassegna completa dei contributi critici sul dramma di Giraldi, ma si desiderano
comunque segnalare alcuni dei lavori più incisivi, prestando maggior attenzione a quelli dagli
anni '60 in poi. Rimando inoltre alla rassegna degli studi di Antonella Calzavara sulla tragedia
rinascimentale (Calzavara, 1994).
Anche se la critica non è stata generosa nei confronti di Giraldi Cinzio né di giudizi
qualitativi né per quantità, prima del cospicuo numero di interventi critici negli ultimi decenni,
esistono già dall'inizio del nostro secolo opere monografiche a lui dedicate. Difatti, nel 1920
esce lo studio di Berthé de Besaucele: G. B. Giraldi (1504-1573). Etude sur l'évolution des
théeories littérares en Italie au XVI siècle - dove le varie sezioni sono dedicate ai diversi
generi sperimentati da Giraldi. De Besaucele legge i drammi del ferrarese tenendo presente le
sue teorie poetiche, per la qual cosa attribuisce un'attenzione particolare ai caratteri
drammatici, che sono giudicati privi d'originalità e di forza patetica. Anche l’opera di Camillo
Guerrieri Crocetti, G.B. Giraldi ed il pensiero critico del secolo XVI (1932), rappresenta un
accurato lavoro sulle teorie poetiche di Giraldi, che vengono confrontate con quelle di
Aristotele, di Orazio e dei maggiori teorici del Cinquecento. Guerrieri Crocetti, che negli anni
settanta curerà anche l'edizione moderna degli Scritti critici di Giraldi, offre un ampio ritratto
sulla formazione culturale dell’autore ferrarese e dedica due capitoli alle tragedie; uno dei
quali è impostato su «motivi vecchi e motivi moderni», mentre l'altro è costituito da un
«esame estetico» dei drammi. Uno dei meriti dello studioso è l’aver l'evidenziato la costante
ricerca di novità di Giraldi: Crocetti sostiene infatti che il suo dramma «preannuncia la
tragedia borghese», ne sottolinea la costante preoccupazione morale che lo affianca a Seneca;
nonché l'ideale di un linguaggio chiaro il quale causando una «povertà d'espressione», si
caratterizza come «pedestre sciatteria» (Guerrieri Crocetti, 1932:698, 701). Modernità,
preoccupazione morale e chiarezza – si tratta di tre fenomeni centrali che saranno affrontati
via via anche nel presente lavoro, sebbene con un approccio critico diverso.
Un posto di rilievo in questa rassegna di studiosi giraldiani spetta invece alla
monografia di P. R. Horne, The tragedies of Giambattista Cinthio Giraldi (1962). Mediante
un'accurata ricerca d'archivio, Horne ricostruisce l'ambiente culturale ferrarese e la
formazione intellettuale ed estetica di Giraldi, per poi passare, dopo un resoconto degli
elementi tecnici innovativi della teoria drammatica del ferrarese, all'analisi dei singoli drammi.
L’autore legge le tragedie confrontandole con le fonti primarie, e con i trattati poetici
17
dell’autore; tiene anche conto degli elementi biografici e, nel contempo, mette in rilievo
quegli aspetti dei drammi che rispecchiano la discussione cinquecentesca sull'etica della
politica. Horne rivolge principalmente due critiche agli interventi avanzati in precedenza sulla
tragedia di Giraldi: la tendenza a sopravvalutarne l'orrore, e il fatto che le tragedie troppo
spesso sono state analizzate senza tenere conto che «Giraldi not only aimed at exemplifying
the abstract principles of his art, but also, like every artist, had something of himself - his own
feeling, and beliefs - to express» Horne dichiara quindi di voler inserire «Giraldi's tragedies in
a new perspective, and to represent them no longer as heralding some of the morbid aspects of
the Counter-Reformation, but as products of the culmination of Ferrarese humanism» (Horne,
1962:8, 9). Le sue interpretazioni delle tragedie enfatizzano quindi gli ideali umanistici
presenti negli intrecci, individuando così i due temi principali della tirannide e dell'infedeltà.
Secondo Horne, il gusto controriformistico e prebarocco dell'Orbecche non sarebbe affatto
caratteristico di Giraldi, in cui predomina, invece, l'ideale di misura umanistico. I lavori
letterari di Giraldi non andrebbero quindi collocate nell’arte della controriforma, ma in «the
serener, idealistic climate of Ferrarese humanism» (Horne, 1962:148). Ciononostante
riconosce come tendenze controriformistiche, oltre alla natura didattica dei drammi,
l'importanza assegnata alla «maraviglia», e all'orrore. È vero che Horne tende a distogliere
l’attenzione da ogni aspetto e ispirazione non congruente con gli ideali umanistici (Dionisotti,
1963), ma gli spetta comunque il merito d'aver spostato l'attenzione critica dall'orrido, da
sempre ritenuto - senza dubbio a causa della posizione di rilievo dell'Orbecche - sinonimo
della drammaturgia giraldiana, alle passioni della pietà e della compassione.
In una recensione del 1963 sullo studio di Horne, Carlo Dionisotti mette in guardia dal
giudicare il modello tragico del Cinzio sulla base quantitativa delle tragedie a lieto fine; e
sottovalutare la qualità e la posizione di rilievo dell'Orbecche, ritenuta dal critico italiano
l'unico dramma giraldiano dotato di valore estetico. Dionisotti, peraltro, considera Giraldi uno
«scarso talento di poeta di teatro», privo «di scrupoli e interessi linguistici che lo distacca
dalla tradizione rinascimentale», «pedestre e scabro» e la cui opera è «nuda di poesia e di
pensiero» (Dionisotti, 1963). Il disaccordo fra Horne e Dionisotti concerne quindi non solo la
ricerca dei criteri posti per tracciare il testamento poetico di un autore, ma anche,
implicitamente, se una produzione letteraria antica vada giudicata secondo gli ideali moderni
del critico; oppure se, invece, si debba assegnare il giusto rilievo ai gusti contemporanei.
Ricordiamo che l’Orbecche è l'unico dramma di Giraldi che ebbe successo editoriale, e fu
accolto da drammaturghi e critici come modello della tragedia moderna, - nel contempo è il
dramma meno rappresentativo della sua produzione, come aveva sottolineato Horne. Come
18
Dionisotti, anche Marco Ariani sottolinea l’importanza dell'Orbecche tra i drammi giraldiani
poiché, mentre i drammi successivi sono esperimenti edonistici lontani dall’elemento tragico,
questa «prima tragedia è la più compiuta realizzazione di una tensione di poetica» (Ariani,
1974:141).
Sembra difficile non tenere conto della posizione di rilievo dell'Orbecche sulle altre
tragedie giraldiana. Uno studio sulla tragedia rinascimentale, comunque, può difficilmente
prescindere dalla problematica del genere, e in questo luogo è opportuneo rammentare che
nella discussione svoltasi nel '500 italiano, alcune delle tragedie coeve furono concepite come
vere e proprie proposte di modelli, di manifesti, partecipando così alla discussione a livello
paritetico con i trattati poetici. È questo il caso della Sofonisba di Trissino che viene additata
dall'autore stesso, nelle sue Lezioni sulla poetica, quale prototipo della tragedia per gli scrittori
moderni, (come Edipo re lo era per gli antichi). Anche la Canace di Speroni e l'Orbecche
sono intese come modelli, svolgendo la funzione pratica di argomenti nel dibattito sul genere.
Ma l’eredità del dramma europeo da Giraldi non si ferma affatto con l’Orbecche. In uno
studio comparatistico del 1962 di Martin T. Herrick sullo sviluppo della tragicommedia in
Europa, viene riservato un posto importante a Giraldi. Questi è considerato come Guarini, un
punto di riferimento costante nell'analisi della tragicommedia rinascimentale. Herrick dedica
anche un capitolo in cui presenta i rinnovamenti teorici di Giraldi, offrendo un’analisi di tre
delle tragedie miste del ferrarese: l’Arrenopia, gli Antivalomeni e l’Epizia. Herrick mostra
come il nostro autore presenti tre qualità che sarebbero diventate centrali nello sviluppo della
tragicommedia europea: l'intrigo inventato, il lieto fine e il motivo centrale dell'amore. Inoltre
mette in evidenza l'aspetto didattico del dramma giraldiano, che si rivela principalmente
nell'impiego della giustizia poetica.15
Torno così all’Ariani che si è occupato di Giraldi in diversi luoghi, offrendo lavori i
quali sono stati punti di riferimento per il presente lavoro. Nel suo studio sulla tragedia
cinquecentesca, Tra classicismo e manierismo (1974), Ariani sostiene che la drammatica
giraldiana e, in particolare, il senechismo dell'Orbecche con il suo rifiuto del classicismo del
Trissino, apre la via al manierismo drammatico. Lo studioso interpreta ed evidenzia anche gli
aspetti politici della tragedia giraldiana, arrivando a vedere nel lieto fine un bisogno di
evasione dalle problematiche ideologiche. Per Ariani la tragedia a lieto fine del Cinzio è un
ibrido surrogato, con degli «infami deus ex machina» che risucchiano «nel suo trionfalistico
ottimismo il tormento inspiegato di una malvagità dimorata irrazionalmente nella logica della
15
Herrick dedica anche due capitoli a Giraldi nel suo studio Italian Tragedy of the Renaissance (1965).
19
corte» (Ariani, 1974:142, 156). Da tale lettura ideologica segue dunque una condanna
altrettanto ideologica nei confronti dei drammi. Il giudizio di Ariani concorda con quello di
Mercuri, che nel 1973 aveva aperto il dibattito sulla tragedia in una prospettiva politica e
controriformistica, suggerendo di leggerla tenendo presente la trattatistica contemporanea
(Borsellino & Mercuri, 1973:72-111). Al raffronto tra ideologia e tragedia Ariani ritorna
anche nell'ampia e illuminante introduzione alla raccolta einaudiana in due tomi La Tragedia
del Cinquecento (1977). Un'accurata analisi linguistica e retorica della tragedia e una
definizione del codice tragico in Giraldi, ci viene poi offerta dall’Ariani con l'ampio saggio
del 1979: «La trasgressione e l'ordine: L'Orbecche di G. B. Giraldi Cinthio e la fondazione
del linguaggio tragico cinquecentesco». È dunque ancora l’Orbecche a ricevere l'attenzione di
Ariani, il quale, in una nota dell'articolo, spiega l'esclusione degli altri drammi dall'analisi
retorica, sostenendo che un censimento completo della produzione del tragediografo non
aggiungerebbe niente di nuovo alle conclusioni alle quali è arrivato dalla lettura della prima
tragedia (Ariani, 1979:140). Ritornerò spesso a confrontarmi con Ariani nel presente lavoro,
in quanto condivido il suo approccio di vedere i drammi come progetti di persuasione in seno
alla cultura cortigiana. Secondo Ariani, la scrittura tragica di Giraldi, è «scrittura dell'ovvio,
del conosciuto, del noto a tutti, del luogo socializzato da usi e comportamenti verbali
generalizzati ad un'intera classe dominante e trasferiti in palcoscenico a raddoppiare l'ordine
impersonato dal pubblico»; si tratta di conseguenza, di «antropologia tragica come
antropologia cortigiana e viceversa» (Ariani, 1979:147).16 Due saggi di Riccardo Bruscagli
(1976, 1980) si rivelano particolarmente attenti nel dimostrare le novità della soluzione
drammatica giraldiana leggendola alla luce delle ideologie politiche e cortigiane.17
Appartiene a Corinne Lucas il lavoro globale sul Giraldi tragico, lo studio De l'horreur
au «lieto fine». Le controle du discours tragique dans le théatre de Giraldi Cinzio, del 1984.
Lucas presenta dapprima una breve introduzione sulla figura intellettuale di Giraldi e sulle sue
teorie drammatiche, per poi passare ad un esame tematico delle tragedie. L’autrice esclude
dalla lettura i drammi storici di Giraldi, e interpreta le altre sette tragedie dando un'attenzione
particolare al rapporto tra l'etica e la politica; inoltre, come Ariani, anche Lucas afferma che i
drammi di Giraldi mirano ad una difesa del potere e dello status quo sociale. L’approccio di
16
Se si vuole indicare un limite all'indagine retorica dell’Ariani, bisogna ricordare che è stato senz'altro
condizionato dal fatto che esamina soltanto l'Orbecche, poiché "l'antropologia cortigiana" del ferrarese non è
solo tragica; inoltre, la produzione di tragedie del Giraldi non è certamente così monotona da non presentare
alcuna variazione nei registri formali e nei motivi dopo la prima tragedia.
17 (Bruscagli,1983).
20
Lucas è fondamentalmente storico e biografico,18 ma delinea un quadro più vario e inquieto
della drammaturgia giraldiana di quanto non avesse compiuto Horne, proprio perché tiene
conto dell'atmosfera culturale della Controriforma. Secondo Lucas Giraldi crea una specie di
tragico il quale, sul livello culturale, risponde alle condizioni di vita degli intellettuali
dell'epoca del Concilio di Trento:
Il invente une sorte de tragique en creux qui répond parfaitement, sur le plan culturel,
aux conditions de vie des intellectuels de l'époque du Concile (Index, censure, dirigisme)
et, sur le plan religieux, aux scénarios des procès d'inquisition dont le dénouement
obligé et forcément "hereux" pour le pouvoir est la soumission et l'intégration de
l'accusé dans l'institution, pour le plus grand bien des fidèles. (Lucas, 1984:206)
La parte più innovativa dello studio di Lucas è dedicata alla relazione tra la parvenza e la
verità nei drammi, dove propone una suddivisione delle opere in base ai diversi valori etici
collegati alla simulazione. Dopo aver sottolineato che la corte diventa il luogo privilegiato
della confusione tra essere e parere, ne analizza il rapporto in connessione con il potere
legittimo, indicando che, mentre nella Selene, nell'Arrenopia e negli Antivalomeni la duplicità
è al servizio della fedeltà e del potere, nell'Altile e nell'Euphimia la simulazione è l'arma del
male. Lucas arriva a questa conclusione basandosi sul topos del tradimento e sulla menzogna
dei personaggi centrali, e conclude che con il passare del tempo, Giraldi propone una visione
del mondo «de plus en plus rassurante en établissant un rapport entre la falsification du réel, la
création d'apparences trompeuses et l'ingegno, l'intelligence humains» (Lucas, 1984:153).
Anche Marzia Pieri ritorna in più luoghi ad occuparsi di Giraldi, offrendo indagini
chiarificanti. Pieri è autrice del libro La nascita del teatro moderno (1989), ed anche in altri
luoghi ha cercato di colmare alcuni dei vuoti creati dal disinteresse della critica per i trattati e
il novelliere di Giraldi. Nel presente studio mi confronto inoltre ripetutamente con il lavoro di
Michel Olsen sulla novella cinquecentesca, nel quale sono trattate anche le strutture narrative
degli Ecatommiti (Olsen, 1976).
Negli anni 1997 Mary Morrison pubblica la sua monografia dedicata alle tragedie di
Giraldi: The Tragedies of G.-B. Giraldi Cinthio. The Transformation of Narrative Source into
Stage Play. Lo studio è un’analisi comparativa dei drammi con le novelle-fonti. Nelle sue
letture Morrison dà anche attenzione al’elaborazione di alcune delle figure drammatiche.
18
Cito un passo rivelatore del suo approccio, tratto dalla conclusione: «En tout cas, on peut observer une constante dans la
carrière de Giraldi: une tendance à être maltraité par ceux qu'il sert le mieux en pratique (la famille ducale de Ferrare),
mais aussi d'un point de vue idéologique (les jésuites). Et ce qui est profondément tragique dans sa vie et dans sa pensée à
la fin de sa carrière est l'effort touchant qu'il déploie, les constructions mentales qu'il échafaude pour défendre un système,
des principes (la fin justifie les moyens, le monarchie de droit divin) dont il est la première victime.» (Lucas, 1984:203).
21
E' impossibile affrontare il dramma rinascimentale senza tenere conto della vasta
trattatistica contemporanea sulla materia. Le relazioni tra la letteratura tragica e le poetiche
del Cinquecento sono state ampiamente studiate e chiarite dalla critica. In questo campo di
ricerca spicca l'opera di Bernard Weinberg A history of literary criticism in the Italian
Renaissance del 1961, inoltre i lavori di Guerrieri Crocetti, di Horne e di Lucas contengono
tutti una presentazione delle idee poetiche di Giraldi.
La prospettiva intertestuale ha dato come risultato una serie di lavori che si sono
occupati, in primo luogo, delle citazioni da fonti antiche nei drammi. In particolare, i rapporti
intertestuali dei primi drammi di Giraldi – l’Orbecche, l’Altile, la Didone e la Cleopatra hanno ricevuto l'attenzione della critica.19 Va anche sottolineato il cospicuo contributo di
Irene Romera Pintor sull’influsso di Giraldi sul teatro spagnolo.
Tra i contributi critici dell’opera drammatica di Giraldi nel nuovo millennio voglio
segnalare lo studio di Fabio Bertini sugli stretti legami tra la tragedia giraldiana e la giure in
Selene, Arrenopia e Epizia (2008). Bertini pone l’accento sulla funzione didattica e giuridica
dei drammi nel ventennio conciliare.
Da questa breve rassegna è evidente che l'approccio alla tragedia di Giraldi negli
ultimi decenni è stato prevalentemente storico-ideologico, insieme ad una critica tradizionale
delle fonti, e a un'attenzione costante verso la precettistica poetica coeva. Nel prossimo
capitolo mi propongo quindi di delineare le premesse storiche, di discutere e di presentare gli
strumenti da me scelti per il presente approccio alla tragedia di Giraldi.
19
Crf.: Per l'Orbecche: M. Ariani, “La trasgressione e l'ordine: L'Orbecche di G.B. Giraldi Cinthio e la fondazione del
linguaggio tragico cinquecentesco”, in “La Rassegna della letteratura italiana”, Firenze,1979, pp. 117-80; R. Bruscagli,
“La corte in scena: genesi politica della tragedia ferrarese”, L'approdo letterario, Roma, 1976, pp. 81-106; E. Paratore,
“Nuove prospettive sull'influsso del teatro classico nel '500”, in AA.VV., Atti del convegno sul tema: Il teatro classico
italiano nel '500 (Roma, 9-12 febbr. 1969), Roma, Acc. Naz. dei Lincei, 1971, pp. 9-97; e l'edizione curata da R. Cremante
in Teatro del Cinquecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, pp. 258-448. Per la Didone: C. Lucas, “Didon - Trois
réécritures tragiques du livre IV de l'Eneide dans le théatre italien du XVI siècle”, in Mazzacurati, G. e Plaisance, M. (a
cura di), Scritture di scritture, Roma, 1980, pp. 557-604; per l’Altile: P. Osborn, “Altile dalla novella alla tragedia”,
Schifanoia, 12, Modena, 1989, pp. 157-164; per la Cleopatra: Lebatteux, G., “Idéologie monarchique et propaganda
dynastique dans l'œvre de G.B.G.C.” in Rochon, A. (a cura di), Les écrivains et le Pouvoir en Italie, 3, Paris, Sourbonne,
1974, pp. 248-312; G. Solimano, “Per la fortuna del De Clementia nel Cinquecento. La Cleopatra di G.B. Giraldi Cinzio”,
in La Rassegna della letteratura italiana, Firenze, 1981, pp. 399-419.
22
2.
PREMESSE METODOLOGICHE E PROPOSTE DI LAVORO
2.1
L’IDEOLOGIA DELLA TRAGEDIA A CORTE
La tragedia moderna nasce nel Cinquecento, congiunta alla crisi dell'umanesimo e alle
crescenti esigenze dell'aristocrazia di crearsi una 'mitologia'. Dal punto di vista della dialettica
storica la tragedia può quindi essere considerata, come fa Ariani, un prodotto della crisi sociopolitica iniziata con il crollo delle repubbliche di Firenze e di Venezia. In tale ottica non
appare strano che i primi tragediografi moderni fossero tutti legati alla cultura fiorentina,
come non è difficile concordare con Ariani che vede la letteratura tragica come «un teatro che
tenti di ricostruire una adeguata ideologia di difesa e di riconquista sublimata delle posizioni
perdute dei ceti egemoni» (Ariani, 1977:X). A suo tempo anche Lukács aveva osservato che
non era casuale che i grandi periodi della tragedia coincidessero con i grandi cambiamenti
della società umana (Lukács, 1962:111). E' chiaro, del resto, che la tragedia con i suoi modelli
fissi e le sue forme conservatrici si presta facilmente a un'interpretazione ideologica. Molti
studiosi pensano che la tragedia rinascimentale possa essere interpretata come espressione
della cultura gerarchica coeva, mettendone quindi in rilievo la funzione propagandistica. Nel
Cinquecento la tragedia fu talora indubbiamente usata nell'ambito della corte come strumento
per rafforzare il consenso intorno al potere centrale. Con i suoi molteplici strumenti espressivi
la corte tende, in sostanza, a proporsi e ad autorappresentarsi come depositaria di valori eterni.
Attraverso l'influenza del platonismo poi, e con gli ideologi del classicismo, la teoria del
modello eccellente ed immutabile, ma imitabile, diventa fondamentale anche nel dibattito sui
generi letterari, e in particolare sul genere più elevato. In questo ambito il richiamo al
classicismo presenta anche il fine di esaltare nella corte l'incorruttibilità, la bellezza, l'idea e il
modello. All'immutabile perfezione della forma classica corrisponde la perenne valenza dei
miti trattati nella tragedia che, se rappresentati in un ambiente sociale gerarchico, servono a
confermare l’imprescindibilità del potere aristocratico. L'aspetto propagandistico è rafforzato
dallo stretto legame che sussiste tra mittente e destinatario della tragedia a corte. Difatti, il
legame vincolante tra il principe e l'intellettuale di corte implica che quest'ultimo possa
difficilmente criticare il potere o un sistema del quale egli stesso fa parte, senza esserne
contemporaneamente danneggiato in prima persona.20
Rimane indubbio che la posizione sociale dell'autore influisce la retorica della tragedia
cortigiana poiché, proprio a causa del ruolo del poeta di corte, la letteratura cortigiana
condivide con la tragedia greca anche la caratteristica essenziale del linguaggio ambiguo. La
polisemia diviene in molti casi l'unico mezzo disponibile per il letterato cortigiano che
20 In Anatomia della critica Northrop Frye collega il modo alto-mimetico, cioè l'epopea e la tragedia, alla figura del
cortigiano: «il poeta alto-mimetico è essenzialmente un cortigiano, un consigliere, un predicatore, un oratore, un maestro
di belle maniere, e l'epoca del modo alto-mimetico è quella in cui il teatro, non più nomade, diventa il fondamentale mezzo
di trasmissione della letteratura di invenzione. [...] Di regola il poeta alto-mimetico tende a considerare la sua funzione in
rapporto al comando sociale e divino, tema che è al centro del suo normale modo inventivo.» (Frye, 1969:79)
23
desideri dare un messaggio il quale si distanzi dalla cultura dominante e ufficialmente
accettata.
Non rientra però nei miei intenti evidenziare gli elementi propagandistici della tragedia
di Giraldi; un tale approccio richiederebbe attenzione per le peculiarità del contesto storico e
locale di Ferrara. Analisi con risultati di questo tipo sono già state condotte sulla tragedia
giraldiana che, a causa del suo destinatario ben preciso, dell'ambiente circoscritto, e dello
stretto legame fra autore e committente, si presta facilmente a tale lettura (Lebatteux, 1974;
Lucas, 1987).
Tenendo presenti le caratteristiche della tragedia cortigiana, si è facilmente tentati di
applicare le teorie sociologiche di Goldmann e di cercare un'omologia di struttura tra la
società e il testo teatrale. Tuttavia sia la teoria marxista che quella goldmanniana – le quali si
fondano rispettivamente sui principi rispecchiati dal testo e sulla presa di coscienza collettiva
–, rimangono certamente troppo riduttive. Con Giraldi ci troviamo nel Rinascimento avanzato,
in un periodo caratterizzato non più dall'ottimismo umanistico, bensì dalla confusione
ideologica e epistemologica verso la quale si protende la cultura della Controriforma per
imporre il proprio controllo. In un'epoca che non riconosce nessuna autonomia all'attività
estetica, una delle funzioni principali della letteratura consiste senz'altro nel promuovere
l'adesione a determinati valori sociali, nel conciliare in modo piacevole l'individuo con le
norme sociali prevalenti. Eugenio Garin, e molti altri studiosi con lui, hanno rilevato che una
delle idee-chiave della pedagogia umanistica è quella dell'educare attraverso le arti liberali, la
formazione cioè dell'individuo mediante la seduzione prodotta dalla mescolanza dell'utile
dulci (Garin, 1964:90-93).
Nonostante le ormai ben documentate limitazioni dell'opera, La civiltà del Rinascimento
in Italia di Jakob Burckhardt rimane una delle migliori introduzioni all'uomo del
Rinascimento. Burckhardt, com’è noto, sottolinea che nel Rinascimento si verifica un
cambiamento radicale nella visione dell'individuo e del mondo; nasce allora un uomo il quale
non è più, come nel Medio Evo, fissato ad una posizione sociale prestabilita, ma che è invece
capace di creare se stesso e di determinare il proprio destino. Nel Rinascimento la retorica dà
luogo, infatti, ad una vera cultura teatrale: offre all'uomo il potere di costruire sé e il suo
mondo, di superare gli ostacoli e di calcolarne le probabilità. Burckhardt, additando alla figura
emblematica di Pico della Mirandola, vede questa nuova coscienza come un'espressione di
liberazione individuale, e non tiene conto che proprio a causa dell'incrementata coscienza
delle possibilità di autocreazione dell'uomo (in particolare nel Rinascimento avanzato), la
società impone varie istanze di controllo atte a dirigere questa formazione. Come è stato
messo in chiaro dal Freud, ma anche da Althusser e Foucault, ogni specie di civiltà dipende
dalla repressione, e la letteratura gioca una parte notevole in questo controllo di valori, di
comportamenti e di significati. Althusser si trova quindi in concomitanza con i primi umanisti
quando rigetta il semplice dualismo storia-letteratura; la conseguenza teorica sta nell'osservare
24
che l'ideologia è onnipresente, perché questa non può essere considerata come un semplice
prodotto della classe dominante, e che anche l'arte e la letteratura svolgono un ruolo
fondamentale nella creazione e nel consolidamento di un sistema ideologico. Come spiega
Jean E. Howard nel saggio The New Historicism in Renaissance Studies:
a new historical criticism has to accept, first, that 'history' is not objective, transparent,
unified, or easily knowable and consequently is extremely problematic as a concept for
grounding the meaning of a literary text; second, that the very binarism we casually
very day reinforce every time we speak of literature and history, text and context, is
unproductive and misleading. Literature is part of history, the literary text as much a
context for other aspects of cultural and material life as they are for it. [...] Rather than
passively reflecting an external reality, literature is an agent in constructing a culture's
sense of reality. (Howard, 1992:28)
E' su questo punto che la corrente critica del nuovo storicismo si distacca da quella forma di
idealizzazione dell'arte di buona parte della critica umanistica, nonché di una branca della
critica marxista: l'ipotesi di Foucault e di Greenblatt sulla letteratura «come parte di», e come
strumento di controllo sociale, sull'arte quale evento che interviene materialmente nella storia,
respinge una visione dell'arte come spazio libero e distaccato dalle norme sociali. La risposta
di Foucault e del New Historicism che rifiutando la semplice dicotomia storia/letteratura, è la
proposta di vedere ideologia, e quindi presenza oppressiva ovunque, secondo la tesi centrale
di Foucault della simbiosi tra sovversione e repressione. Da questa formula è emersa la pratica
di leggere il dramma rinascimentale sia come una rappresentazione del potere che come una
contestazione dell'ideologia del potere. Le critiche contro i seguaci del New Historicism sono
note: l'accusa di praticare un new anecdotism, l'arbitrarietà nella scelta dei documenti storici
applicati alle analisi, e le interpretazioni anacronistiche. Una critica fondamentale è però
rivolta proprio verso l’atteggiamento e l'idea stessa di equiparare la letteratura alla storia,
considerandole ambedue rappresentazioni (Howard, 1992; Pecora, 1989).
E’ sempre problematico valutare come immediato il rapporto tra letteratura e le
strutture socio-economiche, perdendo di vista la mediazione e le norme della letteratura. Ogni
mimesi, ogni tentativo di rappresentazione di una realtà deve sottomettersi alle convenzioni
del proprio strumento o mezzo, e le convenzioni variano da un genere letterario a un altro. I
modelli e la lingua della letteratura costituiscono sistemi diacronici, oltre che sincronici.
Marco Ariani, sottolineando la complessità delle influenze da parte dei fruitori e le diverse
richieste che cooperano nella creazione della tragedia cinquecentesca precisa:
ogni testo tragico cinquecentesco funziona strutturalmente su una duplice
stratificazione di significati; da una parte una instancabile, ossessiva analisi del potere
e delle problematiche cortigiane che vi sono coinvolte (l'attrito fra due etiche, tra un
umanesimo cattolico - e poi controriformistico - e un umanesimo laico, tradotto nel
lacerante antagonismo Ragion di stato - ratio individuale); dall'altro un rovello di
scansione spazio-temporale dell'agogica drammaturgica che non si esaurisce in una
25
mera decodificazione della fabula aristotelica proprio in quanto vi trasfonde tutto un
implesso assai risentito di inquietudini ideologiche, morali, civili. (Ariani, 1977:IX)
La letteratura fa sempre parte del sistema di segni che costituisce una cultura, non viene
prodotta in un vuoto storico e sociale. Per leggere un testo letterario non basta quindi scoprire
i meccanismi della significazione, ma analizzare queste funzioni nel contesto storico in cui
erano destinate ad operare, dove cioè acquistavano valori e significati.
Lo studio di Bachtin su Dostoevskij rappresenta un punto di riferimento obbligatorio
per chi desidera parlare del dialogismo in letteratura, in quanto implica una coscienza
pragmatica che deve comprendere tutte le forme di enunciati, e includere il dialogo tra testi o
discorsi diversi di una data cultura. La parola dell'altro anticipa sempre la lingua del parlante,
perché la lingua porta sempre con sé intenzioni mutuate da usi precedenti. L'approccio
letterario di Bachtin è quindi storicamente fondato: come la lingua, anche la letteratura fa
sempre parte di un contesto ideologico, e costituisce una parte fondamentale di questa
ideologia. Bachtin offre così una nuova definizione dell'ideologia, la quale si distanzia da
quella della critica marxista che lega l'ideologia ai sistemi sociali di potere, per vederla invece
come un sistema di segni e di significati che non riflettono solo la realtà alla quale partecipano.
Dove i critici marxisti parlano di riflessione, Bachtin sostiene che le ideologie si rifrangono
nella letteratura; e la rifrazione è creativa, ed è valida sia per il processo di lettura, che per la
scrittura. Quando nuove ideologie vengono rappresentate nella letteratura, non significa che
sia la società a venire riflessa poiché, come aveva sottolineato anche Corti, la letteratura è un
sistema diacronico. La struttura semiotica, o la visione del mondo creata da una data epoca,
continua a vivere nella letteratura in epoche totalmente diverse creando così modelli di
opposizione e significati nuovi. Nel suo contesto dialogico un enunciato è sempre collegato ad
altri, e in tal modo esso non svolge solo una funzione referenziale o cognitiva ma riceve
inoltre una serie di altre funzioni che dipendono dalla situazione di comunicazione. Ciò
significa sommariamente che per capire un enunciato con la sua intenzione bisogna inserirlo
in una relazione dialogica, cioè studiare l'antagonismo culturale di cui fa parte. Stando a
Bachtin, il lettore non deve trasferirsi mentalmente nella cultura estranea per capirla, perché
un tale progetto utopico non risulterebbe altro che ripetizione. Bachtin si trova quindi in
accordo con Gadamer, quando sostiene che la distanza storica la quale separa il lettore critico
dal testo, non distrugge ma ricrea e collabora a chiarire i segni. Il concetto di dialogo in
Bachtin offre in tal modo la possibilità di considerare il testo nelle sue relazioni linguistiche e
ideologiche. Leggendo testi antichi, non possiamo sostituirci all'autore per apprenderne le
intenzioni, e neppure ricostruire perfettamente le aspettative del suo pubblico storico;
nondimeno, conoscendo in parte la competenza culturale dell'autore, e l'universo testuale in
cui si inscrive il testo attuale, possiamo svelare una parte della rifrazione e del suo gioco
estetico con le idee. Tenere conto del contesto sociale e anche della figura dell'autore quale si
rivela nei suoi testi non significa dunque necessariamente «chiudere il testo», come avvertono
26
i primi strutturalisti e semiologi, bensì, invece, aprire la strada per svelare il potere autonomo
della parola letteraria, anche indipendentemente dalle intenzioni autoriali e dalle costrizioni
sociali.
2.2
LETTORI E PUBBLICO
In Literaturgeschichte als Provokation del 1967, Hans Robert Jauss riprende il concetto del
dialogo di Gadamer per sviluppare un'ermeneutica della ricezione. La teoria della ricezione di
Jauss svela come le opere si creino dalla coscienza implicita dei diversi 'orizzonti d'attesa' dei
lettori: chi scrive è influenzato da quanto conosce del ricevente dei propri testi. Il significato
dell’opera letteraria può, in tal modo, essere concepito come una risposta alle domande poste
dall'autore e dal lettore del testo, e questi ultimi vanno letti come repliche dialogate tra le
aspettative del pubblico e le risposte dell'autore. La teoria della ricezione può certamente
essere applicata quando si lavora con opere scritte su commissione e per un pubblico
particolare. Rimane tuttavia un progetto utopico quello di riuscire ad identificarsi con la
pertinenza sia dell'autore storico che del suo pubblico, e resta anche aperto il problema se una
tale conoscenza arricchisca la nostra interpretazione del testo. Nondimeno, il pubblico storico
può entrare come un fattore tra tanti nella comprensione dei testi drammatici. Una
precisazione pare necessaria: nella presente analisi della tragedia giraldiana, l'esigenza di
considerare il destinatario delle opere non emerge tanto dalla comunicazione istantanea e dal
bisogno di una comprensione 'immediata' del dramma ma, innanzitutto, dal fatto che la
prefigurazione del fruitore da parte del testo è indubbiamente molto più precisa e definita nel
teatro rispetto ad altri generi letterari. E' inoltre carattere proprio della letteratura cortigiana
l’avere un dedicatario esplicito: la maggior parte dei drammi di Giraldi si rivolge, nei prologhi,
alla corte e al duca di Ferrara.
Il pubblico della tragedia rinascimentale era socialmente omogeneo, essendo costituito
dai ceti più elevati della società, dalle corti e dagli intellettuali. La rigida selezione sociale del
destinatario, costituisce difatti inoltre una delle differenze essenziali fra la tragedia greca e
quella cinquecentesca. Come hanno mostrato gli studi antropologici del Vernant, per il
dramma greco era fondamentale il legame con una struttura sociale e politica “democratica”,
quale era appunto la polis ateniese, e il tragediografo greco aveva come destinatario il
"popolo" nella sua totalità. Per i tragediografi cortigiani, invece, il gusto del "populaccio" va
severamente eliminato dall'espressione artistica. Come scrive Giraldi nel suo Giuditio:
Vi dico che è meglio meritar loda appresso dieci, o quindici giudiziosi huomini che
guadagnare il favore di tutto il vulgo, così devete più tosto cercare, di essere lodato da
dotti, quantunque pochi se ne trovino, che dal semplice populaccio. (Giud, 54)
27
Giraldi tuttavia, non scrive tragedie per pochi dotti. E' indiscutibile che alla base della sua
tragedia si trovi un imperativo pedagogico, un desiderio cioè di persuadere il pubblico per
mezzo di storie esemplari. Le opere del nostro autore concepiscono il proprio pubblico come
prototipo di una classe determinata, dotata di una particolare cultura. Marzia Pieri sostiene che
in questi drammi traspare una «costante preoccupazione di adattare la tragedia antica al gusto
moderno e alle esigenze dello spettacolo, nel solco di un pragmatismo teatrale che a Ferrara
aveva già guidato l'opera dell'Ariosto» (Pieri, 1989:142-43). E anche Ariani scrive a riguardo
della tragedia cinquecentesca: «Il teatro tragico esige e progetta una totale identificazione
scena-testo-pubblico all'interno di un chiuso etico-sociale» (Ariani, 1977:XIII).
Jurij Lotman direbbe che la tragedia rinascimentale è caratterizzata dall'«estetica
dell'identificazione», in quanto i suoi codici sono noti al pubblico dall'inizio della percezione
artistica. In Lezioni di poetica strutturale del 1964 Lotman definisce l'arte come modello
analogico della realtà. L'opera letteraria è così collegata all'ideologia ufficiale dell'epoca e ai
«presupposti convenzionali» del testo, in una specie di dialogo fondato sull'accettazione
oppure sul rifiuto dei medesimi. Il testo stesso ha dunque «selezionato il pubblico a sua
immagine e somiglianza», come scrive il semiologo russo, sottolineando anche la necessità
che il pubblico abbia un registro mnemonico in comune con l'autore (Lotman, 1980:191).
Tale somiglianza, però, non deve essere considerata ingenuamente come se fosse una
percezione estetica della realtà storica perché l'affinità risiede pure nel principio stesso delle
due istituzioni del teatro e della cultura cortigiana, in quanto condividono in gran parte i punti
di riferimento. Di qui, afferma Alessandro Fontana:
Filtrata dalla corte, la vita diviene il simulacro di se stessa, tesa tra il gioco e lo
spettacolo, la cerimonia e la parata. La corte stessa, nell'insieme delle sue
manifestazioni, si fa spettacolo e gioco, mostrandosi nell'esteriorità dell'apparenza come
trasparenza pura dell'illusione, come teatro e scena dispiegati; una scena e un teatro non
più per l'altro, come nelle città medievali, né come incontro tra l'altro e lo stesso, come
nei regimi quattrocenteschi, ma spettacolo per lo sguardo dello stesso. (Fontana,
1974:836)
Amadeo Quondam ha messo in evidenza che a partire dalla metà del Cinquecento emerge una
funzione fortemente connotativa del termine 'teatro', in un ambito di significati che è
sottoposto a un processo di iper-semantizzazione. Questo «luogo», spiega Quondam, «ora non
è più territorializzato fisicamente, architettonicamente, non ha più identità fisica: questo
«teatro» è a n dimensioni, è un teatro ovunque, l'ovunque del teatro, della rappresentazione,
della scena» (Quondam, 1987:140). In tal modo si registra nel Rinascimento una confusione
non solo semantica, ma anche istituzionale tra Teatro e Mondo. Ed è difficile, pare superfluo
ripeterlo, trovare un'istituzione più teatrale della corte - società della rappresentazione totale,
teatro nel teatro del mondo:
28
La Corte non solo come committente assoluto, referente non sempre troppo ambiguo,
produttore e nello stesso tempo utente: bensì, soprattutto, come equivalente generale del
teatro cinquecentesco, in tutta la sua complessa e articolata fenomenologia, equivalente
generale proprio del teatro del mondo. (Quondam, 1987:145)
La teatralità è intrinseca all'istituzione della corte; in questo senso i trattati di cortigianeria che
fioriscono nel '500 italiano possono eessere paragonati a manuai per attori. Il modello
culturale della Corte «si sovrappone alla Natura, la allontana, la trasforma in universo della
rappresentazione, in teatro del mondo» (Quondam, 1987:147). Così, la corte diventa non solo
emittente e destinatario dell'opera teatrale ma ne costituisce anche il referente; ed è in questa
specie di corto circuito comunicativo che il nostro scrittore teatrale cerca la massima
comunicazione col proprio pubblico per soddisfarlo e persuaderlo.
Un altro concetto da chiarire preliminarmente è quello del lettore, del quale si sono
occupati molti teorici della seconda metà del nostro secolo, e che è risultato tra l’altro nella
distinzione fra il lettore implicito e il lettore reale. Introdotto da Wolfgang Iser, il concetto di
'lettore implicito' è un'istanza astratta, è il lettore implicato nei testi letterari. Il 'lettore
implicito' può coprire più sottocategorie di concetti tra i quali quello di 'lettore Modello' (il
sintagma adoperato da Umberto Eco in Lector in Fabula per indicare un lettore prediletto
dall'autore, che non concorda necessariamente con il destinatario esplicito delle opere).21 Per
lo scopo del mio studio, bisogna ricordare che un'opera letteraria può anche essere indirizzata
verso più tipi di lettori (Eco, 1979; Lotman, 1980). Traggo sempre da Lector in fabula i
termini più specifici di 'lettore critico' e 'lettore ingenuo', per designare i diversi tipi di
pubblico implicitamente presenti e presupposti nei testi di Giraldi. Questi due ultimi termini
non sono solo astratti ma anche prodotti dalle nostre conoscenze storiche del pubblico
specifico dei drammi. Risulta infatti indubbio che Giraldi, insieme alla composizione di
drammi per la rappresentazione a corte - dunque per un «pubblico ingenuo» -, tiene anche
presente un pubblico di letterati e di critici, i quali che esigono altre e diverse qualità dai
drammi. Proprio a questo pubblico potenziale si rivolge con i suoi trattati poetici quando
difende le proprie innovazioni del genere; perché, come già notato, gli stessi testi drammatici
entrano in una specie di dialogo, partecipando così al dibattito sul genere grazie ad un
pubblico critico e specialista.
Questo lavoro si propone quindi di indagare sul risultato del difficile incontro difficile
tra le norme poetiche da un lato, e le esigenze, ideologico-edonistiche del fruitore della corte
all'altro. A mio avviso, la forma e il contenuto della tragedia di Giraldi possono essere
compresi a fatica se non si tiene conto di questo difficile equilibrismo tra le diverse e anche
21
Precisando, il 'lettore Modello' del quale discute Eco è un lettore che comprende correttamente il significato
di un testo, per cui l'orizzonte dell'interpretazione si fonde con quello del testo, e che è «capace di cooperare
all'attualizzazione come egli, l'autore, pensava, e di muoversi interpretativamente così come egli si è mosso
generativamente» (Eco, 1979:55). Si tratta dunque di un'istanza ideale di destinatazione verso cui il testo si
muove.
29
contrastanti richieste del suo pubblico. Le aspettative del pubblico, scisso tra una schiera di
letterati e la corte, fanno sì che i testi, nonostante le loro qualità rinnovatrici, si mantengono a
una distanza rassicurante da ogni eccesso e provocazione. Da ciò anche i giudizi di mediocrità
che la critica ha espresso nei confronti dei drammi, come quello di Mario Apollonio che
sostiene che Giraldi «non seppe uscire dal suo comodo compromesso, non fu né il poeta della
tragedia oratoria proposta dai letterati, né il poeta della tragedia teatrale che gli si rivelava
improvvisamente possibile e necessaria: anzi fu conformista come tutti i dilettanti»
(Apollonio, 1951:225). Resta però da discutere se la soluzione originale di Giraldi, della via di
mezzo tra il teatro oratorio e dotto e una «tragedia teatrale» vada considerata come
conformista; forse è tutt'altro, e cioè un teatro nuovo che osa uscire dalla prassi degli umanisti
per sperimentare strade che, nonostante o proprio perché, sono richieste da un pubblico
ingenuo, risultano innovative.
Un’illustrazione dell'adattamento al pubblico si trova in uno dei dialoghi di Giraldi: il
dialogo sull'amore che fa da introduzione agli Ecatommiti, e che si conclude con
l'affermazione dell'impossibilità di trattare di una materia così vasta e a tal punto appesantita
da asserzioni filosofiche anche contrastanti. «Voglio - dice uno dei giovani interlocutori del
dialogo - che si lascino le contemplazioni, e le sottigliezze, che voi dite, che sono intorno ad
Amore, a maggiori Philosophi, e a più sottili ingegni, e a migliore occasione, e che
ristringendo la sua ampiezza, di quello Amor si parli, che conviene a questi tempi e soggiace
a sensi nostri, e di giorno in giorno nella vita ci occorre» (Ec, 15, c.n.). Sono parole che,
nonostante siano topoi fisse nei dialoghi d’amore nel Cinquecento, testimoniano la
preoccupazione onnipresente in Giraldi di adattare l'arte e l'espressione «a questi tempi». Il
dialogo si riduce quindi, a grandi linee, alla trattazione dell'amore mondano e fisico, e gli
interlocutori decidono di raccontare le novelle che sono «esempi di vari avvenimenti», i quali,
a differenza dei sofisticati discorsi filosofici in voga, «non possono ingannare»:
Et perciò, accioché si possano questi giovani appigliare al vero, non vi essendo cosa,
che più faccia fede appresso gli uomini, che gli esempi (perche essi soppongono, quasi
in fatto a gli occhi altrui il vero, di modo che, chi, co gli esempi si regge, nelle cose, che
i deon fare, può quasi dire di fare due volte, e perciò essere quasi sicuri di non potere
errare) sia bene, che ognuno di noi intorno alla presente materia adduca, in vece di
ragioni, esempi di cose avenute, che da ciò potrà ognuno di voi molto melio trarne il
vero, che da sillogismi da altri argomenti, che dall'una, e dall'altra parte si potessero
addure [...] Ma gli esempi di vari avenimenti non possono ingannare, anzi fanno certa
fede del buono, e del reo. (Ec, 35)
Anche i prologhi dei drammi si rivolgono ai due tipi di pubblico, quello in platea e quello di
fronte al testo, e che vanno incontro ad una doppia esigenza: da un lato vogliono preparare il
pubblico dotto alle innovazioni delle tragedie, rispetto a quanto prescritto da Aristotele, e
quindi anche difendere «il poeta dalle calunnie a lui date dagli invidiosi e malevoli» ( DCT,
202), sia rassicurare l’ingenuo pubblico cortigiano. Da un lato, quindi, il prologhista dell'Altile
30
si rivolge ai «tanti alti signor, tant'alte donne nobil in sommo» con un tono rassicurante e
apologetico; dall'altro, invece, al pubblico colto, ai «tanti spiriti illustri», tuttavia in maniera
più teorica e secca; non solo perché tra questi ultimi ci sono «molti, e molti Invidi spirti» che
«come can, che di nascosto prenda, / Danno di morso alle scrittura altrui», ma anche perché la
tragedia non è scritta per loro. Anzi, il Prologo dell'Altile chiede alla corte, se non protezione,
almeno di rimanere sorda di fronte alle critiche dei dotti, precisando che la tragedia mira a
«sodisfare à chi sodisfar deve». Cito alcuni versi significativi dal Prologo della Selene, che
implicano una chiara discriminazione del pubblico a favore della corte, e a dispetto degli
accademici:
Ora benignamente, Spettatori,
Dateci orecchio, e se sentite alcuno,
Che con maligna, e velenosa lingua,
(Cosa ch'à nostri dì si fà sovente)
Cerchi empir di velen questa reale
Favola, ch'esce ad util vostro in scena,
Ditegli ch'egli parli col Poeta,
Che 'nsino ad hora, egli gli s'offre pronto
Di rendergli ragion di tutto.
Nel Prologo della Selene viene poi anche sottolineata l'idea della maggiore efficacia educativa
della poesia, e del teatro, rispetto alla filosofia, su questo pubblico ingenuo: «I savi, dunque,[...
/... /]Le scienzie trovano, et i precetti, / Onde lo stuolo uman veder potesse / Che fosse la virtù,
che fosse il vizio, [/.../.../.../] Ma perché ognun non era atto apparare / Da tali il meglio de
l'azioni umane, / Sorsero genti di miglior giudizio, / E seco statuirono, che 'l porre / Vera
sembianza de' soccessi umani, / Ne gli occhi de le genti, far potesse / Vedere in fatto à ognun
la miglior vita».
E' questo uno dei punti fondamentali in cui le teorie di Giraldi coincidono con quelle
di teorico Vincenzo Maggi (1498-1564). Come nota Horne: «There is a passage in Maggi's
commentary on chapter 9 of the Poetics were he makes the surprising statement that a
tragedian should put the requirements of the less cultured majority of the audience before the
sublter tastes of the cultured few, and base his play on a fictious plot» (Horne, 1962:35). Il
dilemma del nostro tragediografo è quindi dovuto al fatto che, sebbene la tragedia classica si
presti facilmente a scopi propagandistici, tuttavia l'estrema severità della forma e le richieste
di competenze culturali del suo pubblico non si adattano facilmente ad un uditorio cortigiano,
il quale auspica una cultura facilmente fruibile e abbisogna di lezioni etiche più vicine alla
propria situazione esistenziale. Si rivela così fondamentale il ruolo del pubblico ingenuo nelle
opere giraldiane: l'autore sa, conoscendolo, che i suoi gusti sono conservatori, nel senso che
esso si aspetta dai drammi un'attualizzazione della propria competenza culturale. La tragedia
sul modello classico greco poteva dunque difficilmente presentarsi al pubblico ferrarese,
abituato a spettacoli comici, cortei e trionfi. In tale modo la pigrizia e la mentalità
31
conservatrice del pubblico non specialista riescono - proprio a causa dell'introduzione di un
genere al quale esso non è abituato -, a rinnovare la tragedia, mentre l’uditorio esperto in
materia si assume il ruolo conservatore, a controllare se la normativa del genere sia stata
rispettata.
Rimane anche da chiarire, per quanto riguarda la recezione, la problematica dello
spettatore. Com’è noto, il lavoro teorico degli ultimi cinquant'anni ha ridato vita e risarcito il
testo teatrale del suo valore spettacolare. In Italia, attraverso il Rinascimento, ciò ha avuto
conseguenze in particolare per l'approccio critico al teatro comico, ai cortei e alle feste, invece, ha toccato meno la tragedia, dovuto sia alla mancanza di documentazioni, sia alla sua
natura prevalentemente oratoria.22 Questo riguarda anche il dramma del ferrarese che,
nonostante sia composto per la messinscena, è stato considerato dagli studiosi
prevalentemente come testo, ignorandone quindi gli aspetti spettacolari. Ora, nonostante
l’importanza che Giraldi assegnava alla funzionalità spettacolare, gli allestimenti esulano dal
campo d'indagine del mio studio, che prende in considerazione unicamente la testualità dei
drammi.23 Il complesso problema del rapporto tra il destinatario e i testi diventa
particolarmente intricato se si considerano i testi come spettacoli teatrali, composti per la
messinscena e quindi per una ricezione istantanea e collettiva. La rappresentazione teatrale
implica un sistema semiotico estremamente complicato che si sviluppa attraverso diversi
canali simultanei. Inoltre, si presenta il problema che gli spettacoli sono sempre varirispetto al
testo invariante: per cui la comunicazione teatrale, cioè lo hic et nunc degli attori e del
pubblico viene, in questa lettura, necessariamente intesa come astrazione.24 Apparirà dunque
22
«L'origine schiettamente letteraria della tragedia classica del Cinquecento, e il fatto che i primi saggi di essa
per lungo tempo non furono rappresentati, ha indotto la maggior parte dei critici a trascurare, nella
considerazione di quelle opere, l'elemento scenico» scrive all'inizio del secolo Ferdinando Neri (Neri, 1904:167);
e si tratta di una denuncia ripresa all'inizio degli anni settanta da Ariani, nell'introduzione alla raccolta
einaudiana La Tragedia del Cinquecento.
23 Si potevano trovare giustificazioni autorevoli per un approccio puramente testuale nella Poetica di Aristotele, la quale
contiene numerosi passi dove si afferma che i testi teatrali devono essere giudicati come le altre opere letterarie, vale a
dire solo sulla base testuale, prescindendo quindi del tutto dalla rappresentazione. Anche Giraldi si riferisce ad Aristotele
nel suo Discorso, postulando l'autonomia del testo dallo spettacolo perché «dee essere la composizione della favola tale,
che, levato lo spettacolo, induca tali effetti negli animi di chi legge»: «non è lo spettacolo che da sé induca la
commiserazione, ma le affettuosissime parole, mandate fuori con affetto compassionevole, il quale affetto, se bene
riuscisse più veemente nello spettacolo, rimane egli nondimeno molto vivace nelle parole che tale affetto esprimono
levatone lo spettacolo» (DCT, 187, 188).
Sulla problematica intorno alla fruizione scenica dei drammi di Giraldi si veda: N. Savarese, “Per un'analisi scenica
dell'Orbecche di G. Giraldi Cinzio”, Biblioteca teatrale, Roma, 1972, n. 2, pp. 112-57; M. Pieri, “Mettere in scena la
tragedia. Le prove del Giraldi”, in Schifanoia, Modena, 1986, n. 12, pp. 128-40; G. Attolini, Teatro e spettacolo nel
Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 206-12; F. Scrivano, Finzioni teatrali da Ariosto a Pirandello, MessinaFirenze, Casa editice G. D’Anna, 1982, pp. 87-97.
24 Nel mio lavoro si terrà dunque conto della ricezione come dato iscritto nei testi, cioè come un'entità culturale
verso la quale il testo si dirige. Questo implica anche il tenere conto del fatto che chi scrive drammi per la
messinscena sa che il suo pubblico non può, allo stesso modo del lettore, soffermarsi sul testo, rileggere alcune
parti non chiare, concedersi delle pause da riflessione ecc.. Questa minore libertà del pubblico drammatico esige
la creazione di effetti immediati, cioè di dare un peso particolare all'emotività che viene rafforzata dalla
ricezione collettiva.
32
chiaro che si ricorrerà per lo più al concetto di 'pubblico', e solo eccezionalmente a quello di
'spettatore'.
Ora, sebbene il concetto di lettore implicito sia nuovo, l'idea della partecipazione del
lettore alla creazione dell'opera letteraria risale ad Aristotele; ed era un punto centrale anche
per la critica rinascimentale l'individuazione di quelle qualità del testo che si possono ricavare
mediante lo studio dei suoi effetti sul pubblico-lettore. Una delle differenze essenziali rispetto
alla critica moderna sta però nel fatto che, mentre l'enciclopedia intertestuale del lettore
implicito è un fatto cognitivo, i teorici del Cinquecento non si preoccupano preliminarmente
della frustrazione del povero lettore nel caso in cui le sue aspettative non vengono soddisfatte;
e rivolgono anzi tutto l'attenzione alla creazione dell'effetto emotivo della tragedia. La retorica
diventa in tal modo uno strumento per il dominio e lo sviluppo delle passioni, - giungendo al
suo culmine nel '600 con gli esercizi nelle scuole dei gesuiti.
2.3
L’AUTORE TRA TEORIA E PRASSI DRAMMATICA
E’ vero che il significato della parola orale è sempre, in un certo senso, ostensiva e dipendente
dal contesto storico e concreto, mentre un testo letterario si rivolge a un pubblico illimitato e
variegato. Comunque, spiega Jonathan Culler, il rifiuto da parte di teorici come Paul Riceour
di prestare attenzione all'intenzione autoriale nel modo in cui questa si esprime nell'opera,
apre soltanto ad un'altra, e più astratta, specie di intenzionalità: quella del testo stesso.25
Assumere un livello testuale come espressione dell'intenzione autoriale, rende possibile una
lettura che drammatizzi le relazioni tra il soggetto, la lingua e la testualità. L'intenzionalità
autoriale esplicita non coincide necessariamente con la retorica del testo; è questo uno dei
conflitti latenti in ogni affronto alla letteratura che tenga conto del suo contesto storico.
Possiamo paragonare le intenzioni della poetica esplicita dell'autore, ai testi drammatici,
tenendo quindi conto del fatto, sottolineato in genere dai semiologi, che l'autorialità di
un'opera non va confusa con l'autorità. Per quanto riguarda l'intenzionalità autoriale considero
le osservazioni di Cesare Segre, il quale scrive che il Cinquecento vede il sorgere di un nuovo
tipo di progettazione letteraria, costituita da prefazioni, pamphlet letterari e manifesti. Questi
'manifesti' si distinguono dalle poetiche conservatrici per il loro impianto diacronico. Secondo
Segre, il “manifesto” letterario è in genere caratterizzato da questi elementi:
1) la prospettiva schiettamente diacronica, nel senso che essi contestano il sistema
letterario vigente, o comunque propongono mutamenti, per lo piú settoriali, a tale
sistema; 2) il riferimento a un modello del mondo, nel senso che essi giustificano la
necessità del rinnovamento riferendosi a esigenze della cultura contemporanea che il
25
Difatti, anche per un decostruzionalista come Derrida, l'intenzione può venir concepita alla stregua di un
effetto speciale, di un prodotto testuale, dunque come parte del significato del testo. In questo senso, l'intenzione
non è qualcosa che esiste prima del testo e ne decide il significato, ma è invece una struttura organizzatrice la
quale si manifesta nelle letture che scelgono una via d'argomentazione piuttosto di un'altra (Culler, 1988:198-9).
33
sistema vigente non soddisfa; 3) la sostituzione di una formulazione esortativa, ottativa,
a quella normativa propria delle poetiche. (Segre, 1985:299)
Mentre le poetiche descrivono l'insieme del sistema letterario, i manifesti esprimono invece la
volontà d’innovazione. Nel caso di Giraldi, la descrizione di manifesto può venir applicata
non solo ai prologhi delle tragedie e alle lettere, ma anche alle poetiche, che non accettano in
tutto le regole poetiche vigenti, bensì vogliono sottolineare il bisogno di mutamento e di
innovazione. Risulta quindi interessante cogliere non solo le divergenze tra le regole
aristoteliche ed i trattati poetici di Giraldi, ma anche quelle tra la poetica esplicita e quella
implicita, o operante, dell'autore ferrarese.
2.5 L’INTERTESTUALITÀ
Il Cinquecento è un secolo caratterizzato dalla decadenza dell'inventio a favore della
dispositio e dell'elocutio; o, più correttamente: l'inventio umanistica consiste nel trovare e
ricavare testi, figure, strutture, e va quindi considerata un processo intertestuale di altissima
potenza. Fra i testi c'è un continuo dialogo: durante il Rinascimento quasi tutta la letteratura è
in realtà rifacimenti, traduzioni, parodie, citazioni, imitazioni, riassunti di testi antichi o
contemporanei. D'altronde, com’è impossibile dire una cosa mai detta prima, è anche vero che
affermando le stesse cose non si esprime il medesimo significato: l’imitazione, anche quando
pretende di essere traduzione, resta sempre un'interpretazione. Così anche nel teatro
rinascimentale, dove si riversa tutto il bagaglio letterario derivato dalla letteratura classica,
che diventerà un modello di riferimento nei secoli seguenti. Le riscritture del Rinascimento
non erano però automatiche, ma quasi sempre il risultato di una scelta conscia e di un modello
preciso, che svolgeva la funzione di riferimento storico, o meglio, di modello ideale. E' anceh
da questo gioco con fonti che nel secondo Cinquecento sorgerà il manierismo letterario, in
una mimesi non più ontologica ma tutta retorica, in un anti-naturalismo polemico che segnerà
un distacco dal mondo delle cose e dei sensi verso una desemantizzazione dei testi e un libero
gioco di mondi fantastici.
La competenza letteraria del tragediografo non si limita ovviamente alla letteratura
drammatica; anche perché non è neanche corretto considerare i tragediografi come uomini di
spettacolo in quanto, nella stragrande maggioranza, si tratta di intellettuali che sulla scia degli
ideali umanistici, coltivavano vari interessi culturali. Dunque, sia per il letterato
cinquecentesco che per il critico che si avvicina alle sue opere viene richiesta, a fianco della
pertinenza diacronica costituita dalla tragedia antica e dalle poetiche classiche, una
competenza sincronica, cioè una conoscenza della cultura coeva.
Le relazioni tra il teatro antico e quello del Cinquecento rivelano una delle principali
caratteristiche del Rinascimento: la presa di coscienza delle differenze tra la cultura antica e
34
quella contemporanea. Il concetto della rinascita della tragedia si collega agli studi filologici
dell'autore, alla sua conoscenza dei testi classici e del mondo antico, mentre il progetto di
creare una nuova tragedia è legato all'ideologia, alla filosofia e alla letteratura contemporanee.
Ed è proprio quest'ultimo aspetto che riceverà l'attenzione maggiore nel presente lavoro in
quanto, come si è visto, in Giraldi prevale l'idea di creare una tragedia moderna, sempre più
distanziata dai modelli antichi. Esige quindi che lo studio intertestuale delle tragedie tenga
conto non solo delle fonti primarie, ma anche della complessità della selezione e
dell'elaborazione degli intertesti all’interno dei testi.
I termine 'intertestualità' fu introdotto da Julia Kristeva nel 1669 nella sua
presentazione delle teorie bachtiniane della lingua letteraria come dialogo (Kristeva, 1969).26
Il concetto che sta alla base della teoria è quello di considerare un testo come una
combinazione, o meglio, come una tessitura di molti testi (scritti e non). In un dato testo se ne
trovano altri precedenti e l’opera va quindi analizzata come il risultato di un incrocio fra testi.
Gli enunciati trasportano in un altro contesto il senso del testo di partenza, e interagiscono con
le strutture del testo nuovo: più rimandi ci sono, più il testo funziona come produttore di nuovi
e ulteriori significati.27 Ai critici che si sono occupati dell'ambiguità del termine
'intertestualità' appartiene Cesare Segre, il quale in un saggio del 1982 tenta di eliminare il
carattere polisemico del concetto di Kristeva, per chiarire se esso indichi unicamente
intersezioni fra testi, oppure se abbia un senso più lato, riferendosi agli incroci fra enunciati.
Il Segre nota anche che questa ambiguità del termine può creare dei problemi metodologici
nel lavoro letterario, poiché non distingue tra le interrelazioni fra i testi e «i movimenti
linguistici e tematici e gli archetipi dalla cui combinazione i testi, ad opera degli autori,
risultano» (Segre, 1982:23).28 Segre indica quindi con ‘intertestualità’ anche la critica delle
fonti di un testo; di qui propone di introdurre, sempre per influenza di Bachtin, il termine
'interdiscorsività':
Poiché la parola intertestualità contiene testo, penso sia usata più opportunamente per i
rapporti fra testo e testo (scritto, e in particolare letterario). Viceversa per i rapporti che
ogni testo, orale o scritto intrattiene con tutti gli enunciati (o discorsi) registrati nella
26 J. Kristeva, Recherches pour une sémanalyse, Seuil, Paris, 1969. Per il mio lavoro ho utilizzato la raccolta di saggi
inglese, Desire in language. A Semiotic Approach to Literature and Art, Oxford, Basil Blackwell, 1989. Questa racccolta
contiene i due articoli più importanti delle Recherches: Bounded Text e Word, Dialogue, and Novel.
27 Successivamente, negli anni Settanta -, nell’opera La rivoluzione del linguaggio poetico, Kristeva prende le distanze da
una comprensione dell'intertestualità come individuazione di fonti e citazioni, - cioè come ricerca dell'influenza di un
preciso autore su si un altro, spiegando invece che l'intertestualità riguarda i componenti di un sistema testuale: si tratta
della "trasposizione" ad un altro contesto di uno o più sistemi di segni. L'intertestualità dei testi crea quindi polisemia.
Con il termine 'trasposizione', Kristeva si collega alle idee del Bachtin sull'eteroglossia e sull'interdiscorsività, vale a dire
sulla messa in luce della vita seminascosta della parola altrui in un nuovo contesto. Ma, a differenza del Bachtin, la
Kristeva esclude ogni intenzionalità autoriale dall'intertestualità, rendendola così un processo semiotico appartenente ad
uno spazio non storico e conscio ma puramente testuale, cioè alla profondità del testo. Secondo Kristeva, le citazioni
esplicite e chiare rappresentano un rapporto simbolico, e non semiotico fra i sistemi di segni.
28 L'elaborazione dei concetti si trova anche in "Intertestualità e interdiscorsività" in Segre, Teatro e Romanzo. Due tipi
di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1989, pp. 103-18.
35
corrispondente cultura e ordinati ideologicamente, oltre che per registri e livelli,
proporrei di parlare di interdiscorsività (con neologismo affine alla pluridiscorsività di
cui parla Bakhtin). (Segre, 1982:24)
Con il termine 'pluridiscorsività' Bachtin intende la presenza di diversi discorsi, di diverse
lingue intorno alla stessa lingua o discorso, ciascuno contenente un punto di vista ideologicoverbale sul mondo, poiché ogni parola porta in sé i contesti nei quali è stata usata in
precedenza ed è dunque caricata di intenzioni esterne. Il termine 'interdiscorsività', che
riguarda innegabilmente anche la critica letteraria sociologica o neo-storica, potrebbe quindi
essere valido per indicare quegli influssi fra un dato testo e il suo contesto storico e letterario
che non risultano individuabili con certezza e precisione nell'analisi dei drammi.
Questo tipo di lettura è vicina alla pratica del New Historicism, inaugurata da Stephen
Greenblatt nel suo Renaissance Self-fashioning (1980). Difatti, come il Bachtin, anche
Greenblatt e la sua scuola includono l'influsso di altri generi di testi in quelli letterari,
rivelando che, ad esempio, i drammi dello Shakespeare contengono allusioni a documenti
penali e di medicina, trattati di politica, ecc.. Tuttavia, a differenza del Bachtin, la pratica del
nuovo storicismo tende a negare che i testi letterari abbiano uno status diverso da altri generi
di testi: la letteratura non è - come viene invece considerata dai formalisti russi -, una forma di
scrittura isolata e auto-sufficiente.
Per il fine specifico di questo studio che, se vuol essere un approccio neo-storico, in
quanto tiene conto del contesto storico, contemporaneamente accetta il lavoro semiotico
autonomo del linguaggio poetico, propongo allora di parlare di intertestualità anche per le
palesi connessioni fra i drammi giraldiani e le fonti principali, i testi contemporanei o anteriori.
Questa specie di intertestualità è “conscia" pure nel senso che è quella dell'autore in grado di
produrre sistemi di segni convenzionali ed armonici, secondo un dato programma estetico e
morale che può essere individuato dalla sua poetica esplicita. Di conseguenza, il neologismo
di Segre sull'interdiscorsività potrebbe venir più facilmente individuato negli elementi
disarmonici del testo, in ciò che il testo produce indipendentemente, e anche a dispetto delle
convenzioni poetiche tradizionali. In questo modo l'intertestualità, il dialogo ermeneutico di
Bachtin e la teoria della ricezione di Jauss possono coesistere in un unico processo di
interpretazione.
Ogni opera letteraria contiene per definizione un'iniziativa di riattualizzazione di testi
già esistenti, e ciò vale in particolar modo per le opere drammatiche in quanto esse, con il loro
statuto performativo e l'organizzazione dell'intreccio, sono spesso adattamenti mimetici di
fabule diegetiche. Il lavoro preliminare per gli autori che volevano ricreare la tragedia
consisteva quindi nel reperire i modelli adatti, e questi non andavano cercati solo nei drammi
antichi, ma anche nella lirica coeva per la lingua, nella novellistica e nell'epopea per poter
creare nuovi eroi, e nella trattatistica per trovare i nuovi problemi che potevano essere assunti
come conflitti tragici. Nello studio comparatistico tra le fonti e le tragedie giraldiane sono
36
quindi le variazioni, le parti non utilizzate e le deviazioni rispetto alla fonte primaria, a
fornirci le informazioni più interessanti. E' chiaro che l'abisso culturale che sussiste tra il
modello antico della tragedia, la sua reinterpretazione rinascimentale e un lettore del XX
secolo non possono essere indicati con certezza senza rischiare ulteriori anacronismi
interpretativi. Per cui, quando leggiamo le opere tragiche tenendo presenti le loro fonti,
dobbiamo non solo poter circoscrivere le conseguenze dello spostamento del contenuto
semantico da un contesto storico ad un altro, ma anche rivelare le modalità secondo i quali il
messaggio è stato codificato in un diverso sistema letterario.
2.5 UN CROGIOLO DI GENERI
Tra i molti approcci critici nei confronti della tragedia cinquecentesca, due hanno dominato il
terreno negli ultimi decenni. Il primo è costituito da un'analisi in prospettiva ideologica e
storica, mentre l'altro ha concentrato la ricerca sulle relazioni fra la critica teorica delle
poetiche cinquecentesche e le varie produzioni drammatiche. Questi due diversi indagini, se
assunte separatamente, danno inevitabilmente una visione parziale delle tragedie giraldiane.
Tale esclusivismo è, a mio avviso, particolarmente svantaggioso, perché si ha a che fare con
uno dei generi letterari più esplicitamente pragmatici; per di più situato in un secolo in cui la
retorica tende a proporsi come una disciplina egemone, applicata in tutti i campi del sapere.
Con il mio studio desidero quindi intrecciare le due direzioni: cercare di considerare i
drammi come partecipanti al grande dialogo ideologico e speculativo del secolo e scoprire gli
strumenti retorici adoperati nell'elaborazione dei diversi topoi nei drammi. L’analisi sui
motivi e sulle strategie retoriche impiegate nei drammi di Giraldi sarà costituita sia da una
ricerca contestuale e intertestuale, sia da uno studio retorico. Le analisi le quali tengono conto
in prevalenza delle poetiche e dei modelli antichi delle tragedie rischiano anche di valutare la
tragedia rinascimentale come un'immagine sfigurata dei modelli antichi, non considerando
cioè gli altri e contemporanei livelli culturali che influenzano i drammi. Nel presente lavoro i
riferimenti alle poetiche coeve saranno, di proposito, molto limitati, prendendo maggiormente
in considerazione gli scritti teorici di Giraldi. Quanto alle sue concezioni teoriche sul dramma,
mi riferirò anche al Discorso sul comporre dei romanzi non solo perché questo si rapporta
spesso alla tragedia, e perché il dramma di Giraldi ha tratti epici, ma anche per il fatto che gli
aristotelici consideravano la tragedia e il poema come generi affini. Weinberg sostiene infatti
che il Discorso sul comporre delle comedie e delle tragedie non è altro che un'applicazione ai
generi della tragedia e della commedia dei principi già scoperti per il romanzo (Weinberg,
1961:439).
La tragedia in generale e, nella fattispecie, quella giraldiana, che esplicitamente
annuncia un fine educativo, esige un adattamento al suo pubblico; per cui l'autore si allontana
37
da Aristotele e dai greci su molti aspetti, per cercare motivi e modelli nella letteratura
contemporanea. Uno dei mezzi più evidenti della persuasione drammatica di Giraldi è
costituita dalla mescolanza di generi letterari, in quanto la sua produzione rappresenta una
tappa fondamentale verso lo sviluppo del nuovo genere della tragicommedia.29 Il presente
lavoro intende allora aprire uno spiraglio sul problema del genere della nuova tragedia, e così
porre la domanda se la tragedia, come viene esemplificata da Giraldi, sia soltanto un'ibrido
surrogato (Ariani, 1974:142), cioè un insieme superficiale di diversi generi e temi letterari;
oppure se si debba riconoscere in essa un nuovo genere letterario che, per le sue qualità
proprie, si svilupperà nel tempo fino a diventare il genere drammatico dominante nell'era
moderna.
La validità storica di un genere letterario ha interessato la parte migliore della critica
storica del nostro secolo, e relativamente alla tragedia, basta citare i nomi di Benjamin,
Goldmann e Szondi. Il genere letterario è il frutto di un processo storico e letterario; il genere
può dunque definirsi, e ricorriamo alle parole di Maria Corti, «il luogo dove un'opera entra in
una complessa rete di relazioni con altre opere» (Corti, 1976:156). Sul rapporto fra i generi
letterari nel '500 può essere interessante ricordare le parole di Bachtin nella conclusione del
sul lavoro su Dostoevskij:
Ogni nuovo genere non fa che completare i vecchi, allargando la cerchia dei generi già
esistenti. Giacche ogni genere ha la sua sfera privilegiata. [...] Così nessun nuovo genere
artistico elimina e sostituisce i vecchi generi. Ma al tempo stesso ogni nuovo genere
essenziale e importante, una volta apparso, esercita un'influenza su tutta la cerchia dei
vecchi generi: il nuovo genere rende i vecchi generi, per cosí dire, piú coscienti; li
costringe a meglio riconoscere le proprie possibilità e i propri limiti, cioè a superare la
propria ingenuità. [...] L'influenza dei nuovi generi sui vecchi, nella maggioranza dei
casi, contribuisce al loro rinnovamento ed arricchimento. (Bachtin, 1968:353-4)
Di conseguenza l'intertestualità concerne anche la problematica del genere letterario in quanto
riveste una funzione progettuale e normativa che indica una determinata tradizione
contenutistica e formale. Nell'Introduzione all'architesto Genette sottolinea che i generi
letterari dipendono sia dai modi rappresentativi, quali il lirico, l'epico, il drammatico, che
dalle categorie tematiche, cioè dagli oggetti (Genette, 1981). La scelta del genere si pone
29 Si può leggere, a tale proposito, la giustificazione che Walter Benjamin fornisce della propria scelta di testi-campioni
del suo saggio sul dramma barocco tedesco:
«Un conto è impersonare una forma, un altro è plasmarla. Se la prima è affare del poeta eletto, la seconda
avviene spesso, e in modo incomparabilmente più significativo, nei faticosi tentativi dei più deboli. La forma
stessa, la cui vita non si identifica con quella delle opere che essa determina, anzi la cui articolazione può essere
talvolta inversamente proporzionale alla perfezione dell'opera letteraria, risulta spesso evidente precisamente nel
gracile corpo dell'opera difettosa, in certo modo come il suo scheletro.» (Benjamin, 1980:39)
38
dunque come ricerca di uno specifico modello interpretativo della realtà, che per la tragedia
rinascimentale significa rappresentazione di un soggetto serio e nobile.
Una caratteristica della letteratura cinquecentesca è costituita dal ricco panorama di
interrelazioni tra i generi letterari che, mediante una ricodificazione teorica e una continua
contaminazione di fonti e generi diversi, cercano una nuova stabilità. La commedia
cinquecentesca riflette questa ricerca. In particolare, a partire dagli anni '30, le commedie
degli Intronati di Siena contengono elementi tragici: uno sviluppo che continuerà lungo tutto
il secolo con l'introduzione delle commedie dei giochi simulati delle morti apparenti e della
minaccia della catastrofe. Ed anche la tragedia si manifesta nella prima parte del '500 in varie
forme che non concordavano con quelle raccomandate da Aristotele: fu Carlo Verardi, con il
suo Ferdinandus Servatus del 1494 il primo ad impiegare il titolo plautino della
tragicommedia (Ristine, 1963:19; Herrick, 1962:63).
La tragedia era stata però risparmiata da una programmatica sperimentazione generica
finché non scese in campo Giraldi. Questi oltrepassa una barriera quando nella sua poetica - il
Discorso sul comporre delle comedie e delle tragedie - dichiara che non è solo legittimo ma
anche preferibile introdurre materia nuova e inventata nelle tragedie. E' vero che al tempo di
Giraldi vigeva l'uso di ricorrere alle novelle come fonti delle tragedie. Da buon aristotelico
Giraldi non valuta molto la novella se viene considerata separatamente e non come parte
integrante dell'insieme pedagogico del novelliere. Il mettere in scena le proprie novelle può
costituire, tuttavia, un'occasione per rivalutarle e contemporaneamente per poter presentare un
materiale nuovo e originale.
Ora la storia dei testi di Giraldi presenta molti problemi circa la cronologia e la
datazione; questo riguarda anche il novelliere. Mentre è indiscutibile la stretta dipendenza tra
novelle e drammi giraldiani, rimane però problematico - almeno per quanto riguarda le prime
tragedie di Giraldi -, accertarne la successione cronologica; cioè se le novelle siano le fonti
dei drammi, oppure se il rapporto tra i due testi sia inverso.30 Secondo la Pieri, l'ipotesi più
probabile è che sia comunque esistita una fonte narrativa del soggetto drammatizzato, benché
non esattamente nella forma in cui la troviamo nella stesura conclusiva degli Ecatommiti
(Pieri, 1978b:69). Un sostegno a favore di questa tesi si trova nella dedica al cardinale S.
Donno Alvigi da Este della seconda deca degli Ecatommiti, la quale contiene proprio le fonti
30
Si sa con certezza che la stesura degli Ecatommiti comprende molti anni e Giraldi stesso dichiara di essersi dedicato
alla composizione delle novelle in due periodi diversi, prima in età giovanile, quindi dopo un arco di trent'anni per
completare la raccolta (Villari, 1988). In una lettera allegata all'editio princeps del 1565, l'autore scrive che nel 1563
aveva composto soltanto 70 delle 113 novelle contenute nella stesura finale. L'incertezza intorno alla datazione delle
diverse novelle rappresenta un problema poiché, mentre la drammatizzazione di una fonte narrativa comporta in genere
un'economizzazione del raggio d'azione, la riscrittura in chiave novellistica di un dramma implica invece un'espansione
sia temporale, che spaziale.
Come notato da Horne, un dato che porterebbe a stabilire la composizione dei primi drammi, in particolar modo
dell'Orbecche, sia avvenuta prima della stesura finale delle rispettive novelle, è che questi drammi dimostrano un
rapporto intertesutale più complesso, nel quale gli episodi e le citazioni da altre fonti drammatiche sono più evidenti,
rispetto ai drammi successivi (Horne, 1962:57).
39
dell'Orbecche, dell'Altile e degli Antivalomeni, dove Giraldi scrive: «Imaginandomi, che,
come ella si prese molto diletto in vedere rappresentare in scena questi argomenti Tragici, così
non le debba essere hora discaro leggergli in quella guisa descritti, che mi porse materia di dar
loro forma di Tragedia.»
L'insicurezza intorno alla successione cronologica tra novella e fonte non ci impedisce
però di indagare sui modi di adattamento secondo i codici dei diversi generi letterari. Le
variazioni rispetto alla fonte primaria possono essere considerate alla stregua di tentativi da
parte dell'autore di rafforzare il messaggio etico, di rendere l'intreccio più ricco, di
meravigliare il pubblico che conosce la fonte principale; oppure possono semplicemente
svolgere una funzione ritardante. Un'analisi intertestuale tra dramma e novella rivelerà
innanzitutto l'adattamento drammatico e formale delle fonti narrative, offrendo così
l'occasione per capire come l'autore percepisca la natura del genere drammatico. Una volta
scelta la fonte, il drammaturgo deve selezionare gli episodi coerenti con il suo progetto
educativo e ideologico, quelli che servono più efficientemente, cioè, all'esemplarità e al
messaggio che egli desidera trasmettere. Il trasporto da una fonte narrativa a un testo
drammatico comporta una concentrazione sugli eventi decisivi, dallo scoppio del conflitto alla
sua risoluzione. Lo scarto che si nota più facilmente è, ovviamente, quello riguardante lo
spazio e il tempo fittizio della fabula - economia necessaria per un autore come Giraldi che in
linea di massima, vuole rispettare le unità aristoteliche. Come dimostrerò più avanti, Giraldi,
invece di concentrare e rappresentare l'azione in una giornata, spostando episodi che nella
fonte si distribuiscono lungo più anni ed escludendo quelli non strettamente necessarie
all'unitarietà dell'azione drammatica, preferisce inserire nell'intreccio dei drammi le narrazioni
dell'antefatto, eliminando poco dalla fonte. Conseguenza inevitabile è la prevalenza della
narrazione sull'azione rappresentata, quindi un dramma oratorio in cui la parola prevale sui
gesti.
L’interferenza di moduli e di materiali esemplari sulla novella del ‘500 è stata offetto
di molti studi. In una recensione sugli studi della novella del '500, Renzo Bragantini sottolinea
l'impoverimento degli intrecci novellistici spiegando che «i moduli trattatistici si espandono
vistosamente nel tessuto propriamente novellistico, con la conseguente paralisi della
narratività»; avviene così che «alla novella non pare più demandabile, se non in minima parte,
la spinta verso la trasgressione o verso l'improvviso sovvertimento dei destini individuali»
(Bragantini, 1981:100-1). Sulla stessa linea, Marzia Pieri mette in rilievo che le novelle di
Giraldi, «pur appesantite da tanti impacci programmatici» finiscono per risultare «organismi
narrativi completamente rinnovati rispetto alla tradizione», in quanto si distaccano
dall'evasività dell'archetipo boccacciano per avvicinarsi al racconto edificante e al trattato
umanistico (Pieri, 1978 b:53). Mentre Marziano Guglielminetti, nei suoi studi sulla novella
del '500 - che purtroppo prestano scarsa attenzione alla novella controriformista -, spiega che
quando la novella tenderà a piegarsi alle direttive moralizzatrici provenienti dal magistero
40
ecclesiastico costituitosi dopo il Concilio, «la finalizzazione della novella a scopi edificanti
[...] dovrà considerarsi un dato di fatto operante nel formarsi del testo» (Guglielminetti,
1984:150). Questo principio vale anche ai drammi di Giraldi che dimostrano apparentemente
le stesse caratteristiche che Bragantini ritrova nelle novelle, cioè: «una economia narrativa
dell'azione, di stampo oppositivo-dialogico [...] a carattere dimostrativo e monologico:
appunto secondo i modelli dell'exemplum, che tende a privilegiare, di contro al nucleo comico
dell'imprevedibilità, quello epico-tragico della ripetibilità, della punizione o del sacrificio»
(Bragantini, 1981:111). Infatti, la novella di Giraldi sono spesso state additata come uno dei
risultati più vistisi di questo irrigidamento. Al grande consenso sulla struttura irrigidita della
novella di Giraldi, Susanna Villari aggiunge una visione più differenziata, tenendo presente
l’insieme dell’opera: «La raccolta giraldiana è, dunque, coerentemente organizzata alla
stregua di un ampio trattato di vita civile, in cui le riflessioni etiche, politiche, sociali si
presentano in un saldo intreccio con la casistica di situazioni e comportamenti offerta dalle
novelle». L’influsso dell’opera di Boccaccio è consistente, scrive Villari, ma precisa: «si
assiste nello stesso tempo a un radicale mutamento delle prospettive ideologiche: la
descrizione degli alterni risultati del gioco combinatorio delle tre forze (amore, fortuna e
ingegno) che, nella logica del Decameron, regolano l’agire umano, cede il posto negli
Ecatommiti alla rappresentazione del contrasto tra impulsi irrazionali e dominio sulle
passioni, tra ignoranza e cultura, tra puro edonismo e adesione ai valori morali, tra illusorio e
precario benessere e autentica felicità. In definitiva, un conflitto tra il male e il bene» (Villari,
2012: xix-xx). Sette delle tragedie di Giraldi sono calcate sulle novelle degli Ecatommiti. Lo
scopo educativo degli Ecatimmiti è esplicitamente dichiarato nella prima novella dell’opera:
la raccolta deve essere partecipe della costruzione della felicità comune, a «[c]iò che molto
improta al manteinmento delle repuliche e alla vit civile».31
L'exemplum conobbe una fioritura eccezionale fra XII e XIII secolo tramite la
predicazione popolare, per venire assorbito, nei secoli successivi, dalla novellistica che lo
rinnovò, sviluppandone le potenzialità artistiche, dove però la finalità spirituale cede il posto a
un morale laico di comportamento. L'interesse per l'exemplum letterario va naturalmente di
pari passo con la crescente attenzione per lo scopo edificante dell'arte, che implica la
preminenza della poesia per il suo maggior valore didattico rispetto alla filosofia, proprio per
il fatto che non solo la prima è accessibile ai più ma anche perché può vincere gli animi dei
lettori con la seduzione. Nel clima della Controriforma si nota un crescente interesse per
l'exemplum pragmatico ed entrano in questo contesto le novelle del Bandello e di Giraldi.
Marzia Pieri mette in rilievo la funzione didascalica del novelliere di Giraldi, una sorta di
“anti-Decameron” il quale viene «presentato al lettore come una sorta di 'manuale di vita' che
analizzi ordinariamente una serie di fatti etici e fornisca precetti e consigli per affrontare le
contingenze della vita quotidiana», per cui le novelle «propongono l'imitazione di casi
31
Gli Ecatommiti, cit. p. 241.
41
edificanti o l'esecrazione di vicende infami» (Pieri, 1978:46). Anche Susanna Villari, sebbene
sottolieni che Giraldi valorizza, come Boccaccio, vaolrizza la novella non come mero
exemplum, «ma come racconto di un evento, fittizio o storicamente dovumentato, da cui
trarre spunti di riflessione», evidenzia la dicotomia etica nel novelliere di Giraldi, dove è
rappresentato il contrasto tra «impulsi irrazionali e dominio sulle passioni, tra ignoranza e
cultura, tra puro edonismo e adesione ai valori morali, […] un conflitto tra il male e il bene»
(Villari 2012: xx). E' chiaro che, proprio perché l'exemplum ha il suo baricentro al di fuori del
racconto, pochi generi ed argomenti potevano esserne più adatti a collaborare nella creazione
di una drammaturgia pedagogica.
Di fronte al carattere monologico-dimostrativo delle novelle-fonti delle tragedie, è
interessante notare come Giraldi, rielaborando le novelle per la scena, tenda ad introdurre e
anche a rafforzare quegli elementi e quelle situazioni che tradizionalmente caratterizzano la
commedia: l'importanza assegnata ai personaggi secondari, alle opposizioni fra i caratteri, al
rapporto padrone-servo, allo scambio di persona e agli equivoci, all'introduzione degli intrecci
secondari. Siamo di fronte ad un autore al quale non piace ritagliare intorno alle fabule delle
fonti novellistiche, al quale non preme affatto né limitare la quantità degli attori, né distribuire
economicamente i ruoli attanziali ai personaggi in scena.
Giraldi compie quindi un'operazione opposta a quella che prescriverebbe il genere
della tragedia, perché, mentre nelle sue novelle l'azione si concentra intorno ai protagonisti,
nei drammi lo scontro principale viene inserito in un contesto sociale più ampio, implicando
cioè l'introduzione dei punti di vista di personaggi di varie condizioni. Anche la suddivisione
dei drammi in innumerevoli e brevi scene serve a dare risalto ai diversi personaggi, anche a
quelli secondari. Il giudizio globale dell'azione viene assunto dal coro, che ragiona su temi
speculativi sottolineando anche il messaggio esemplare del dramma. Le potenzialità legate ai
diversi punti di vista dei personaggi sembrano dunque ridotte a causa dell'autore implicito,
presente con giudizi ideologici pronunciati dal coro e dal prologo, e della assoluta relatività
delle sentenze che sovrabbondano nei discorsi dei personaggi.
Vicino alla commedia e alla novella, anche il genere trattatistico prende parte della
retorica drammatica giraldiana. Il Cinquecento è il secolo dei precettori e dei trattatisti;
fioriscono i trattati politici, letterari, etici, filosofici e comportamentali. Pietro Bembo, il più
grande sostenitore dell'uso del toscano, fissa la norma linguistica nelle Prose della volgar
lingua e la teoria amorosa negli Asolani; Machiavelli scopre i principi della politica, Della
Casa e Castiglione prescrivono le regole del comportamento nel Galateo e nel Cortegiano.
Ora, questi trattati non condividono soltanto molte loro tematiche con la tragedia del '500 basta menzionare il tema delle virtù, della fortuna, della ragion di Stato, dell'amore - ma
spesso anche la forma dialogica. Seragnoli ha osservato che i trattati di retorica e del
comportamento possono servire nella ricerca sulle categorie antropologiche del teatro comico,
come «il trattato di retorica in relazione alla dizione, il trattato del comportamento in relazione
42
alla gestualità, e a ciò che entrambi dichiarano sulla scrittura in relazione alla
dizione/gestualità» (Seragnoli, 1987:306). Senza dubbio, la trattatistica cinquecentesca
concerne anche la tragedia, benché il personaggio tragico sia essenzialmente diverso da quello
comico, risultando meno vario e meno libero dalle convenzioni retoriche, letterarie e
aristoteliche. Mentre la quida della sruttura e della funzion delle tragedie à offerta da
Aristotele e Orazio, la retorica, e norme da comportamento e il linguaggio dericano da
Cicerone e Quintiliano e dalla precettistica cortegiana del secolo. Penso che anche in Giraldi
si possa trovare una forte unitarietà concettuale che accumuna il suo lavoro drammatico e la
sua precettistica morale e speculativa.
Gli umanisti rinascimentali, com'è noto, assegnavano un grande valore al dialogo, che
rappresentava la forma educativa della cultura elitaria. La scelta da parte del letterato
rinascimentale della forma dialogica non indica soltanto un desiderio di avvicinarsi alla
letteratura alta e agli antichi, cioè di creare una forma adatta alle tematiche gravi, ma anche un
desiderio di drammatizzare, di conferire vivacità alla tematica e di rappresentare un ambiente.
Su un diverso piano, la forma del dialogo offre anche un pretesto letterario per evitare
l'argomentazione rigida e la terminologia precisa che caratterizza la letteratura filosofica dei
greci antichi e della scolastica (Forno, 1992; Vianello, 1993).32 In uno studio sui trattati in
forma di dialogo del '500, Carla Forno mette in rilievo che un ambito privilegiato di
intersezione fra il genere dialogico e quello teatrale è offerto dai dialoghi d'amore
cinquecenteschi, dove spesso la scelta degli interlocutori e le modalità della conversazione
rimandano a scene della commedia (Forno, 1992:220). L'assimilazione dei trattati alla
commedia e non alla tragedia, ricorrente anche nei trattatisti cinquecenteschi, si spiega dal
fatto che l'amore è spesso un tema centrale e, inoltre, che il lieto fine della commedia riprende
la struttura dell'ascesa platonica contenuta nei dialoghi d'amore.33 Le tragedie di Giraldi, che
trattano sempre di un conflitto d'amore, condividono dunque sia la tematica sia, spesso, anche
la retorica dell'ascesa con i dialoghi più vulgati del Cinquecento; ma è soprattutto la
32
In apertura della Poetica, Aristotele paragona il dialogo socratico al mimo; e l'osservazione dei legami tra i dialoghi
filosofici e quelli drammatici è frequente anche nei trattati cinquecenteschi (Girardi, 1989:45-63). Verso la metà del
Cinquecento prende via anche la discussione teorica sul dialogo come genere letterario, che culmina con l'intervento del
Tasso, il quale ne sottolinea l'istanza drammatica e, riprendendo i generi letterari della poetica aristotelica, individua tre
tipi di dialogo: rappresentativo (o mimetico), narrativo, e "misto"; quest'ultimo, scrive il Tasso, «può, e non può montare
in palco» (Tasso, 1954:334).
Il Tasso propone di definire il dialogo trattatistico, in opposizione a quello teatrale come imitazione di parola e non di
azione. Nel Discorso dell'arte del Dialogo, questi nota sulle varie specie di dialoghi: «L'uno delle quali può montare in
palco, e si può nominar rappresentativo, perciò ch'in esso vi siano persone introdotte a ragionare; cioè in atto, com'è
usanza farsi nelle comedie e nelle tragedie; e simil maniera è tenuta da Platone ne' suoi Ragionamenti e da Luciano ne'
suoi. Ma un altro ce n'è che non può montare in palco, perciò che, conservando l'autore la sua persona, come istorico
narra quel che disse il tale e 'l cotale. E questi due ragionamenti si possono domandare istorici o narrativi; e tali sono, per
lo più quelli di Cicerone.» Poi paragona il dialogo misto al teatro: «E c'è ancora la terza maniera: ed è di quelli che son
mescolati della prima e della seconda maniera, conservando l'autore la sua prima persona e narrando come istorico; e poi
introducendo a favellar dramatikos, come s'usa far nelle tragedie e nelle comedie; e può, e non può montare in palco.»
(Tasso, 1954:333-4)
33 Nel Discorso dell'arte del dialogo Tasso afferma che il Simposio è dialogo "comico", mentre il Critone e il Fedro
vengono definiti dialoghi tragici.
43
persuasione a scopo educativo ad avvicinare i discorsi drammatici agli scritti etici, quasi si
trattasse di un unico grande programma di formazione umanistica della corte.34 Le
somiglianze tra le due specie di dialogo non si fermano lì, poiché sia nei drammi di Giraldi
che nei trattati del Bembo e del Castiglione, che erano tra i dialoghi più in uso nel '500, tutta
la corte viene sollecitata a collaborare nel progetto didattico, ed è la trama dei rapporti
interpersonali a governare le teorie filosofiche. La retorica del dialogo teatrale è però diversa
perché il dramma è necessariamente formato da intrecci complicati e da atti illocutori; per cui,
in esso, viene a mancare la retorica dell'otium, che è una condizione fondamentale degli
interlocutori nei trattati del Bembo e del Castiglione, i quali si isolano in un luogo
contemplativo ed armonioso. Il genere drammatico abbisogna invece di acuti ed accesi
contrasti retorici fra gli antagonisti per spingere in avanti l'azione.
Come molti hanno rilevato, la ragione della scelta della forma dialogica per i trattati
del '500 non era principalmente quella di rappresentare i diversi punti di vista messi a
confronto poiché, nella maggior parte dei casi, prevale alla fine del dialogo, una tesi vincente
(Forno, 1992; Vianello, 1993). La posizione di Bembo e di Castiglione equivale quindi a
quella dell'oratore epidittico: non si tratta di propagandare nuovi valori bensì di esaltare quelli
già accettati dalla comunità, per creare attorno ad essi una coesione maggiore. Come avviene
per la novellistica esemplare, anche i più importanti e diffusi trattati del Cinquecento hanno
quindi un carattere dogmatico, in quanto le verità sono prestabilite fin dall'inizio e
universalmente accettate alla fine. Tale dialettica apparente alla quale manca la processualità
di una ricerca della verità è, d'altronde, intrinseca alla cultura umanistica, con i suoi valori
convenzionali e prestabiliti: seguendo Aristotele, l'argomento in utramque partem serve
innanzitutto per poter essere in grado di anticipare più efficacemente l'antagonista.
E' quindi mio intento scoprire, mediante il confronto con i temi e con la strategia
retorica delle novelle e dei trattati cinquecenteschi, come i drammi di Giraldi pongano
domande sull'amore, sulla giustizia, sull'onore e sulla fede e, in quali modalità delineino le
tappe nell'ipotizzare la tesi conclusiva. I trattati, quindi, con le loro prescrizioni etiche o
sociali, ci permettono di giudicare le azioni dei personaggi drammatici, cioè di spiegare l'etica
e le regole dominanti nell'universo fittivo. La comparazione con la trattatistica presenta quindi
due significati per questa analisi sulla tragedia di Giraldi, riguardando tanto le analogie
tematiche quanto le strategie retoriche.
I trattati cinquecenteschi sono innumerevoli e il corpus intertestuale potrebbe
facilmente aumentare. Qui ho preso in considerazione solo alcuni tra i più significativi
34
Anche i trattatisti del '500 notano che lo scopo dei due generi è lo stesso: lo Speroni paragona con le seguenti parole il
dialogo alla commedia: «Il qual esito del dialogo essendo in un certo modo ai buoni fini delle commedie, parimenti diletta
molto il lettore e lo scrittore del dialogo, e è un bel gioco di tutti due»; e anche alla tragedia: «Ecco adunque che le parole
io fo di avere nei miei dialoghi e che imitando la verità io faccio dire alli innamorati, tutte son dette pietosamente a lor
benefizio ut purgatur ab huiuscemodi» (Speroni, 1978:696, 716).
44
nell'ambito cortigiano, e allora non principalmente come fonti primarie, ma come esponenti
dello stesso discorso di Giraldi.
Per quanto riguarda la precettistica dell'etica, del costume e della vita di corte, molto
viva intorno alla metà del secolo, occupano una posizione preminente il Momus di Leon
Battista Alberti, Il libro del Cortigiano e il Galateo di Della Casa. Intorno a queste opere ne
gravitano molte altre, meno conosciute, come i trattati dello stesso Giraldi, fra i quali si terrà
naturalmente conto dei tre Dialoghi sulla vita civile e il Discorso intorno a quello che si
conviene a giovane nobile e ben creato nel servire un gran principe in cui offre una
riflessione pessimistica e realistica sulla vita di corte. I Dialoghi sulle vita civile sono
strumenti fondamentali per la lettura dei drammi di Giraldi in quanto comprendono il vertice
della riflessione filosofica, politica e etica dell’autore. Difatti, questo incontro tra una
dimensione teorica e una pragmatica si ritrova anche nei drammi di Giraldi: nei Dialoghi le
ragioni e le modalità dei comportamenti umani rappresentati nelle novelle, vengono analizzate,
proprio come l’etica della tragedia viene esplicitata dal coro e da altri strumenti drammatici.
La precettistica etica e comportamentale si collega a sua volta con quella dell'amore,
oggetto di un'intensa fioritura nella trattatistica del Cinquecento. Sul tema d'amore nella sua
accezione speculativa, occupa ovviamente un posto eminente il pensiero del Ficino, che alla
fine del Quattrocento inaugura un nuovo dibattito sull'amore con la sua Theologia platonica e
la riscrittura del Simposio. L'interpretazione ficiniana influenzò tutti i campi dell'arte
rinascimentale e il suo commento al Simposio, il dialogo Sopra lo amore, divenne la
principale fonte d'ispirazione della trattatistica d'amore del secolo; ciò vale anche per i
dialoghi d'amore più facilmente fruibili: Gli Asolani bembeschi e il terzo e quarto libro del
Cortegiano.
Come abbiamo visto, la critica recente ha sostenuto che la tragedia del Cinquecento si
rivelava capace di analizzare lo scontro etico-ideologico nel momento storico in cui si
verificava. In questo contesto spicca naturalmente Machiavelli; i suoi esempi e la sua
concezione della politica rimangono i punti di riferimento per chi desideri capire il nascente
pensiero politico e storico. Ricordiamo il carattere controverso dell'opera del Machiavelli,
(all'Indice dal 1559). L'antimachiavellismo del secondo Cinquecento si esprimerà poi con
l'introduzione della sfera morale nella politica e con l'ideale imperiale del tacitismo, quale
alternativa alla concezione repubblicana di Livio.35 La Ragion di Stato (1589) del Botero
costituisce un punto di riferimento per come la Controriforma poi incanala la vita politica sui
binari religiosi. Anche in questo ambito terrò presenti gli scritti di Giraldi: insieme ai già citati
Discorsi sulla vita civile, anche il Commentario delle cose di Ferrara et de' Principi da Este
che si risolvono in un'apologia al Duca ferrarese, considerato dall'autore un sovrano
esemplare. Infine, presterò anche attenzione al fatto che nelle tragedie si intravede anche il
35 Il contraltare più autorevole a Machiavelli, a parte la Chiesa, sarà Guicciardini, che risolve l'antitesi tra politica e
morale tramite l'inserimento dell'onore individuale e della moralità civica nella politica.
45
dibattito cinquecentesco sul mistero della predestinazione e del libero arbitrio, sul conflitto tra
la Fortuna cieca e irrazionale e la Provvidenza divina.
Dalla presentazione dell'insieme di fattori che cooperano nell'elaborazione della
tragedia di Giraldi sono sorte diverse questioni, tra le quali emerge il problema del genere
letterario. Il genere di un'opera è un mezzo fondamentale per cogliere la concezione
dell'autore sul genere scelto. I letterati del Rinascimento volevano infatti esprimere il proprio
rapporto con l'antichità imitando i generi classici, riferendosi, in particolare, ad Aristotele. Da
ciò deriva anche il carattere reazionario della maggior parte della poetica rinascimentale, la
quale ritrova nel genere un'arma di resistenza contro ogni attacco del nuovo. Su questo punto
Corti spiega che un genere può anche trasformarsi «dall'interno di sé per un mutamento di
funzione di qualcuno dei suoi elementi costitutivi, in seguito al quale i tratti che sono
secondari in un'epoca diventano principali in un'altra» (Corti, 1976:171). Il mio approccio al
dramma giraldiano sarà quindi concomitante a questa tesi, poiché ritengo che, vicino e grazie
all'influsso della trattatistica contemporanea e della fonte novellistica, l'ambiente della corte
assuma una posizione centrale nei drammi di Giraldi, fino a decidere lo svolgersi del conflitto
principale, a creare le varie opposizioni secondarie e a determinare le qualità etiche dei
personaggi. Desidero inoltre sapere se nelle tragedie vi sia un'indagine critica delle condizioni
etiche della cultura cortigiana. Questo perché la trasformazione del materiale tragico, per
interferenza delle novelle e dei trattati, sfocia in una specie di realismo, che si avvicina a
quello comico per la varietà, ma che è anzitutto ideologico e simbolico.
Si tratta, nella fattispecie, di un altro tipo di realismo, diverso da quello dei drammi
didattici in latino, e dalla tragicommedia sacra del '400 e del ‘500 che, nonostante presenti
molte caratteristiche comuni con la tragedia di Giraldi, si basa sulla storia (Herrick, 1962). E'
allora interessante e fondamentale per il mio studio, indagare su cosa succede quando una
funzione, quella didattica, si sposta da un genere ad un altro. Porre, cioè, la domanda se la
tragedia di Giraldi, la finzione stessa, il genere e la mescolanza dei generi sopprima e superi il
monologismo didattico, per creare un universo più libero nella tragicommedia.
L'insieme dei generi che appare dalle tragedie di Giraldi può venir affrontato in due
modi diversi: sia partendo dall'intenzione morale dell'autore e dall'effetto didattico del testo,
sia basandosi sul testo di per sé, quale forma completa e autonoma. Nello studio dei mezzi e
dell'organizzazione del discorso bisogna quindi anche distinguere tra due diversi tipi di
retorica in base ai due diversi sistemi di comunicazione dell'opera drammatica. La retorica
“polifonica” dell'intero processo persuasivo della tragedia, è analizzata sull'asse esterno come
un insieme superiore, creato dall'autore implicito quale principale istanza affabulatrice. Nella
persuasione che si rivolge verso l'esterno, i personaggi diventano, all'opposto, figure retoriche
impiegate dall'autore nell'insieme del suo discorso (Segre, 1989:5). A questo livello
organizzativo si distinguono con particolare evidenza, a causa della loro autorità e della loro
apparente autonomia dall'intreccio, gli esempi, le massime, il prologo e il coro, - quest'ultimo
46
usato dall'autore come sfondo dal quale esplicare il contenuto etico. D'altro canto, l'approccio
sarà prettamente pragmatico, tenendo conto della retorica sull'asse interno, legata al contesto e
alla situazione discorsiva nella comunicazione interna del dramma; alla persuasione cioè che
serve per influenzare l'azione drammatica. Ho considerato queste diverse indagini
interpretative, perché le congruenze o meno tra la poetica esplicita, didattica ed esemplare, da
un lato, e la poetica implicita ai testi dall'altro, possono essere un utile mezzo per capire i
princìpi costitutivi della nuova tragedia di Giraldi.
Come ho rilevato, nei testi critici, nella pratica e nella selezione delle fonti primarie,
Giraldi rivela sempre un intento di novità e di originalità. Ho concentrato l'attenzione sulle
sette tragedie nuove, escludendo le due tragedie storiche, meno congeniali allo spirito
dell'autore, il soggetto delle quali fu impostogli dal duca.
Le monografie precedentemente dedicate alla tragedia giraldiana hanno affrontato i
drammi cronologicamente e separatamente, mettendo in tal modo in rilievo lo sviluppo sia
tematico che formale della drammaturgia. Affrontando il corpus tragico del ferrarese la critica
ha trovato un rifiuto graduale dell'orrore a favore dei mezzi poetici della pietà e della
meraviglia (Horne, 1962), nonché un allontanamento dalla tragedia come indagine critica
della cultura contemporanea, verso l'edonismo del melodramma (Ariani, 1974:135). Non
ignoro tale sviluppo, ma nel tracciare le caratteristiche del progetto di Giraldi ho ritenuto
dapprincipio di considerare le tragedie come un insieme, vale a dire, come un unico progetto
poetico. E’ chiaro che trattare le nove tragedie come un insieme, implica uno sguardo
schemitico che non può dare giustizia alle variazioni; nondimeno resta innegabile che queste
variazioni si esercitano su un certo numero di temi, e che personaggi, conflitti e scene si
ripetono nei drammi. L'indagine critica è stata quindi suddivisa in tre parti: ho dedicato una
sezione all'esplorazione e alla discussione delle novità poetiche della tragedia giraldiana, per
poi proporre analisi delle tragedie. A queste due parti segue una sezione intesa a svelare con
quali strumenti e con quali effetti avvenga la persuasione drammatica.
47
3.
UNA NUOVA TRAGEDIA: DILETTARE ED EDUCARE A CORTE
3.1
IL CONCETTO DELL’IMITAZIONE: VEROSIMIGLIANZA, LA FABULA FICTA
E IL MERAVIGLIOSO
Nel suo intento di interpretare la tragedia, il drammaturgo del Cinquecento si trova di fronte
una vasta gamma di poetiche e di modelli classici da imitare oppure da scartare. Il
rinnovamento della tragedia e la scoperta del suo carattere rappresentativo avvengono insieme
con la riscoperta della tragedia greca, il cui corpus viene pubblicato quasi nella sua interezza
in Italia nel periodo 1502-16.36 La rinascita della tragedia va però anzitutto collegata con la
riscoperta della Poetica di Aristotele alla fine del Quattrocento, la quale fu tradotta prima in
latino dal Valla nel 1498, poi in volgare da Pazzi nel 1534. Fino al 1540 furono, in realtà, solo
pochi gli studiosi ad esserne a conoscenza, e solo a partire dagli anni '40 ha luogo una
pletorica diffusione di traduzioni, commenti e discussioni che divulgano il trattato aristotelico;
uno sviluppo critico che si muove sempre più nella direzione di enfatizzare il fine moralistico
dell'arte.
Fondamentale nella discussione cinquecentesca sulla tragedia e oggetto di tante
polemiche è il concetto di 'imitazione', che ha un significato molteplice in quanto dipende
dall'oggetto dell'imitazione. Per semplificare, possiamo distinguere tra due forme principali di
mimesi: quella filosofica o ontologica, la quale assume come oggetto la realtà e quella retorica,
che imita la letteratura. Ovviamente la distinzione tra queste due forme di mimesi non è mai
netta; quindi le due specie di imitazione si fondono e interagiscono in ogni testo letterario.
Nondimeno, nelle diverse epoche storiche e scuole critiche tende a dominare una delle forme
di imitazione, come criterio base per aggiudicare la letteratura.
Nel Quattrocento, Ficino e gli umanisti fiorentini riscoprirono la teoria platonica,
secondo la quale ogni creazione è imitazione dell'Idea; non si doveva, quindi, cercare di
imitare o di interpretare la natura, bensì, secondo la massima di Plotino, raggiungere l'ideale,
la perfezione. In questo ambito l'imitazione degli antichi avviene secondo un fondamento
platonico: gli umanisti, infatti, consideravano le loro opere dei modelli pressoché perfetti, e
imitando i classici credevano di avvicinarsi maggiormente all'Idea originaria, alla perfetta
realtà, fine essenziale di tutta la letteratura elevata. Nel pieno Rinascimento gli autori
volevano quindi raggiungere una perfezione non legata alla mimesi ontologica, nel senso di
una rappresentazione il più possibile vicina alla realtà esterna dell'arte, quanto alla perfezione
36
Va ricordato che la tragedia come genere non è una riscoperta del Rinascimento, sussistendo già nel Medioevo; dove,
però, la teoria della tragedia era legata non ad Aristotele e all'istituzione del teatro, ma alla retorica ciceroniana e alla
"ruota virgiliana", che ne prescrivevano lo stile "grave" (o alto), in opposizione allo stile umile (o basso) della commedia.
Così Dante, in De vulgaris Eloquentia (II, iv), definisce la tragedia come un'opera poetica caratterizzata dallo stile alto,
dalla gravità dell'argomento e dall'eccellenza del linguaggio (Crf.: Stäuble, 1991).
48
della forma.37 E' luogo comune caratterizzare il Rinascimento come un'era platonica, tuttavia
ciò è semplicistico se non addirittura erroneo, dato che il platonismo non godeva dello stesso
supporto istituzionale dell'aristotelismo, bensì doveva la sua influenza più all'esperienza e alle
inclinazioni di artisti e pensatori individuali.38 Per cui, nonostante l'influsso del
neoplatonismo, in campo teorico la riscoperta della Poetica non creò grandi dilemmi
(Weinberg, I, 1970:541-62). Una delle ragioni sta nel fatto che nel Cinquecento italiano il
concetto di 'verosimile' non si opponeva all'imitazione del reale perché anche il reale poteva,
in senso platonico, essere inteso come imitazione del modello ideale, come perfezione della
realtà; oppure, quale mondo possibile, secondo l’aristotelismo. L'imitazione può dunque
significare insieme verosimiglianza e universalità.
L'effetto principale dell'impiego della terminologia platonica risiede, però, nell'aver
creato un legame tra la filosofia antica e la letteratura, il quale verrà rafforzato dalla lettura
cinquecentesca di Aristotele e Orazio. I modelli antichi servono al drammaturgo
rinascimentale per risalire all'esemplarità delle virtù e al loro messaggio di saggezza. Bisogna
quindi tenere sempre in mente la lezione platonica proprio per evitare giudizi negativi come
quello di Silvio D'Amico il quale, parlando della tragedia rinascimentale afferma che «il
letterato italiano credette che ad attingere lo spirito tragico gli bastasse guardare ai modelli
dell'antichità; s'abbrancò ai loro miti, ch'erano ahimé ben morti, soprattutto s'attenne alle loro
formule esteriori» (D'Amico, 1953:17). Esiste comunque una differenza essenziale tra la
teoria mimetica rinascimentale e quella platonica: mentre il modello di Platone è ideale e
quindi astorico, quello rinascimentale è invece storico, in quanto si tendeva a pensare che la
perfezione fosse già stata raggiunta nell'arte antica. In questo modo diventa retorica anche la
concezione della mimesi platonica.
La riscoperta della Poetica non comportava poi la dimenticanza delle autorità di
Cicerone, di Quintiliano e di Orazio. Nei trattati di retorica e poetica cinquecenteschi matura
la preoccupazione della dimensione civile e edificante della letteratura. La necessità di un fine
morale della letteratura, concezione che trovava appoggio anche nel terzo libro della
Repubblica e in alcuni passi della Poetica, fu condivisa dalla maggioranza dei teorici del
secolo, fra i quali il Robortello, il Varchi, il Maggi, il Lombardo, lo Speroni, lo stesso Giraldi
e lo Scaligero, per citarne alcuni. In base a questo programma, al quale fa da sfondo l'utile
dulci oraziano, la letteratura, come la retorica, finisce per essere legata, per non dire
sottomessa, alla filosofia morale.
Durante tutto il Cinquecento la Poetica veniva letta attraverso il pregiudizio oraziano.
Weinberg osserva che era diffusa la lettura parallela delle due poetiche, nonché l'opinione che
37 «L'imitazione della natura, trasferita nelle regole della tragedia e dell'epica si risolve dunque in un bisogno di
simmetria e di bellezza formale, in una giustapposizione di elementi immutabili, una prospettiva di vita e di poesia che
esprima la verità, con la massima possibile probabilità.» (Musumarra, 1972:17)
38 In realtà la posizione dell'aristotelismo non fu mai minacciata dal platonismo; tanto è vero che la concezione
aristotelica della natura si intravede perfino nelle opere platoniche di Marsilio Ficino e Leone Ebreo.
49
Orazio avesse parafrasato il filosofo greco (Weinberg, 1961:541-62). Dati questi presupposti
non può meravigliare che per Giraldi Cinzio la tragedia, divenga una forma estetica educativa.
«E disse Aristotile che il fine del poeta era indurre buoni costumi negli animi degli uomini»,
sottolinea nel suo trattato sul romanzo, e raccomanda quindi «ch'egli questo fine consegua con
la sua composizione» (DR, 77, c.n.). In una lettera all’amico Bernardo Tasso, Giraldi scrive
che la letteratura è una forma di filosofia con due scopi: il delectare e il docere; dove
quest’ultimo è, senz’altro, il più importante.39 Il Tasso, da parte sua, scrive una lettera a
Giraldi in cui critica l'Ercole proprio a causa dell'eccessiva preoccupazione che egli attribuiva
al docere: «Il vostro poema, sig. Giraldi, è tutto pieno di erudizione e di dottrina, e dal quale
se ne potrà cavare di molta utilità. Ma dubito che abbiate tanto atteso all'utile che non abbiate
pensato al delettazione» (Tasso, 1969:169).
Anche la scelta della materia è da Giraldi dettata dallo scopo morale dell'arte, e il
verosimile dello svolgimento dell'intreccio viene a collegarsi all'etica. Scrive Giraldi: «Perché
ove l'istorico dee solo scrivere i fatti e le azioni vere e come in effetti sono; il poeta, non quali
sono, ma quali esser debbeno ad ammaestramento della vita» (DR, 77). Quindi, mentre
Aristotele nel IX capitolo della Poetica sostiene che il poeta, a differenza dello storico,
dovrebbe dire le cose che possono avvenire, Giraldi prescrive al poeta di comporre storie
come dovrebbero avvenire. Giraldi, tuttavia, non si oppone ad Aristotele su questo punto,
perché la sua l'interpretazione in chiave etica corrisponde ad una dei tre diversi oggetti della
mimesi proposti dal filosofo greco, e cioè: «o come le cose erano o sono, o come dicono e
sembra loro che siano, o come dovrebbero essere» (Poetica, XXV). La differenza risiede però
nel fatto che Aristotele non parla del decoro, ma dell'universalità, demandando al poeta la
facoltà di spogliare la sua opera da tutto ciò che è eccentrico e anormale, per raggiungere un
alto livello di rappresentatività. Il ferrarese, invece, scrive che il poeta dovrebbe fingere per
«porre una idea o di perfetto uomo o di perfetta azione» (DR, 275, nota 46), e in tal modo,
coniuga Aristotele con Orazio.
Sia nella teoria che nella prassi Giraldi dimostra di non pensare all'arte antica come
perfezione, come modelli insuperabili, ma di avvicinarsi alle opere classiche in modo critico,
atto a ricavare ciò che fosse stato conveniente al suo tempo. In Giraldi si trova l'ambizione di
competere con gli antichi sul piano etico e nel campo del decoro. Come scrive nel suo trattato
sui romanzi: «Et vuole la imitatione haver sempre compagno l'emulatione; la quale non è altro,
che un fermo desiderio di avanzare colui, che l'huomo imita. Et questo desiderio fa, che
l'huomo non si contenta d'haver agguagliato chi egli segue. Ma cerca di tanto avanzarlo.» (DR,
143, c.n.) Non va trascurato questo aspetto delle idee di Giraldi in quanto, come si è visto,
una grande parte delle prime tragedie del Cinquecento era costituita da volgarizzamenti dal
latino e dal greco. Scegliendo di servirsi di novelle come fonti primarie dei drammi, il
39
Giraldi, Lettera a Bernardo Tasso sulla poesia epica, [1557], in Weinberg, II, 1970:453-76.
50
ferrarese enfatizza invece la necessità di novità, per non dire di originalità. Discorso intorno
al comporre dei Romanzi commenta:
Perocché questo nome di poeta non vuol dir altro che facitore. E non per i versi, ma per
le materie principalmente è egli detto Poeta, in quanto elle da lui sono e fatte e finte atte
e convenevoli alla poesia. Che s'egli solo si prendesse le cose fatte e non ne fingesse di
nuove, perderebbe il nome del poeta. (DR, 76, c.n.)
La tragedia greca era invece fedele al patrimonio mitologico e presentava fabule già note al
pubblico. Quando Aristotele scrive che nella tragedia «si mantengono i nomi già esistenti»,
specifica anche che «le tragedie non hanno come argomento molte stirpi»; e insiste sul fatto
che il tragediografo «deve saper usare bene la tradizione» (Poetica, IX, XIV). Il lavoro
creativo del tragediografo greco stava nel descrivere e arricchire lo sviluppo degli eroi e degli
intrecci nei limiti fissati dalla mitologia. A spingere lo Stragirita a raccomandare fabule tratte
dal repertorio mitologico e storico fu anche la necessità che i caratteri e la fabula fossero
verisimili. Il motivo è «che credibile è il possibile, e noi non crediamo sempre possibile quel
che non è avvenuto, mentre ciò che è avvenuto è chiaro che era possibile, perché se fosse
impossibile non sarebbe avvenuto» (Poetica, IX). A differenza della tragedia umanistica che
nella maggior parte dei casi si basava su eventi contemporanei, nella tragedia rinascimentale
prevale l'argomento storico o mitologico. Stäuble ha notato come nel Cinquecento lo
straniamento temporale, cioè la distanza dall'età in cui vivono autore e spettatori, era
considerata un fattore determinante della tragedia (Stäuble, 1991:211). Questo fenomeno, che
si deve principalmente alla Poetica aristotelica, può essere spiegato, in particolare per i primi
tragediografi fiorentini, come desiderio di dare un significato ideologico alle tragedie. Basata
sul precetto aristotelico della storicità dell'intreccio tragico, la parentela tra i due generi della
storiografia e della tragedia viene considerata nella trattatistica del Cinquecento in accordo
con la concezione del fine didattico della tragedia. Nello scegliere un personaggio storico o
mitologico, l'autore si appoggia ad un exemplum già esistente, e il suo lavoro sarà quello di
rafforzarlo con la sua riattualizzazione.40
Anche Giraldi compone due drammi storici, i quali sono riscritture dei testi di Virgilio e
Plutarco, commissionati dal duca. Gli altri sette, Giraldi aveva attinto alle proprie novelle, le
quali potevano sì includere dilemmi politici, ma erano anche portate a rappresentare lezioni
morali più conformi a «l'uso dei nostri tempi» (DCT, 184). Giraldi, comunque, ben conscio di
andare contro la tradizione classica e di disobbedire ad Aristotele, con l’assegnare il proprio
favore alla favola nuova, scrive nella Tragedia a chi legge, allegata all'Orbecche:
Né mi dei men pregiar, perch'io sia nata
Da cosa nova e non da istoria antica
40
Per questa ragione, spiega Musumarra, il fondamento realistico della tragedia cinquecentesca, «non deve
essere considerato soltanto senechianamente, come rappresentazione del macabro e dell'orribile, bensì come
elemento concreto, originario del fatto storico» (Musumarra, 1972:20).
51
Ché chi con occhio diritto il ver riguarda
Vedrà che, senza alcun biasimo, lece,
Che da nova materia e novi nomi
Nasca nova tragedia.
Nel Discorso egli spiega poi la preferenza di Aristotele per la fabula nota come una
conseguenza logica del fatto che la tragedia debba trattare un'azione illustre e reale: «par fuori
del verisimile che essendo tali persone negli occhi del mondo, possa essere fatta da loro
azione alcuna singolare che tosto che ella è fatta, non debba venire nelle orecchie di ognuno
[…] nondimeno io tengo che la fabula tragica si possa così fingere dal poeta come la comica»
(DCT, 177). Quindi, nel momento in cui Giraldi si oppone alla predilezione aristotelica e
oraziana della fabula recepta sceglie, nello stesso tempo, di costruirsi una verosimiglianza più
vicina alla propria epoca; introducendo cioè nelle tragedie gli elementi attinti dalle discussioni
politiche ed etiche attuali, e il realismo comico, inserendo lo scatto dell'imprevedibile e
assegnando funzioni dinamiche centrali dell'intreccio a personaggi di vari ceti sociali.
Le storie nuove aprono la via per l'imprevedibilità e il casuale. La ragione della
preferenza di Giraldi si trova nella ricezione del pubblico, in quanto la fabula nuova richiede
maggiore attenzione, e quindi può più facilmente creare la meraviglia che Aristotele vedeva
nella concatenazione sorprendente dei fatti. Scrive nel Discorso: «E forse tanto maggiormente
si muovono per la finta gli affetti a introduzione de' buoni costumi, quanto per venir nuova
negli animi degli ascoltatori, si apparecchia ella maggiore attenzione» (DCT, 177).
La meraviglia è raccomandata nella Poetica aristotelica perché, essendo le fabule note
al pubblico, l'intreccio dovrebbe contenere elementi nuovi e sorprendenti, e anche Orazio
pone la meraviglia insieme al delectare. Quando Giraldi associa la pietà e l'orrore con la
meraviglia, sembra quasi sottolineare che insieme alla purificazione etica delle tragedie è
necessaria una buona dose di diletto. L’importanza assegnata da Giraldi alla meraviglia va
vista in luce all'influenza di teorici quali Robortello, Minturno e Maggi, ma va anche associata
in generale alla tragedia controriformista nella quale, come scrive Roberto Mercuri, «la
poetica della meraviglia si realizza nella tragedia a livello di peripezia apparentemente fatale e
fortunosa e sostanzialmente provvidenziale» (Herrick, 1965:81; Mercuri, 1973:94). E
bisognerebbe anche aggiungere che la posizione centrale che Giraldi dà a questo elemento
presenta innegabilmente il gusto del singolare. Giraldi afferma che i drammi nuovi e inventati
sono di regola superiori a quelle note, perché suscitano maggior intresse del pubblico, e perciò
si dimostrano più efficaci nell’insegnamento che intendono trasmettere (DCT, 177). Come se
si rendesse conto che il pubblico della corte ha bisogno di novità sul piano superficiale,
affinché possa cogliere con attenzione la lezione morale della tragedia. La meraviglia della
fabula nuova si rivela dunque un mezzo didattico. Giraldi associa poi la pietà e l’orrore alla
meraviglia, ma la meraviglia è anche legata alla varietà dei casi umani e alla loro funzione di
52
esempi. Ecco come il prologo dell’Arrenopia esprime il nesso consequenziale tra varietà di
casi umani, meraviglia, letizia, doglia e lezioni morali:
Gli avenimenti de le cose umane
Sono sì vari, e portan seco spesso
Tali accidenti, che di maraviglia
Empion chi gli ode, et apportan letizia
Talora, e talor doglia; e danno poscia
Argomenti d’istorie agli scrittori,
Che memoria lasciar vogliono al mondo
De le cose avenute, et a’ poeti
Di por gli essempi de la vita umana,
Con le lor poesie, negli occhi altrui41.
Come i teorici coevi, Giraldo adatta i principi aristotelici a quelli di Orazio; di conseguenza,
conferisce maggiore importanza alla retorica di quanto non avesse attuato il filosofo greco
nella Poetica. Sono principalmente tre idee, fra loro strettamente connesse, a manifestare il
ruolo di mediatore svolto dall'Ars Poetica nei testi giraldiani. Prima c'è la concezione che in
letteratura bisogna sempre tener presente il contesto sociale e il pubblico di una data epoca, in
modo da poter produrre l'effetto desiderato. Come secondo vi è la pregnanza assegnata da
Giraldi al decorum che, a sua volta, si collega al terzo e più importante fattore oraziano,
quello dell'utile dulci, perché l'osservanza del decoro, cioè di un comportamento e di una
dizione appropriati ai personaggi andava considerata, di per sé, una specie d'insegnamento.
Il decoro e la verosimiglianza giustificano in Giraldi ogni scarto dalle posizioni
aristoteliche. Quindi, ritornando alla questione della mimesi, possiamo constatare che per
Giraldi il concetto di imitazione è sia retorico che ontologico: come i contemporanei egli
rispetta gli antichi ma quando questi non concordano con i propri gusti e quelli del pubblico,
si volge agli ideali etici ed estetici coevi. Per il ferrarese, imitazione significa verisimilitudine
contemporanea.
L'incontro fra la mimesi ontologica e quella retorica avviene in Giraldi nei suoi
costanti riferimenti nei trattati poetici all'«uso» e al consueto. Nella retorica antica, com’è
noto, l'uso è una norma centrale per la lingua. Aristotele raccomanda il poeta di usare parole
comuni (Poetica, XXII; Retorica, 1404b) e queste sono le migliori anche per Cicerone che
disprezza le parole «vulgari» e consiglia di ricorrere all'autorità della lingua degli antichi per
temperarle (De Oratore. I,154-7; 160-4). Il concetto di 'uso' non si riferisce però unicamente
alla tradizione letteraria, ma anche alla realtà esterna, e riguarda le idee e la cultura
contemporanee. Lo scontro fra queste due diverse concezioni dell'uso è di primaria
importanza nei dibattiti critici del Cinquecento e la scelta dell’una o dell’altra dipende
41
G. B. GIRALDI, Arrenopia, a cura di D. COLOMBO, Torino, RES, 2007.
53
largamente dal ruolo che l’autore attribuisce al pubblico. Ora, Giraldi assegna a quest’ultimo
un ruolo determinante nella creazione di forme poetiche, quindi osserva i precetti di Cicerone:
è l'età contemporanea che deve temperare l'uso arcaico e talora barbarico dei classici antichi.
Il decoro, il convenevole e il verosimile sono concetti chiave di Giraldi.
La possibilità di superare gli antichi risiede nel campo del decoro, in quanto gli ideali
etici e i costumi contenuti nelle opere classiche non devono venire ripresi senza alcun
correttivo. Bisogna dunque essere selettivi, «appigliarsi solo alle virtù» degli antichi ed
evitare di agire come Trissino che, prendendo come modello la tragedia greca, «ha voluto
imitare i vizi» (DR, 61, 63). Per Giraldi la primitività della civiltà greca appare quasi come
una circostanza attenuante per gli errori di giudizio di Aristotele, come scrive nella Lettera su
Didone: «non so altro che dirmi se non con l'essere egli allevato e cresciuto nella qualità dello
stato in che egli è nato, non gli lascia veder quello che alle persone grandi convenga» (Lettera,
482).42 Non basta, quindi, ricalcare gli antichi, è necessario riattualizzarli e per riuscirvi, il
tragediografo deve servirsi di tutti i mezzi della retorica e dei nuovi elementi ricavati dalla
cultura del pubblico. Commenta giustamente Christina Roaf: «Il Giraldi avrebbe approvato,
credo, la tendenza di certi registri odierni ad ambientare Shakespeare o Verdi nel ventesimo
secolo» (Roaf, 1989:145). E' ciò che aveva notato anche Marco Ariani, il quale descrive la
verosimiglianza di Giraldi teorico e dell'Orbecche come «non più semplicemente aristotelica,
ma fortemente spostata verso una prepotente analogia tra tragedia e vita». Per Ariani, questo
avviene grazie al pessimismo intellettuale che regna nella prima tragedia di Giraldi, poiché
quelle a lieto fine rappresentano invece ai suoi occhi «una stabilità trascendente, che risolva
idillicamente i contrasti» (Ariani, 1972:121, 137).
3.2
UN DRAMMA DECOROSO
La letteratura dovrebbe rinvigorire la virtù del pubblico, e Giraldi osserva che pochi generi
potevano essere più adatti a questo scopo morale di quello tragico. Nel mettere in scena non
solo la trasgressione dalle norme sociali ed etiche, la violenza che rompe i limiti imposti sulla
base della legge naturale, ma anche le conseguenze terrificanti di questa trasgressione, la
tragedia invita a dimostrare le valenze di determinati valori etici e a rappresentare il modello
ideale di ordine gerarchico, confermandolo come sistema universale ed eterno. Il docere
tragico può quindi agire moralmente anche in campo politico e dare lezioni tanto al sovrano
che al cittadino.43
42
Nel Discorso osserva: «Bastami per ora che possiate vedere che ciò che si trova negli autori greci, non è
lodevole, né degno d'imitazione, e che non dee giudizioso scrittore dar tanto di riputazione alla autorità degli
antichi che voglia anco imitare i lor vizi» (DCT, 209).
43 Anche Musumarra ha messo in rilievo questa specie di realismo politico nella tragedia rinascimentale: «I toni
realistici dunque, non derivano alla tragedia soltanto dagli elementi dalla commedia latina o da Seneca, ma
54
La verosimiglianza e il decoro sono strettamente collegati, per cui il decoro «non è
altro, che quello che conviene a i luochi, a i tempi, alle persone» (DR, 80). Mazzacurati ha
osservato che dall'inizio alla metà del Cinquecento il termine decoro subisce una
trasformazione semantica. Il termine parte dal significato puramente retorico di tecnica
distributiva del discorso (cioè la congiunzione del genere, contenuto e parola), e finisce in
un'esclusione del non dicibile: delle persone comuni, degli spazi urbani, delle immagini
quotidiane e del linguaggio naturale (Mazzacurati, 1981). Per Giraldi serbare il decoro,
diventa sinonimo di esclusione del non dicibile. Bisogna che il poeta abbia sempre chiara la
maestà del proprio tempo. Possono essere illustrative alcune righe della lettera di
Barthelomeo Cavalcanti a Giraldi, (datata 1560 e portata in appendice all'edizione veneziana
degli Ecatommiti del 1593):
Et porto speranza che saranno più care queste vostre Novelle, che quelle del Boccaccio
a migliori gusti. Perché anchora che quelle del Boccaccio sono dette felicissimamente
[...] portano nondimeno con loro molto spesso più del lascivo, che non si converebbe:
onde egli apre in molti luoghi più tosto la via ad usar la malitia che la virtù. Et mi è
molto piaciuto, che astenuto vi siate dal parlare licentiosamente, come egli fece, de
religiosi, e de religiose: perche egli in ciò mostrò poca prudenza.
Il 'convenevole' implica «che le persone introdotte nella scena, non facciano e non dicano
quello nel pubblico che verisimilmente non farebbono o direbbono in casa». Di conseguenza,
il drammaturgo non deve mai lasciare «venire in iscena cose lorde, sozze, disoneste, villane,
vergognose, fecciose e ischifevoli che tutte sono da lezzo e puzza a chi è d'intiero giudizio»
(DCT, 223). Con Giraldi si afferma così un decoro nuovo, legato all'immagine della maestà
dei propri tempi; e la sua opera diviene in tal modo, emblema del fenomeno registrato dal
Mazzacurati, cioè che il concetto di decoro nel tardo Rinascimento si sposta dal binomio
decoro-convenevolezza al decoro-maestà (Mazzacurati, 1981:224). Il decoro sociale
imponeva l'osservanza delle regole a una casta elitaria, con il compito principale di preservare
e di distinguere l'élite dalla società circostante. Scrive Ettore Battisti: «Oltre a consigliare il
conformismo il decoro finisce per configurarsi come una prerogativa nobile e eroica, cioè
come caratteristica, emblematica, stile di un ceto superiore della società» (Battisti, 1961:37).44
Nella Poetica, Aristotele raccomanda che i caratteri tragici «siano adatti, perché è
possibile che si sia di carattere coraggioso, ma non è adatto a una donna essere così
coraggiosa o temibile». E Giraldi spiega l’idea dell’adatto dando più importanza all’etica, che
non alla verosimiglianza:
anche dagli elementi originali della tradizione rinascimentale: si è persino parlato di un "realismo integrale"
come della conquista maggiore del pensiero politico rinascimentale. Certamente la dialettica del pensiero
politico si riflette nella tragedia, sia pure con una impostazione letteraria e poetica. [...] La politica non impaccia,
anzi agevola l'evoluzione in senso realistico.» (Musumarra, 1972:25)
44 Vedremo più avanto come in Giraldi, la preoccupazione del costume e del decoro, l'esclusione di ogni
episodio e parola non rappresentabile, insieme alle numerose digressioni a scopo di generalizzazione dell'azione,
risultino in un rallentamento emotivo. Crf.: Spitzer, 1986:97-227.
55
Conviene ad un capitano esercitato all'arme, essere ardito e valoroso, ad una donna,
timida e demessa. Se tali s'introdurranno e questa e quella nella scena, si sarà espresso
buono costume; ma se il capitano s'introdurrà cadardo e timido, e la donna ardita e
feroce, sarà ciò fuori del convenevole, ed esempio di mal costume; perché sarà fuori
della natura dell'uno e dell'altro; il che è vizioso e senza decoro, e si piglia per costume
reo, cioè per cosa non atta, e per abito non convenevole alla persona introdotta. (DCT,
209)
La condotta dei personaggi drammatici era un nodo cruciale da sciogliere per i teorici e i
tragediografi cinquecenteschi e le richieste di decoro sono gravide di conseguenze anche per
l'avvicinamento dell'autore ai classici. Con la presenza di Orazio e Cicerone, l'autore doveva
quindi adeguare i primitivi modelli greci al gusto e al 'decoro' rinascimentale. Se uno degli
scopi principali del teatro è quello di dare una lezione morale, il poeta deve adattare
verosimilmente al suo pubblico la materia trattata, «per giovare, e dilettare insieme,
sodisfacendo a gli uomini di quella età», come scrive Giraldi, spiegando:
Questo è anco stata cagione, che ancora che li poeti scrivano cose antiche, nondimeno
cercano che convengano ai costumi e all'età loro, introducendo cose dissimili a' tempi
antichi, e convenevoli ai loro: come si vede in Vergilio di Enea, il quale quantunque
venisse da Troia, e altra fusse la forma del sacrificare, del far esequie, e dell'armeggiare
dell'Asia da quella dell'Italia, non di meno fe' egli, che i Troiani e sacrificarono, e
seppellirono, e combatterono secondo il costume d'Italia, e non pure secondo il costume
che era inanzi il nascimento di Roma, ma secondo quello, che era al tempo di Ottaviano.
(DR, 77)
E poi:
se forse in qualche parte mi son partito dalla regole, che dà Aristotile per conformarmi
co' costumi de' tempi nostri, l'ho io fatto coll'esempio de gli antichi. [...] Et oltre a ciò lo
mi ha concesso il medesimo Aristotile, il quale non vieta punto, quando ciò richiede, o
luogo, o tempo, o la qualità delle cose, che sono in maneggio, il partirci alquanto da
quell'arte, ch'egli ha ridotta sotto i precetti che dati ci ha. (Lett.D, 484-5)
Il rispetto del decoro fu una delle ragioni principali per le quali Giraldi preferiva i modelli
senecani a quelli greci: infatti sia le figure retoriche che i personaggi della tragedia latina
rappresentavano per lui un modello più accettabile. Giraldi critica quindi la rozza semplicità e
l'assenza del decoro in Omero perché «fa che Nausicaa figliuola d'Alcinoo se ne va al fiume
con le altre fantesche a lavar panni, il che al nostro tempo sarebbe disdicevole non dirò a
figliuola di signore, o di gentiluomo, ma di semplice artigiano» (DR, 62). Anche in Cicerone,
autore molto apprezzato da Giraldi, è evidente l'intento di adeguare l'ethos dell'oratore e lo
schema elaborato dai greci alla diversa realtà romana (De Oratore, II, 182-5).
56
Il confronto fra la letteratura antica greca e quella latina ritorna ovunque nei trattati di
Giraldi. Nel Discorso egli si riferisce in più luoghi al teatro di Seneca in opposizione a quello
greco e sottolinea, in accordo con i personaggi dominanti nell'ambiente accademico ferrarese
della prima metà del secolo, la superiorità della cultura latina su quella greca (Horne,
1962:15).45 E nel Discorso rivendica la necessità di verosimiglianza e di decoro: «è da por
molta diligenza che tali siano i ragionamenti, quali convengono alle persone che s'introducono
a parlare" (DCT, 209). Il verosimile significa coerenze di azione, parola e carattere. Aristotele
mette in risalto l’importanza di creare personaggi credibili nella Poetica. E tale precetto si
ritrova, sia nella poetica di Orazio che, in un diverso contesto retorico, nel De Oratore (III),
ove Cicerone consiglia all'oratore di delineare ritratti psicologici secondo natura, vale a dire la
coerenza dello stile linguistico con il carattere dei soggetti rappresentati.46 Se lo stile delle
repliche della tragedia deve essere grave, questo non implica uno stile ornamentale e
magniloquente. Una lingua troppo artificiale, con ornamenti superflui e che si discosta dal
naturale è, infatti, uno dei capi d'accusa che trasparisce nel Giudizio di Giraldi nei confronti
della Canace dello Speroni; la stessa concezione ritorna anche nella Tragedia a chi legge,
dove l'Orbecche, sulla base del realismo, si autodifende:
Et se forse parrà, ch'io non mi scuopra
In quell'habito altero, in che devrei,
Iscusimi la forza de martiri,
Che tanto ogni desio d'ornarmi m'hanno
Tolto.
Ed è sempre il criterio della verosimiglianza ad imporre l’uso dell'endecasillabo sciolto per il
dialogo drammatico, un metro che Giraldi considera verosimile perché vicino alla lingua
comune. Di nuovo si nota che il verosimile decoroso di Giraldi implica un certo razionalismo
nel senso che l'arte deve guardare ai testi esteriori per rappresentare i fatti, distaccandosi in tal
modo dall'interpretazione aristotelica del verosimile e del probabile come fattori
essenzialmente strutturali del dramma.
45 Gli esempi dei latini sono quindi spesso preferibili a quelli dei greci, come viene sottolineato nella Lettera sulla
Didone: «Avendo adunque i poeti romani, o vogliam dire latini, avuto riguardo alla maestà delle persone nelle loro poesie
introdotte, usarono altri modi et altre maniere più convenevoli e più atte al verisimile che non furono le greche.» (Lett.D,
478)
46 Il criterio della verosimiglianza dei personaggi acquisterà un peso sempre maggiore nel corso del secolo, fino
a culminare con l'introduzione della verosimiglianza psicologica di Castelvetro, il quale criticava il Boccaccio
per aver indotto Ghismonda a pronunciare un eloquente discorso sulla natura della nobiltà, poco prima di
suicidarsi (Decameron, IV, 1). Giraldi condanna infatti uno stile artificioso con ornamenti superflui perché «par
fuori del verisimile che la persona che sia oppressa dall'affanno, possa volgere l'animo a questa maniera di dire»
(DCT, 212); e scrive poi nel Discorso sul dramma: «Mi par anco che la ragione del muovere gli affetti tragici se
non sulla imitazione che non si parta dal verisimile», bisogna quindi che il tragediografo «finga l'azione che sia
conforme agli abiti naturali e non lontana da quello che puote e suole avvenire» (DCT, 177).
57
Fra i modelli cinquecenteschi di lingua decorosa troviamo quello cortigiano, la
teorizzazione del quale viene inaugurato da Castiglione, per venire poi rielaborato in molti gli
altri trattati cinquecenteschi. Il linguaggio della tragedia è, per definizione, alto; è allora
significativo che a Giraldi, preoccupato dalle esigenze della verosimiglianza, sembri
necessario giustificare l'impiego di uno stile grave anche nel linguaggio dei personaggi teatrali
di più basso strato sociale. Anche i personaggi secondari partecipano emotivamente ai fatti
orrendi dei quali sono testimoni, spiega, e, inoltre, vivendo nell'ambiente cortigiano, devono
verisimilmente aver imparato ad esprimersi in maniera grave e decorosa. L'esistenza effettiva
della lingua cortigiana accoglie così le teorie giraldiane sul linguaggio tragico:
l'ambientazione permette all’autore di mantenere la verosimiglianza adoperando uno stile alto
nelle repliche di tutti i personaggi, giacché persino a corte le donne sono eloquenti quanto gli
uomini e «possono usare nel lor favellare sentenze morali, e piene di senno, secondo la lor
condizione, perché tuttavia elle stanno nelle grandezze, e tra persone gravi, e possono elle
dalla continua conversazione apparar quello che le altre donne non possono [...] non
conversando se non con genti humili, e popolaresche» (DCT, 216). Conseguentemente, in
Giraldi vi sono poche tracce di plurilinguismo, di quella lingua deformante o caratterizzante
che testimonia con la separazione degli stili il distacco tra il comico e il tragico.
58
3.3
UNA NUOVA POETICA TRAGICOMICA
La mimesi drammatica di Giraldi si concentra intorno all’idea di un verosimile decoroso ed
educativo, dunque, un ideale che gli sembra richiedere una distanza critica dai modelli antichi.
I punti sui quali Giraldi si avvicina ad Orazio, cioè il rifiuto dei modelli greci, l'importanza del
decoro, lo scopo etico del dramma e il bisogno di adeguare la verosimiglianza ai tempi del
pubblico, indicano tutti la trattatistica coeva quale la fonte intertestuale per la formazione dei
drammi. Giraldi come non si riferisce ai greci o a Seneca nel reperire le fonti primarie delle
proprie tragedie, così non si dimostra neanche schiavo di un eccessivo rispetto verso le
poetiche antiche; egli si sente invece libero di introdurre idee nuove nella sua poetica. Lo
precisa anche la Roaf quando nota che, sebbene Giraldi dimostri «una conoscenza diretta e
assai profonda della Poetica di Aristotele, come di quella di Orazio», il suo Discorso «non è
un commento alla Poetica, ma piuttosto una presentazione della teoria giraldiana, derivata
dai propri drammi, che l'autore giustifica con una interpretazione, a volte sforzata, dei
principi fondamentali enunciati da Aristotele» (Roaf, 1989:144, c.n.). Ma il Discorso
rappresenta nel contempo un quadro illustrativo dello sviluppo e delle contraddizioni implicite
nella produzione drammatica di Giraldi, poiché, come ricorda Ariani: «per la sua lunga
gestione di inedito sempre ripreso e corretto (dal 1543 al 1554), riflette chiaramente le
oscillazioni della ideologia giraldiana fra poetica dell'orrore ed esaltazione delle possibilità
innovative del tragicomico» (Ariani, 1974:139). Una netta distinzione tra teoria poetica e
prassi è dunque impossibile in Giraldi, sebbene molti passi del Discorso siano stati stesi dopo
i drammi, e allo scopo di difenderli; sono i drammi stessi a rappresentare la più forte polemica
contro l'equilibrio e l'ordine del classicismo aristotelico.
Giraldi Cinzio è tra i primi teorici a trattare il problema dei generi drammatici misti
nell'età moderna. Nella prassi con la sua nuova tragedia, è il difensore e il fondatore di un
genere drammatico che si identifica nella tragicommedia. Ora, anche se rispettiamo la sua
comprensione dei generi drammatici di Giraldi, resta inconcepibile non tenere conto del fatto
che la maggior parte delle tragedie potrebbero venir definite tragicommedie, secondo il
vocabolario critico corrente.
Mentre la tragedia e la commedia sono generi caratterizzati da una forte codificazione
stabilita, sulla base di lunghe e autorevoli normative, la tragicommedia è un genere più aperto,
a codificazione debole, che non offre simili punti di riferimento. Fu Guarini il primo moderno
a definire questo genere drammatico, mentre Giraldi teorico, nella fattispecie, non accettava
l'esistenza della tragicommedia come un genere drammatico autonomo. Per capire quali
aspetti distinguano la tragedia di Giraldi dalla tragicommedia come questa verrà definita
alcuni decenni dopo da Guarini, bisogna rilevare, per prima cosa, secondo quali criteri Giraldi
stesso definisce la sua nuova tragedia.
59
3.3.1 L’eroe, la catarsi e lo stile
Nel Discorso, Giraldi tratta la tragedia e la commedia insieme, ma offre anche un resoconto
delle qualità che distinguono la tragedia dalla commedia. Vediamole.
Il primo fattore di distinzione è costituito dallo statuto dei personaggi principali, e
quindi, anche dalle azioni. A questo proposito, nel secondo paragrafo della Poetica viene
spiegato che una delle caratteristiche della tragedia consiste nel trattare di uomini migliori di
noi: «La tragedia si distingue dalla commedia; questa infatti si propone di rappresentare
persone peggiori, quella migliori che nella realtà»; e nel par. XV: «Uno e primo che siano di
valore». Le qualità eroiche di Aristotele sono, comunque, sempre connesse all'azione. Il
carattere dell'uomo dipende dalle sue azioni, o più precisamente, dallo scopo delle azioni. Gli
eroi di Aristotele sono nobili nelle loro azioni, ma il filosofo non prescrive una nobiltà di
sangue; mentre nel Cinquecento si interpreta in senso etico-sociale il requisito di alto valore
dell'eroe tragico. Giraldi scrive quindi nel suo Discorso:
Hanno adunque tra lor comune la comedia e la tragedia, l'imitare una azione; ma sono
differenti, che quella imita la illustre e reale, e questa la popolaresca e civile; e però fu
detto da Aristotele che la comedia imitava le azioni peggiori. (DCT, 173-4, c.n.)
Secondo Horne, questa interpretazione di carattere moralistico-sociale sarebbe legata, in
Giraldi, all'influsso della traduzione della Poetica di Allesandro Pazzi, oltre che alle
interpretazioni del filosofo padovano Vincenzo Maggi, presente a Ferrara nel 1543 (Horne,
1962:26). Pazzi ridefinisce le caratteristiche etiche dei personaggi tragici di Aristotele,
traducendo cioè i termini peggiore e superiore, nei concetti latini praestantiores e humiliores.
Comunque sia, si tratta di un'interpretazione, influenzata dalle definizioni medievali dei
generi drammatici, condivisa dalla maggior parte dei teorici cinquecenteschi. Nel
Cinquecento, l'esigenza estetica di Aristotele diventa dunque etica e sociale. Sebbene alcuni
commentatori, come Minturno e Castelvetro, accolgano l'introduzione nella tragedia di
personaggi umili e di modi semplici, la stragrande maggioranza dei trattati poetici del secolo
concorda nello stabilire che i personaggi tragici sono re o, comunque, esponenti di alto
rango.47
Per Giraldi la suddetta è una caratteristica di primaria importanza, non solo perché il
valore dell'eroe è il primo dei precetti sull'eroe tragico elencati da Aristotele, ma anche perché
essa costituisce una delle poche differenze fra la commedia e la tragedia nella sua teoria e
pratica. Difatti, Gli Eudemoni, unica commedia giraldiana, si distingue poco dalla tragedia Gli
Antivalomeni se non per il fatto che quest'ultima presenta prìncipi e principesse nei ruoli
principali. Nella tragicommedia si mantengono «le persone grandi, non l'azione» dirà Guarini
47 Si è però tentati di giustificare il fraintendimento dei teorici cinquecenteschi con il fatto che in un'ottica moderna, la
prescrizione aristotelica dello stesso eroe come uomo superiore alla media male si accorda con la descrizione dello stesso
eroe come uomo essenzialmente fallibile. Distinguendo il rango sociale dall'ethos dell'eroe, l'apparente contraddizione di
Aristotele viene eliminata.
60
nel suo trattato sulla tragicommedia, prescrivendo la rappresentazione di personaggi pubblici
coinvolti in un'azione privata. Giraldi raccomanda invece che la tragedia sia sempre
imitazione di azioni illustri, «così dette non perché siano lodevoli o virtuose, ma perché
vengono da grandissimi personaggi» (DCT, 178).
Agli elementi specificatamente tragici appartiene quindi la catarsi, «purgare gli animi,
che è il fine della tragedia», che per Giraldi significa purificazione morale, tramite la
distruzione delle passioni che hanno provocato la pietà e il terrore; una sorta di lezione
educativa allo spettatore in seguito al capovolgimento della tragedia, la quale «col miserabile
e col terribile purga gli animi da vizi e gl'induce a buoni costumi». La definizione viene più
volte ripetuta da Giraldi: «Perché la tragedia coll'orrore e colla compassione mostrando quello
che debbiamo fuggire, ci purga dalle perturbazioni nelle quali sono incorse le persone
tragiche»; «la tragedia non purga gli animi nostri dà vizi se non col mostrar quello che si dee
fuggire» (DCT, 176, 183, 218).48 Anche questa interpretazione è vicina a quella della maggior
parte dei suoi teorici contemporanei e, in particolare - come molti hanno sottolineato - a
quella di Vincenzo Maggi, che operava a Ferrara e che Giraldi menziona più volte nel suo
Discorso.49
In seguito, la preferenza dei reali come protagonisti tragici è senz'altro dovuta anche
alla caduta dell'eroe, evento che riflette un tipo di mentalità secondo il quale i migliori sono
più esposti degli altri alle disgrazie e ai colpi della Fortuna. Proprio per questa ragione le
vicende dei protagonisti diventano esemplari e si addicono al programma didattico del
dramma. Tale principio era generalmente condiviso dai filosofi e dai trattatisti del
Cinquecento.50 Questa idea rinvia a Seneca, il quale nel Della provvidenza afferma che le
disgrazie che colpiscono gli uomini migliori non vanno soltanto interpretate come esercizi,
come educazione dei virtuosi, ma anche come esempi, offerti dall'accettazione del proprio
destino e del conseguente comportamento. «Per quale scopo sopportano certe avversità?» - si
48
In conclusione del Discorso, Giraldi offre anche una spiegazione psicologica della catarsi: «E volentieri vengono a
quella terribile e lagrimevole azione, se acconciamente ella è condotta nella scena. E cercando io tra me la cagione di ciò,
mi son risoluto che la tragedia ha anco il suo diletto, e in quel pianto si scuopre un nascoso piacere che il fa dilettevole a
chi l'ascolta e tragge gli animi alla attenzione e gli empie di maraviglia, la quale gli fa bramosi di apparare, col mezzo
dell'orrore e della compassione, quello che non sanno, cioè di fuggire il vizio e di seguir la virtú, oltre che la conformità
che ha l'essere umano col lagrimevole, gli induce a mirar voluntieri quello spettacolo» (DCT, 224).
49 (Toffanin, 1941:492-3; Horne, 1962:35; Bonora, 1971:236-7)Il trattato di Maggi, scritto in collaborazione con il
Lombardi e pubblicato a Venezia nel 1550 con il titolo In Aristotelis librum de Poetica explanationes, interpreta la catarsi
non come purificazione dalle passioni degli spettatori, ma come liberazione dalle passioni dei personaggi tragici, cioè dalle
colpe che suscitano pietà e terrore.Oltre al concetto di catarsi del Maggi, domina nel Cinquecento quello di Robortello,
secondo il quale la tragedia purifica le passioni dello spettatore, preparandolo così ai cambiamenti della fortuna.
50 In uno dei primi commenti della Poetica a essere pubblicato, In librum Aristotelis de arte poetica
esplicationes del Robortello (1548), si afferma che i caratteri tragici devono servire come esempi morali. Il
Robortello spiega il termine aristotelico di 'personaggio superiore' come "uomini migliori di quelli che vivono
nel nostro tempo", e nella definizione dei personaggi aristotelici egli assegna maggior imporanza allo status
sociale che a quello morale poiché, per creare l'effetto tragico con la caduta dell'eroe, è necessario che questo sia
di alto rango (Crf.: Weinberg, 1961).
61
chiede Seneca nel Della provvidenza (VI. 1); dando subito la risposta: «Per insegnare ad altri
a sopportarle: sono nate per servire da modello».
Il secondo fattore distintivo fra i due principali generi drammatici risiede, per Giraldi
nel fatto che sia la tragedia che la commedia devono introdurre «a buoni costumi», «la
tragedia coll'orrore e colla compassione mostrando quello che debbiam fuggire, ci purga dalle
perturbazioni nelle quali sono incorse le persone tragiche», mentre la commedia, ci mostra
«quello che si dee imitare» con «passioni», «giochi, con risa e con scherzevoli motti» (DCT,
176,183). Infine è la lingua a segnalare il distacco tra i due generi, perché:
non convengono alla commedia, se non di rado, quelle pompe di parlare, que' soperbi
modi di dire, quelle similitudini, quelle comparazioni, quelle figure, que' contrapposti,
che i Greci chiamono Antiteti, e quegli ornamenti che convengono alla tragedia: Perché
questo è fuori delle persone comiche [...]. Per contrario la tragedia ama tutte queste cose.
(DCT, 211)
Come osservato, le tragedie di Giraldi presentano un linguaggio semplice; tuttavia sono
discorsi irti di sentenze e digressioni morali che non scendono quasi mai al quotidiano. Questa
omogeneità dello stile si addice all'ideale rigorosamente unitario della norma del Bembo, la
quale esclude la mescolanza comica degli stili, ma si spiega anche dall'interpretazione
giraldiana della tragedia, che non ammetterebbe l'introduzione di scene comiche.
La catarsi, l’eroe di alto ragno e la lingua alta sono dunque le ragioni in virtù delle
quali i drammi di Giraldi sono definiti tragedie. Tuttavia, una lettura che parte dal presupposto
che i drammi di Giraldi vadano confrontati con la tragedia classica non tiene abbastanza conto
dei principi giraldiani sui generi drammatici, per cui molte delle qualità comiche sarebbero
adatte alla nuova tragedia. Per il ferrarese, tragedia e commedia non si oppongono: come la
tragedia, anche la commedia dovrebbe essere educativa e decorosa. Entrambi i generi, del
resto, presentano la comune ambizione pedagogica di purificazione civile e mirano ad
«introdurre buoni costumi» (DCT, 183) richiedendo, di conseguenza, il rispetto del decoro:
sia l'orrore che il ridicolo eccessivo vanno assolutamente evitati. Egli raccomanda allora una
tragedia dove l'orrore dello spettacolo non soffochi il messaggio etico, e prescrive una
commedia decorosa che si innalzi al di sopra della commedia volgare, alla quale non
risparmia una serie di critiche nel Discorso (Guidotti, 1991). Sono invece i mezzi che
differenziano i due generi: la commedia sceglie di castigare ridendo mores, la tragedia
adopera il terrore e la pietà.
3.3.2 Il prologo separato e la suddivisione in atti
Per Giraldi Seneca «avanzò […] nella prudenza, nella gravità, nel decoro, nella maestà, nelle
sentenze, tutti i Greci che scrissero mai» (DCT, 184). Sul piano formale tre fattori, assunti dal
62
teatro latino, distinguono la tragedia di Giraldi da quella greca: il prologo separato, la
divisione in atti e il coro a sé stante.
Il prologo è parte indipendente della tragedia, «non ha legamento alcuno coll'azione
che nella favola si tratta, né a quel modo si recita che si recitano l'altre parti; perocché colui
che fa il prologo il fa in persona del poeta, il quale non si può né si dee introdurre nell'azione»
(DCT, 202). Sia in Seneca che nella tragedia greca il prologo è interno all'azione ma, mentre
nei greci esso svolge una funzione narrativa ed espositiva, il prologo di Seneca è, come in
Giraldi, anticipatorio. Nella ricerca di modelli per la sua nuova tragedia, Giraldi ricorre invece
al prologo della commedia romana. I romani, egli nota, «anchora che i greci mai non havesse
proposto prologo alle loro comedie, essi il posero nelle latine; e non tengo per errore seguir
quello, che nuovo uso face probabile» (Giud, 16). E sempre per esigenze di verosimiglianza,
non è ammissibile che un prologo faccia parte dell'azione drammatica. I discorsi del prologo
sono rivolti direttamente al pubblico «per diporre gli animi degli spettatori alla attenzione» e
per «conciliare insieme benevolezza al poeta» (DCT, 202).
I prologhi di Giraldi ripetono tutti a grandi linee, gli stessi topoi, anche se varia la
dispositio: egli introduce il luogo tragico e prepara il pubblico alla fabula, anticipa alcune
parti dell'azione, assicura del lieto fine (se questo avverrà), espone i nobili fini dell'arte tragica
e la moralità del dramma, richiede l'attenzione e la benevolenza del pubblico. Come ha
sottolineato Donatella Riposio, Giraldi usa il prologo principalmente per coinvolgere
intellettualmente il pubblico nell'universo morale, e per avvisarlo delle esperienze che lo
spettacolo comporterà (Riposio, 1989:154), indicando chiaramente il bisogno di incanalare sia
l'interpretazione che le aspettative del pubblico.
Infine, la divisione in cinque atti è ispirata dalle raccomandazioni di Orazio e dal teatro
romano: «ma mutate le cose che si debbono mutare, potrà ella anco servire alla tragedia, e
questa divisione è stata comune alla comedia e alla tragedia, ancora che altri altrimenti
interpreti quel luogo» (DCT, 206). La suddivisione in atti permette di enfatizzare la logica
della tragedia: nel primo atto viene presentato il problema, nel secondo ha luogo un
cambiamento nella situazione, «nel terzo vengono gli impedimenti e le perturbazioni nel
quarto si incominci ad offrir modo di dare rimedio agli incomodi; nel quinto si dia il
desiderato fine con debita soluzione a tutto» (ivi). Riguardo poi al pubblico si trattava sia di
rispettare l'esigenza di chiarezza, sia di mantenerne viva l'attenzione, poiché la suddivisione in
atti offre al pubblico possibilità di pause di riflessione:
Videro molto meglio i Romani che i Greci. Perché davano riposo agli spettatori e
apparecchiavano maggiore attenzione a quello che rimaneva a dire; però che lo
spettatore vedutosi condotto sino al fine dell'atto, poi che ha pigliato riposo, ed è stato
ricreato dalla interposizione della musica, divien vago di esser condotto al fine; e al
nuovo apparire dell'istrione. (DCT, 207)
63
3.3.3 Il coro
Sono ben note le premesse poetiche e classiche del coro tragico. Nella tragedia greca il coro
oscilla fra il coinvolgimento nell'azione (quasi si trattasse di un personaggio) e il compito di
commentatore anonimo che, mediando la vicenda agli spettatori, diventa allora portavoce
delle istanze metateatrali e così anche dell'autore, incaricato di mettere in rilievo il carattere
fittizio del dramma. Nella Poetica Aristotele assegna al coro un ruolo equivalente a quello di
un personaggio: «Il coro si deve supporlo uno degli attori, essere parte del tutto e partecipare
all'azione, non come in Euripide ma come in Sofocle».
Per il coro Giraldi si avvicina alle raccomandazioni di Orazio e agli esempi di Seneca:
si tratta di un coro prevalentemente spettatore, che si eleva al di sopra dell'azione e che si
pone come espressione delle norme sociali e dello sfondo morale e religioso del dramma.
La critica è stata univoca nel concepire il coro di Giraldi come un'entità superiore e
distaccata dall'universo fantastico, con la funzione di determinare pause nell'azione e metterne
in controluce il significato morale. Ciò, tuttavia, non vuol dire che non si richieda un
chiarimento sulla relazione dialettica fra le norme rappresentate dai personaggi drammatici e
quelle etiche, ribadite negli intermezzi dal coro. Difatti il nostro autore si distacca dai greci e
risolve questo problema sostenendo che la presenza continua del coro sulla scena è
inverosimile perché la tragedia rappresenta «azioni di molta importanza». Nella Lettera sulla
tragedia Giraldi loda la tragedia di Seneca per l'esclusione del coro dalla partecipazione
all'azione tragica, esenzione basata proprio sui criteri della verosimiglianza e del decoro:
imperò che non è punto verisimile che le grandi e signorili persone vogliano trattare le
azioni di molta importanza, come sono quelle che vengano nelle tragedie, nella
moltitudine delle genti, quantunque famigliari. Ma in simili negozii, ove si tratta o
dell'onore o del vituperio, o della vita o della morte delle persone grandi, hanno
solamento con loro i segretari, i consiglieri e le altre persone prudenti e sagge delle quali
essi si fidano, et a cose tali sono state da loro elette e bene spesso da loro soli favellano
delle cose importanti. (LettD, 477)
Il coro viene così privato dal ruolo di interlocutore savio, che spesso rivestiva nella tragedia
greca.
Molti critici sostengono che la funzione del coro si mantiene nel Rinascimento anche a
causa dell'influenza delle sacre rappresentazioni in cui il coro popolare determina una
posizione centrale; in Giraldi, comunque, il coro non rappresenta mai il popolo. Poiché i
drammi si verificano per lo più entro le mura del palazzo reale, il coro è costituito dai membri
della corte, sottolineando così l'invalicabile separazione fra popolo e potere. Eccezionalmente
il coro di Giraldi entra talora nell'intreccio; allora opera anche una persuasione pragmatica
64
sull'eroina oppure, nei commoi, esprimendo il suo sdegno e accompagnando i lamenti della
protagonista, mentre incita la compassione del pubblico.
La condizione sociale del coro può essere importante per coglierne la funzione, perché
spesso nella tragedia rinascimentale l'impossibilità di intervenire nelle decisioni del sovrano
vengono accentuate dal rilievo che assume l'appartenenza del coro allo stesso universo
fantastico dell'azione tragica, dunque dal rischio che anch'esso corre di diventarne vittima.
Quindi, le rare volte che il coro giraldiano interviene nel dialogo diretto con l'eroina e allora
nelle vesti delle 'donne della Corte', esso assume la stessa funzione della nutrice, «stereotipo
sentenziante del teatro cinquecentesco»:51 il suo ruolo, infatti, è quello di consigliare l'eroina e
di piangere con lei. Si può quindi distinguere fra due diversi cori in Giraldi: il coro che
dialoga con i personaggi, costituito da sudditi dei protagonisti (nella maggioranza dei casi da
donne di corte); mentre il coro degli intermezzi si eleva come un filosofo al di sopra
dell'azione. Va anche notato che in Giraldi il coro non dialoga mai con il sovrano: quando
entra nell'azione ruota solo intorno al polo patetico dell'eroina. Ora avviene che il
tragediografo possa anche permettersi di non impostare un dialogo fra il coro e il protagonista
maschile, perché, come Seneca, introduce i consiglieri a sostituire il coro. Il distacco del coro
è infatti necessario per un autore che desideri inviare messaggi etici limpidi: il cortigiano non
è nella condizione di poter criticare il potere, non è libero. Nel suo Discorso al giovane nobile,
Giraldi prescrive appunto un cortigiano costituito di decoro e di esteriorità, e non più, come
presso Castiglione, un uomo che possegga una cultura universale includente anche la filosofia:
Ma voglio che lasciamo le leggi e le maggiori scienze a' segretari [...] a' governatori
delle repubbliche, a' consiglieri e a' contemplatori della natura e delle cose divine: ché
troppo distroneremmo il nostro Giovane da quello ufficio al quale egli si fusse applicato
per servigio del suo Principe, e troppo l'affaticheremmo, se a que' studi lo chiamassimo,
a' quali egli non fosse avezzo, e che sono degli uomini gravi, che tutti sono dati agli ozi
delle lettere, alle contemplazioni e a' governi delle cose umane. (DGN, IV)
L'isolamento del coro, e l'esclusione del popolo dall’azione principale di Giraldi può dunque
venir interpretata come una conseguenza naturale del fatto che la tragedia di corte rendeva
difficile l'incontro nello stesso spazio un coro che rappresentasse il popolo e il potere.
Per illustrare la funzione del coro si può istituire un paragone con il novelliere di
Giraldi. Con gli Ecatommiti, egli riprende la struttura della cornice del Decameron, nella
quale i narratori giudicano le novelle dichiarandone il significato e rappresentando con le loro
reazioni la finalità emotiva delle stesse. Osservava Maestri: «Il rapporto fra la cornice e le
novelle è di ragionamento ad esempio, perché, dove si tratta non di scienza, ma d'esperienza
morale e di uomini, si deve andare al caso concreto» (Maestri, 1971:313). In veste
drammatica la prima di queste funzioni del novelliere viene svolta prevalentemente dei
prologhi e dal coro, quest’ultimo in particolare negli intermezzi conclude il ragionamento
51
Colombo, 2007: xxiii.
65
etico innalzando ad exempla le vicende dei protagonisti. Date le intenzioni didattiche dei
drammi può, tuttavia, essere un approccio valido studiare il rapporto di alternanza fra i cori e
l'intrigo drammatico, alla luce della struttura dell’exemplum medievale, che si suddivide - e
ricorriamo alla terminologia di Bremond -, in un aneddoto e in una lezione, quest’ultima posta
prima o dopo l'aneddoto e opposta spesso a questo come un evento individua lesi oppure a
una regola generale (Bremond, 1982:111-43).
La dichiarata funzione pedagogica determina quindi sia la struttura sia il contenuto dei
drammi di Giraldi, che rappresentano una specie di dicotomia didattica nella quale il coro ha
il compito di esporre le concezioni filosofiche, mentre l'intreccio rappresenta l'esempio pratico
di tali principi. I cori si concludono quasi sempre riferendosi esplicitamente ai protagonisti e
le loro stesse tematiche si collegano all'azione drammatica, legando il piano universale a
quello particolare.
Per Giraldi il poeta deve conoscere la filosofia, «Perché ella è come una fonte onde si
traggono tutti i rivi delle cose che danno agli scritti pregiati i soggetti delle loro
composizioni» (DR, 136). Indubbiamente sfrutta i cori per innalzare il contenuto comico e
novellistico dei drammi ad un livello degno del genere tragico. Il coro è anche un espediente
per creare una distanza ironica all'azione dei personaggi drammatici – dalla distanza fra il
coro da un lato, e l'azione dell'intreccio dall'altro, sorge una specie di realismo dialettico fra il
significato e il significante. L'alternarsi fra la dimensione teorica e quella pragmatica viene
così illuminato rispettivamente dall'intreccio e dai cori, secondo una commistione che
riconosciamo non solo dagli Ecatommiti, ma anche nel Libro del Cortegiano e in altri trattati
del secolo, dove l'educazione formale e pratica si mescola con la contemplazione e la
speculazione, proprio come avviene nella conclusione di Bembo in Castiglione e con il
romitaggio romitaggio del vecchio asceta che conclude gli Asolani.52
Nel paragonare i drammi con il genere letterario del dialogo, bisogna però ricordare
non solo i requisiti formali di quest’ultimo, ma anche la concezione filosofica socratica della
ricerca della verità; una verità che nei dialoghi cortigiani cinquecenteschi tende a essere
prestabilita, anche se ai partecipanti vengono offerte ampie possibilità di esporre i loro punti
di vista. Se dialogare significa esercitare la volontà di capire e di comunicare con qualcuno
che la pensa in modo diverso da noi e, in generale, desiderio di intendersi e di accordarsi, è
vero che i protagonisti drammatici di Giraldi dialogano poco e con inefficienza. Difatti, sono
rare in Giraldi le scene dialettiche tra oppositori che, quando avvengono, il contenuto dei
discorsi motiva raramente la forma del dialogo: in molti incontri le repliche si snodano
parallelamente oppure si ignorano reciprocamente. I sovrani sono il più delle volte sordi di
fronte ai consigli dei loro saggi cortigiani e anche il coro, le poche volte che entra nell'azione,
assume l'irrilevanza della figura secondaria di una povera donna. Sulla stessa linea il coro52 Nel trattato il vecchio appare soltanto nel sogno di uno degli interlocutori, ma le sue parole ottengono il
consenso unanime dei dibattenti; egli, inoltre conclude l'esposizione sui diversi tipi d'amore.
66
filosofo non viene mai delegato di un parere illuminante per i personaggi drammatici,
comunica le somme verità al di sopra dei personaggi e direttamente al pubblico. Ma proprio a
questo muto interlocutore si rivolge anche la maggior parte dei discorsi dei personaggi nelle
tragedie, in cui prevale la trasmissione verticale (dal testo al pubblico), su quella orizzontale
(dall'io-personaggio al tu-personaggio). E si tratta sempre di forme consequenziali alla forte
carica didascalica dei drammi: il monologo è la forma dell'esempio.
3.3.4 Il lieto fine
La funzione del coro non mette però in discussione la qualità tragica del dramma, prestiamo
ora invece attenzione alle problematiche relative al genere della sua nuova tragedia. Accanto
alla preferenza per la fabula nuova Giraldi, nella poetica e nei dibattiti letterari ai quali
partecipa, ricorre a tre diverse nozioni per designare la sua nuova tragedia: «tragedia a lieto
fine», «tragedia mista», «tragedia doppia». Tre concetti che, come vedremo, non sono
nettamente distinti nella teoria di Giraldi; pur corrispondono ai tre fenomeni fondamentali che
distinguono la sua nuova tragedia da quella raccomandata da Aristotele. Vediamo cosa
implicano le suddette nozioni per la concezione del genere.
Il lieto fine è senz'altro il più rilevante tra gli elementi che il dramma giraldiano ha in
comune con la commedia: ben sei delle nove tragedie si concludono lietamente. In realtà, solo
con l'Orbecche l'autore scelse liberamente di inscenare la catastrofe tragica. Ora, Giraldi non è
certamente il primo, fra i tragediografi cinquecenteschi, a ricorrere all’epilogo felice, ma gli
spetta comunque il merito di averne sfruttato per primo sistematicamente le possibilità
implicite, che ben si adattano alle drammatizzazioni della novellistica, al proposito
moralizzatore del dramma, all’aspirazione dell’autore di creare spettacoli facilmente fruibili
dal pubblico di corte. E' quest'ultima ragione a prevalere quando Giraldi spiega e difende la
propria scelta. Com'è noto, nel par. XIII della Poetica Aristotele sostiene che il lieto fine non
è adatto alla tragedia: «E' necessario dunque che il racconto ben fatto sia semplice piuttosto
che doppio, [...] e che sia il volgere non dalla sventura alla buona sorte, ma al contrario, dalla
buona sorte alla sventura»; anche se la tragedia a lieto fine «sembra la prima per l'inettitudine
del pubblico, e i poeti vanno dietro agli spettatori componendo secondo i loro desideri».
Giraldi, invece - e questo sarà un luogo comune negli scritti in difesa della tragicommedia
durante il secolo -, ammette esplicitamente che la scelta di ricorrere al lieto fine appartiene
all'esigenza di adattarsi al pubblico e di rinnovarsi conformemente ai nuovi tempi. Nel
Discorso spiega:
nondimeno noi n'abbiamo composta alcuna a questa imagine, come l'Altile, la Selene,
gli Antivalomeni e le altre, solo per servire agli spettatori, e farle riuscire più grate in
scena, e conformarsi piú con l'uso dei nostri tempi. Che ancora che Aristotile dica che
ciò è servire alla ignoranza degli spettatori [...] ho tenuto meglio soddisfare a chi ha ad
ascoltare. (DCT, 184 c.n.)
67
E' interessante notare, anche qui, la sensibilità che Giraldi mostra per gli spettatori del
dramma, giacché vuole anche risparmiarli da «quelle terribili», cioé quelle senecane, che
invece «possono essere delle scritture», mentre «quelle di fin lieto delle rappresentazioni»
(DCT, 184). Nel prologo dell'Altile, prima tragedia a lieto fine che riprende i topoi del prologo
dell'Amphitruo di Plauto, l’autore rassicura subito il pubblico cortigiano:
Ma state lieti, ch'averà fin lieto
Quel ch'oggi qui averrà; che così tristo
Augurio non ha seco la tragedia
Ch'esser non possa anche felice il fine.
Nel prologo, l’autore sente quindi contemporaneamente l'esigenza di difendersi in anticipo
dalla riservatezza e dalle critiche del pubblico dotto, e richiama le tragedie antiche a lieto fine:
Tal è l'Ion d'Euripide, e l'Oreste,
Elene e Alceste, con l'Ifigenie,
Et alcune altre che tacendo io passo.
Ma se pur vi spiacesse ch'ella nome
Avesse di tragedia, a piacer vostro
La potete chiamar tragicommedia.
L'ultimo verso è particolarmente significativo, perché è l'unico luogo in cui Giraldi applica il
termine 'tragicommedia' ai propri drammi. Ma Giraldi non tenterà mai di giustificare il
termine e neppure di definirlo. Nel Discorso, egli fa invece notare che Plauto «con disusata
voce», denominò l’Amphitruo tragicommedia (DCT, 203), e aggiunge in nota all'edizione
consultata: «la qual voce non è poscia stata accettata né dai Greci né dai Latini, né dai nostri
altresí, se non da coloro che hanno creduto che le tragedie non possono aver felice fine come
avere il ponno». Come se Giraldi, ben conscio del fatto della popolarità della commedia,
volesse difendere il più nobile genere drammatico, come avverte in La tragedia a chi legge:
«che sì cresciuta / (Mercé del guasto mondo) è la lascivia / Che non pur la Tragedia non è in
pregio, / Ma il suo nome real è odioso a molti». Tuttavia, nei successivi dibattiti sulla
tragicommedia, il genere è giustificato con il ricorso alla teoria e alla prassi del dramma greco
antico (Herrick, 1962:1-15). Così farà anche Giraldi, quando difende il lieto fine citando le
autorità di Sofocle, Euripide ed Aristotele; ma che poi, con un'argomentazione sottile,
sostiene che neanche Plauto ha «voluto domandare la favola di un sol nome di tragicomedia,
ma volle egli dire che egli mescolerebbe ad una materia tragica un fine comico» (DCT, 281-2).
Per Giraldi, dunque, l'Amphitruo rimane una tragedia, più precisamente una tragedia mista,
mentre la tragicommedia semplicemente e in generale non esiste.
D'altro canto, è bene tenere presente che l’epilogo felice nelle tragedie non va inteso
semplicemente alla luce del desiderio di compiacere il pubblico, bensì in base al messaggio
etico del dramma. Con il lieto fine si può affermare che, nonostante le opere inspiegabili e
68
talora ingiuste della fortuna, la divina Provvidenza sorveglia il tutto e interviene, infine,
salvando gli innocenti dalla morte. E', quindi, anche il carattere controriformistico del
dramma ad imporre il lieto fine tragicomico: il riconoscimento crea il lieto fine e dispone gli
eventi in conformità alle regole sociali.53 Ancora, il lieto fine permette di dare una
rappresentazione più positiva della regalità, cioè di mettere in scena le conseguenze della
prudenza e della razionalità dei sovrani, oppure di mostrare che il sistema aristocratico è
sorvegliato dalla divina Provvidenza la quale, intervenendo all’ultimo momento, evita che sia
l'autorità ad effettuare la punizione degli eroi. Come annuncia il prologhista dell’Arrenopia,
ripetendo le assicurazioni del prologo dell'Altile:
Ma le Reali favole non sono
Si dannate a le lagrime, a gli affanni,
Che le afflizioni, e le miserie gravi
Aver non possan fin lieto, e felice.
I drammi controriformistici del ferrarese sono processuali e più strettamente imparentati con
l'Antigone che con l'Edipo tiranno: non ci introducono all'irrazionale, ma ai principi della
razionalità e della giustizia. Come la tragedia del Secolo d'oro spagnolo, anche la tragedia
giraldiana ha la funzione di favorire la regolamentazione dell'equilibrio del mondo, secondo la
volontà di Dio e la garanzia dell'istituzione regale. Quindi, nelle tragedie i valori vincenti sono
sempre decisi in partenza e i conflitti centrali sono retorici e non incorporano una dialettica
etica. Si aggiunga il fatto che le promesse del lieto fine da parte dei cori diventano tanto più
frequenti quanto più irrisolvibili appaiono gli intrecci; e che la prevedibilità degli esiti
drammatici determina, in questo modo, un'azione a carattere dimostrativo e monologico,
vicina all'exemplum.
La risposta di Giraldi è dunque molto diversa da quella del Trissino e dei tragediografi
fiorentini degli Orti Oricellari, che guardavano ai modelli greci cercando o anche
semplicemente parafrasandoli, di ricreare l'antica dialettica tragica; i drammi del ferrarese
dimostrano invece una presa di coscienza dell'impossibilità, nella sua epoca di conciliare i
conflitti dei tragici greci con la lectio morale. Si può allora dire, che con Giraldi la coscienza
tragica dell'ironia del fato si trasforma in (tragi-) commedia rassicurante della Provvidenza, la
quale opera mediante l'agnizione, come viene espresso dal secondo coro dell'Euphimia:
Non direm che il peccato
Fusse cagion del male
A Thebe, ma il fatale
Destin, che le fù dato,
Poscia che il bene oprar hor nulla vale,
53
Su questo punto Giraldi segue le raccomandazioni di Aristotele, il quale, nella Poetica, paradossalmente
sostiene di preferire il riconoscimento che avviene prima della catastrofe, in modo da evitarla, a quello che
avviene dopo.
69
E 'n doglia è Euphimia, e in gioia questo ingrato.
Ma se non è à Dio tolto
L'arbitrio, e la potenza
E la sua providenza,
Vede quel, ch'è in occolto,
Creder vò, che la ria cruda sentenza
Cadrà sovra chi n'hà il nostro ben tolto.
3.3.5 La tragedia mista e la tragedia doppia
Per il problema del genere, il mescolamento dei personaggi è un aspetto di importanza
primaria nel '500. La scrittura tragica viene tradizionalmente determinata dalla sua
opposizione con la commedia la quale, basandosi sui modelli antichi, mantiene la classica
rassegna di caratteri comici, per quanto, nonostante la ripetizione di caratteri e situazioni fisse,
offra ampie possibilità di rinnovamento. Il realismo urbano della commedia classica, il suo
carattere basso, si contamina più facilmente con la novellistica, che ammette elementi
realistici e quotidiani. Plauto, come sappiamo, ricorreva alla definizione di tragicommedia che
aveva mescolato caratteri della tragedia con caratteri comici nell'Amphitruo. Nel Discorso
Giraldi definisce la tragedia mista come quella che «ci mostrò Plauto nel prologo del suo
Amphitrione, quando disse che in essa eran persone men nobili mescolate con le grandi e
reali» (DCT, 183). Un ricchissimo repertorio di figure caratterizza il genere misto:
l'Amphitruo viene indicato da Plauto, indirettamente da Giraldi e poi anche da Guarini come
modello della tragicommedia, proprio perché rappresenta degli dei insieme con nobili
personaggi e servi comici. Anche nel Giudicio sopra la tragedia di Canace e Macareo, il
ferrarese difende la tragedia mista riferendosi ad «Aristotile, nella istessa Poetica» e poi a
«Plauto nel prologo del suo Amphitrione» i quali «molto chiaramente di ciò hanno ragionato»;
precisando che in «questa tragedia di duo genere, che noi habbiamo chiamata mista, vi
intervenghino dicevolmente persone humili e basse, mescolate colle gravi, et illustri» (Giud.
16, c.n.).
Per il nostro autore, comunque, resta fondamentale che anche le tragedie miste
osservino il decoro e la gravità.54 Negli scritti teorici egli mostra di riconoscere che la sua
«tragedia mista» si differenzia da quella «pura» a causa della varietà dei personaggi in scena:
il genere tragico assegna raramente ruoli attivi e funzioni importanti a figure di bassa
estrazione, mentre nella commedia il servo si trova spesso al centro dell'azione, e hanno il
compito di organizzare gli intrecci.
Bisogna quindi riconoscere la novità del progetto di Giraldi, per il fatto che egli, fra i
primi, esperimenta sistematicamente l'universo cortigiano come ambiente tragico; e il suo
54 Nella fattispecie l'Amphitruo non rappresenta un ideale perché la tragedia non deve mai "abbandonare la
maiestà; il che fece Plauto, troppo inchinandosi alla comedia" (Giud, 16).
70
aver intravisto le possibilità legate all’introduzione di personaggi della letteratura
contemporanea. La critica non ha ignorato questa specie di realismo in Giraldi; già Neri
osservò sull’Orbecche:
l'antico modello latino del re, per queste nuove condizioni della novella, riassume
l'intransigenza e l'intemperanza di principi moderni; la vita delle corti cinquecentesche è
nota a Malecche, il consigliere buono, come a Tamule e ad Alcocche, i consiglieri
cattivi, e fa la disperazione di Orbecche, stretta dalla minaccia di un matrimonio insigne,
com'è richiesto dal grado. (Neri, 1904:61)
Tale forma di realismo sarà una caratteristica della tragedia del '500; come nota Musumarra:
«Commedia o tragedia, che il Medioevo aveva lasciato separate per la netta distinzione tra
favola e fatto storico, trovano nel Rinascimento un punto di convergenza nel comune intento
di pervenire a risultati realistici» (Musumarra, 1972:24). Tra gli esempi più celebri di questa
tendenza realistica si trova la tragedia di Angelo Leonico, Il Soldato (1550), con personaggi
umili, elaborata su un fatto di cronaca nera. La tragedia si andava imborghesendo; Musumarra
vede il nostro autore come l’esponente di questo nuovo realismo della tragedia, perché i suoi
personaggi hanno «un carattere semplice, quasi borghese, che si accorda allo stile usuale e
discorsivo»; a tal proposito, egli rivela un «accentuato realismo nei personaggi» nelle tragedie,
ricordando che l’Euphimia è stata chiamata tragedia dei servi «perché 'in essa domestici e
scudieri hanno nelle mani le fila del dramma e adoperano il loro ingegno per modificare il
corso degli eventi».55
La «tragedia mista» si manifesta, dunque, nella sempre maggiore importanza assunta
del contesto sociale: è anzitutto la corte a venire messa in scena: familiari, consiglieri, nutrici,
servi, camerieri, ambasciatori; nell'Euphimia, l'autore non ha neppure disdegnato di introdurre
una nana. Si tratta di una scena affollatissima la quale, in realtà, riproduce i movimenti e la
varietà della commedia ferrarese, anche se Giraldi si astiene dall’effettuare una simile
comparazione e spiega, nella sua Lettera in difesa della Didone, che è il bisogno di
verosimiglianza e di rispetto per la grandiosità dell'argomento a richiedere tragedie così
affollate. «Le azioni reali sono di gran maneggio», scrive nella lettera «e vi intervengono
persone singolari di varie condizioni, tanto per la parte di chi patisce quanto di chi è cagione
dell'azione» (LettD, 481).
E’ chiaro però che il miscuglio di personaggi sulla scena tragica ha anche a che fare
con l’influsso della cultura contemporanea, e dunque da altri generi letterari. Mentre
Lodovico Dolce nel 1545 con Il Marito riscrive l'Amphitruo, eliminando dal dramma latino
tutti i caratteri mitologici, intendendo così scrivere una commedia erudita, sul palcoscenico di
Giraldi salgono invece divinità classiche e figure allegoriche: Venere, Giunone, le Furie,
Nemesi, le ombre dei defunti, Mercurio, Cupido, la Fama. Queste introduzioni sono senz'altro
55 Per Gli Antivalomeni egli sottolinea poi che «la gravità tragica cede nettamente al gusto comico»; e sulla Didone fa
notare che i personaggi sono «quasi sempre abbassati al tenore della vita quotidiana».
71
anche dovute all'impiego delle figure spettrali in Seneca, ma la presenza di deità classiche
nelle tragedie dopo l’Orbecche, può essere intesa alla luce del fatto che anche le prime
tragedie «non regolari» del Cinquecento abbondano di presenze mitologiche, solitamente
collegate alla tradizione dei cortei, degli spettacoli e delle feste allegoriche.56 Mediante la
varietà di caratteri e la mescolanza dei generi l’autore ferrarese rompe la severa catena casuale
raccomandata da Aristotele: i vari generi si impongono nell'intreccio distruggendo l'armonia
classica. Il movimento e la varietà comica rende necessaria e/o invita altre realtà ad
intervenire nei drammi, altri universi letterari.57
Il mescolamento dei personaggi della tragedia mista non riguarda solo il ceto sociale,
ma anche le qualità etiche, i vizi e le virtù. Infatti, nel '500, la nozione aristotelica di «doppia
composizione» tratta da Poetica XIII, non ebbe un'interpretazione univoca, neanche da parte
del Giraldi. Nel Discorso, egli ricorda che Aristotele aveva riconosciuto la popolarità della
«doppia composizione» portando come esempio l'Odissea «che si conclude in modo opposto
per i buoni e per i cattivi» (Poetica, XIII).58 E' l'Elettra di Sofocle l'esempio più autorevole di
tragedia doppia, poiché presenta conclusioni diverse per i caratteri: i malvagi sono puniti,
mentre i buoni vincono. E' anche la caratteristica comica delle opposizioni tra le virtù a venire
esposta come specifica della tragedia a doppio intreccio: «cioè che vi sia un saggio e un
sciocco, un crudele e un mite, un avaro, un liberale, un semplice e un astuto» (DCT, 189). La
tragedia mista si rivela, quindi, particolarmente adatta per esemplificare il fine didattico delle
tragedie proprio perché, mettendo in scena opposizioni di qualità etiche incarnate dai
personaggi, rappresenta la giustizia poetica, le punizioni e le retribuzioni secondo i più diversi
caratteri. In tal modo, la 'mescolanza delle persone' offre la possibilità di avanzare esempi
della punizione dei maligni, oltre alla pietà divina nei confronti dei quasi colpevoli.
56
Va inoltre ricordato che nelle celebrazioni ufficiali la corte ferrarese si rappresentava come una società
cavalleresca protetta dalle divinità mitologiche, e sempre secondo questo programma, Giraldi, nel suo
Commentario, fa discendere la casa d'Este da Ercole.
57 Giraldi aveva idee precise su come si dovesse rappresentare il sacro in scena; di nuovo, quindi, torna il precetto della
verosimiglianza e della coerenza, per le quali non sarebbe stato adatto introdurre figure cristiane in tragedie ambientate in
epoche pagane per quanto, innanzitutto, si tratti d'una questione di rispetto verso la religione. Nel Discorso intorno al
comporre dei romanzi, Giraldi denuncia la sconvenienza di mescolare deità pagane e cristiane e ricorda con orrore un
dramma in cui agli angeli erano stati assegnati nomi pagani. È questo un tema che sarà poi considerato attentamente dalla
critica del ‘700; in Italia, in particolare, a partire dal Metastasio. Il rispettoso timore nei confronti del sacro fa sì che
Giraldi su questo punto si distanzi dai suoi ideali di verosimilitudine, con l’adattare le tragedie, anche se ambientate in
epoche e in luoghi esotici, ai "tempi nostri". Per le divinità vale il contrario: se il poeta tratta materia antica «potrà egli
senza biasimo [...] introdurvi e Venere, e Giunone, e Giove, e Pallade, e tutti quelli Dei che a quel tempo erano in pregio e
in riverenza appresso quelle genti che da così fatte menzogne si lasciarono ingannare [...]» (DR, 85).
58 Nel suo studio Horne spiega che la doppia composizione di Aristotele, l'interpretazione avanzata da Giraldi su questa e
la sua favola doppia, erano tre concezioni ben diverse: «Aristotle's term referred to a plot with an opposite outcome for
the good and the bad personages (Poetics, ch. 13). Giraldi, following Pazzi's erroneous rendering (which Maggi failed to
clarify sufficiently), refers to Aristotele's tragedy with a double story as tragedia mista and takes it to mean one with a
happy ending in which personages of high and low degree are involved. [...] By favola doppia Giraldi meant a plot in
which the principal roles are duplicated, so that there are two old men, two young men, two girls, and so on.» (Horne,
1962:36)
72
Siamo infine giunti a trattare della tragedia doppia, il terzo termine impiegato da Giraldi
per descrivere il suo nuovo dramma. Mentre la 'tragedia mista' per Giraldi equivale alla
'doppia composizione' di Aristotele, la 'tragedia doppia' rappresenta quella che contiene più
intrighi e conflitti, come già in Terenzio. Scrive Giraldi nel Discorso:
Ed in questa parte è da avvertire, che come le tragedie doppie sono poco lodate da
Aristotile (quantunque altri senta altrimenti), è non di meno ciò di molta loda nella
commedia: e questo ha fatto riuscire meravigliose le favole di Terenzio. E doppia
chiamo io quella favola, la quale ha nella sua azione diverse sorti di persone in una
medesima qualità, come due innamorati di diverso ingegno, due vecchi di varia natura,
due servi di contrari costumi, ed altre tali, come si vede nell'Andria e nelle altre favole
del medesimo poeta. (DCT, 180)
Giraldi ammette che la tragedia doppia non era preferita da Aristotele, come non verrà
raccomandata neppure dal Guarini; tuttavia sostiene che le tragedie a lieto fine «amano piú i
nodi intricati e sono piú lodevoli doppie che semplici, il che non è cosí in quelle di doloroso
fine» (DCT, 189). La sua preferenza per gli intrecci doppi è indubbiamente ascrivibile al
gusto per la varietas, in opposizione al principio aristotelico dell'unità. Giraldi non ne parla
esplicitamente trattando della tragedia doppia, ma un parallelo a questa predilezione viene
espressa nel Discorso sul Romanzo, dove egli afferma la superiorità del poema di Ariosto
sull'epopea classica (Crf.: Weinberg, 1961:434-5).59
Trattando della teoria della tragicommedia del Cinzio, Herrick conclude che la tragedia
del ferrarese è imparentata con la commedia di Terenzio e, a tal proposito, ne sottolinea in
particolare la struttura, cioé la combinazione di due intrecci, l'agnizione finale che elimina i
pericoli e che conduce alla resoluzione felice per i protagonisti, e alla premiazione dei virtuosi
(Herrick, 1962:67-73).
Com'è noto, lo sviluppo interiore del carattere rappresenta per Hegel una caratteristica
della letteratura romantica; presso i greci, spiega il filosofo tedesco, il carattere è alla fine quel
che era all'inizio. Il dramma romantico subisce invece un'epicizzazione perché qui «il
compimento di un'azione non è solo un procedere esterno, ma è anche un ulteriore sviluppo
dell'individuo nel suo interno soggettivo» (Hegel, 1963:649). Giraldi non discute queste
problematiche, nondimeno vale la pena tenere presente che la sua preferenza per il lieto fine
potrebbe far sì che i suoi eroi tragici, proprio per realizzare tale conclusione, cambiassero in
seguito a una conoscenza più vera. Ma avviene tutt'altro: è proprio la conversazione dei
personaggi malvagi a costituire una delle differenze fondamentali tra la tragicommedia di
59 Giraldi spiega che il romanzo si distingue dall'epopea perché, presentando più azioni, offre maggiore varietà, fonte
essenziale del piacere del lettore: «Perocché porta questa diversità delle azioni con esso lei la varietà, la quale è il
condimento del diletto, e si dà largo campo allo scrittore di fare episodj, cioè digressioni grate, e d'introdurvi avvenimenti
che non possono mai avvenire (se non con qualche sospetto di biasimo) nelle poesie, che sono di una sola azione.» (DR,
58)
73
Guarini e la tragedia a lieto fine di Giraldi. Nei drammi giraldiano non ci è neanche dato poter
assistere all'hamartia dell'eroina: il dramma prende via con una protagonista che ha già
sbagliato, e che ne è anche cosciente, lo stesso vale per il riconoscimento del re, che viene del
tutto smorzato o escluso. Ma la coppia protagonista è statica, sono i cortigiani, che hanno un
ruolo di rilievo, a rappresentare, anche nel loro interno, un processo dinamico.60
3.3.7 Tragicommedia? Giraldi vs Guarini
Da quanto siamo venuti sin qui delineando, è chiaro che non basta prendere in considerazione
solo il lieto fine dell'intreccio per stabilire un processo di interazione fra i diversi generi
drammatici nei drammi, come sembra operi Ariani, quando afferma che le tragicommedie
giraldiane sono «delle vere e proprie tragedie per il tempo dei primi quattro atti, con un quinto
atto spudoratamente appiccicato [...] con la buona coscienza della giustizia finalmente
trionfante» (Ariani, 1974:155). In pratica, le conseguenze di queste tre caratteristiche
«tragicomiche», cioé il lieto fine, il mescolamento dei personaggi e l’intreccio doppio, sono di
grande portate. Ritorniamo ora alla domanda sulla definizione del genere posta all’inizio.
Come si è visto, l'introduzione di elementi comici nella tragedia non significa affatto,
per Giraldi, la creazione di un terzo genere ma, invece una nuova forma di drammaturgia
tragica, più adatta al pubblico contemporaneo. Dopo Giraldi i teorici inizieranno a discutere
sulla legittimità del genere «impuro» della tragicommedia ricorrendo anch'essi ad esempi
classici: le tragedie a lieto fine di Euripide, i drammi satireschi dei greci e, infine, l'Amphitruo
di Plauto.
Guarini, primo e più importante assertore della tragicommedia quale genere specifico
costituisce un punto di riferimento obbligatorio per una discussione sulla nuova tragedia di
Giraldi. In primo luogo, va osservato che Guarini – come anche l'Ingegneri –, assimilerà il
dramma pastorale alla tragicommedia, entrambe comprese nel genere «mezzano»; e che tale
equazione viene rifiutata da Giraldi. Le tragedie giraldiane non appartengono al terzo genere
individuato da Orazio nell'Ars poetica.61 Nel Compendio della poesia tragicomica (1601),
60 La distinzione tra il personaggio teatrale concepito come statico e quello concepito come dinamico viene spiegato con
queste parole da Manfred Pfister: «Statically conceived figures remain constant throughout the whole of the text. They
never change, [...] Dynamic figures, on the other hand, undergo a process of development in the course of the text; their
sets of distinguishing features change, either in a continuous process or a disjointed series of jumps.» (Pfister, 1987:177)
La mescolanza di personaggi richiede che si dia un'attenzione particolare agli aspetti generici dei personaggi. Posso a tal
proposito citare lo Shawross che definisce i personaggi del mondo della tragicommedia nel seguente modo: «Whereas the
traffic of the comedy's passage represents the generalized world - tragedy's world has been most specific with specific
people involved, not types - that of the tragicomedy's has been created by some specific people who are presented as types
and who may thus be duplicated by others undergoing similar experiences» (Shawcross, 1987:24). In questo modo, spiega
Shawcross, la tragicommedia è diversa dalla tragedia, poiché alla fine della tragicommedia si ha l'impressione che quel
che è successo possa accadere di nuovo, perché la natura umana è sempre la stessa; come già notato, la ripetizione degli
intrecci è una caratteristica del dramma di Giraldi.
61 Il ferrarese, del resto, già prima di comporre tragedie a lieto fine aveva dato il suo contributo innovativo alla
drammaturgia satiresca con l'Egle, pubblicato a Venezia nel 1545; quindi, con la Lettera sovra il comporre le
74
Guarini difende il Pastor Fido e spiega ciò che Giraldi aveva messo in prassi con i drammi,
benché non esplicitamente teorizzato: la tragicommedia offre possibilità di assumere quanto
vi è di meglio dalla commedia e dalla tragedia. Per illustrare, Guarini ricorre all'esempio del
medico che adopera il veleno del serpente in qualità di antidoto: come il medico usa soltanto
la parte benefica e temperata del veleno, così l'autore di tragicommedie prende le parti più
utili e meno pesanti della commedia e della tragedia. Sottolinea il coro del Pastor Fido: «Non
è sana ogni gioia / Né mal ciò che v'annoia. / Quello è vero gioire, / Che nasce da virtù dopo il
soffrire». «La tragicommedia» – scrive Guarini nel Compendio - «è fusione di tutte quelle
parti tragiche e comiche che verisimilmente e con decoro possono stare insieme corrette sotto
una sola forma drammatica.» Fin qui Guarini pare poter descrivere la nuova tragedia di
Giraldi; tuttavia le differenze si notano quando il primo specifica che della tragedia si
mantengono «le persone grandi e non l'azione, la favola verisimile, non la voce, gli oggetti
mossi ma rintuzzati, il diletto non la mestizia, il pericolo non la morte», mentre dalla
commedia si prende «il riso non dissoluto, la piacevolezza modesta, il nodo finito, il
rivolgimento felice e soprattutto l'ordine comico» (Guarini, 1914:231). Guarini non eguaglia
né la tragedia mista né quella a lieto fine alla tragicommedia; egli sostiene invece la
superiorità di quest’ultima sulle tragedie impure, perché la tragicommedia presenta solo un
intreccio principale, e una conclusione felice che include tutti i caratteri. In questo modo il
dramma pastorale di Guarini è in sostanza una commedia dove sono introdotti degli elementi
tragici.
Apparirà dunque chiaro che la tragedia di Giraldi non è una tragicommedia così come
questa viene definita da Guarini. Il dramma giraldiano si distingue infatti dalla tragicommedia
guariniana anzitutto nello scopo; che è didattico, mirando non solo a dilettare ma anche a
purgare «gli animi da vizij»; mentre la seconda tende a liberare gli spettatori dalla melanconia
(Guarini, 1914:294).62
Un'altra e forse più importante differenza tra la tragicommedia di Guarini e gli ideali
drammaturgici di Giraldi può essere evidenziata nel doppio intreccio. Mentre Giraldi
raccomanda «(il far morire) in questa sorte di favole (i malvagi, o patir gravi mali,...)» perché
«è di maravigliosa piacere allo spettatore, quando vede che gli astuti son tolti, e rimangono gli
ingannati nella favola, e i forti ingiusti, e malvagi rimangono vinti» (DCT, 184-5), per la
tragicommedia di Guarini è invece fondamentale la conversione del malvagio alla fine del
dramma. La presenza di un capro espiatorio che meriti la punizione divina e che serve come
ammonimento per il pubblico a fuggire il peccato, è invece di estrema importanza per il
satire atte alla scena teorizza il genere, raccomandando per esso una conclusione tragica, quasi un tentativo di
rivendicare il carattere di originalità del genere distinguendolo dall'egloga (Guerrieri Crocetti, 1973:27).
62 Questa differenza, fondamentale anche nella controversia tra Giasone de Nores e Guarini, non sarà poi
importante nelle modalità di sviluppo dei generi drammatici: difatti, il carattere moralistico verrà sottolineato in
molte tragicommedie del '600, in particolare quelle francesi e inglesi.
75
dramma di Giraldi, che in tal senso si associa alla tragedia controriformistica (Mercuri,
1973:94).
Di qui, il vero e grande merito di Giraldi consiste nell'aver legittimato una nuova
forma di tragedia, nella quale il gioco dei diversi generi coinvolge tutti i livelli del dramma. E,
sebbene le sue tragedie a lieto fine non siano tragicommedie in senso guariniano, sono molto
simili alle successive manifestazioni di questo nuovo genere.
Per concludere possiamo riflettere sul fatto che, nonostante l’uso tradizionale del
termine questo non designa nel Rinascimento una semplice mistura di tragedia e commedia,
cioè una «commedia tragica»; bensì sarebbe un sottogenere della commedia. Il modo,
l'aggettivale, è quello tragico, mentre il genere rimane la commedia (Shawcross, 1987). La
tragicommedia, come sottolinea lo Shawcross,
is a genre in its own right (not part of this genre and part of that), which substantively
takes its generic definition form its substantive element “comedy”- thus being a
subgenre of the larger genre comedy - and from the modal element "tragic" -thus
indicatin the author's perspective view of the material being dealt with in the piece of
writing. (Shawcross, 1987:21)
La stessa concezione viene sottolineata anche da Guarini, quando dice che la tragicommedia
non deve necessariamente essere pastorale, giacché questo non è essenziale per la scelta del
genere: esso rivela però l'attitudine dell'autore nei confronti di un genere, e indica la
prospettiva autoriale sul materiale trattato. In questa luce, allora, i drammi di Giraldi non sono
tragicommedie ma - e gli diamo ragione -, delle tragedie, sebbene siano comiche, miste,
doppie e a lieto fine.
3.4
I PERSONAGGI ESEMPLARI
3.4.1
Il personaggo drammatico
Date le intenzioni didattiche e le qualità della tragedia mista, i personaggi drammatici
assumono una funzione centrale nella tragedia di Giraldi, strutturando i diversi discorsi
ideologici, incorporando specifiche qualità etiche, creando varie sfere semantiche. Per questa
ragione la lezione morale dei drammi non è impostata solo attorno al protagonista, come
normalmente avviene nella tragedia, ma coinvolge anche gli altri personaggi con i quali i
diversi componenti del pubblico cortigiano possono identificarsi.
I discorsi e i personaggi drammatici sono creati da un’intricata rete intertestuale.
Sebbene i drammi si basino su novelle, anche gli eroi della tragedia classica concorrono alla
formazione delle coppie di protagonisti drammatici. Nella fattspecie, in base al progetto
educativo, i testi devono presentare personaggi adatti ad incorporare qualità morali. Alla
76
tradizione drammatica classica e alla novellistica si collegano, inoltre, luoghi comuni assunti
dalla letteratura filosofica, che serve come un serbatoio di topoi e di codificazioni dei ruoli da
cui togliere le qualità adatte per formare personaggi verosimili e, nel contempo, esemplari. La
gestualità e il contenuto dei discorsi dei personaggi drammatici del Rinascimento non sono
quindi esemplari unicamente sui modelli antichi, ma contengono elementi di novità,
presentando un realismo ideologico-concettuale che si riferisce alle forme di pensiero
contemporanee.
Un esempio, fra i più commentati, sono le frequenti discussioni fra il re e il suo
consigliere includono argomenti desunti dalla trattatistica politica e filosofica, dove spesso,
nella seconda metà del '500, il carattere iniquo del tiranno viene accentuato dalle sue citazioni
machiavelliche; mentre il consigliere, che spesso si schiera dalla parte opposta, vive la
conflittualità interiore fra l'ideale del Cortegiano di fedeltà assoluta al signore, e la sua
coscienza intima, spesso macchiata di etica controriformista. L'eroina, invece, imposta la sua
argomentazione sulle idee d'amore e sulle varie virtù femminili, presenti sia nei trattati
platonici che nella precettistica comportamentale; e i cori ragionano sull'amore e su questioni
teologiche. Nel corso del secolo diventano anche sempre più frequenti i monologhi
pronunciati dai servi e da altri personaggi secondari, i quali si lamentano della propria
condizione sociale che li condanna alla semi-schiavitù presso una corte abitata da crudeltà e
falsità, in sintonia con la contemporanea trattatistica cortigiana e con lo sfondo disilluso
dell'Aminta di Tasso.
Analizzare separatamente le sfere semantiche che ruotano intorno alle figure
drammatiche principali significa considerare l'ordine temporale, spaziale e causale in cui
vengono esposti i temi principali dei drammi, quali argomenti e disposizioni di un discorso
persuasivo. Un simile approccio semantico non deve però ignorare che un personaggio
drammatico è molto di più di un accumulo di topoi: esso è anche un agente intenzionale,
quindi, portatore dell'azione all'interno dell'intreccio. Proponiamo allora di collegare le
diverse sfere della trattatistica rinascimentale ai personaggi principali degli intrecci, cioè
l'eroina, il re e il cortigiano, i quali rappresentano ognuno un baricentro tematico dei diversi
dibattiti che si incrociano nel dramma.
Sorge a questo punto la necessità di trovare una terminologia adatta a descrivere i
diversi aspetti e le diverse funzioni del personaggio, che verrà assunto come principale figura
retorica nella persuasione drammatica. In The Theory and Analysis of Drama (1988) Manfred
Pfister opera con tre categorie fondamentali di dramatis personae: la personificazione, il tipo
e l'individuo. Secondo questa classificazione l''individuo' è la figura tipica del teatro
naturalista, dove le figure monodimensionali della sacra rappresentazione e del dramma
moralistico-didattico dei Gesuiti vengono denominate 'personificazioni'. Fra questi due
77
concetti, situati esattamente agli antipodi, si trova il 'tipo' che presenta più qualità morali e
sociali, ed è spesso assunto dal registro classico.63
Robert Abirached, nel suo libro La crise du personnage dans le théatre moderne,
propone un’altra terminologia, rivolgendosi alla retorica latina e individua tre caratteristiche
che costituiscono le diverse funzioni del personaggio drammatico:
La rhétorique latine, pour cerner les modalités particulières de l'action du personnage, a
eu recours à trois mots qui témoignent ensemble, en images concrètes, de son
appartenance à l'univers des signes et du paradoxe qui y est attaché: persona, character
et typus. Faux visage, interposé entre l'homme et le monde; constellation de marques
laissées par le réel et qui peuvent faire effet de réalité ; présence, en filigrane, d'un
patron originel et d'un modèle fondateur, qui sont établis dans l'imaginaire : ces
appropches métaphoriques ne sont pas simplement complémentaires, mais elles livrent
les aspects indissociables d'un seul et unique phénomène, dont la complexité requiert
des descriptions successives. (Abirached, 1978:17-8)
Quando ragiona sul personaggio Giraldi, nei suoi scritti teorici, adopera il concetto di
'persona', un termine che a sua volta viene alternato con favellatore e historione; a significare
che le qualità oratorie e sottolineare che i drammi sono principalmente raccontati, mentre
l'azione ha luogo raramente sul palcoscenico, e il personaggio diventa oratore più che attore.
Scrive Ariani:
Il personaggio tragico cinquecentesco si rivolge allo spettatore come l'orator
ciceroniano si rivolgeva al suo pubblico: il palcoscenico e lo scenario sono gli stessi,
l'ideologia da ribadire (sia essa edonistico-cortigiana o epidittico-giudiziaria) è sempre
quello della classe dominante. L'impatto dello spettacolo tragico sul pubblico della
Corte veniva dunque istituito dal Cinzio nei termini di uno straniamento moderato,
fondato su di una netta supermazia del docere intellettuale sul muovere emozionale.
(Ariani, 1979:149)
E come nel teatro antico le maschere erano state ideate anche allo scopo di ingrossare la voce
o di accentuare l'intonazione durante la rappresentazione, così le maschere retoriche servono
per rafforzare l'ethos oratorio dei personaggi e la portata emotiva dei loro discorsi. In linea
con la visione che Marc Fumaroli suggerisce per il dramma classico francese ritengo, dunque,
che sia utile considerare il dramma come il discorso unitario e polifonico di un oratore-autore,
in cui domina la figura della maschera, o meglio, della prosopopea (Fumaroli, 1990:29-70).
La prosopopea diventa allora il principio costitutivo del dramma per il quale il discorso
dell'autore-oratore si nasconde dietro una pluralità di voci che dialogano. Il soggetto logico
del testo drammatico sfrutta i personaggi per incarnare strategie retoriche diverse; di
conseguenza, un personaggio non è una persona, (tranne che nel senso etimologico), bensì il
63
Va ricordato che per la critica realistico-storica (Lukács) il tipo è un personaggio che funziona da emblema di un
determinato ceto sociale o ambiente, e che rappresenta le contraddizioni fondamentali di una società in modo da cogliere
l'essenza dei problemi storici.
78
punto intorno al quale converge un certo procedimento retorico. Il termine generico di
personaggio verrà quindi impiegato, in questo lavoro, quale sinonimo dei termini di maschera,
di figura umana e di prosopopea.
Una delle funzioni principali del personaggio è legata al termine di carattere, segno di
distinzione di una persona. Cito le parole del D'Amico, tratte dall'Enciclopedia dello
spettacolo:
il suo primitivo significato è quello «grafico, di segno indicativo», e per derivazione, il
termine si è allargato a significare «qualità distintiva, tipo» [...] sia nel campo delle
scienza morali e della tipologia umana [...]. Nel campo dello spettacolo, da un lato [...] il
c. in quanto insieme delle pecularietà di un personaggio [...] può dirsi elemento
connaturale al dramma, e Aristotele [...] lo mette fra gli «elementi costitutivi di ogni
tragedia». (D'Amico, III, 1961:13)
Ora, il termine di carattere viene spesso adoperato come se fosse sinonimo dell'ethos del
personaggio teatrale di Aristotele; quest'ultimo, tuttavia, costituisce indubbiamente una
nozione più ambigua e più vasta di quella che il concetto di carattere assume nell'uso critico
corrente, dove indica i tratti morali di una persona, i vizi, le virtù, il temperamento oppure il
suo ruolo nella società. Il 'carattere', che nel senso ultimo si rivela come personificazione,
occupa una posizione di primo piano nel teatro comico, nel quale i personaggi finiscono con
l’assumere forme stereotipate e stilizzate che stanno a simbolizzare una virtù o un vizio. Nel
teatro moderno l'idea del personaggio drammatico come 'carattere' rinasce in seguito alla
riscoperta di Plauto e di Terenzio e viene ripresa nella commedia dell'arte. Così, nel suo
saggio sul riso anche Bergson sottolinea che una delle differenze essenziali fra i personaggi
comici e quelli tragici è che la commedia tende a rappresentare figure stilizzate in tipi, per cui
«la generalità è nell'opera stessa»; mentre la tragedia esalta un determinato individuo
(Bergson, 1991:131). Bergson sostiene che mentre il personaggio tragico possiede una
passione, il temperamento di quello comico si rivela più come una fissazione, dovuta all'età,
al mestiere o alla situazione familiare in cui è si trova: una personificazione, cioè un carattere,
la cui identità viene fissata a priori e non drammaticamente costruita.64 Come abbiamo visto,
nei suoi testi teorici anche Giraldi sottolinea l'importanza fondamentale nei propri drammi
dell'ethos dei personaggi che, anche grazie alle caratteristiche della tragedia mista si
presentano come rappresentanti di virtù o vizi.65
64 Sulle tragedie rinascimentali Hegel giudica le figure tragiche francesi e italiane come imitazioni astratte e
formali di quelle antiche, come semplici personificazioni di passioni determinate, - l'amore, l'onore, la fama,
l'ambizione, la tirannia, ecc. (Hegel, 1963:1370). Contro questa critica abituale nei confronti della tragedia
italiana del Rinascimento, che sembra spesso basarsi su un'ideale naturalista, va però tenuto presente che la
concezione dell'eroe tragico quale carattere in realtà non è meno fedele alla teoria aristotelica di quella del
conflitto moderno che si sviluppa da tratti e anche da scissioni interiori, svalutando di conseguenza l'esteriorità e
gli aspetti sociali.
65 Giraldi non è il solo ad enfatizzare il carattere dei personaggi, infatti Trissino, nella Quinta divisione della poetica,
definisce la propria Sofonisba come tragedia "passionale" paragonandola all’Aiace di Sofocle, perché i personaggi
principali agiscono in base ad un tratto caratteriale.
79
Si arriva così al typos, il terzo dei termini retorici proposti da Abirached per designare
il personaggio drammatico (Abirached, 1978:41). Il typos è una specie di modello preso dalla
galleria di figure della cultura collettiva, il quale include anche la fabula alla quale esso si
collega, e che ha fissato il personaggio prima del suo evolversi nel nuovo intreccio. Tale
termine può essere utile nell’analisi dello scambio intertestuale e dei percorsi associativi che i
personaggi comportano. Il delineare una determinata figura sulla base del rapporto
intertestuale con i valori etici che questa sta a rappresentare nella tradizione umanistica e nella
letteratura esemplare, significa sempre definire un ethos prestabilito dell'oratore/personaggio.
Nel capitolo XXIX del secondo libro della Retorica, Aristotele designa con 'ethos' il carattere
dell'oratore, il suo comportamento, la sua moralità. L'ethos oratorio della retorica classica si
stabilisce dai discorsi del personaggio e dall'impressione che si ricava dalle sue parole nello
specifico contesto discorsivo; ma tale ethos può anche opporsi ai valori tradizionalmente
connessi a quel tipo, alla memoria collettiva e alla precedente vita letteraria del personaggio,
che comunque costituiscono un preambolo al suo discorso.
Come per le fonti dei drammi, si può stabilire preliminarmente l'esistenza di una
gerarchia di tipi: al vertice viene situata l'eroina, con tutte le aspettative presupposte su di essa
dal pubblico. Le norme che la protagonista richiede per la propria rappresentazione sono
dunque costituite dall’insieme delle eroine letterarie, mentre al di sotto esistono sottocategorie
di tipi di eroine (le Medee, le Cleopatre, le Griselde, ecc.). Le riprese di questi tipi letterari
possono anche essere parodiche o ironiche; comunque, e sempre, si qualificano come nuovi
interventi nei discorsi che riguardano un certo tipo.
Alle luce dei principi applicati per definire per le varie funzioni dei personaggi, si
potrebbe proporre un quadro generale degli scontri e delle lezioni nei drammi di Giraldi.
Proponiamo quindi, di analizzarne le tragedie sulla base delle tematiche principali, che sono
collegate alle figure più importanti: l'amore in connessione con l'eroina, l'esercizio del potere
legato al sovrano e il servizio della corte, ruotante intorno ai cortigiani.66
3.4.2 Una nuova eroina
La giovane eroina costituisce una delle innovazioni più importanti nella tragedia del ferrarese,
e lui ne è consapevole: nel Discorso viene sottolineata con orgoglio la novità della sua eroina
decorosa. La preferenza dell'eroina positiva si spiega dal bisogno tragicomico di suscitare la
pietà del pubblico, poiché è innegabile che quel sentimento si ottiene più facilmente quando si
accentra sulla protagonista:
66 Questi temi ci collegherebbero, a loro volta, alle osservazioni hegeliane sull'arte romantica, e sull'impossibilità di
ricreare la tragedia antica nell'età cristiana. L'amore, l'onore e la fede sono individuati dall’Hegel, com'è noto, alla stregua
dei tre sentimenti fondamentali dell'interiorità e della soggettività dell'arte romantica (Hegel, 1963: 619-42).
80
Ma oltre questi amori scellerati che sono stati introdotti dagli antichi nelle buone
tragedie, credo io che nella tragedie di felice fine sia lecito introdurre amori onesti di
vergini e di pulcelle con quella onestà che conviene al decoro reale, perché questa
passione d'amore è tanto comune che alla giovine età non disdice in qualunque sorte di
persone. (DCT, 218)
Solo la tragedia a lieto fine può introdurre questo tipo di protagonista, perché secondo Giraldi
la tragedia vera e propria richiede eroine che con i loro esempi danno «pena alle
scelleraggini» e mostrino «quello che si dee fuggire» (DCT, 218). Neppure nella commedia è
ammessa per il fatto che l’ambito umile la esclude: «la disonestà delle persone di questa scena
non gliela lascia introdurre» (ivi, 219). Nelle commedie romane l'eroina non è soltanto passiva,
ma appare anche raramente in scena:
Che ancora che Plauto faccia venire in iscena la vergine Planesia nel Curculione, e la vi
faccia ragionare, non volle però Terenzio che la vergine donata da Trasone a Taide
favellasse nell'Eunuco, ma la fe' far mostra di sé nella scena, come alla sfuggita. (ivi,
216)
Invece, l’eroina decorosa può figurare nella tragedia a lieto fine perché lì si trova fra «persone
grandi, magnifiche, reali» e «non si ragionano di cose lascive, ma di alte e sublimi
(quantunque anco vi si trovino amori) e facendosi le cose entro alla corte, e non in casa di
questo, e di quella, o ne gli angiporti, o nelle barberie, o in altri tali luoghi poco convenevoli
all'onestà delle donne» (ivi, 216). Si tratta innegabilmente di una rivalutazione del ruolo
drammatico della donna, resa possibile anzitutto dal materiale novellistico. Osserva Pieri sulla
centralità della donna negli Ecatommiti:
In diretta polemica con la novellistica licenziosa del tempo il Cinzio mira cioè a
costruire tipologie femminili in cui l'eros, sublimato e legittimato nel patto coniugale,
diviene 'onore' che rende la donna domina, conferendole una dignità precisa all'interno
della comunità sociale. (Pieri, 1978:54)
Drammatizzando le novelle, Giraldi si collega, in realtà, ad una tradizione e ad un'idea di
tragedia anteriore alla scoperta dei testi greci. Invece di riferirsi alle novelle del Boccaccio,
così poco adatte al moralismo del Cinquecento avanzato, Giraldi ricorre al proprio novelliere,
scegliendo di calcare sette delle sue tragedie sulle sue novelle; queste si distribuiscono su
quattro delle deche degli Ecatommiti - tre delle quali trattano il tema d'amore. Le fonti
dell'Orbecche, dell'Altile e degli Antivalomeni sono contenute nella seconda deca del
novelliere «nella quale si ragiona di coloro, che o di nascosto, o contra il volere di maggiori
loro hanno amato con fine o lieto, o infelice». La seconda deca contiene sette novelle che
trattano dell'amore contrario al volere del padre, condotte tuttavia a lieto fine, mentre le tre
restanti rappresentano le conseguenze tragiche di un'eccessiva severità del padre. L'Arrenopia
81
è tratta dalla terza deca «nella quale si ragiona della infideltà de Mariti, e delle Moglie»; la
fabula della Selene appartiene alla quinta deca che riprende lo stesso tema antiteticamente,
trattando della fedeltà; infine l'Epizia e l'Euphimia derivano dall'ottava deca che tratta
dell'ingratitudine.
Per la drammatizzazione il ferrarese sceglie dunque novelle prevalentemente dalle
prime cinque deche degli Ecatommiti che si riferiscono alla morale privata (mentre le cinque
deche successive, introdotte dai tre Dialoghi della vita civile, trattano della morale pubblica).
La tematica centrale delle novelle delle prime cinque deche degli Ecatommiti è l’etica del
matrimonio, topos attuale negli decenni del consiglio trentino (Bertoni). Lo scopo, dichiarato
nell'introduzione alla prima metà del novelliere, è quello di insegnare per mezzo di racconti
esemplari quanto vi è di buono e di cattivo dell'amore umano. Le fabule dei drammi mirano,
quindi, a dimostrare quale sia la funzione dell'amore nella vita civile.
Dunque, come i contemporanei, e probabilmente dovuto all’influenza delle eroine di
Boccaccio, Giraldi predilige la protagonista femminile e sceglie di puntare la tensione tragica
sul suo amore, illecito o esemplare che sia, in opposizione al sovrano. Difatti, tutte le nove
tragedie di Giraldi, a esclusione degli Antivalomeni, presentano una protagonista, il cui nome
dà anche il titolo al dramma: è sull'eroina che «riposa la sostanza del fatto che si maneggia
nella favola» (DCT, 208). Delineare la figura dell'eroina e la sua funzione negli intrecci
significa trattare del conflitto principale delle tragedie, poiché i temi legati al cortigiano e al re
dipendono dal processo innescato dall'hamartia della protagonista. E si tratta di constrasti
interni alla famiglia - una soluzione in piena regola con Aristotele, il quale afferma che la
violenza all'interno della famiglia è più tragica della violenza politica, perché rappresenta
un'offesa ai legami di sangue e quindi alla legge naturale.
In Giraldi vengono sempre presentati personaggi femminili che assumono un'identità
per le loro opposizioni al capo della famiglia: la prima tragedia mostra una figlia che uccide il
padre; poi, di seguito, la donna singola, la sorella, vengono, grazie al ribelle sentimento
d'amore, poste al centro dell'azione drammatica. La tragedia tende a raffigurare i sentimenti
dell'eroina come inconciliabili con lo schema ortodosso dell'ubbidienza gerarchica. Su questa
linea, tutte le eroine di Giraldi, tranne Selene e Epizia, scelgono da sé l'uomo da amare.
Dove nella tragedia greca l'eroe è sottoposto alla forza superiore del Caso, che,
portandolo alla caduta, gli assegna uno statuto eroico, nella tragedia di Giraldi è l'eroina, ad
essere l'oggetto della forza superiore dell'amore. L’amore è l'elemento che innesca la crisi una funzione che del resto questo sentimento presenta anche negli Ecatommiti.
Le potenzialità tragiche del tema dell'amore vanno senz'altro viste alla luce del criterio
dell'universalità della fabula tragica. In un mondo caotico, l'amore testimonia la fragilità delle
relazioni umane, come conferma Bruscagli; la fatalità dell'errore tragico «viene in tal modo
identificata con l'onnipresenza d'amore, e l'universale condizione che 'amor ch'a nullo amato
amar perdona' consente al pubblico di riconoscersi negli infelici protagonisti della novellistica,
82
rei di manchevolezze quali 'tutti dì si veggono avvenire agli uomini'» (Bruscagli, 1983:27).
Così, la tematica dell'amore facilita la catarsi: l'identificazione del pubblico con i destini
drammatici può avverarsi a causa della possibilità di tutti di diventare schiavi del «disordinato
appetito», dell'universalità della passione d'amore rappresentata dalla protagonista di Giraldi.
Molti dei drammi giraldiani possono quindi venir letti come exempla argomentativi nel
grande dibattito cinquecentesco sull'amore.
Ora, a parte l'esempio dell'Alcesti, che è stata definita la prima tragicommedia della
storia della letteratura, quando l'amore occupa una posizione centrale nell'intreccio nella
tragedia antica tende, per lo più, ad assumere le sembianze di passione e d'irrazionalità.
L'amore tragico quale viene comunemente inteso, cioè l'amore contrastato della commedia
antica con una conclusione infelice (come quella di Romeo e Giulietta), è dunque un
rinnovamento tematico dei primi tragediografi moderni.
Giraldi non è il primo tragediografo moderno a trattare il soggetto amoroso. Molte delle
tragedie in latino del Quattrocento si ispirano agli amori infelici della quarta giornata
decameroniana, poi ritenuti dai teorici padovani - fra i quali Sperone Speroni e Faustino
Summo -, particolarmente adatti alla riscrittura drammatica. La prima tragedia d'amore in
volgare fu composta per la corte a Ferrara nel 1499 da Antonio da Pistoia, che drammatizza
proprio la novella di Tancredi e Ghismonda, indicata dal Bembo, nelle Prose, come modello
esemplare di stile narrativo (Crf.: Herrick, 1965:29-33).
Alla già solida tradizione tragica della tematica d'amore nei tempi di Giraldi, si
aggiungono anche altre ragioni fra le quali l'eredità dei temi della novellistica, della lirica
petrarchista, di quella cortigiana e l'influenza della filosofia neoplatonica. Scrive Ian Maclean
in conclusione del suo studio sulle concezioni rinascimentali della donna:
Neoplatonism is influential in the promotion of new idea on woman in two domains: the
theory of love and politics. There can be no doubt that the respect and honour paid to
the female sex in love poetry and the pastoral of Renaissance Europe is closely
connected with the neoplatonist theory of beauty and love. The passage of Republic in
which Socrates argues that women should be allowed to participate in the running of the
state is widely known and quoted, and opposed to the Aristotelian view. (Maclean, 1980:
85)
Infine, si aggiunge anche la tendenza nella tragedia rinascimentale non accademica di
mescolare i generi drammatici e di creare intrecci più romanzeschi e comici.67
3.4.3 Il ruolo del sovrano
67 Nelle tragedie del ciclo «fiorentino», che si basano in gran parte su fonti antiche, questo aspetto non appare così
evidente come nei drammi posteriori, ma nondimeno si nota anche lì la tendenza ad includere speculazioni sull'amore
amplificandone il ruolo.
83
Il fatto che sia sempre l'eroina ad essere protagonista nei drammi di Giraldi non comporta che
la sua controparte, il re o il tiranno, non possegga un ruolo fondamentale, anzì; il suo ruolo
può rivelarsi più articolato, non muovendosi, come l'eroina, principalmente su un registro
patetico. Graize alla sua presenza la mimesi drammatica può diventare uno strumento politico.
Tutte le tragedie di Giraldi contengono riflessioni sulla qualità del buon governo.
Entro la figura del re drammatico rinascimentale si manifesta, però, anche un contrasto fra
l'istituzione regale, che ha di mira il buon reggimento dello stato e la volontà umana
dell'interesse particolare. Attraverso i vari tipi di sovrani, nel corpus drammatico di Giraldi
vengono quindi messi in scena vari exempla di esercizio del potere, in modo da dimostrare a
quali regole devono attenersi i governanti per non essere odiati come tiranni e per mantenere
la stabilità dello Stato. L'attributo tipico del sovrano è l'autorità, le sue funzioni sono quelle di
premiare o di punire. Nella tragedia classica, il potere diventa pure la causa della sua caduta,
poiché egli diventa vittima della propria fatale imprudenza o del suo desiderio di abusare del
potere. Lo scopo principale del re nelle tragedie di Giraldi è, in genere, di essere l'agente
umano del ripristino dell'ordine sociale sconvolto dalle azioni della protagonista.
Le tragedie del ferrarese sono processuali, mimesi del disvelamento della colpa e della
giustizia. Nell'elaborazione drammatica della fonte novellistica, Giraldi sceglie di non
drammatizzare molte scene interessanti, quali l'errore delle eroine, lo scoppio del conflitto,
bensì sceglie di puntare l'azione sul processo giuridico e sulla deliberazione politica. In quasi
tutti i drammi giraldiani il sovrano appare come un giudice, che si trova a dover affrontare un
caso difficile: l'Orbecche, l'Altile, l'Euphimia, gli Antivalomeni, la Cleopatra e l'Epizia
contengono, infatti, discussioni sull'antitesi clemenza-vendetta. Le controversie sul perdono e
sull'efficacia del timore avvengono nelle scene in cui il re si trova a dover decidere quale
reazione adottare di fronte ad un'offesa allo Stato o alla regalità. E' la situazione rappresentata
nell'Antigone, dell'antitesi fra il re legislatore animato e la legge inanimata, incarnata
dall'eroina sofoclea; là, tuttavia, secondo l'interpretazione hegeliana, i principi-guida erano
oggettivi, nelle tragedie rinascimentali, invece, le discussioni si snodano intorno alla tattica e
al potere soggettivo del re. La tragedia moderna del ‘500 non può riprendere lo spirito dell'età
eroica della tragedia greca dove il diritto è mediato con l'universale e non si registra alcuna
scissione fra la legge oggettiva e l'individualità soggettiva.
La tragedia antica presenta due tipi fondamentali di sovrani: il re non infallibile e il
tiranno, che entrambi figurano nelle tragedie di Giraldi.
Il modello classico del tiranno è quello di Seneca, il quale comporta la mancanza del
fondamentale requisito aristotelico di essere contemporaneamente colpevole e innocente, e di
poter suscitare sia terrore che pietà nel pubblico. Le tragedie della tirannide rappresentano un
conflitto tra la ferocia del re e l'innocenza oppure la semi-colpevolezza delle vittime. Il
modello tirannico di Seneca, presente anche nella novellistica e nelle sacre rappresentazioni
per mezzo della figura di Erode, permette la polarizzazione fra la virtù e il peccato; in più,
84
esso offre la possibilità di soddisfare il pubblico con il lieto fine, mediante il tirannicidio.
Nelle tragedie giraldiani figurano solo due tiranni: Sulmone nell'Orbecche e l'impostore
Acharisto nell'Euphimia. Nella fattispecie, se i drammi vengono studiati da un punto di vista
ideologico, è significativa, non solo la scarsa presenza di tiranni nella sua produzione, ma
anche il fatto che, a parte il despota dell'Orbecche, chi è classificato come tale, si è
impadronito del trono ricorrendo alla frode. Solo nella prima tragedia il tiranno di Giraldi si
trasforma in bestia e, come nel Tieste di Seneca, massacra la propria famiglia; nelle tragedie
seguenti i re non arrivano mai a commettere delle crudeltà al livello di Sulmone.68
L'Orbecche è dunque un'eccezione: non solo è l'unica tragedia originale di Giraldi che non sia
a lieto fine ma è anche l'unica a presentare un tiranno quale re legittimo in contrasto con
l'eroina.
La scarsa presenza di tiranni in Giraldi è una conferma che quella forma di senechismo
è molto limitata nei suoi drammi. D'altra parte, è impossibile non pensare che ciò appartenga
all'autocensura di un autore timoroso di offendere il potere, che preferisca dare esempi
educativi alla corte e al suo duca, presentando in scena sovrani costretti improvvisamente a
dover risolvere un problema giuridico; anziché una bestia incoronata, la quale rende anche
difficile l'identificazione etica del pubblico con la fabula. In molti drammi presi dalla
novellistica, i tratti tirannici e la funzione di anti-eroe vengono quindi incorporati dal
cortigiano malvagio.
Seneca, tuttavia, non è l'unica fonte per un autore che desideri rappresentare l'aspetto
negativo del potere, poiché nel Cinquecento il Principe del Machiavelli subentra presto nella
cultura come paradigma classico del tiranno che subordina la propria umanità al potere. Nella
figura del tiranno viene quindi rispecchiata la ricezione antimachiavellica meno articolata;
quella che interpretava la netta distinzione del Machiavelli tra la sfera politica e quella morale
come immoralità. Il principe del Machiavelli, giovane ed aggressivo nei confronti del mondo
circostante e della fortuna, si distinge dall'ideale di eroicità che sta guadagnando sempre più
terreno nella letteratura tardo-rinascimentale. Il realista Machiavelli afferma in Principe XVIII
che lo statista, in quanto uomo fornito di una doppia natura e cioè per metà bestia e per metà
intelletto, non può governare né semplicemente per mezzo della ragione né solo tramite la
forza. E’ proprio questo lato pragmatico dell'argomentazione di Machiavelli, che include
anche gli strumenti dell'inganno e della crudeltà, a venire ripreso nei drammi rinascimentali
nel suo senso peggiore, cioè mediante le citazioni del sovrano immorale e impostore.
Sebbene la maggior parte dei sovrani nelle tragedie venga rappresentata in preda all'ira,
quello più frequente in Giraldi è un re non infallibile, ma che possiede anche le qualità
positive dell'autorità. Nel Creonte dell'Antigone di Sofocle, si può vedere un tipo di sovrano
che presenta il carattere intermedio dell'eroe tragico. Nel dramma rinascimentale ci troviamo
68 Anche nel novelliere di Giraldi la figura del tiranno è estremente rara, nel quale le punizioni dirette da parte
dall'autorità avvengono solo nella novella che è la fonte dell'Orbecche (Olsen, 1976:244).
85
però di fronte ad una figura per certi versi più complessa perché nel Creonte moderno, reso
consapevole della natura illusoria del potere, l'azione non concorda necessariamente con le
virtù interiori: le sue sono quindi «azioni miste», per ricorrere alla terminologia di Aristotele
(Et. Nic., III. 1110a), cioè «compiute per forza» dall'individuo, il cui fine dipende dalle
circostanze. I dubbi, rispetto alle azioni, vengono confessati nei monologhi nei quali si
manifesta la scissione interiore del sovrano tragico moderno; infatti, il concepire se stesso
come persona ficta richiede un'auto-indagine continua. Ed è in questo contesto che si infiltra
anche una ricezione meno superficiale della lezione del Machiavelli, poiché costruire il re
tragico sul prototipo di Creonte significa rappresentare un re che vive il conflitto fra la pietà e
l'etica politica; che può autorizzare lo scontro fra la passione individuale e il potere
impersonale.
Si può vedere l’ethos ideale nelle tragedie alla luce dell'ideale del magnanimo,
secondo le qualità delineate nel settimo libro dell'Etica Nicomachea, che creano le distinzioni
sulla base delle quali verranno impostate la maggior parte delle trattazioni su questo tema
(Gauthier, 1951; Weise, 1961). Aristotele distingue fra due tipi di magnanimità: le virtù del
politico e la grandezza del filosofo, l'azione e la contemplazione. L'arete degli eroi guerrieri,
Achille, Aiace, Alcibiade - per ricorrere agli exempla elencati dal filosofo greco, si trova
nell'azione, nel rifiuto di sopportare passivamente le offese, quindi nel desiderio di vendetta.
L’ira di Achille è una manifestazione della sua grandezza. La grandezza eroica dell'uomo si
afferma, in tal modo, tramite le sue azioni, e nella lotta egli è spinto dal desiderio di conquista
e di dimostrazione della propria superiorità: optando per la gloria, il magnanimo guerriero non
teme niente al di fuori della vergogna. Mentre questo primo tipo di eroe aristotelico possiede
le virtù fondatrici, il secondo tipo di magnanimità, quella rappresentata da Socrate, è invece
conservatrice. E' la virtù di resistenza di fronte alle vicissitudini della Fortuna, la grandezza
esaltata prima dagli stoici, poi dalla chiesa medievale, che si manifesta anche con il disprezzo
dei beni esteriori. Secondo la concezione aristotelica della tragedia, questo tipo di
magnanimità non può essere incarnata da un eroe tragico, tantomeno da un sovrano, che si
rivela proprio attraverso le sue capacità di re-agire. Come rilevato, in Giraldi sono quindi le
eroine a incarnare questo eroismo stoico. L’eroe magnanimo e prudente viene designato
ripetutemente nei dialoghi dei drammi, ma mai rappresentato.
Con la riscoperta dei valori della letteratura classica si crea, a partire dal Petrarca,
un'idea dell'eroicità caratterizzata dalla sublimazione dell'individuo attraverso la forza fisica,
insieme allo sviluppo delle facoltà spirituali. Nasce cioè un eroe "equilibrato", in cui le due
sfere, il tentativo pragmatico di padronanza sui colpi della fortuna e la facoltà di elevarsi al di
sopra di essa, acquistano un peso uguale sulla bilancia delle virtù. Secondo il pensiero
umanistico-classico la manifestazione della vera virtus è: «celebrazione dell'uomo completo
che si misura nel mondo, e gode del mondo» (Garin, 1964:57). Nella letteratura
cinquecentesca si nota anche che l'influenza dei nuovi ideali religiosi, insieme alle norme del
86
comportamento, ha cambiato la fisionomia psicologica dell'eroe, designando un ideale di
autodisciplina, di prudenza e di equilibrio. Stando a Georg Weise l'influenza umanistica
rappresenta un orientamento 'classico' nelle virtù: si rivela «l'ideale di equilibrio» che vien
fuori da molta della poesia e della prosa del primo Cinquecento, l'ideale non del superuomo,
ma dell'uomo padrone di sé, che ha il senso della misura e del decoro (Weise, 1961:238).69
L'elevazione dell'eroe nel '500 si mantiene su una via di mezzo in cui dominano gli ideali
della misura, della convenienza e del decoro atti a frenare ogni esagerazione. Un parallelo
politico con questo ideale eroico equilibrato sono le idee del Guicciardini che, in opposizione
al Principe del Machiavelli, sostengono un ideale di moderazione e di tranquillo vivere civile,
rifiutando sia il principato tirannico che la larga democrazia popolare. Ed è questo ideale che,
accentuato sempre più durante la Controriforma, si manifesta nei testi letterari di Giraldi, il
quale nel terzo dei Dialoghi civili, trattando della scelta fra vita contemplativa e vita attiva,
conclude che il dovere principale dell'uomo consiste anzitutto nel vivere civilmente e
onestamente.
3.4.4 Il cortegiano
A differenza delle tragedie greche, ma indubbiamente per l'influsso di Seneca, le tragedie
cinquecentesche presentano spesso un personaggio che svolge il ruolo di consigliere e di
aiutante del re. Sono personaggi importanti nelle cosiddette digressioni dei drammi, negli atti
centrali: «questo episodio non è altro che le digressioni che si fanno per accresciemento della
favola, e per darle con convenevole ornamento la sua debita grandezza» poiché il dramma
senza di essa in pochissimi versi si espedirebbe (DCT, 80). Un importante motivo classico che
coinvolge il cortigiano è il dibattito centrale nella pseudo-senecana Ottavia, mentre è
senecano pure il tema dell'opposizione tra furor e bona mens, rappresentata dal tiranno e dal
consigliere. Se però si cercano modelli vicini a Giraldi, notiamo che già nella prima tragedia
ferrarese del 1499, la Filostrato e Pamfila di Pistoia, è introdotta la figura rappresentativa del
consigliere fedele dove, come nella tragedia di Giraldi, il consigliere cerca invano di frenare
l'ira del re e di convincerlo a usare la clemenza nei confronti degli amanti.70
Come già detto, riteniamo che sia indiscutibile l'esistenza di un nesso consequenziale
tra la fioritura dei trattati sulla figura del cortigiano nel Cinquecento, e l'importanza di questa
figura nelle tragedie. I protagonisti reali sono figure parzialmente predefinite nei drammi
giraldiani, formati cioè già prima della loro comparsa sulla scena, e prevalentemente
modellati sul dramma antico, insieme con la novellistica esemplare, elemento che dona una
69
Lo afferma anche Mario Santoro che fa notare che nel modello di principe proposto nei trattati sull'"arte di
governo" veniva riconfermata, anzi accentuata, la funzione egemonica della prudenza (Santoro, 1978:520).
70 Il ruolo del consigliere in Pistoia è però anche corale, poiché egli si trasforma in messaggero narrando il
massacro di Filostrato e, in conclusione della tragedia, è lui a pronunciare gli esiti morali della fabula. In tal
modo il consigliere perde, presso Pistoia, la sua individualità professionale (Herrick, 1965:29-33).
87
certa univocità al loro ruolo. Il cortigiano, che non porta con sé un bagaglio intertestuale così
pesante, è invece formato più liberamente e su intertesti più vari.
Il consigliere fedele influisce solo eccezionalmente nell'andamento dell'azione dei
drammi di Giraldi, poiché non agisce indipendentemente, ma serve principalmente ad esporre,
insieme col suo signore argomenti caratterizzati in utramque partem dai conflitti etici e
politici della tragedia. Il cortigiano intrigante, invece, mosso dall'invidia o dall'avidità
personale svolge un ruolo influente nell'intreccio drammatico, proprio perché agisce per se
stesso sciolto sia dai legami della fede, che dall'etica. La figura del cortigiano infido ha quindi
una funzione fondamentale nell'intreccio, come la sua controparte comica non solo mette in
moto l'azione, ma dirige e manovra il mondo che gli sta intorno, quasi come un regista
all'interno del dramma mette in scena un episodio dopo l'altro, costantemente angosciato della
prossima mossa del suo antagonista.71
Vedremo che per la poetica della nuova tragedia di Giraldi, la figura del cortegiano
serve ad attenuare i conflitti, tramite i buoni e pazienti consigli, ma anche accogliendo su di sé
le colpe che altrimenti spetterebbero al re. La tecnica del Giraldi di introdurre capri espiatori,
che inizia con la figura del cortigiano invidioso e malvagio nell’Altile può, anche, venir letta
come una messa in pratica dell'exemplum del Machiavelli del Remirro de Orco (Principe, VII),
già adoperata, come nota Lebatteux, nell'apologetico Commentario di Giraldi dove si
attribuisce la responsabilità della crudelissima repressione dopo la congiura fallita di Niccolò,
non a Ercole I, ma al segretario del Duca (Lebatteux, 1974:269). Sebbene frequente nella
trattatistica dell'epoca, la figura del villano politico risulta un personaggio raro nella
novellistica cinquecentesca e, prima di Giraldi, esso è pressoché assente anche nella tragedia.
E' facile vedere nel cortigiano malvagio una ripresa della figura dello schiavo furbo della
commedia latina; ma questo personaggio, vittima della propria invidia e avidità che lo porta al
tradimento e alla doppiezza nella sua funzione di consigliere, può anche essere visto come la
replicazione tragica del traditore Gano. Difatti, la trasformazione del cortigiano da semplice
carattere in un personaggio più individualizzato si nota confrontando i drammi di Giraldi con
le loro fonti novellistiche, dove i cortigiani hanno subito uno sviluppo qualitativo,
presentando oscillazioni interiori e qualità soggettive. Il cortigiano che tradisce diventa
psicologicamente più denso, in quanto vive una conflittualità interna che viene marcatamente
esposta al pubblico. E si tratta di una figura moderna: dopo aver affermato che il dramma
barocco tedesco non poteva concepire il cortigiano freddamente fedele in tutto al potere e
privo di qualsiasi impulso ingenuo, Benjamin spiega perché l’intrigante doveva assumere una
posizione dominante nell’economia di quel dramma: «In ogni caso l'intrigante doveva
71
Frye vede perciò nel cortigiano malvagio del dramma elisabettiano la ripresa della figura del "vizio" nella commedia:
«Un esempio piú vicino al modello comico è il malvagio machiavellico del dramma elisabettiano che, come il "vizio" della
commedia, è un ottimo catalizzatore dell'azione: infatti il suo comportamento quasi non ha bisogno di motivazione, poiché
si riconosce in lui a priori un principio di malignità. Come il "vizio" comico, inoltre, egli è una specie di architectus o
proiezione della volontà dell'autore, in questo caso ai fini di una conclusione tragica.» (Frye, 1969:288)
88
assumere una posizione dominante nell'economia del dramma. Perché comunicare la
conoscenza della vita dell'anima, nella cui osservazione egli è il primo rispetto a tutti gli altri,
era secondo la teoria dello Scaligero, [...], il vero e proprio fine del dramma» (Benjamin,
1980:90).
Per Seneca, il pericolo della tirannia viene meno a causa della figura del filosofo e
consigliere del re; il ruolo del cortigiano giraldiano diventa però spesso quello di Seneca di
fronte a Nerone nell'Ottavia: egli infatti sopporta le conseguenze intime dell'imprudenza o
della bestialità del re, mentre i suoi consigli sono stati spesso sprecati. Giraldi dipinge nel
proprio trattato sulla vita a corte un quadro della vita di corte con tonalità prevalentemente
oscure; la corte descritta nel Discorso al giovane nobile è abitata da esseri invidiosi e perfidi
che «stanno sempre con gli occhi, e con gli orecchi attentissimi, come chi aspetta per nuocere
altrui» (DGN, II). Lì anche la trattazione dei rapporti fra i cortigiani e il principe è negativa; si
consiglia al giovane di scoprire la natura del principe prima di andare al suo servizio perché
«non vi mancano di quelli che stimano che i gentiluomini che loro servono siano loro come
schiavi»; e, oltre alla dissimulazione, le qualità necessarie dell'uomo di corte diventano così la
modestia e la sottomissione per potersi difendere dai capricci del signore e dall'invidia degli
altri cortigiani.72 L'uomo di corte di Castiglione partecipava all'illusione del razionalismo etico
aristotelico, credeva che la conoscenza del giusto e la ragione portassero ad azioni buone: «la
quale purifichi e dilucidi quell'anima, levandone il tenebroso velo della ignoranza, dalla quale
quasi tutti gli errori degli uomini procedono» (Cort. I. 13). Negli anni durante i quali opera
Giraldi, si crede ancor meno che la purificazione dell'anima possa essere ottenuta con il crudo
strumento della verità, bensì soltanto se lo strumento è dissimulato. L'utopia di Castiglione si
è in tal modo trasformata in pessimismo realista; il compito pedagogico di «formare» il
principe è stato sostituito col «servire» di un cortigiano che non collabora più per il potere.
Nota Maestri: «Castiglione usa cortegiano, Giraldi usa servitore, che sottintende un rapporto
di subordinazione e di passività, rispetto a quello di iniziativa e di specificità fissato
dall'espressione castiglionesca (Maestri 1989:92).73
3.4.5 I conflitti drammatici
Avendo delineato i caratteri principali del dramma di corte di Giraldi, si può riflettere sui
diversi conflitti che ne sorgono, e possiamo ricorrere a Hegel e al suo elenco di conflitti
centrati sul valore individuale dell’amore. A partire dalla critica romantica e post-romantica ci
si è abituati a definire il mondo della tragedia come un ambiente umano costituito da
72
Giraldi raccomanda quindi, come Castiglione, la "gentile ironia" che viene definita come una "maniera
cortese" di finzione del tutto estranea all'adulazione (DGN, II e VI).
73 Anche Pieri, nel suo articolo sul Giraldi trattatista, sottolinea che quando il ferrarese stende i propri consigli
per il giovane cortigiano, l'idealismo platonico è venuto meno a favore di una concezione utilataristica che non si
nasconde neppure tanto bene dietro le raccomandazioni morali (Pieri, 1978a).
89
collisioni, in particolare, la combinazione di personaggi con interessi contrastanti costituisce
le tensioni reciproche sulle quali si regge l'azione drammatica. Per Hegel, l'essenza della
tragedia è il conflitto fra le persone, e questo può essere creato in diversi modi: quale scontro
fra due valori etici, quale conflitto fra due caratteri. Due specie di collisioni che possono
anche coincidere, come avviene, secondo l'interpretazione hegeliana, nella tragedia classica,
dove il personaggio esiste solo per il valore che esso esemplifica, poiché l'origine dello
svolgimento obiettivo è interna all'individuo. Hegel considera infatti i protagonisti tragici
moderni come attratti esclusivamente da obiettivi individuali e particolari, e non rivolti ai
valori etici; vale a dire, «figure non eticamente legittime, ma sostenute solo dalla necessità
formale della loro individualità» (Hegel, 1963:1373). Così anche nella letteratura “romantica”
del Rinascimento, dove le qualità soggettive del personaggio drammatico (intese come gli
elementi che costituiscono l'éthos e il pensiero), non coincidono necessariamente con il valore
oggettivo che esso dovrebbe rappresentare secondo le leggi etiche dell'universo fittizio.
Nell'Estetica il filosofo sostiene che il primo e più corrente conflitto romantico è
quello tra onore ed amore, e avanza come esempio di minaccia portata all'onore il fatto che
una persona appartenente ad un ceto superiore ami qualcuno di condizione inferiore. A questo,
si aggiunge in Hegel il rapporto conflittuale fra l'amore e «le stesse eterne potenze sostanziali,
gli interessi dello Stato, l'amor di patria, i doveri familiari ecc.». Nei primi drammi di Giraldi
dominano queste due specie di conflitti, che in gran parte coincidono; l'onore infatti non è, di
per sé, come nella drammaturgia spagnola, la principale ragione del conflitto, perché viene
sempre a fondersi con i più diversi fattori politici. Per creare un contrasto fra onore ed amore,
l'autore deve introdurre un'eroina ribelle; ma i drammi del ferrarese collocano quella
ribellione (così poco decorosa) nell'antefatto, quindi mettono in scena un'eroina che soffre e
che paga le conseguenze della propria disubbidienza. Si tratta di una situazione rapportabile
alla tragedia greca, dove lo scontro fra i due sessi equipara quello fra oikos e polis e oikos, fra
l'etica «naturale» della famiglia e quella della politica e dello stato, fra sentimento e ragione.
Su questa linea, la critica umanista ha analizzato l'Antigone quale scontro fra diverse leggi,
finendo così per esaltare l'eroina, considerata come l'espressione delle leggi sacre, in
opposizione alla crudele prepotenza di Creonte.
Nella letteratura tragica del XVI secolo l'eroina viene spesso modellata sul tipo di
Antigone, fusa e plasmata, però, secondo la Ghismonda boccacciana, in modo che la pietas
dell'Antigone classica venga sostituita con il sentimento individuale dell'amore della giovane.
La disobbediente Ghismonda, quale Antigone rinascimentale che sceglie da sé il proprio
marito, è il modello preferito anche da Giraldi, e domina nelle sue prime tragedie. La
risoluzione del conflitto fra amore ed onore dipende essenzialmente dai tipi che lo incarnano;
nell'Orbecche Giraldi accosta il tiranno senecano alla 'Ghismonda': in quel dramma le
reazioni del re appaiono ingiustificate, perché si esprimono con una crudeltà esagerata che
porta all'eccidio nell'ultimo atto. Il conflitto fra onore e amore ha luogo anche nei drammi
90
storici, la Didone e la Cleopatra. Nell'Altile, lo stesso contrasto si incarna nella coppia
formata dal typos di Creonte e dall'eroina impostata sulla Ghismonda di Boccaccio; in tal caso
il conflitto etico può esprimersi palesemente proprio a causa della maggiore umanità del re.
Le diverse versioni della storia di Ghismonda in Giraldi costituiscono una specie di
gioco combinatorio: l'autore accosta il medesimo tipo di eroina a diversi antagonisti; come se
volesse mostrare, con l'Altile, cosa potrebbe succedere se questa imprudente eroina avesse un
pater familias meno crudele. E con l'Arrenopia, mira ad unire l'eroina con un giovane principe,
altrettanto facilmente soggetto alla follia d'amore. Infine, lo scontro fra gli interessi dello
Stato e l'amore è contenuto negli Antivalomeni, dove il figlio del re si oppone al matrimonio
politico impostogli dal padre. Nell'Altile e negli Antivalomeni i conflitti si risolvono mediante
l'agnizione tipica della novellistica e della commedia: è riconosciuta la nobile origine della
persona amata, si evita di mettere in scena le conseguenze crudeli dell'esercizio del potere.
Il terzo tipo di situazione conflittuale elencata da Hegel nel capitolo sulla cavalleria, è
quello che mostra «rapporti ed ostacoli esteriori che si oppongono all'amore; il corso abituale
delle cose, la prosa della vita, disgrazie, passioni, pregiudizi, ristrettezza di mente, l'egoismo
degli altri, incidenti di ogni genere» (Hegel, 1963:630). Per Hegel questa categoria di
contrasti è la meno tragica di tutte, in quanto non solo l'amore, ma anche lo scoppio del
conflitto è del tutto accidentale. Tale scontro può avvenire in una coppia formata da un uomo
malvagio e da un'eroina innocente che subisce passivamente la miseria, l'isolamento e le
aggressioni, rassegnandosi al proprio destino. Il modello emblematico di questo personaggio
che presenta molte affinità anche con il martire cristiano, non è reperibile nella tragedia antica,
essendo bensì rappresentato dalla Griselda della novellistica medievale, la cui versione più
nota è quella del Decameron. Questa specie d'eroina domina nel secondo periodo dell'attività
del drammaturgo ferrarese, cioè nelle tragedie composte dopo il 1548 che, allontanandosi
sempre più dal modulo classico, approdano al dramma esemplare e controriformistico. La
costanza mulierbe di queste eroine concorda bene sia con la coerenza dei personaggi tragici
prescritta da Aristotele, sia con l'ideologia controriformistica. Sebbene il tipo della Griselda è
affine al martire, Giraldi rifiuta la tragedia martirologica. Scrive infatti nel Discorso:
Le azioni de' buoni non desteranno mai l'orrore e la compassione, quantunque siano
condotte a misero fine, perché lor fieri accidenti mostreranno una certa crudeltà che
porterà con esso lei tanto di orrore, che rimarrà come spenta la commiserazione, né
potrà ciò introdurre buon costume alcuno. (DCT, 181)
Fabio Bertoni collega questo tipo di eroina alla scartazione del dogma aristotelico della
mezzanità a favore di una nuova postulazione aristotelica sulla pietà, che si trova in un passo
nella Retorica. Qui la pietà è definito una forma di sofferenza di fronte ad una visione di un
male che cade su una persona che non lo merità, «un male che anche noi possiamo anttenderci
91
di subire e che ci sembra prossimo».74 Il ferrarese sceglie quindi storie che si concludono con
la vendetta e la ristabilizzazione dell'ordine sociale anche tramite il tirannicidio.75 Una fabula
ficta di Giraldi non è ancora stata menzionata: l'Epizia, l'ultimo lavoro drammatico che si
differenzia dagli altri, in quanto l'amore non ne costituisce il motivo centrale. Epizia si basa
sul genere retorico giuridico, in cui la funzione del martire viene svolta dalla giustizia
macchiata, per motivi privati, da un governatore infido. Neanche qui, comunque, si verifica
un impatto fra valori paritari, perché viene rappresentata la clemenza in opposizione
all'interpretazione rigida delle leggi scritte e alla vendetta.
Da una tragedia all'altra ha quindi luogo una specie di combinazione dei tipi che
vengono poi fusi con qualità etiche diverse. Il risultato è che l'ethos dei personaggi si
intromette nel conflitto tragico, disturbandolo. Nei drammi di Giraldi non si verifica uno
scontro tra due potenze egualmente legittime; per questo, l'autore introduce qualità soggettive
negative nella figura del sovrano, in modo che la giusta causa che egli rappresenta venga fusa
con la sua crudeltà o imprudenza individuale. Analogamente l'hamartia dell'eroina, la quale
vive nella disubbidienza, viene smorzata dal suo pentimento oppure da altre qualità etiche
positive a lei attribuite.76
74
Fabio Bertoni, 2007: 83.
75 L'Euphimia è il dramma di Giraldi che più si avvicina a questo modulo: infatti l'innocente regina viene condannata a
morte dal marito, bramoso di estendere il proprio regno mediante un secondo matrimonio politico. Ed anche
nell'Arrenopia il marito tenta di uccidere l'eroina per mezzo della falsa accusa di adulterio. Infine, nella Selene, il
contrasto arbitrario può svolgersi in una coppia formata dall'innocente e passiva Griselda e da un re giusto e legittimo.
76 Tale incongruenza tra conflitto e carattere ostacola il crearsi di uno scontro etico il quale possa dare origine a quel
cambiamento storico che la critica marxista è solita iscrivere nella tragedia rinascimentale. Osserva Lukács: «Dramatic
necessity, the supreme persuasive force of drama, depends precisely upon the inner accord [...] between the character and
the social-historical essence of the collision. [...] This convergence of character and collision is the fundamental basis of
drama. [...] Only when the collision meets with a person like Antigone, Romeo or Lear, does drama result» (Lukács,
1962:141).
92
4.
UN DRAMMA ESEMPLARE
4.1
GIUSTIZIA, MESCOLATA COLLA GRAVEZZA DEL SUPPLIZIO: LA STRUTTURA
ESEMPLARE.
Per la commistione dei generi, le fonti novellistiche, il contesto cortigiano e per lo scopo
pedagogico, è chiaro che la tragedia di Giraldi si distingue dalla tragedia classica, e che quindi
richiede un approccio critico diverso, cioè un approccio che non si focalizzi principalmente
sui conflitti, ma piuttosto sui casi singolari dei protagonisti, sulle virtù e sui vizi che essi
incarnano. Commentando la Poetica, opera «piena di difficoltà incredibile», grazie alla natìa
oscuritade dell'autore, Giraldi accetta e riprende la classificazione del filosofo greco sulle
parti della tragedia: per Aristotele e per i tragediografi greci il personaggio non è l'elemento
centrale, poiché l'organizzazione dell'azione e del discorso si pongono come gli elementi
costitutivi del dramma.77 Nella gerarchia aristotelica, la favola ha il primato, e i caratteri
vengono solo per secondi. Aristotele ritiene che lo scopo principale della tragedia sia di
rappresentare un'azione, non un carattere: «La tragedia è infatti imitazione non di uomini ma
di azioni e di modo di vita» (Poetica, VI).78 Il Cinquecento è l’inizio dell’era moderna: pare
rilevante allora ricordare come, sulla scia di Hegel, si sostenga ancora che una delle differenze
fondamentali fra il carattere tragico classico e quello moderno sia data dal fatto che mentre nel
primo l'azione determini il carattere, nella tragedia moderna avvenga il contrario.79 Ponendo il
personaggio al centro, si capovolge il nesso causa-effetto nel processo creativo, per cui la
fabula risulta dall'accumulazione di diversi personaggi e delle loro opposizioni. Così la
dicotomia fra i caratteri, i vizi e le virtù che questi rappresentano, sono fondamentali per la
comprensione del dinamismo dell’intreccio e del messaggio nella tragedia di Giraldi.
Di qui, per una lettura la quale presti attenzione alla funzione didattico-esemplare delle
tragedie, si può proporre il tipo più semplice e logicamente strutturato del racconto esemplare.
L'interferenza di moduli e di materiali esemplari nella novella del '500 è stata oggetto di molti
77
Giraldi, Dedica all''Orbecche', (Weinberg, I, 1970:411).
Aristotele, Poetica, a cura di D. Lanza, Milano, Rizzoli, 1987. E' merito della critica del Novecento la
rilettura della Poetica in relazione all'Etica e alla Retorica; tale rilettura ha portato alla conclusione che alla base
della teoria aristotelica si trova anzitutto una negazione del personaggio statico. Quando Aristotele definisce il
personaggio sulla base delle sue azioni, si ricollega dunque alla concezione del carattere delineata nell'Etica
Eudemea, dove egli afferma che il nostro carattere non è una cosa data, ma una qualità che deve essere
sviluppata in modo paritetico alle altre abilità. Secondo il filosofo, il carattere è ciò che mostra la linea di
condotta generale di un personaggio; ed è nell'azione complessiva della tragedia che i personaggi rivelano il loro
significato.
79 Si tratta pure di una differenza fra i due principali generi drammatici: infatti, è tradizionalmente la commedia
a mettere in primo piano le qualità del personaggio drammatico.
78
93
studi; ciò vale anche per il novelliere di Giraldi, spesso caratterizzato come una delle
manifestazioni più vistose di questo irrigidimento della novella.80
Per una lettura la quale presti attenzione alla funzione didattico-esemplare delle
tragedie, si può proporre, ovviamente in aggiunta all’apparato aristotelico e classico della
tragedia, la struttura del racconto esemplare. Secondo Jacques Le Goff, si deve intendere
l'exemplum: quale «un récit bref donné comme véridique et destiné à être inséré dans un
discours (en général un sermon) pour convaincre un auditoire par une leçon salutaire» (Le
Goff, 1982:38). Claude Bremond indica due forme di exemplum: l'analogia e la sineddoche
(Bremond, 1982:115).81 Mentre l’analogia opera come una metafora, l'exemplum in forma di
sineddoche è induttivo, illustra una regola generale mediante una delle sue manifestazioni
particolari. L'evento viene allora presentato se non come vero, almeno come verisimile e
suppone un'identità di status fra uno degli eroi del racconto e i destinatari dell'esortazione. Il
dramma di Giraldi si misura dunque principalmente con l'esempio in forma di sineddoche, che
si basa sull’identificazione e sul coinvolgimento emotivo del pubblico. Ricordiamo che
Aristotele sostiene che la tragedia deve creare pietà e terrore: la pietà «è infatti relativa a colui
che è indegnamente tribolato», mentre la paura è «relativa a chi ci è simile (pietà per chi non
merita, paura per chi ci è simile)» (Poetica: XIII). Di qui la pedagogia della tragedia
giraldiana: non un singolo protagonista drammatico, ma invece più figure, con le quali il
pubblico della corte, nella sua varietà, possa identificarsi.82
Basandosi sulla sequenza della fabula individuate da Propp, Claude Bremond propone
quindi una lettura strutturale dell'exemplum medievale, secondo un modello narrativo
suddiviso in quattro sequenze (Bremond, 1982:125): circostanze iniziali, prova, merito o
demerito, ricompensa e castigo. Il modello di Bremond invita a dedicare uno studio
particolare ad ogni fase dell'intreccio drammatico e così classificare le azioni e le
corrispondenti funzioni che governano l'azione. Per la lezione esemplare dei drammi rimane
però centrale il rapporto fra il Merito e la conclusione, che non si rivela sempre logico, poiché
si intromette la grazia divina o meglio, la giustizia poetica camuffata come interventi divini o
come la scoperta della vera identità del personaggio coinvolto. Per le circostanze iniziali
bisogna, inoltre, tenere presente che i drammi di Giraldi hanno un carattere retrospettivo: le
80
Guglielminetti, 1984; Bragantini, 1987; Delcorno, 1989; Pieri, 1978 b; Piéjus, 1985; Olsen,1984.
L'esempio metaforico espone, invece, la regola generale con l'analogia; in questo caso, gli eroi non hanno
necessariamente qualcosa in comune con i destinatari e l'esempio non deve apparire verisimile, ma possedere
una verità etica o psicologica.
82 I drammi di Giraldi possono anche venir paragonati ai sermones ad status cioè agli exempla che si rivolgono a
categorie professionali o umane specifiche.
81
94
ragioni del conflitto appartengono sempre all'antefatto. Così avviene anche che l'azione
risolva il conflitto mediante la scoperta di una parte del passato sconosciuta ai protagonisti.83
Le qualità caratteriali e le azioni si ripetono nei drammi giraldiani: si possono quindi
tracciare le linee generali del loro sviluppo negli intrecci, e scomporre i drammi sulla base del
modello sequenziale dell'exemplum, ponendo al centro i vari personaggi.
La prova dell'eroina giraldiana risiede nell'antefatto del dramma, prima nella resistenza
all'amore illegale, poi nella sopportazione delle consequenze; i suoi meriti possono allora
venire definiti come costanza e fedeltà, i demeriti come disubbidienza e nella passione. La
condotta meritevole porta a un esito positivo che, tuttavia, non è escluso neppure dalla
disubbidienza, perché l'azione dell'intreccio può anche venir interpretata come una specie di
purgatorio dove l’eroina, mediante la sofferenza, sconta i propri peccati e raggiunge la
salvezza. Il modello dell'exemplum mette in rilievo che quando il conflitto è una conseguenza
dell'amore illegale e della disubbedienza dell'eroina, quell’amore appartiene all'antefatto,
mentre il dramma contiene invece per intera la parabola esemplare del re.
Le tragedie di Giraldi sono incentrati sulla condotta politica del re; la sua prova è
allora spesso costituita dal suo ruolo di giudice, che deve saper dominare il proprio
temperamento di fronte ad un caso che richiede la clemea. Il suo merito è la prudenza e
l’equità; i demeriti, l’ira e la crudeltà individuale. Vicino al sovrano-padrone, le tragedie
presentano anche sovrani illegittimi, tiranni capaci di atrocità pur di mantenere il potere.
Il cortigiano, infine, che non riveste mai il ruolo di protagonista, tuttavia ne occupa
una posizione centrale nella nuova trageide di Giraldi. La funzione principale di questo
personaggio è di salvaguardare l'autorità del re, ostacolando con i propri consigli il
compimento dell'azione tragica. Al di fuori di motivi strettamente poetici, è indubbio che
esso comporti un'attualizzazione delle tragedie. La figura del cortigiano si distingue in tipi
diversi: nel villano che agisce per scopi egoistici, e nel consigliere fedele che tenta di aiutare il
sovrano.
L'esemplarietà dei personaggi drammatici contiene in sé una doppia funzione: se da un
lato dimostra il male da fuggire, rappresenta anche il comportamento da seguire: l'antimodello
e il modello. Scrive Giraldi nel Discorso sul romanzo: «L'officio adunque del nostro poeta,
quanto ad indurre il costume, è lodare le azioni virtuose e biasimare i vizi, e col terribile e col
miserabile porgli in odio a chi lui legge» (DR, 78). E, grazie alla preferenza di Giraldi per la
'tragedia mista', la funzione dialettica della lectio negativa diventa fondamentale per il docere;
soltanto dimostrando le conseguenze devastanti dell'amore illecito, della tirannia, della falsità
83 Bremond propone in questo caso un diverso schema sequenziale che, riprendendo la terminolgia del Barthes, chiama
"modello ermeneutico"; questo parte da un enigma, compie una ricerca per arrivare alla soluzione. (Bremond,1982:127).
95
cortigiana, si riesce ad esaltare in forza del contenuto, le virtù opposte: «la tragedia non purga
gli animi nostri dà vizi se non col mostrar quello che si dee fuggire» (DCT, 218).84
Lo schema dell'exemplum di Bremond mette in controluce le diverse virtù e i vizi e,
inoltre, mette in chiaro come in questa tragedia il fato cieco dei greci sia stato sostituito dal
determinismo della giustizia poetica, cioè dalla divina provvidenza fornita di grazia.
Non ci sono dubbi sul fatto che Giraldi avesse compreso l'importanza di un eroe
colpevole solo in parte, quindi garante di un certo quoziente di universalità. Fu infatti questo
principio a provocare le sue critiche più pesanti nei confronti della Canace dello Speroni nel
suo anonimo Giudizio, il suo scritto più aristotelico. Nel Discorso Giraldi concorda con il
filosofo greco nella valutazione della figura di Edipo come la più tragica di tutte, ma se si
escludono le poche riscritture rinascimentali della tragedia sofoclea, l'eroe che erra essendo
ignaro della propria colpevolezza appare raramente sulla scena italiana (il Re Torrismondo del
Tasso è l'eccezione più illustre). Se si considera poi l'autorità di Aristotele in questo secolo,
l'assenza dei personaggi edipici potrebbe sembrare strana, per quanto tale esclusione sia
sovradeterminata da diversi fattori. In primo luogo, è l’adattamento all'etica cristiana, quindi
l'introduzione della divina Provvidenza e del peccato a sostituire il fato e l'hamartia in Giraldi.
Con la sua prima tragedia, l'Orbecche, Giraldi tenta, invece, di ricreare la fatalità della
tragedia antica, ma è un progetto che abbandona nelle tragedie successive. Edipo è infatti un
modello che si rivela meno adatto nell'era cristiana a espletare una finalità di educazione
morale. L'intento pedagogico porta quindi Giraldi ad eliminiare questo conflitto e a risolvere
la mezza colpevolezza del protagonista mediante una punizione eccessiva rispetto alla colpa.
Scrive nel Discorso:
Le persone adunque d'alto grado (le quali sono mezze tra i buoni e gli scellerati) destano
maravigliosa compassione se loro avviene cosa orribile, e la cagione di ciò è che pare
allo spettatore che ad ogni modo fosse degna di qualche pena la persona che soffre il
male, ma non già di così grave. E questa giustizia, mescolata colla gravezza del
supplizio, induce quell'orrore e quella compassione, la quale è necessaria alla tragedia.
(DCT, 182)
Questa interpretazione è caratteristica della trattatistica cinquecentesca sulla Poetica, in
particolare nella seconda metà del secolo si nota l'impegno di interpretare l'hamartia secondo
la morale cattolica introducendo i termini di colpa, punizione, pentimento e redenzione.
Come detto, la scarsa variazione tematica degli intrecci fa sì che da una tragedia
giraldiana all'altra si ripetno i temi, le situazioni drammatiche e i messaggi ideologici. La
84
È questo uno strumento usato anche da Castiglione, che nel Cortegiano ricorre ad esempi negativi nel suo
tentativo di formare "con le parole" un perfetto cortigiano e una corte perfetta, fino alla conclusione del libro,
dove oppone la realtà storica alla "republica di Platone". Ad esempio, quando, a Gaspero, il critico delle donne,
viene chiesto di tacere, egli risponde ridendo: «Anzi ben gran causa hanno le donne di ringraziarmi; perché s'io
non avessi contradetto al signor Magnifico ed a messer Cesare, non si sariano intese tante laudi che essi hanno
loro date» (Cort., III. 51).
96
reiterazione dei caratteri e il valore intertestuale della sua produzione rafforzano però lo
statuto dei personaggi come modelli esemplari. Scrivono Perelman e Olbrechts-Tyteca
sull’effetto della reiterazione: «In molte circostanze, l'oratore manifesta chiaramente la sua
intenzione di presentare i fatti come esempi; ma non è sempre così. [...]. Cionondimeno,
quando fenomeni particolari vengono evocati gli uni dopo gli altri, soprattutto se offrono fra
di loro qualche rassomiglianza, si sarà inclini a vedervi degli esempi, mentre la descrizione di
un fenomeno isolato sarebbe preso piuttosto come semplice informazione.» […] gli esempi
esercitano tra di loro una azione reciproca nel senso che la menzione di un nuovo esempio
modifica il significato di quelli già noti; essa permette di precisare il punto di vista da cui
vanno considerati i fatti anteriori» (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966: 371, 374).
L'esemplarità dei personaggi drammatici contiene in sé una doppia funzione: se da un
lato dimostra il male da fuggire, rappresenta anche il comportamento da seguire: l'antimodello e il modello. Grazie alla preferenza di Giraldi per la tragedia a lieto fine, adatto
all’intrigo doppio, le sue opere sono popolati da coppie antitetiche di qualità: «cioè che vi sia
un saggio e un sciocco, un crudele e un mite, un avaro, un liberale, un semplice e un astuto».85
La tendenza a incorporare valori di affermazione o negazione in ogni personaggio importante
rende onnipresente nei drammi la struttura etica binaria e collabora a creare un universo
altamente ideologico. Nelle tragedie esistono raramente un valore, un'idea e un personaggio
centrale che non si richiamino mediante un loro contrario, le antitesi principali sono: onoredisonore, gratitudine-ingratitudine, fedeltà-infedeltà, fede cristiana-superbia, pietà-vendetta,
ragione-furore, conformismo-individualismo, amore legittimo-amore passionale, maturitàgiovinezza (rispetto alle qualità morali connesse alle diverse età), realtà-apparenza.
4.2
UN DRAMMA NARRATO
Il testo drammatico è un testo incompleto, è una rappresentazione di singole situazioni per
mezzo di interazioni discorsive e in assenza di descrizioni, spiegazioni e mediazioni del
narratore. Il dramma deve essere mimesi e non diegesi; e il presente è il tempo del contesto
pragmatico necessario al dramma. Se ci allontaniamo dal campo linguistico e retorico, è stato
Szondi a mettere in rilievo in modo più incisivo il dominio del presente nel dramma: «Il
decorso del tempo nel dramma è una successione assoluta di "presenti"» - scrive nel suo
saggio sul teatro moderno, poiché «il dramma stesso, come assoluto, garantisce e crea da sé il
85
G.-B. GIRALDI, Discorso intorno al comporre delle commedie, cit. 189.
97
proprio tempo» (Szondi, 1962:12).86 Le tragedie didattiche di Giraldi non sono adatte a
illustrare i criteri di Szondi se non per opposizione: qui gli eventi vengono più spesso
presentati per mezzo di resoconti, nei quali l'agire non appartiene più all'ambito
enunciazionale dell'hic et nunc del dialogo, nei racconti dei personaggi vengono spesso
riportati dialoghi avvenuti fuori scena per vivificare le loro lunghe repliche. In tal modo i
discorsi sono spesso estranei all'azione drammatica perché non servono a persuadere altri
personaggi, quanto a informare l'uditorio.
Nel suo Discorso Giraldi tratta ampiamente la sentenza, cioè il pensiero in Aristotele.
Prima di parafrasare il XV capitolo della Poetica, egli sottolinea che «quantunque l'azione dia
anco indizio di questo; nondimeno [...] ciò non bastarebbe, se non intervenisse la forza delle
parole» (DCT, 200). Il filosofo greco invece, non discute il pensiero in quanto non specifico
della poetica, ma appartenente alla retorica; il secondo libro della Retorica era la fonte
preferita per la tipologia umana, e quindi, anche per le qualità dei personaggi teatrali nel
Rinascimento. In Giraldi si sottolinea dunque che a causa della necessità di creare passioni nel
pubblico non si deve pensare che «le azioni sole bastino, perché quantunque uno uccidesse
un'altro atto all'horrore, e alla compassione, non verrebbe indi né questo, né quello, se non ci
fusse chi con acconcie parole commovesse gli animi de gli spettatori. Per la qual cosa si può
vedere, che il parlare è così necessario alla sentenza, che ella senza lui se ne rimarrebbe gelata,
quantunque ella per l'azione si dimostrasse» (DCT, 199, c.n.). E' tramite le parole che il
pubblico viene a conoscere «la sentenza e il costume», cioè gli equivalenti del pensiero e
dell'ethos in Aristotele. Nella sua analisi del linguaggio tragico dell'Orbecche, Ariani era
arrivato alle stesse conclusioni: «Le parole acconce significano l'azione, e non viceversa; la
forza delle parole è l'unica funzione dinamizzante della rappresentazione» (Ariani,
1979:128).87
Di qui, appare lecito sostenere che l’attenzione di Giraldi al discorso rivela la sua
coscienza della natura diegetica e della qualità oratoria dei propri drammi.
La scena, per Giraldi, è lo spazio della narrazione, mentre l'azione è generalmente
extra-scenica ed avviene dietro le quinte, fuori dal palazzo, nelle stanze segrete dove possono
svolgersi fatti e discorsi anche meno decorosi. La discriminazione dello spazio dell'azione si
collega quindi anche alla sua poetica decorosa.
Un altro indizio della scena narrata di Giraldi è lo scarso uso della deissi, che è una
delle componenti tipiche del linguaggio drammatico (Elam, 1980:138-49). Nel linguaggio
teatrale la deissi non è soltanto un indice utilitario; la sua funzione diventa anche simbolico86
L'interpretazione storicista e idealista di Szondi tratta del dramma assoluto, cioè di una struttura la quale non
rivela in alcun modo la presenza di un narratore e che si svolge nel presente dove il presupposto è costituito da
rapporti interumani. «Il dramma appartiene all'autore solo nel suo insieme» avverte, e quindi «come la battuta
drammatica non è espressione diretta dell'autore, così essa non è neppure allocuzione al pubblico» (Szondi,
1962:10).
87 Weinberg e altri con lui, hanno messo luce sull’importanza fondamentale assunta dalla Retorica e dalle opere
di Cicerone nella drammaturgia e nella critica umanistica (Weinberg, 1961).
98
ostensiva perché indica la performatività del linguaggio, mettendoci così in grado di superare
la contraddizione teorica fra testo e rappresentazione. La scarsità della deissi non rivela
dunque soltanto la quasi totale assenza dell'azione rappresentata in Giraldi, ma anche
l'astrazione dello spazio drammatico, in quanto gli avverbi, i pronomi di prima e seconda
persona e gli aggettivi dimostrativi non appaiono quasi mai nel bel mezzo di una scena, ma
arrivano puntualmente alla fine, e allora soltanto per avvertire delle entrate o delle uscite dal
palcoscenico. Accanto all'uso della deissi in queste formule stereotipate, gli enunciati con
coordinate spazio-temporali hanno spesso l'effetto di abbassare il linguaggio dal solito tono
aulico-tragico creato dalle generalizzanti sentenze e luoghi comuni, verso un registro più
quotidiano e comico. Più raramente la deissi svolge una funzione indicativa a scopo
enfatizzante. E' indicativa di questo effetto la prima scena dell'ultimo atto dell'Orbecche, dove
i cortigiani portano al tiranno i resti del marito e dei figli dell'eroina:88
Tam.: Vorreste mai voi, Signor, offrire / Que' piati che portati avemo in casa/ Ov'è il
capo d'Oronte e i figli morti?
Sul.: Così vo' far.
Tam. Per Dio, che fate bene, / Perch'ella del suo error porti la pena, / E del colpo di c'ha
percosso voi / E' degno che ne sia percossa anch'ella.
Sul.: Or va' e di' che non tardi.
Al.: Eccomi, Sire. / Ove volete ch'io mi ponga i piati?/ Qui forse?
Sul.: No, ponli un po' più discosti / Da questo palco.
Al.: Qui?
La forma di discorso che esprime più propriamente la vicenda drammatica si realizza
mediante il dialogo, che è concentrato sull'azione e sul suo senso.. Nei drammi di Giraldi,
invece, il monologo domina sul dialogo. Anche i raffronti fra i personaggi principali sono in
genere costituiti da lunghe repliche, in cui l'oratore, che viene solo eccezionalmente interrotto
dal suo interlocutore, narra o espone argomenti che contengono una bassissima percentuale di
informazione pragmatica. L'ascoltatore compie in queste scene principalmente la funzione di
rompere la monotonia della narrazione con battute fàtiche, che sono richiami all'hic et nunc
per mantenere vivo l'interesse del pubblico.
Sulla scena di Giraldi le repliche drammatiche si alternano fra lunghi monologhi,
interrotti da rare scene con sticomitia e veri dialoghi. Prendiamo un paio di esempi:
l'Euphimia è suddivisa in 35 scene delle quali 19 sono costituite da soliloqui, mentre per la
Cleopatra il numero di scene è 37 con 15 soliloqui. I monologhi nei drammi sono, invece,
molto più numerosi, servono innanzitutto a narrare l'antefatto e a trasmettere informazione su
ciò che è avvenuto fuori scena, ma anche a commentare l'azione per mezzo di sentenze e a
svelare i pensieri e i sentimenti del personaggio. Il gran numero di personaggi secondari che
figurano nelle tragedie giraldiane, si spiega quindi, logicamente, anche dal fatto che l'azione
88 La stessa enfatizzazione di dettagli macabri avviene nell'ultimo atto della Selene dove l'eroina scopre la testa del marito
(Sel, V. 6).
99
non avviene principalmente in scena: mentre l'antefatto può venire raccontato dai protagonisti,
questi difficilmente possono narrare in modo verosimile tutte le azioni svoltesi dietro le quinte,
azioni alle quali loro stessi hanno preso parte. Un'altra funzione del monologo è l'introduzione
di scene statiche illustrative del costume di corte, con la reiterazione ossessiva di parole
chiave che puntualizzano i temi del genere tragico. Il monologo serve a porre la distanza della
riflessione nei confronti dell'azione. Un esempio è la similitudine marittima della fortuna e
della mutevolezza mondana, una digressione ricorrente in tutti i drammi che, oltre a rimandare
alla vita umana, rinvia anche allo stesso genere tragico.
Nonostante ricorra a tutti questi soliloqui, Giraldi sembra avvertire già il problema
della verosimiglianza, che la tragedia classica francese risolverà con l'onnipresenza della
figura del confidente.89 La soluzione di Giraldi è però diversa, almeno per quanto concerne i
monologhi del re. Castiglione osserva che il cortigiano non «cercherà d'intromettersi in
camera o nei lochi secreti col signore suo non essendo richiesto, se ben sarà di molta autorità;
perché spesso i signori, quando stanno privatamente, amano una certa libertà di dire e far ciò
che lor piace, e però non vogliono essere né veduti né uditi da persona da cui possano esser
giudicati» (Cortegiano I. XIX); e Giraldi fa notare che «non è verisimile che facciano
ragionare nel publico i re delle cose ch'essi vanno da sé soli fra sé discorrendo» (LettD, 483).
Giraldi spiega quindi il vasto impiego del soliloquio con il fatto che esso è una forma di
discorso verisimile e conveniente alle persone regali, perché «questo parlare di sé solo» dona
una «gravità reale all'azione». La gravitas non ne è l'unica ragione, poiché l'alternanza fra
monologhi e dialoghi viene anche imposta dall'onnipresenza della dissimulazione, dove il
monologo svolge spesso la funzione degli "a parte" del dramma shakespeariano. Ciò vale in
particolare per la figura del cortigiano. Il monologo diventa il luogo della confessione dei vizi,
degli interessi e delle paure particolari. Se ritorniamo all'Euphimia, notiamo che i cortigiani
occupano ben 16 delle scene in forma di soliloquo, mentre l'eroina e il tiranno si limitano a
pronunciarne una soltanto.
Colpiscono poi i numerosi cambi di scena nei drammi di Giraldi, che presentano un
continuo viavai di personaggi che entrano, pronunciano un monologo, ed escono, dopo aver
introdotto il successivo. La stessa suddivisione del tempo della narrazione-rappresentazione
costituisce, a sua volta, una divisione acronica dell’ordine cronologico della storia, ossia del
narrato. Il continuo presente del dramma, cioè il piano della rappresentazione, corrisponde
solo di rado al tempo del rappresentato. Se si prende l'Euphimia come campione, anche per
illustrare le modalità con cui l'autore elabora il tempo della fabula, si nota che solo in 11 delle
35 scene del dramma l'azione viene rappresentata direttamente. Grazie al frequente cambio di
scene e di figure il dramma assume caratteristiche epiche.
89 In Giraldi, infatti, i soliloqui con tendenze dialogiche sono estremamente rari, dato che appartengono
esclusivamente all'eroina nel momento del massimo dolore e al tiranno assalito dai dubbi.
100
Il carattere diegetico dei drammi rende poi possibile una generosa selezione degli
elementi della fonte diegetica. Mentre la scelta degli episodi da includere nel dramma viene in
genere compiuta sulla base della rappresentabiltà scenica dell'azione nella fonte, le tragedie di
Giraldi possono contenere anche gli episodi più fantastici e romanzeschi della fonte. Questa
selezione apparentemente senza criteri discriminanti degli episodi della fonte, potrebbe far
presumere allora che l'autore finisca per prediligere, drammatizzandoli, quegli episodi che
favorirebbero lo sviluppo processuale dell'azione. Ma non è così. Se ricorriamo di nuovo
all’Euphimia vediamo che sono gli episodi che potenzialmente contengono più tensione e
drammaticità, a venire narrati invece che rappresentati.90
Nel Discorso Giraldi scrive che bisoanga predilivere le scene atte a condurre l’azione al
dicevole fine:
Vero è che si deve avere molta avvertenza nel maneggio di tutta l'azione: che in quelle
parti che sono men grate, siano men lunghi gli atti e le scene, e in quelle che portano
con esso loro piú vaghezza, ovvero piú necessità per condurre la presa azione al
dicevole fine, piú si allunghino i ragionamenti, perché con la vaghezza portino anco
queste parti con esso loro maggiore attenzione. (DCT, 208)
E' allora interessante notare che i pochi episodi degni di essere drammatizzati sono quelli che
contengono una discussione ideologica o etica; nonostante tali episodi raramente servono al
progredire dell'azione.
Infine, accanto al dialogo drammatico, Giraldi ricorre ad un altro costrutto per
evidenziare momenti specifici: la ripetizione reiterata di un dato episodio da parte dei diversi
personaggi impegnati nell'azione. Sono caratteristiche della struttura dei drammi le scene che,
invece di incidere sullo sviluppo del procedere tragico lo anticipano programmaticamente,
oppure commentano l'andamento dell'intreccio raddoppiando così le scene. Sovrabbondano
pure i resoconti i quali non si riferiscono principalmente all'antefatto ma che, per lo più,
assommano gli avvenimenti posti all'interno dell'arco di tempo rappresentato dalla tragedia.
Questi racconti posticipati dell'evento trattato, sarebbero un espediente atto a restringere il
tempo della rappresentazione, ma in Giraldi servono spesso per dare continuamente giudizi
morali sull'azione. Questa continua reduplicatio fàtica e retrospettiva pare avere come
funzione principale di mostrare i diversi punti di vista dei personaggi, e delinearne le qualità
90 Nel secondo atto, infatti, la Cameriera narra come il tiranno, poco prima, abbia tentato di uccidere l'eroina; e molte
scene del terzo atto contengono narrazioni di come l'eroina si prepari alla morte (in quest'ultimo caso non si tratta però di
esclusione, bensì di una messa in rilievo tramite la ripetizione, di un fatto patetico che viene anche rappresentato
direttamente in scena). Sempre nel terzo atto un Sacerdote racconta che la statua di Giunone ha parlato all'eroina
ordinandola di fuggire. Nella seconda metà del dramma vengono invece narrate le azioni altrove, quelle svoltesi nella
foresta, e cioè: la lotta fra i due eserciti, il duello fra l'eroe e il tiranno, la morte del tiranno. L'ultima scena espone, in
sintesi, il modo con il quale il coro è riuscito a persuadere l'eroina a sposare l'eroe. È chiaro che molte di queste narrazioni
testimoniano i problemi pratici della messinscena di episodi troppo complessi: non è casuale che la battaglia e il duello
siano state escluse da una rappresentazione diretta, come pure gli altri episodi che si svolgono nella foresta, giacché
questo implicherebbe una rottura dell'unità di spazio.
101
morali. Così, ad esempio, nel secondo e terzo atto dell'Orbecche si viene inizialmente a sapere
dall'eroina del suo incontro con il padre, che l'ha informata dei progetti nuziali, Oronte poi
riprende lo stesso argomento raccontando come è stato costretto dal re a convincere Orbecche
ad accettare il matrimonio; infine, Sulmone dà la sua versione dei fatti per chiarire la slealtà
dei primi due nei suoi confronti.91 Le enunciazioni diventano in questi casi dei veri e propri
commenti, perché il personaggio drammatico si distanzia dall'azione e dalla situazione per
giudicarle, analizzarle e dedurne una lezione.
Il carattere oratorio e diegetico dei drammi rischia di ostacolare una partecipazione
emozionale da parte del pubblico: cerchiamo allora di prestare attenzione ai principali
strumenti retorici di persuasione della nuova tragedia, all’energia della sua persuasione.
In Giraldi il concetto ambivalente di energia vacilla fra la chiarezza ciceroniana e il
significato originario che il termine assume in Aristotele, come descrizione viva, dettagliata e
vigorosa (Retorica, III, 1411b); principio che verrà poi reinterpretato dall'autore anonimo del
Sublime. Aristotele aveva raccomandato la chiarezza, che può essere raggiunta tramite parole
usuali (Poetica XXI); e la perspicuitas è una delle virtutes elocutionis di Cicerone.
L’antimodello per Giraldi rimane comunque lo stile proposto da Trissino nell’Italia liberata
dai Goti (1547), poema visivo in cui l’uso dell’energia è modellato su Omero. Nel suo
discorso sui romanzi, Giraldi critica lo stile dettagliato ed abbondante di Trissino, a favore di
un’energia breve e virgiliana.92 E' parte essenziale dell'ideale oraziano del prodesse et
delectare dissolvere le tenebre della lingua, e di conseguenza, evitare ogni espressione la
quale non sia compresa dall'uditorio con facilità e nel modo desiderato. In rapporto alla
chiarezza, l'oratore della retorica classica può sbagliare per eccesso o per difetto. Eccedere in
chiarezza nei drammi, significherebbe togliere al linguaggio tragico quell'energia e quella
gravità delle quali esso necessita. La preoccupazione costante di Giraldi pare invece quella di
errare per difetto e di essere oscuro e ambiguo poiché «è meglio giovare con rozze voci che
con soave e gentili dar soave suono senza alcun frutto» (DR, 136).
Nelle tragedie giraldiane il modello linguistico del Bembo, esemplato su Virgilio e su
Petrarca persegue, insieme all'ideale ciceroniano, la ricerca di un ideale di chiarezza delle
sentenze, di uno stile in cui res e verba siano equilibrati, obbedendo sempre all'universale
dettame del giusto mezzo; sino ad attribuire più rilievo alla gravitas e alle res rispetto a un
linguaggio poetico troppo concettoso, quando una scelta si renda necessaria. La dichiarata
funzione pedagogica dei drammi rende quindi essenziale che il poeta eviti di «esser tardo,
91 Ariani osserva lo stesso fenomeno in un altro dialogo nell'Orbecche: «i dati di conoscenza che i due dialoganti si
scambiano sono ridotti ad un minimum 'psicologico' assai generico", e "non accade alcun scambio di informazioni
'pratiche' o connesse comunque alla situazione drammatica. [...] L'interdetto al reale è dunque radicale: vige come una
sorta di sovra-realtà assolutizzata dai propri stessi significati istitutivi, giocati a ripetizione in uno stretto circuito
tautologico, per cui lo spazio tragico invera se stesso con una propria logica 'interna' indimostrabile fuori dai parametri
etici da esso stesso prestabiliti». (Ariani, 1979:152)
92 Sul concetto di energia nella metà del secolo si consulta l’articolo di Francesco Ferretti «L’elmo di Clorinda.
L”energia” tra ”Discorsi dell’arte poetica” e ”Gerusalemme liberata”», Studi tassiani, 54, 2006, pp 15-44.
102
arido, duro, spiacevole, torto, oscuro e odioso»; ma, precisa sempre Giraldi, ciò è «vizio di
coloro che si sono esercitati solo nelle parole, e non hanno atteso agli studi di filosofia, senza
la quale, riescono vani tutti i compimenti» (DR, 136). Nel Discorso egli scrive quindi che
«quelli figurati modi di dire» propri dei personaggi tragici non devono essere posti in un
modo che «diventi il loro parlare un enigma; cioè tanto oscuro, che invece della luce che dee
dare alla favola, la faccia tenebrosa» (DCT, 213, c.n.). In Giraldi c’è la polemica contro
l’iperinterpretazione, contro la lettura sforzatamente allegorizzata. La chiarezza del discorso
garantisce l'immediatezza caratteristica della ricezione dell'arte drammatica, la quale per avere
gli effetti voluti dalla rappresentazione richiede la massima perspicuità del testo scritto,
affinché esso venga compreso intellettivamente e non solo emotivamente. La meraviglia del
dramma si origina, comunque, dall'intreccio, non dal linguaggio.93 Per ottenere l'energia
mantenendo la chiarezza Giraldi consiglia, come Aristotele - di impiegare i traslati, le
comparazioni, le similitudini, gli epiteti e le iperboli, figure che non vanno considerate «solo
in quanto danno abbellimento e grazia, ma anco in quanto danno forza e vivacità» ai discorsi
(DR, 145).
Mentre la chiarezza delle lingua viene dettata dallo scopo morale della tragedia
giraldiana, l'evidentia, intesa come ponite ante oculus, viene imposta anzitutto dalla natura
diegetica dei drammi. Difatti, se assunto letterariamente, il «porre davanti agli occhi»
l'oggetto della comunicazione diviene importante per i drammi giraldiani, proprio perché sono
narrati, più che rappresentati, richiedendo dal pubblico uno sforzo di immaginazione
icastica.94 Per Giraldi, invece, l'energia «non sta nel minutamente descrivere ogni cosuccia
[...] ma nelle cose che sono degne della grandezza della materia che ha il poeta per le mani e
la virtù dell'energia, la quale noi possiamo dimandare efficacia, si asseguisce qualunque volta
non usiamo né parole, né cose oziose» (DR, 80). Di nuovo, allora, si manifesta la richiesta del
decoro e della maestà dell'argomento; una sensibilità manieristica, quella del detto oraziano ut
pictura poesis che anche Giraldi riprende nel Discorso sul romanzo, dichiarando che la
«poesia non è altro che una dipintura che abbia vita e che ragioni» (DR, 159).95
93
Trattando dell'imitazione in una lettera a Calcagnini del 1543, Giraldi enfatizza Cicerone come maestro dello stile
migliore; nel contempo, dichiara di preferire un ciceronianismo allargato, arricchito, imitando stili di altri autori quando il
contesto, il motivo e il pubblico lo richiedano. Giraldi, Super imitatione epistola (Weinberg, I, 1970:197-206).
94 L'opposizione fra l'immaginazione icastica e quella fantastica è platonica, Soph., 234b-236d.
E anche in Aristotele, Retorica III. 1411b.
Cito la definizione di evidentia di Lausberg: «Se il pensiero che si vuol esporre dettagliatamente è un oggetto concreto da
rappresentare, [...], oppure un processo colletivo di avvenimenti più o meno simultaneo, l'espressione dettagliata [...] si
chiama evidentia. La vivave esposizione dei dettagli presuppone una simultanea testimonianza visiva, [...] prodotta per
gli oggetti assenti da un'azione vissuta della fantasia»; quindi, «per la riproduzione nell'ascoltatore del processo di
fantasia creata dalla autore» servono formule come "ponite ante oculus" (Lausberg, § 102).
95 Questo passo è stato citato anche da Marzia Pieri, la quale fa notare che questa sensibilità presente negli Ecatommiti è
caratteristica dell'Umanesimo ferrarese, collegata «alle recenti teorie del Daniello, dell'Armenini o del Dolce sui rapporti
tra le diverse arti»; e dall'arte veneta coeva (Pieri, 1978b:64). Si tratta comunque di una concezione largamente condivisa
nel '500. Infatti, Lodovico Dolce sostiene che il suo Dialogo della pittura può giovare anche al letterato (Musumarra,
1972:15) e, analogamente, anche i trattati d'arte del Cinquecento adoperano la terminologia poetica, come ha dimostrato
Carlo Ossola, che ha dedicato un lavoro al tema. Egli scrive nell'introduzione: «L'importanza letteraria dei trattati
103
L'intenzione didattica e il carattere giudiziale delle tragedie formano profondamente i
discorsi drammatici, che sono dominati dagli exempla e dalle sentenze, e dunque da una
costante oscillazione tra il partiolare e il generale, tra l’esempio e l’entimema secondo la
retorica aristotelica, (Retorica: 1393a’b).
Secondo la topica le massime si possono ricondurre a due specie principali: quelle
prescrittive, le quali esigono di essere osservate nella prassi della vita, sono regole dell'agire
che, in generale, rappresentano una successione di preposizioni del tipo "se...allora..."; mentre
quelle descrittive confermano una verità (Topici, 1, III, capp. 1-3). In Poetica VI, Aristotele
definisce la sentenza come «pensiero cioè con cui si dimostra che una cosa è o non è, oppure
si esprime un'idea universale». La sentenza , «norma riconosciuta della conoscenza del modno
e rilevante per la condotta di vita»,96 fa quindi parte del codice tragico quale strumento per
ottenere la catarsi tragica, in quanto spinge il contenuto verso "l'universale e il comune" (DR,
157). Giraldi dedica più pagine alle diverse specie di sentenze nel Discorso sui romanzi. Ne
cito un brano:
la sentenza [...] riceve gli ornamenti suoi dagli apoftegmi (i quali non sono altro che
certi detti acuti, e brevi di gran signori, e di dotti, e gravi uomini) dai proverbi (che sono
come detti comuni, che dalla bocca degli uomini, quasi per uso di dire cadono
comunemente).[..] La sentenza adunque non è altro [...] che un modo di parlare
convenevole al costume tolto dalla comune vita, e dalla comune opinione de gli huomini,
il quale efficaciassimamente mostra o quello ch'è stato, o che è, o che deve esser nella
vita humana con acconcia varietà; e queste sono nelle Tragedie molto frequenti, come
quelli che a mettere l'azione, gli affetti, i costumi, il terribile, il miserabile ne gli occhi
de gli spettatori sono fuori d'ogni credenza attissime. (DR, 155)
Nelle tragedie le massime convenzionali conducono il pubblico ad associazioni quasi
obbligatorie e sembrano proteggere il significato del testo da un'interpretazione non desiderata
dall'autore, svolgendo così apparentemente quella funzione apodittica che consiste nel fornire
un rapido e comune ammaestramento. Le massime servono inoltre ad innalzare il linguaggio
dei personaggi al decoro richiesto dal genere, come spiega Ariani: si tratta di «un severo
processo di sterminio di ogni schermo deviante (lirico-epico-comico, soprattutto) che
impedisca al messaggio tragico di porsi come specchio drammatizzato ma catartico delle
attese e dei valori del pubblico, come allegoria tragica, allusiva ma risolutiva nel senso di un
indiscutibile trionfo della giustizia, del severo decoro cortigiano».97
(sull'arte n.dr.) inoltre non è solo garantita dalla efficacia stilistica in alcune pagine di Sorte, [...], ma soprattutto dalla
presenza di riferimenti precisi alle poetiche contemporanee, di temi, di figure retoriche, di strutture che, mutuate dalle
fonti letterarie, sono poi sviluppate con un'autonoma ricchezza di motivi [...] tale da costuire il primo nucleo del prossimo
repertorio barocco di immagini...« (Ossola, 1971:3).
96 Lausberg, H. Elementi di retorica, Bologna: Il Mulino, 1969, §398.
97 Marco Ariani ha osservaioni critiche nei confronti dell’uso abbondante delle massime: per lui si tratta di un «severo
processo di stermioni di ogni schermo deviante (lirico-epico-comico, soprattutto) che impedisca al messaggio tragico di
porsi come specchi drammatizzato ma catartico delle attese e dei valori del pubblic, come allegoria tragica, allusiva ma
risolutiva nel senso di un indiscutibile trionfo della giustizia, del severo decoro cortigiano». Ariani sottolinea poi la
104
Ma accando alla chiarezze e il registro stilistico tramite le massime, va tenuto presente
la sua funzione generalizzante. Ricorrendo alle massime, i personaggi si distaccano dalla
propria soggettività per pronunciare delle verità universalmente valide.98 Proprio per
l'abbondante presenza di sentenze, in Giraldi lo stimolo verso l'universale domina i discorsi,
indipendentemente dalla situazione patetica in cui vengono pronunciati, sebbene Giraldi, nel
Discorso sul romanzo, avverta che le massime non devono apparire «mendicate, né tirate
fuori della natura della cosa; ma con essa naturalmente nata» (DR, 155).
Veniva comunemente considerato senechiano l’impiego delle sententia come
esposizione di saggezza, magari con un ricco e variegato impiego di figure retoriche. Questo
largo uso della sententia non è un tratto originale di Giraldi, ma era comune fra i tragediografi
cinquecenteschi allo scopo di rivleare il fine morale delle opere. Le opere classiche sono nel
Cinquecento utilizzate come serbatoi di "cose", come luoghi dai quali l'autore sia libero di
poter estrarre dei frammenti. Ciò valeva anche per alcune delle opere contemporanee, come
ad esempio gli Adagia di Erasmo (1505), caposcuola di questa tendena. L’opera di Erasmo,
che fu per la sua diffusione fra i più grandi successi del secolo, finì per inventare una nuova
moda letteraria: la retorica delle citazioni come stile filosofico umanistico (Fumaroli,
1980:96-9).
Nel constesto del genere tragico, quest’uso delle massime crea indubbiamente un testo
più frammentato e autoriflessivo, in quanto ogni massima costituisce da sola un microtesto
concluso e rimanda altrove. Nella fattispecie la massima, proprio per consentire al destinatario
l'adesione oppure il rifiuto ai suoi valori universali, deve essere spersonalizzata e non portare
segni dell'hic et nunc dell'enunciazione.99 La massima rinnega così il dialogo e diviene per
statuto collettiva e universale. Le repliche diventano in tal modo "corali" e la lingua perde il
proprio fondamento drammatico – non è più l'espressione di un individuo, ma di una
Stimmung che domina su tutti e che può anche ironicamente contraddire la situazione
specifica della figura che la esprime. Così – per dare un esempio fra tanti –, nell'Altile, l'eroina,
già colpevole per non aver rispettato la memoria del marito morto, esclama riferendosi al
secondo marito:
funzione fática dei “clichés oratoriali” delle massime: «Il più tipico linguaggio tragico giradiano» è allora «un chiuso
perorare oscuro e incisivo», «un osservare e vivisezionare idee e momenti mentali, un interiorismo sentenzioso, fantastico
e totalitario, escludente e circoscritto nell'ambito isolato dell'io declamante» (Ariani, 1974: 150,167).
98 Ciò è simile all’effetto della riflessione etica in Shakepeare, come lo descrive Auerbach, quando nota che il dramma
greco mantiene una netta separazione tra la riflessione calma e l'esclamazione passionale dei personaggi, tra lo sfogo
"psicologico" e "l'etico" argomentare. Quindi, mentre nella tragedia greca il filosofare raramente è drammatico, in quanto
si risolve per lo più in un sentenziare astratto che non individuale, estraneo alla personalità tragica, questi due piani del
discorso si fondono invece in Shakespeare, dove la speculazione diventa auto-contemplazione; di conseguenza il pensiero
non immediatamente sentimentale o reattivo aumenta lo spessore del personaggio (Auerbach, 1959:63-87).
99 Scrive Giraldi: «Troverà agevolmente il poeta le sentenze, s'egli guarderà a quello che appartiene ai costumi, alla
comune opinione degli uomini, e agli avvenimenti che più spesso accadono, riducendo sempre il parlare all'universale e al
comune, e non a persone particolari; perché tantosto che le sentenze si riducono al particolare, perdono il nome, e
mancano di essere sentenze.» (DR, 157)
105
Chi bene ama deve anc'haver cura
De l'honor de l'amico dopo morte
Et chi morto non l'ama,
Vivo non l'amava anco. (Alt, IV. 5)
L'apparenza di validità universale delle sentenze ostacola quindi i dialoghi, perché i
personaggi ricorrono a massime che rinnegano quelle degli altri, creando così una situazione
dei incomunicabilità.
Lo scopo didattico dell'impiego della massima viene sottolineato da Giraldi, quando
scrive che la massima non deve contenere figure traslate, in modo da evitare la "tenebrosità"
del linguaggio. Le massime dovrebbero quindi essere così scontate che il lettore, non
soffermandosi mai su di esse, venga, invece, subito guidato attraverso un'interpretazione quasi
automatica del e non ambigua messaggio; infatti, le sentenze «non sono su l'ombre delle
parole ma su le cose espresse con nude voci; e l'autorità delle cose è molto maggiore che non
è quella delle parole» (DR, 155).100
I mosaici di massime e di esempi rischiano di diventare cose o, al più, segni di
eloquenza e del dire grave; mentre il loro apparente fine primario, il docere in riferimento al
mondo esterno al dramma, è offuscato anche a causa delle continue contraddizioni fra le
sentenze, quasi a svelare un'attitudine ironica nei confronti dell'ottimismo umanistico.
Per cui il linguaggio drammatico del nostro autore, pur così teso ad evitare a tutti i
costi l'oscurità dell'espressione cade, proprio in forza di questo automatico ontologismo
verbale, nell'opacità del manierismo. La retorica sentenziosa ed esemplare influenza
profondamente la tragedia e il suo messaggio; per Giraldi si può allora concordare con la
descrizione della tragedia rinascimentale di Arnaldo Momo:
[…] l'arte della retorica [...] rassicura la società della Corte in modo più definitivo
ancora della morte dell'eroe tragico: perché questa morte è terrena, succesiva al
disordine, mentre l'ordine della retorica è specchio dell'ordine eterno che precede ogni
possibile disordine [...] allo stesso modo che l'essere delle idee preesiste alle esistenze
degli individui. (Momo, 1981:64)
Le sentenze non hanno etá. Possiamo quindi concludere che l'impiego di questo topos
conservatore dona al contenuto un'apparente valenza universale, collaborando con gli esempi
alla perennità alla quale ambisce la cultura che ne fa uso. La qualità della durata e la
conversazione dei valori collaborano con una cultura che fa il proprio ritratto autocelebrativo.
100 «E fra tutte le parti dell'orazione, quelle che contengono le sentenze, debbano essere e pure, e semplici,
acciò che lo splendor delle parole non offuschi la luce delle sentenze» (DCT, 215). Anche Ariani fa notare:
«Dunque niente deve sviare alla centralità della sentenza: l'aggettivo non deve costruirsi come accrescitivo
metaforico di senso, come potenziamento della ridondanza timbrica o semantica, come travalicamento delle
sostanze presenti verso costellazioni semantiche allusive, suggestive, 'fascinose', deve limitarsi al detto esplicito
moralizzato, ribadendone il senso didattico» (Ariani, 1979: 140, in nota).
106
Accanto alle sentenze, i discorsi dei personaggi sono anche pieni di riferimenti a
esempi – una retorica rintracciabile nella trattatistica dell’epoca, per cui nell’Istitutio principis
christiani Erasmo pone l’esempio tra gli espedienti pedagogici cui ricorrere per educare il
futuro principe, in alternativa ai precetti astratti, mentre nel Cortigiano del Castiglione
l’esempio è strumento costante dei discorsi. Mentre lo scopo del racconto esemplare è quello
di persuadere e convertire, modificare il pubblico, quello dell’esempio come argomento
retorico è invece di cambiare o almeno di influenzare il giudizio di una situazione. La retorica
esemplare del dramma non viene quindi espressa soltanto nella "cornice" o nella "lezione",
cioé nel coro e nel prologo, ma anche nell'intreccio stesso, dove i personaggi imparano dagli
esempi altrui e a proprie spese, quali siano le vere virtù. Il dramma, nel suo insieme, è un
exemplum, come lo possono essere anche le singole scene: in più, ricorrono innumerevoli
exempla nei discorsi persuasivi dei personaggi.
Veicolo più tradizionale del discorso didascalico, l'exemplum si inserisce, tuttavia, fra i
principali argomenti del genere giudizionale, spesso con la funzione di precedente (modello
etico), che mediante l'analogia opera per cambiare il giudizio dell'uditorio su un caso
particolare. Con la loro autorità gli exempla servono a dare un fondamento ad una regola,
entrando così nei discorsi persuasivi come confirmatio della tesi dell'oratore. Il frequente uso
da parte dei personaggi di Giraldi dell'esempio altrui rivela la natura oratoria del dramma: è la
logica della ratio persuasiva a imporsi accanto alla logica temporale della sequenza narrativa.
Lo scopo è quello di invitare l'ascoltatore all'imitazione o di convincerlo tramite la
generalizzazione.
Difatti, tramite la logica deduttiva delle sentene, Giraldi ricava degli exempla dei
principi universali, quasi da ogni scena delle tragedie. I pochi episodi che esulano da questa
retorica contengono una disputa o, comunque, un dialogo vero e proprio. La maggior parte
delle altre scene segue invece una disposizione fissa, nella quale la confirmatio dei discorsi si
fonda su sentenze etiche e su esempi. Inizialmente il personaggio si lamenta iniziando con la
propositio, che solitamente è una massima sulla sorte umana in generale, sull'instabilità della
fortuna, sull'infedeltà degli uomini e simile luoghi comuni, per poi esemplificare tale massima,
additando emblematicamente la vicenda di una delle figure del dramma, oppure narrandone
l'azione. I drammi sono in questo modo un susseguirsi di «digressioni introdotte per abbellire,
e per aggrandire la favola», che possono essere «ragionamenti lunghi, come nel lodare, o
biasimare costume, vita, signoria, sesso, età, od altre simili cose che convengono agli episodi»,
come scrive nel Discorso sulle trageide e sulle commedie (DCT, 212). Lo schema è sempre il
medesimo: dal generale al particolare delle sentenze, poi dal particolare al generale degli
107
esempi. Riporto alcuni versi dall’Epizia per illustrare questo uso delle massime ma, in verità,
basta leggere un qualsiasi dramma di Giraldi per trovarne tanti altri analoghi.
Il terzo atto dell’Epizia è cruciale per la svolta drammatica, in quanto all’eroina viene
comunicata la morte del fratello, e quindi anche il totale tradimento del governatore Iuriste,
che aveva promesso di risparmiargli la vita se lei gli si fosse concessa. Giraldi lascia che sia il
camerier dell’eroina ad aprire l’atto, con un’affermazione generale sul desiderio femminile,
che farà da contrasto ironico allo svolgersi dell’azione:
I desideri de le donne sono
In guisa ardenti, e tal sproni al fianco
Lor pongon, che non have requie, né pace,
Sin ch'al fin non gli veggono condotti.
Da poi ch'Epizia è ritornata à casa,
In spazio d'un'hora mille volte
Spronato mi hà, ch'io vada tostamente
Al Podestà, perche il Fratel le mandi
Libero à casa, come le ha promesso
Iuriste; (Epi, III. 1).
La funzione dedutti va delle massime ha luogo nella cornice dei drammi, nei cori e nel
prolobo, ma anche nell’esposizione degli antefatti. Per cui, mentre l’espediente per rendere
verosimile il racconto dell’antefatto in genere è costituito dalla presenza del confidente, in
Giraldi l'interlocutore dell'espositore diventa spesso superfluo, in quanto il personaggio
prende spunto da una sentenza per poi narrare l'antefatto come un exemplum atto a
confermarne la validità; come avviene nell'Altile, negli Antivalomeni e nell'Epizia.
Il procedimento deduttivo del passaggio dal luogo comune ad un riferimento esplicito
al personaggio drammatico, si inverte quando ci si sposta alla struttura comunicativa esterna,
nella quale il personaggio diventa un exemplum, ossia un'imago universalmente valida, che il
pubblico può adattare alla propria vita. Si ha quindi un dialogo costante fra l'universale e il
particolare, cioè fra i valori generali con cui il pubblico si possa identificare e il loro
manifestarsi nella scena.
Mentre le sentenze indicano i personaggi come esempi, nelle dispute il repertorio
classico-umanistico degli esempi viene poi utilizzato dai personaggi per persuadere
l'interlocutore drammatico su una determinata questione. Il consigliere nell'Orbecche cerca di
indurre il tiranno alla clemenza, arrivando a citare addirittura un esempio nell'esempio:
Si deono perdonar simili errori
Da un magnanimo core e lo vi mostra
Pisistrato, a cui fu la figlia propria
Basciata da l'amante ne la strada.
Egli non corse a le catene, a i ceppi,
O a martiri, o a la morte, come molti
De' suoi volevan, ma sapendo ei che male
108
(Per chiara isperienza e certi essempi)
Resister puote un giovane a le fiamme
d'amore, n’iscusò l’acceso amante (Orb, III. 2)
E negli Antivalomeni il consigliere Honorio, alle prese con il giovane innamorato Uranio, gli
ricorda il caso tragico di Marco Antonio «fattosi servo à Cleopatra» per poi ricorrere ai «Re
vicini, e quei de i tempi nostri, / Et quindi haver potrete essempio chiaro / Di quel, che vi
conviene» (Ant, II. 4).101
Ora, la retorica drammatica delle massime e degli esempi ha indubbiamente qualità
metateatrali. Ciò vale in particolare per l'uso allusivo e illustrativo degli exempla nelle
repliche. Difatti, se si prende atto del fine esemplificatorio dei racconti inseriti nelle fabule,
questi si rivelano come delle mises en abyme del dramma stesso, oppure, con la terminologia
di Dällenbach, come degli enunciati riflessivi metadiegetici. Egli scrive:
Gli enunciati riflessivi metadiegetici si distinguono dai metaracconti in quanto non
mirano a emanciparsi dalla tutela narrativa del racconto primo. Disdegnando il turno di
narrazione, essi si limitano, per quanto li riguarda, a riflettere il racconto e a sospendere
la sola diegesi. (Dällenbach, 1994:68)
La tematizzazione della funzione esemplare da parte dei caratteri li rende esplicitamente
augocoscienti, cioè consic della propria partecipazione nella costruzione del dramma.Talvolta
sono i personaggi drammatici a confrontarsi con quegli altri storici o mitici e a decifrare la
propria storia, a citare le premesse le quali si trovano in altre vicende. E a causa del valore di
verità universale degli esempi citati e delle massime, la realtà fittizia drammatica si avvicina a
quella del pubblico delle opere: entrambi diventano destinatori.
Ma non è solo l’uso delle massime a mettere il pubblico nella stessa situazione retorica
dei personaggi, poiché a ciò collabora anche l'enfatizzazione della vista nelle repliche. Carlo
Fanelli ha recentemente visto le sollecitazioni visive nei drammi di Giraldi e dei suoi
contemporanei in luce a intenzioni mnemoniche, - si tratta di venire incontro all’esigenza di
illustrare, con evidenza, gli avvenimenti. Scrive Fanelli: «Questo processo pone drammaturgia
e messinscena sullo stesso piano, al fine di superare la finzione o renderla momento
necessario nell’apprendimento del vero, attraverso l’osservazione di una vicenda messa in
movimento dalla scena»102. L'evidentia, intesa come ponite ante oculus, viene imposta
101 L'ambiguità dell'exemplum, quando viene usato dal particolare al particolare, è stata illustrata da Machiavelli che nel
Principe e nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio mette in rilievo e sfrutta la natura indeterminata dell'esempio, il
quale può cambiare connotazioni etiche a seconda del contesto in cui viene inserito (Kahn, 1994).
102 C. FANELLI, Con la bocca di un’altra persona. Retorica e drammatica nel teatro del Rinascimento, Milano,
Bulzoni, 2011, p. 230.
109
anzitutto dalla natura diegetica dei drammi, che sono narrati, più che rappresentati,
richiedendo dal pubblico uno sforzo di immaginazione icastica103.
Infatti, per il personaggi, come in genere nel Cinquecento inoltrato, la vista è spesso
sinonimo di vita. Come se si trattasse di essere spettatore passivo della propria vicenda, egli
apostrofa i suoi stessi occhi: «Ai, occhi miei, / Come potete voi questo mirare, / E non divenir
ciechi?» si lamenta Orbecche, mentre il tiranno ha solo un desiderio prima di morire:
«Pigliatela, uccidetela, ch'io veggia, / Pria che del tutto i' moia, la vendetta» (Orb, V. 3 e 2).
Ed è anche fondamentale il farsi vedere:
O signora, o Reina amata e cara
Alzate gli occhi a la Nudrice vostra
E vedete il suo pianto (Orb, V. 3)
La vista fa inoltre parte della didascalia implicita dei drammi in quanto formula fissa
adoperata per introdurre nuovi personaggi sulla scena.104 Vediamo altri esempi. Nel quarto
atto dell'Orbecche, dopo il racconto del massacro da parte del Messo, il coro conclude: «Ahi
misera reina, quest'orrendo / Spettacolo t'aspetta a te il crudele / Riserba questo don..», e
l'eroina replica nell'ultimo atto alla vista di quel che è rimasto dei corpi del marito e dei figli;
O spettacol crudele. Analogamente il cortigiano confida ad un suo pari nell'Euphimia: «Felice
tu, che costretto non sei, / Come vuol il destin, che io sia costretto /Ad essere spettator di sì rio
fatto». Mentre la Nutrice vuole fuggire dalla corte perché «Non voglio esser presente / A
spettacol sì fiero» (Eup, II. 4; III. 2). Come nel Decameron e negli Ecatommiti, si crea nei
drammi uno sdoppiamento del pubblico: lo ruolo dei lettori e degli spettatori viene
rispecchiato dai personaggi.
4.3
LA VISTA
Ora, è anche vero che il continuo richiamo agli occhi dei personaggi, a ciò che questi vedono
o hanno visto, è ben più di un indice metateatrale. La sua principale funzione rimane, infatti,
quella di ostentare ciò che al pubblico di questo teatro oratorio raramente viene concesso: il
vedere.
[P]erché non è lo spettacolo che da sé induca la commiserazione, ma le affettuosissime
parole, mandate fuori con affetto compassionevole, il quale affetto, se bene riuscisse
103
Per Giraldi, invece, l'energia «non sta nel minutamente descrivere ogni cosuccia [...] ma nelle cose che sono
degne della grandezza della materia che ha il poeta per le mani e la virtù dell'energia, la quale noi possiamo
dimandare efficacia, si asseguisce qualunque volta non usiamo né parole, né cose oziose». Discorso intorno al
comporre dei romanzi, cit, p. 80.
104 Cito sempre dall'Orbecche: «Ma veggio ch'egli vien: voglio ritrarmi / Quivi in disparte e finger non vederlo»;
«È quel ch'io veggio là Malecche?»; «Ma veggio che ne vengono a me insieme"; "Ma veggio che di qua Tamule
e Alocche / Vengono» (Orb, III. 1, 3 e 5).
110
veemente nello spettacolo, rimane egli nondimeno molto vivace nelle parole che tale
affetto esprimono, levatone lo spettacolo105.
Questi drammi, poiché formati da re-citazioni di un dramma svoltosi altrove, fuori scena, o
rappresentati come dramma nel dramma, creano una distanza critica fra il pubblico e lo spazio
fittizio, per riflettere e sentirsi ri-flettuti. Quindi, proprio perché nel pubblico è stata
affievolita la possibilità di sentire terrore e pietà, diventa ancora più importante che esso si
veda rispecchiato non solo nelle vicende dei protagonisti drammatici, ma anche negli effetti
che queste suscitano in altri personaggi, coro incluso; in tal modo il pubblico apprende come
reagire. A questo proposito è istruttivo il discorso dell'Eunuco nella Cleopatra:
Chi apparar di haver pietade
A' le miserie altrui mirasse questa
Incredibile angoscia, c'hora prema
La mia infelice, e misera Reina (Cle, II, 3)
Tramite pietà e terrore, nel dramma si giunge alla catarsi, intesa come lezione morale - che
purifica e coinvolge tutta la corte drammatica. E' comunque difficile non vedere in repliche
come questa sopra duna rottura della parete fra il pubblico e la figura drammatica. La
concezione pedagogica del dramma, infatti, porta l'autore ad ignorare i propri precetti teorici;
nel Discorso scrive che «tale deve introdurre l'attione della favola il Poeta, che non habbia
mai bisogno l'Historione di voltare il suo ragionare a gli spettatori». Analogamente, nella
Lettera sulla tragedia aveva risposto alle critiche rivoltegli affermando che «gli spettatori non
sono in considerazione agli istorioni, ma che ragionano come fossero nelle proprie case e ne'
luoghi particolari ove occorresse loro ragionare de' negozi loro» (LettD, 483-4). Giraldi,
tuttavia, non rappresentando in scena azioni le quali dovrebbero destare la pietà e il terrore nel
pubblico, devono ottenere questi effetti mediante la mimesi del pubblico da parte degli
personaggi-spettatori.
Infine, il costante resoconto delle diverse visioni dei personaggi crea anche una
molteplice prospettiva negli intrecci, che implica contemporaneamente la coscienza dei
protagonisti, in particolare del re, di essere visti e quindi di dover tenere presente la
prospettiva altrui, del popolo, della corte e di Dio, ultimo giudice. E' interessante notare che le
protagoniste storiche e mitologiche di Giraldi, quelle cioè che portano con sé il più
ingombrante bagaglio intertestuale, si riferiscono ai loro modelli letterari, ricorrendo spesso al
nome proprio quando parlano di sé. Didone si lamenta: «E Furie ultrici, e' Dei de la infelice /
E misera Didon, che se ne more....» (Did, V. 2); e Cleopatra esclama: «Or và, và, Cleopatra, e
poni in mano / Il Regno a Marco Antonio, e la tua vita,....» (Cle, I. 3). Cleopatra e Didone si
105
G. B. GIRALDI, Discorso, cit., p. 188.
111
considerano in una prospettiva storica e letteraria parlando del proprio tipo e alludendo con il
proprio nome all'exemplum morale del personaggio mitico che interpretano. Con
l'ostentazione del nome, l'eroina si definisce uguale e coerente ad esso, al suo passato storico,
e fissa sé stessa in un'esistenza eterna. Il nome della figura drammatica storica, il suo tipo, è
superiore ad essa: è un punto di riferimento fisso verso il quale l'eroina si volge per definirsi. I
gesti e le parole tendono a riconfermare le aspettative incluse nel suo tipo, che precede
l'esistenza della figura drammatica quasi come un'idea platonica.106
Invero, ragionando sullo sviluppo storico dell'exemplum, Bremond si sofferma a
discutere alcune differenze significative fra l'exemplum medievale e quello antico;
sottolineando che mentre quello classico si poggia sul valore degli eroi e della storia e, come
nel Rinascimento, compara implicitamente il passato glorioso della nazione alla decadenza
presente, per il clerico del medioevo il ricorso alla storia non è un appello ad un'epoca
fondatrice, ma solo una prova di verità, dove gli eroi dell'exemplum non sono più centrali: non
importa quale uomo o quale donna, perché contano le azioni e la storia (Bremond, 1982). Si è
tentati di vedere il distacco di Giraldi dal modello della tragedia greca, e anche
dall'applicazione della storia romana nella sua tragedia in luce a questo sviluppo storico
dell'exemplum; evitando di mettere in scena personaggi storici o mitici con cui il pubblico
possa difficilmente riconoscersi, il tragediografo sceglie di puntare sull'azione e di
rappresentare vizi o virtù universali.
E’ chiaro che i riferimenti espliciti ai personaggi della cultura classica rivelino una
presa di posizione dell'autore implicito che si confronta con i testi antichi. René Girard
parlerebbe in questo caso di desiderio mimetico, nel senso che i personaggi hanno
riconosciuto il proprio modello, e quindi scoperto la propria funzione poetica. Quando i
personaggi drammatici si sdoppiano, nella tragedia si spalanca uno spazio riflessivo:
consapevoli che le aspettative del pubblico implicito dovranno in qualche modo venir
accontentate, i personaggi si ricorrono all'enciclopedia intertestuale degli exempla della
tradizione umanistica.
Nei soliloqui durante i quali i sovrani confessano uno stato di insicurezza, essi non si
sevono dell'io referente ma parlano dei 're' in generale, oppure ricorrono alla terza persona
plurale. «Che dee far'altro un Re, che cercar sempre / Di far maggior lo stato, di acquistarsi /
Maggior potenza?» - si chiede il tiranno Acharisto (Eup, II. 2), interpretando l'anti-modello
del Principe machiavellico; ed è in base a questi referenti generali e agli exempla classici che
poi agisce. Più che riferirsi ad una determinata figura storica, i protagonisti di Giraldi
106
Il fatto che ella si riconosca come personaggio esemplare e copia del proprio modello, implicherebbe una mise en
abyme della figura con cui si identifica la protagonista. Le conseguenze ultime di questo riconoscimento costituiscono
una situazione che il Dällenbach con un'argomentazione logico-realistica, rigetterebbe: il personaggio non può
comprendere pienamente la verità prima dello svolgimento finale della fabula, poiché il porre termine al suo errare
significherebbe ridurre al silenzio il racconto. Riflettendo sulla costruzione in abisso dell'enunciazione, il Dällenbach
nota quindi che nella maggioranza dei casi il ruolo del produttore è assegnato ad una della comparse, mentre il
protagonista si riserva quello del ricevente (Dällenbach, 1994:107).
112
mostrano però la consapevolezza di essere personaggi drammatici, di svolgere e di essere
considerati dei modelli in una mimesi esemplare. Cleopatra, ragionando in un monologo sulla
miseria della donna in generale, esordisce: «Ecco che essempio darne posso hor io / Ecco
ov'io son condotta» (Cle, I. 3). Nella Selene l'eroina si rivolge alla figlia definendo parte della
loro funzione: «siam de la miseria essempio»; mentre un cortigiano spiega il significato
dell'eroina al re che si credeva tradito da lei: «Casta fu la tua moglie, e così casta, / Che fu d'
onestà essempio» (Sel, V. 8). Mentre Gripo, il malvagio cortigiano della Selene, si rende
conto troppo tardi della propria funzione:
Io merto, io merto
Empio ch' io son, ch' i can mi mangin vivo ,
Per dar essempio, che più d' ogni inganno
D'huomo malvagio l'innocenzia puote,
E che bramar non si dee cosa alcuna
Contraria a l’ onestà, contraria al giusto. (Sel, V. 9)
"E chi nol crede” - avverte Orbecche nell'atto secondo dopo aver esposto la disgraziata
condizione femminile – «in me si specchi e la mia sorte attenda» (Orb, II. 4). Il re negli
Antivalomeni, alludendo alla futura punizione del cortigiano infedele, afferma «ch'essempio /
Ne potrà haver da se mill'anni il Mondo» (Ant, V. 2); allo stesso modo anche il tiranno
dell’Orbecche capisce la funzione esemplare delle sue future vittime:
E se sian ciechi,
Io bene in giusa gli occhi aprirò loro
Che potran far veder a gli altri quello
Che non avran voluto essi vedere. (Orb. V. 1)
Nell'ammettere la consapevolezza delle convenzioni del genere tragico e del proprio statuto
drammatico i personaggi si estraniano dal proprio ruolo, lo oggettivano. L'autoreferenzialità
del linguaggio drammatico è rivolta solitamente verso l'esterno del dramma, imponendo così
al pubblico una coscienza metadrammatica il cui effetto alienante può rendere problematica la
sua identificazione con il personaggio drammatico, se non tramite il comune ruolo da
spettatore. Il luogo ideale del metalinguaggio teatrale è, generalmente, quello esterno dei
prologhi e degli epiloghi. L’autoriflessività fa però anche parte della comunicazione fra i vari
personaggi drammatici: la catarsi è interna, come è interno il docere; quindi, alla fine del
dramma i personaggi hanno imparato dagli esempi. Così agisce il Senato nella Selene, dopo
aver scoperto la frode del cortigiano Gripo, riconoscendo nuovamente al re la sua autorità:
Spero che fatti cauti e voi e noi
Per l’ innanzi schivar saprem l' ensidie
Di chi penserà farci ascoso inganno,
Per turbarci il felice e lieto stato. (Sel, V. 10)
113
L'intertestualità scoperta, l’auto-rappresentazione, l'attenzione data alle relazioni fra segno e
significato, la rappresentazione dell'utilità del paradigma esemplare sono, comunque, tutti
elementi che qualificano un dramma auto-referenziale. Questi aspetti metateatrali
appartengono innegabilmente ad un “manierismo”, una specie di nominalismo che si presume
lontano dagli intenti dei nostri testi pedagogici, in cui le parole e i segni si chiudono su stessi e
si liberano dalla loro funzione mimetica di riferimento. Tuttavia, più che al “manierismo”, gli
aspetti metateatrali potrebbero essere considerati alla luce dell'effetto emozionale misto della
tragicommedia, dove il riconoscimento dell'artificio da parte del pubblico crea una distanza
drammatica che contemporaneamente non ostacola del tutto la partecipazione emotiva, e il
docere meraviglioso può vincere sull'orrore e sulla pietà. Jacqueline Pearson ha notato che fra
gli aspetti critici più interessanti della tragicommedia vi è il fatto che quel genere letterario
tende sia a creare una stretta relazione fra il proprio pubblico e il dramma, sia ad esporre una
propria retorica (Pearson, 1980). Nel suo studio The Name and Nature of Tragicomedy Verna
Foster Foster ha analizzato la stretta relazione tra il metateatro il metafisico e la
tragicommedia, arrivando a sostenere che le tragicommedie sono spesso orientate verso il
generale e l’universale, anziché verso lo specifico e individuale, mentre il pubblico è spesso
reso conscio della manipolazione dell’autore (Foster, 2004)107. Tale presenza metateatrale
crea secondo Foster un universo benigno che permette second chances, e offre soluzioni
providenziali e un cielo cristiano. In Giraldi troviamo così il primo debole spunto del
metateatro, il quale diventerà una caratteristica del teatro secentesco e della tragicommedia:
l'isotopia metadrammatica, che crea un continuo gioco di prospettive. L'autore cioè
allegorizza il personaggio per trasformarlo in voce del teatro che si autodefinisce per il
pubblico; e i personaggi stessi precisano le proprie funzioni come attori della favola tragica,
individuando anche il proprio ruolo drammatico, il proprio tipo, per il pubblico.
107
V. FOSTER, The Name and Nature of Tragicomedy, Aldenshot, Ashgate, 2004.
114
5.
LETTURE DEI DRAMMI
Con la presentazione delle caratteristiche strutturali e tematiche della nuova tragedia di
Giraldi spero di aver dimostrato come questo dramma si distingua dalla tragedia antica, per
inscriversi in una forma drammatica più libera e più moderna. Desidero ora mostrare,
attraverso la lettura delle sette tragedie originali di Giraldi, come funzioni la retorica
ideologica dei drammi. E’ importante notare che le singole analisi dei drammi non intendono,
di per sé, rappresentare una lettura completa dei diversi drammi; infatti, ho scelto di mettere a
fuoco quegli aspetti che caratterizzano il teatro giraldiano in generale, anche per rilevare lo
sviluppo tematico e retorico nel corpus drammatico del ferrarese. Tale procedimento, in parte,
è stato preferito per ragioni specificatamente tecniche e di disposizione, per evitare cioè, il più
possibile, una ripetizione che inevitabilmente seguirebbe da approcci critici identici e da
analisi integrali di drammi che presentano molti tratti comuni.
In particolare, con l’Orbecche ho voluto dimostrare che questa prima tragedia si
distingue da quelle a lieto fine che la seguono e come cerchi di liberarsi degli stretti vincoli
aristotelici. Anche l’approccio all’Altile è prevalentemente tematico, e si concentra
sull’introduzione dell’eroina novellistica nella tragedia, e sulla funzione dell’amore. Con gli
Antivalomeni ho voluto, invece, mettere a fuoco un aspetto tematico e nel contempo
strutturale, che diventerà sempre più importante nel dramma giraldiano: la figura del
mediatore. Anche l’analisi della Selene si concentra sulla terza parte del conflitto drammatico,
quindi sul capro espiatorio e la conseguente catarsi della corte drammatica. La figura del
cortigiano ambizioso e maligno permette inoltre di riflettere sulla struttura ideologica della
nuova tragedia, quindi sull’antitesi drammatica portante della fortuna contro la divina
Provvidenza. Con la lettura dell’Euphimia concentro l’attenzione sulla coppia centrale dove,
mediante la figura del sovrano discuto gli ideali politici dell’universo drammatico; mentre ho
considerato l’eroina come rappresentante sia degli ideali della Controriforma che del nuovo
genere della tragicommedia. Anche l’analisi seguente, quella dell’Arrenopia, presenta uno
punto focale simile, in quanto cerco di dimostrare come la tragedia di Giraldi esalti le nuove
virtù eroiche del pieno Cinquecento. Con l’Epizia, infine, dimostro come il dramma
giraldiano dal 1541, data di composizione dell’Orbecche, agli anni Sessanta, si sviluppi in una
direzione sempre più didattica ed esplicitamente controriformista.
115
5.1
L'ORBECCHE E L'ASSENZA DELLA FEDE
L'Orbecche, prima tragedia di Giraldi, venne rappresentata nel 1541 nel teatro privato
dell'autore, alla presenza del duca e, poco tempo dopo, replicata in versione spagnola in onore
del re di Spagna. La tragedia è l’unica selezionata da Giraldi per la stampa, mentre le altre
otto escono postume nel 1585, a questo si aggiunge l'immensa fortuna critica dell'Orbecche,
sia nel Cinquecento sia nella ricezione moderna. In questo dramma agiscono una retorica
diversa e un approccio più inquieto al genere tragico, che verrà smorzato e in parte escluso
nelle tragedie a lieto fine. Il dramma riprende la struttura della tragedia di Seneca, da Giraldi
ritenuta molto più decorosa e addatta ai nuovi tempi che non il modello greco proposto da
Trissino con la sua Sofonisba pubblicata nel 1524. Tuttavia essa offre una tematica e una
retorica che saranno riprese e sviluppate nelle tragedie successive. La presente lettura
dell’Orbecche si insteresserà anzitutto dell’influsso e del dialogo con la tragedia antica, alla
figura del consigliere del re, e al ritratto della corte che emerge dalla tragedia. Prima occorre
offrire un breve riassunto.
Il primo atto dell'Orbecche è ricalcato sul prologo del Tieste di Seneca. Nemisi entra
in scena annunciando che l'ora della vendetta divina è arrivata, e che il tiranno Sulmone
pagherà finalmente per la sua crudeltà, evoca quindi le Furie, ordinando loro di riempire la
corte di orrore. La seconda scena presenta l'ombra di Selina, madre di Orbecche, tornata dagli
inferi. Selina racconta come la figlia avesse svelato al tiranno il rapporto incestuoso fra lei e il
suo primogenito, e come Sulmone li avesse ucciso; ora lei vuole vendicarsi. Nel secondo atto
Orbecche confida alla nutrice la sua disperazione causata dal fatto che Sulmone, ignaro del
matrimonio segreto fra lei e Oronte, desidera sposarla al re dei Parti. Nella terza scena
dell’atto Oronte cerca di consolare l'eroina ed esprime la propria fiducia nell'intervento
dell’anziano consigliere Malecche, che esporrà la loro causa presso il re. Rimasta sola,
Orbecche esprime la propria angoscia. Malecche apre il terzo atto, lamentando l'estrema
difficoltà della propria impresa. Con l’entrata in scena del tiranno inizia una lunga
discussione fra questi e il consigliere, che cerca di convincerlo a perdonare i due giovani.
Dopo la lunga argomentazione di Malecche il re finge di cedere ma, rimasto solo, rivela che
nessuno potrebbe ostacolarlo dal completare la vendetta per l'offesa subita. Ha luogo la
riconciliazione fra Sulmone e gli amanti, anche se Orbecche non si fida del perdono del padre.
Nell'ultima scena Oronte narra in un monologo la storia della propria vita: egli è figlio
illegittimo della regina d'Armenia, che dopo essere stato posto in una cesta sul mare, fu
ripescato da pirati, i quali poi lo vendettero al re Sulmone. L'atto quarto contiene soltanto una
scena, che è un commos dove un messaggero descrive dettagliatamente al coro il sadico
massacro di Oronte e dei due figli di Orbecche. Nell’ultimo atto Sulmone si compiace della
propria crudeltà con due adulatori a corte. Il tiranno presenta le teste e le mani delle sue
vittime come dono nuziale alla figlia, che prima finge di accettare la punizione, quindi lo
116
uccide dietro le quinte. La nutrice e il coro sono i testimoni del lungo monologo pronunciato
dall’eroina che piangendo sul capo del marito e dei figli, maledice il padre e infine si trafigge
e muore sulla scena.
4.1.1 Negoziare con il tragico antico
Riscrivere la tragedia antica in chiave cattolica significava affrontare problemi etici, in
particolare riguardo all'hamartia. Desidero inizialmente mostrare il modo sottilmente
ambiguo con il quale Giraldi risolve il problema della predestinazione della tragedia antica.
Orbecche condivide con molte altre eroine di Giraldi la ragione della sua caduta, ma
in questo caso l'errare d'amore della protagonista non è l'unico ad innescare la catastrofe. La
presenza della vendetta come forza motrice della catastrofe è senz'altro dovuta alla tradizione
della tragedia antica. Nelle tre scene del primo atto appaiono tre specie diverse di esseri
infernali: Nemisi, le Furie e l'Ombra di Selina, la regina incestuosa. La netta separazione fra
il primo atto che contiene queste figure ultraterrene (le quali anticipano l'intera azione
drammatica) e i personaggi tragici (che invece la compiono nei quattro atti successivi), fa sì
che si è tentati di leggere l'intero primo atto come un secondo prologo. Difatti, con questa
prima tragedia il Cinzio non ha ancora affermato pienamente la propria adesione al prologo
separato della commedia latina; tenta invece una combinazione delle due soluzioni, con un
prologo separato e distaccato dall'azione, e un primo atto modellato sul prologo della tragedia
greca. E’ questa soluzione a rendere il primo atto molto autoreferenziale.
Nemisi, arrivata per fare giustizia, apre con un'esposizione della concezione cristiana
secondo la quale i buoni sono i più provati da Dio, mentre i malvagi sono risparmiati in modo
da potere in seguito, per gratitudine, convertirsi al bene. Gli uomini invece non riescono a
vedere oltre le parvenze terrene, per cui osservano soltanto che i malvagi sono felici e i buoni
soffrono; finiscono così per incolpare di cecità la giustizia divina. I dolori dei personaggi
sono esplicitamente interpretati dalla dea come catarsi, e la scena come un purgatorio, una
breve pena confrontata con la vita eterna:
Ond'egli vuol che questa breve pena
In questo stato purgi loro e poi
Godano eternamente il ben del Cielo.
L'errore dei personaggi risiede nel fatto che essi non sono in grado di vedere oltre il proprio
mondo e quindi pensano che
quell'alta providenzia,
A cui tutto è palese et in un punto
Vede il presente et il passato e quello
Ch'avenir dee, sia cieca e nulla curi
Queste cose che son qui sotto il cielo.
117
La dea vendicatrice espone poi la concezione della colpa ereditaria:
E avien sovente che gli altrui peccati
Passano insino a' figli e a' nipoti
E del paterno error portan la pena. (Orb, I. 1)
Questi ultimi versi che alludono alla predestinazione sono fra quelli che hanno spinto Corinne
Lucas a vedere nell'Orbecche la fusione di idee protestanti e cattoliche (Lucas, 1984:93105);108 ma va tenuto presente che l'Orbecche rappresenta un tentativo di riscrittura o meglio,
un confronto con la tragedia antica, la quale implica anche l'idea della colpa ereditaria. Difatti
Nemisi parla del mondo della tragedia antica, dove le sciagure degli eroi appaiano come una
conseguenza della maledizione sui loro antenati. La presenza del topos classico dell'ira divina
che scatena la catastrofe tragica complica la questione della colpa nell'Orbecche. Come nella
tragedia greca il peccato dei genitori ricade sui figli, ed, insieme alla forza naturale dell'amore,
costituisce la ragione della catastrofe. Afferma la vendicatrice divina:
O gente sciocca, voi che non vedete
A pena quel ch'avete inanzi agli occhi,
Volete dar del sommo Dio giudizio! (I. 1)
Ora, e proprio grazie all'azione dell'intreccio drammatico «ognun può vedere agevolmente»,
poiché non è solo Nemisi, ma anzitutto la tragedia stessa a essere «tra' mortali indagatrice
certa / De' fatti loro e con acuta vista / E le cose celate e le palesi / Giudico e veggio con
giudicio intiero». Nemisi è arrivata per aiutare l'autore-Demiurgo a scatenare il suo dramma;
perciò essa chiama a sostegno le Furie senecane del Tieste - le figliuole de la notte dall'oscuro abisso infernale, ordinando loro:
Empite dunque di furor sì grave
Quest'empia corte, ove Sulmon soggiorna,
ch'altro non si veggia che dolore
108
Lucas arriva a queste conclusioni sollecitata dal tormentato ambiente religioso ferrarese nel periodo più
operoso di Giraldi. È vero che nel 1541 la tensione controriformistica non era ancora sentita pesantemente ma è
altrettanto indubbio che Giraldi coltivava amicizie con esponenti di spicco della schiera calvinista intorno a
Renata di Francia. Il suo canzoniere, Le Fiamme, scritto proprio in questo periodo, contiene però solo una
canzone dedicata a Renata, fatto che può venir interpretato come indice dello schieramento ufficiale di Giraldi
con il duca in questo conflitto. Spetta principalmente a Horne il merito di aver chiarito il ruolo di Giraldi in questo
clima religioso conflittuale, arrivando alla conclusione che, anche se egli avesse frequentato personaggi
dell'ambiente protestante, come l'amico Bernardo Tasso, sarebbe sempre stato un cattolico convinto, che nei suoi
scritti avrebbe professato la tolleranza, anziché la punizione nei confronti degli eretici (Horne, 1958). Horne
ricorda, in particolare, una lettera di Giraldi al vescovo di Modena in difesa di Ludovico Castelvetro, dove
venivano criticati duramente i metodi adoperati dall'Inquisizione. D'altro canto non sorprende che il distacco del
Cinzio dai riformatori si accentui con il passare degli anni. Come fa notare Pieri, nell'introduzione agli
Ecatommiti «i luterani sono definiti, con minime oscillazioni semantiche, "fieri", "feroci", "crudi", "barbari",
"crudeli", "malvagi", "scelerati", ed ogni riferimento alle loro azioni è sempre deformato e amplificato» (Pieri,
1978b: 49).
118
e strazi e pianto e morti; e da ogni canto
la scelerata corte a sangue piova.
Fate che miser venga chi è felice
E felice s'istimi il più dolente, (I. 1)
La presenza delle Furie sembra generare subito degli effetti: «Ecco che 'l sol s'oscura, [...] e
tutto 'l mondo vien pallido e nero». Tuttavia, non sono le Furie, quanto un ospite inatteso a
creare le tenebre: nella seconda scena infatti, appere l'ombra di Selina, figura talmente oscura
che la notte le sembra divina luce. Fonte è sempre il Tieste, dove lo spettro di Tantalo figura
nel primo atto; ma, mentre Tantalo è costretto dalle Furie a prendere parte alla tragedia, la
madre di Orbecche agogna di poter presenziare al bagno di sangue a corte. Per Selina la
tragedia è la "mia crudel vendetta", e non ha alcun rapporto con la giustizia divina di Nemisi:
lei infatti non si accontenta della morte di Sulmone, desiderando invece vendicarsi attraverso
la figlia. Tant'è che Selina apostrofa Nemisi di non aver osato allontanarsi dalla fonte
senecana, quindi di aver introdotto le Furie nel suo dramma:
Ma dimmi, ch'uopo t'era da l'inferno,
Nemisi, trar le scelerate Furie
Per accender furor in questa casa?
Che Furia più potente aver potevi
Di me? Ma poi ch'esse hanno avuto quello
Ufficio, ch'a ragion mi si devea,
Perché non resti per me nulla a farsi,
Portat'ho anch'io questa letal facella
Accesa di mia mano in Flegetonte
Per dar degno splendore a queste nozze
Che già furon secrete, or fian palesi
Tra Oronte e Orbecche, mia figlia proterva: (Orb, II.2)
Così, mentre la morte del re e delle sue vittime appartengono alle Furie, quella di Orbecche è
di Selina, dell'eroina novellistica e dell'autore cinquecentesco: «Sian le altre morti de le Furie,
questa Sarà la mia.» (I. 2) Tieste, invece, non si suicida.
Le Furie e Nemisi non si erano riferite ad Orbecche, mirando solo a punire la superbia
del tiranno, una funzione che ben si connette al significato originale di questa forza
vendicatrice, qual recupero dell'ordine e punitrice dell’insolenza ricordata dal Giraldi anche
nell'ottavo capitolo del Discorso al giovane nobile. Come Nemisi, anche Selina è costituita di
ombre e simulacri; e il fine è lo stesso per entrambe: illuminare con la facella tragica. Selina
espone quindi sommariamente l'antefatto e anche il dramma che sta per svolgersi,
aggiungendo anche la morte dell'eroina che non era stata predetta da Nemisi. Inoltre, prima di
tornare ai tenebrosi orrori, lei specifica che il dramma mantiene l'unità di tempo:
Che, pria ch'oggi s'attuffi il sol ne l'onde,
Verranno anch'essi a le tartaree rive
119
A sostener con me tormenti eterni. (Ivi, ivi)
Il primo atto, oltre ad esporre l'intreccio drammatico, spiega le cause della fine catastrofica
della tragedia. Accanto all'ira vendicatrice degli esseri infernali, vengono, infatti, presentato
una corte corrotta, un tiranno crudele e un'eroina che è stata la causa indiretta della morte
della propria madre perché ha svelato al padre l’adulterio di quest’ultima con il figliastro.
L'ombra di Selina desidera vendicare questa colpa, facendo in modo che le nozze segrete di
Orbecche con Oronte or fian palesi.
Nel primo atto l'autore si è quindi mantenuto fedele alla tragedia antica, includendo
l'ira divina, ma, invece di sviluppare l'ira come elemento costitutivo nello sviluppo della
catastrofe, ha considerato l'atto alla stregua di un prologo; per cui i discorsi degli esseri
soprannaturali si riferiscono alla tradizione del genere mentre la tragedia nuova, con il suo
materiale novellistico, predominerà nei quattro atti seguenti.
Il primo coro del dramma, il quale pare totalmente distaccato dall'atto precedente
creando, semmai, con esso un contrasto ironico, è costituito da un'invocazione a Venere che come nel poema di Lucrezio - è lodata quale principio della generazione e dell'ordine; la dea,
infatti, governa il mondo, è l'armonia fra i contrari, la forza che tiene legati i quattro
elementi.109 Nella seconda e la terza strofa del primo coro sono poi esposte le idee eraclitee
sul mondo generato dalla guerra, dal conflitto degli elementi; e come dai contrasti si sia
prodotta l'armonia e abbia avuto inizio la generazione degli uomini, il mortale seme:
Tu sola quando era ogni cosa oscura
E senza onor giacea,
Come maestra miglior de la natura,
La lite ingiusta e rea
Che 'n tenebroso orror teneva involto
Tutto il seme del mondo,
Col tuo lume fecondo
Levasti sì, che quant'era ivi occolto
Apristi, e 'nsieme le contrarie cose
Legasti ad un, con nodo sì fecondo,
Che piene di concordi e d'amorose
Voglie, rubelle unqua non furon poi
Che sentir quanto vali e quanto puoi.
Senza l’intervento di Venere il mondo sarebbe ancora un caos ombroso; di qui, la
conclusione dell'ode è una preghiera alla dea affinché soccorra gli amanti tragici:
Dunque, Dea sacra e alma
Movati e giusti prieghi,
109
La Venere generatrice di Lucrezio va identificata con la seconda Venere, quella terrestre, lodata anche dal
Ficino come colei che dà vita e forma alle cose della natura, ponendo l’uomo in grado di cogliere, tramite la
percezione e l'immaginazione, la bellezza intelligibile.
120
E fa' che 'l fier destin si muti o pieghi.
Ma è un'invocazione che non otterrà risposta. Se si interpretano le idee eraclitee esposte dal
coro alla luce dell'intrigo drammatico, ne risulta tuttavia una predizione ottimista sulla
conclusione del conflitto, in netto contrasto con quella di Nemisi e di Selina. In Eraclito il
conflitto ha sempre un esito generativo. Armonia è figlia di Ares e Afrodite, della guerra e
dell'amore; eliminando la contesa, il mondo stesso sarebbe eliminato, in quanto tutte le cose
si creano dalla contrasto.110 La guerra e i contrasti rappresentati come principi della creazione
e dell'armonia si riferiscono al terrore nell'universo dell'Orbecche; essi lasciano però
trasparire un esito positivo dell’azione drammatica, poiché dal conflitto tragico potrebbe
nascere un nuovo ordine. Ed anche le idee neoplatoniche del coro si oppongono all'etica
dell'intreccio dell'Orbecche il quale, trattando esclusivamente delle disastrose conseguenze
terrene dell'amore, deve necessariamente basarsi su una visione prettamente dualistica
dell'amore dove l'errore dell'eroina oltre ad essere individuale, è una deviazione dall'ordine
sociale. Se si considera poi che la tragedia si conclude con un totale annientamento e con
l’assenza della prospettiva di un nuovo ordine sociale, il discorso parallelo del coro
dell'Orbecche viene innegabilmente ad assumere una connotazione ironica.
Fatto sta che il dialogo fra il coro e l'intreccio nell'Orbecche è diverso da quello dei
drammi seguenti di Giraldi: qui il distacco fra le due istanze appare più forte. L'ironia non
riguarda solo il coro, come ha visto Ariani, nell'Orbecche anche i discorsi contrastano con lo
svolgimento dell'azione, per il fatto che i personaggi «gridano la validità dei valori umanistici
nell'attimo stesso in cui il loro comportamento immorale esplode in atti assolutamente
immorali, muti ad ogni possibile dicibilità» (Ariani, 1974:143-4). Le sentenze e le idee sulla
Provvidenza divina vengono continuamente negate per lo snodarsi dell'azione in un mondo
oscuro, privo di fede e di grazia divina.
La medesima ironia nei confronti della forza positiva dell'amore ritorna anche nel
terzo coro dell’Orbecche, che sono donne della corte le quali, insieme alla nutrice, sono
accompagnate dai pargoletti Amor in un canto che indica l'amore, insieme all'intelletto
apolloniaco, come artefice principale della felicità e come garante di stabilità: «Ecco ch'i
pargoletti Amor già lieti / Gioiscon nosco, e ferma il nostro stato». Questa pausa idilliaca
110 È questa la legge fondamentale della fisica di Eraclito: la ragione universale espressa nell'eterna catena di
tutte le cose, nel trapassare reciproco degli opposti, nella loro dipendenza dalla più potente armonia occulta,
(che nei neoplatonici, e in particolare in Pico, diventa una visione universale armonica) è il principio che
distingue gli elementi caotici, creando la pace. Come ricorda Pico nel suo Commento alla canzone di Benivieni.
121
serve a preparare ironicamente il rovesciamento che avviene subito dopo, nell'atto successivo,
il più sanguinario e orrendo di tutta la drammaturgia giraldiana.111
5.1.2 Un’eroina malinconica?
L'ambivalenza etica di questa tragedia si estende anche all'eroina che, sebbene sia creata sul
modello di Ghismonda, rivela una personalità più complessa di quella dell'eroina di
Boccaccio. Nell'Orbecche le conseguenze estremamente devastanti dell'hamartia
dell’Orbecche sono causate dalla fusione delle regole che governano l'universo moralistico
delle novelle giraldiane con i topoi della tragedia antica. Avrò comunque modo di indagare
sulla colpa della Ghismonda tardo-rinascimentale affrontando l'Altile; l'eccezionalità
dell'eroina nella prima tragedia del ferrrarese richiede invece un discorso a parte.
Orbecche si distingue, infatti, dalle altre protagoniste per la sua passionalità distruttiva,
la quale sfoci nell'ultimo atto con l'uccisione del padre e con il proprio suicidio. Di nuovo la
tragedia antica ci offre diversi modelli per l'eroina passionale. Fedra, Medea e Antigone, le
quali sebbene molto diverse, rivestono la stessa funzione: rappresentano il polo
dell'irrazionalità e della passione, anche violenta. E’ un fatto che va senz'altro considerato alla
luce del decoro e dell'estraneità della cultura cortigiana da questa specie di eroismo
femminile. E’ chiaro che queste figure non sono neppure adatte ad incarnare la funzione
esemplare svolta dai personaggi principali in un dramma educativo. Non è casuale che il
tragediografo ferrarese si allontani sempre più dal modello sconcertante di Orbecche, sebbene
si distingua in questo dai contemporanei.112
Sempre per ottemperare alle esigenze dell'eroe mezzano e del decoro il nostro autore,
dopo l'Orbecche, esclude l'incesto e l'adulterio dalle tragedie. L'Orbecche è certamente quello
più vicino all'archetipo dell'Edipo re e non solo per il motivo dell'incesto (che appartiene
all'antefatto) ma perché esso è interamente articolato intorno alla metafora del buio.
Nell'Orbecche, come nella tragedia sofoclea, i personaggi si trovano di fronte a qualcosa che
non comprendono subito e che vengono a scoprire poi con orrore. L'eroina si distingue dagli
altri personaggi nella pièce per la sua capacità di vedere lucidamente il mondo che la
circonda; per tale ragione essa vive di sospetti e di paure, sino a diventare pazza.
Ariani ha sottolineato, a questo proposito, che tutti i personaggi dell'Orbecche sono
figure isolate nella propria visione del mondo (Ariani, 1974); ma ciò vale in primo luogo per
la protagonista la quale, essendo in grado di intravedere l'ipocrisia della corte tragica, si rende
conto di ciò che sta per accadere. Ora, Orbecche ha sicuramente assunto il presentimento
111
Crf. Ariani (1979:171). Lo stesso impiego del coro si ripete nel quarto coro dell'Epitia, il quale canta le gioie
dell'amore e del matrimonio solo poco prima della peripezia, che si conclude con la condanna a morte dello
sposo Iuriste; nonché nel terzo intermezzo della Selene, dove il coro elogia al principio del carpe diem,
sostendendo principi morali che si trovano in netta opposizione al messaggio etico del dramma.
112 Come nota la Lucas, le eroine senecane figurano in grande maggioranza nelle tragedie italiane dopo il 1550
(Lucas, 1987:291).
122
della catastrofe dal Tieste; come Tieste ella infatti trema di paura prima della felice
riconciliazione con il re, che apparentemente l'ha perdonata:
Ma un non so che di tristo il cor mi preme
E non so la cagion del mio timore.
Mi veggio il bene innanzi agli occhi e tremo
In mezzo a l'allegrezza e temo l'amo
Ascoso sotto l'esca e 'l fel nel dolce.
E poche repliche dopo, modellando la sua risposta su quella che Tieste dà al figlio prima di
affrontare Atreo, Orbecche confessa:
Par ch'io non possa
Muovere i piedi, e pure andar vorrei,
E par ch'abbia chi a dietro mi ritragga. (III. 4)
Tuttavia l'eroe di Seneca è un uomo diffidente e timoroso, l'eroina rinascimentale è anche
malinconica, una qualità che non figura neppure nella novella-fonte. Nel dramma, invece, la
rappresentazione di Orbecche corrisponde alla concezione tradizionale dei malinconici:
possiede la facoltà della veggenza, è costantemente inquieta e, inoltre (quale attributo quasi
fisso dell'eroina tragica), riceve visioni oniriche. «Io sono confusa» - dice a Oreste -,
lamentando nella scena seguente, di dover vivere nel cieco-mondo (II. 3 e 4). E Oreste la
descrive:
Ma di là veggio venire Orbecche
Tutta malinconiosa, lagrimando (II. 3)
E' tuttavia la nutrice a definire più esplicitamente la condizione di Orbecche:
Io tengo che v'abbiate in mezzo 'l core
Accolta tutta la maniconia,
Ch'esser possa nel mondo, Non fia pazzo
Uno ch'a mezzo 'l dì tema la notte? (IV. 2)
La tragedia dimostrerà invece come sia la nutrice a sbagliare perché crede nelle sembianze
della corte. Ora, se è vero che in entrambi i passi citati la malinconia può essere intesa quale
sinonimo di tristezza, lo svolgersi del dramma evidenzia come lo stato d'animo di Orbecche
sia più problematico.
Nell'ultimo atto l’eroina, dopo aver ricevuto in dono dal padre le teste del marito e dei
figli, finge di accettare la bestialità del padre e lo segue nella reggia. Appena entrati e nascosti
allo sguardo del pubblico –, Orbecche uccide il padre mentre il semicoro che dell’ucissione è
testimone. L'eroina ritorna poi in scena con il capo del tiranno - e a questo punto il
palcoscenico ostenta ben quattro teste tagliate - per uccidersi di fronte al pubblico. La morte
123
del re viene, in tal modo, sottratta al pubblico, il quale si deve accontentare dei commenti
atterriti del coro: «Ma che vegg'io? [.../...] Il capo / Gliele leva dal collo, e da le braccia ambo
le mani.» L'effetto è lo straniamento del pubblico, il quale diventa spettatore del pubblico
"reale" dell'episodio.113 Alla fine della tragedia, Orbecche si lascia trascinare nel buio della
pazzia:
Altro non è 'l suo viso che dolore,
E sol dal cor l’escon lamenti e grida,
E come forsennata, or quinci, or quinci
Crudelmente guardando, aggira gli occhi,
Che due facelle sembrano di fuoco;
Oimé, reina, e quale
Empio furor così cieca vi mena
A darvi morte? (V. 2 e 3)
Che si tratti di follia, lo attesta il singolare sforzo dell'autore di applicare una differenza
stilistica per evidenziarla, sebbene egli non giunga neppure qui ad un linguaggio straniato. La
replica di Orbecche dopo l'uccisione è costituita quasi unicamente da domande in forma di
apostrofe: l'eroina si rivolge al padre morto, al sole, a Giove, alla terra, ai propri occhi, al
proprio cuore, al marito e ai figli morti, come se trovasse realmente di fronte a sé tutte queste
presenze.
L'Orbecche è intessuta di variazioni sull'antitesi luce-oscurità, un gioco metaforico
onnipresente nella letteratura rinascimentale per indicare, con il sole, la mente e la coscienza
umana, ma anche, al contrario, per paragonare la coscienza dell'uomo alle tenebre. Di qui,
l'eroina rivolge le sue accuse all'intelletto, al Sole, che non dona luce all'ombroso mondo
cortigiano costituito di apparenze:114
113 Per Giraldi teorico, le morti non vanno rappresentate in scena se non per creare compassione. Di conseguenza
devono avvenire altrove anche i suicidi e le uccisioni dei villani perché questi (come il suicidio di Astano,
cortigiano falso dell'Altile, paragonato da Giraldi alla morte di Egisto nell'Elettra di Sofocle), "non s'introducono
per la commiserazione, ma per giustitia" (DCT, 184). È infatti sempre secondo questo principio che il nostro
autore critica lo Speroni per aver introdotto nella Canace «la morte della nudrice, la quale è indegna per la sua
bassezza di morire in Tragedia, nella quale non avvengono se non morti di gran maestà, non di servi, o di serve o
d'humili famigliari» (Giud, 26). L'esclusione della rappresentazione della morte può essere considerato come un
atto di obbedienza ai precetti della poetica oraziana, ma tale spiegazione non è valida per il senechismo sfrenato
dell'Orbecche.
114 La connessione fra il sole e l'intelligibile risale a Platone e ad Aristotele: nel Fedro si legge che la vista è «ll
più chiaro dei sensi che possediamo, che essa stessa è brillante di una superiore chiarezza», e Aristotele inizia la
Metafisica esaltando la vista come la più amabile delle sensazioni. Ora, nel Fedro, la vista viene elogiata perché
essa ci fa vedere la bellezza terrena, rendendoci capaci di mettere le ali e di innalzarci alla visione della vera
bellezza. È questa una concezione ripresa anche da Giraldi nei suoi Discorsi sulla vita civile: «Tiene adunque
questa parte della anima, nella quale è la ragione, quel modo medesimo intorno alle cose intelligibili, che tiene il
sole alle visibili. Però ch'egli col raggio suo illumina lo spazio, che turbido, e le oscure, se ne stanno nella parte
possibile, superate da luogo, da materia, e da tempo, perche non sono particolari; e di qui vogliano alcuni, che
l'intelletto possibile sia tale, che di lui si faccia ogni cosa, e come che sia quasi in vece di materia, e che lo
intelletto agente sia di ogni cosa facitore» (VC, 1071).
124
O sol, che sol il mondo orni e illustri,
Perché non ti fuggisti allor dal cielo,
Che questo fier tiran, ch'or per me giace,
Commise così sozzo e orribil atto?
Come poté la tua serena luce
Veder cosa sì cruda e così orrenda,
E non venire oscura? (V. 3)
Le domande gridate al nulla sopra il cadavere del padre - ben quattordici - non ottengono
nessuna risposta. A noi resta però la questione della melanconia dell'eroina, perché
nell'osservare la sua raffigurazione, va ricordato che il primo Cinquecento è caratterizzato da
un crescente interesse per la psiche umana, come ha rilevato, fra gli altri, Mario Santoro,
commentando la presenza della follia nella novellistica di Bandello; la quale, allo stesso
modo di quella di Giraldi, addita la ragione della corruzione e del disordine morale, negli
sfrenati appetiti non moderati dalla ragione (Santoro, 1967:435-89). Verso la fine del
Quattrocento, e sotto l'influsso del neoplatonismo, la melanconia inizia a rappresentare anche
una certa grandezza spirituale, rivelandosi così ben diversa da quel vago stato d'animo che il
romanticismo attribuiva a essa.115 Tale rivalutazione avviene nella cerchia ficiniana la quale,
identificando la melanconia aristotelica del genio con il divino furore platonico, la innalza
verso il senso di una più alta coscienza e di una supremazia dell'intelletto; di qui non solo nel
linguaggio petrarchesco, ma anche nella speculazione neoplatonica la melanconia è collegata
all'amore. Nel Sopra lo amore (VI. ix), il Ficino riprende gli argomenti di Socrate e descrive
due specie di amori, cui corrispondono due tipi di pazzie: l'Amor come ispirazione divina e
l'amore bestiale, 'difetto' del cuore e del cervello che crea la melanconia:
Gli amanti divengono malinconici, come mai l'umore malinconico si moltiplica per il
sangue secco, grosso e nero.[...] Questo avvenne a Lucrezio filosofo epicureo, per
lungo amore: il quale prima da amore, e poi da furore di stoltiza angustiato, sé
medesimo uccise. Questo scandalo avviene a coloro, i quali male usano lo Amore.
La melanconia riveste però nello stesso ambito filosofico un significato positivo, in virtù del
quale essa diventa stimolo all'ascesa spirituale verso la contemplazione eterna.116 Nella
115 Va
ricordato che nel Cinquecento ci fu una lunga polemica sul problema dell’ispirazione artistica e sul termine
"furore", negato dagli aristotelici e lodato dai platonici. La letteratura sulla melanconia nel Rinascimento non
scarseggia; mi limito di indicare lo studio di R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, Torino,
Adelphi, 1983; nonché le pagine di Benjamin nel Dramma barocco tedesco (1980:141-61).
116 La forza imaginative del melanconico viene trattata da Giraldi nel terzo dialogo dei Discorsi Civili: (1236)
«Ciò si dee intendere – rispose Lelio – della medesima virtú imaginativa, senso interiore dell’uomo,a e lo ci
mostra la parola “sente”, perché lo intelletto non sente, ma intende. E a questo modo si dee anche isporre2
Aristotile, quando ci disse che sono facili allo imparare coloro che hanno le carni molli, e al sapere i
melancolici. Perché quella virtú sensitiva piú agevolmente in tali soggetti, secondo la natura loro, piglia le
spezie e le appresenta piú efficacemente allo intelletto, onde poi ne nasce la conoscenza e la scienza altresí, nel
modo che ragionammo ieri, né pure ciò aviene in queste passioni, ma nelle alterazioni, come allegrarsi, dolersi,
sperare, temere e altre tali, che non appertengono punto allo animo, al quale disse Aristotile che, chi volesse
dare effetti tali, sarebbe ciò non altrimente che dire che lo intelletto o edificasse o ver tessesse.»
125
tragedia di Giraldi una tale concezione metafisica della melanconia come una forza positiva
potrebbe situarsi invece, solo nella rete teologica dei discorsi corali, «predisposta a sorreggere
un cosmo altrimenti in preda alla disgregazione» (Ariani, 1977: xxix).
L'autore dell'Orbecche, medico oltreché filosofo, conosceva bene la diagnosi della
melancolia, in forma lieve, sinonimo di tristezza, mentre nella sua versione patologica più
pesante la bile nera signficicava irascibilità e pazzia.117 Proprio come avvenne con Orlando
«che per amor venne in furore e matto» (Or. Fur. I), per quanto sia diversa dalla melanconia
di Orbecche la pazzia presentano un comune motivo scatenante, il fatto di vivere in un mondo
incomprensibile. Orbecche non è neppure l'unica figura pazza nella produzione di Giraldi; nel
poema epico Ercole, l'eroe impazzisce nell’ottavo canto perché costretto a sottomettersi a un
signore meno nobile e, prima di ritrovare il senno, uccide la moglie e i figli. Accanto al
motivo della disobbedienza, la pazzia di Ercole e quella di Orbecche presentano un altro
aspetto in comune: sono entrambe dovute a un essere soprannaturale. Ercole impazzisce per
opera di Megera, mentre Orbecche subisce la rabbia dello spettro di Selina. Come Orlando,
Ercole è un cuore nobile portato alla disperazione dall'ingiustizia del proprio destino, ma nel
poema di Giraldi intervengono Giove e Apollo a frenare il pazzo orgoglio dell'eroe,
sottolineando che egli deve obbedire ai suoi maggiori. Si tratta di un episodio significativo
che può essere interpretato come una condanna allegorica della rivolta politica che, anche se
legittima, significa pazzia e porta alla distruzione della famiglia, istituzione costitutiva della
società (Lebatteux, 1974:280). E qui, finalmente siamo vicini all'universo dell’Orbecche; qui
si capisce anche perché la melanconia dell'eroina sfoci necessariamente nel furore: è la sua
disobbedienza a innescare la catastrofe.
Nell'Orbecche la melanconia comporta una saggezza inutilizzabile, anche se il
malinconico riesce a vedere attraverso le ombre del mondo, la sua saggezza resta arida e
improduttiva. Tramite la figura di Orbecche viene quindi denunciata la vanità del mito del
malinconico, condannato a rimanere isolato. Sopra il corpo inanimato di Orbecche la nutrice
si autoaccusa di non aver creduto alle premonizioni dell'eroina, e di averla addirittura spinta
fra le braccia del suo assassino:
E io semplice e sciocca
Creder giamai non volli, anzi vi spinsi,
Col mio persuadervi che contenta
Ci faria il don del lo spietato padre. (V. 4)
5.1.3 Persuadere un tiranno
117
Osserva Susanna Villari nella sua introduzione al novelliere di Giraldi: «Negli Ecatommiti le competenze
medico-scientifiche di Giraldi (il quale per un certo periodo aveva anche esercitato la professione di medico) e
rincii alle concezioni galeniche si manifestano sia nei Dialoghi […] sia nelle novelle, nella descrizione della
fenomenologia delle malattie e nelle relative indicazioni diagnostiche e terapeutiche». (Villari, 2012: LXXXIV).
126
I' so, Nodrice, per aperta prova
Che la fede ben sta sempre a la porta
De le reali stanze, ma non osa
Por dentro da la soglia il piede mai. (V. 2)
Ma, se ad alcuni de' nostri principi venisse inanti un severo filosofo, o chi si sia, il qual
apertamente e senza arte alcuna volesse mostrar loro quella orrida faccia della vera
virtù ed insegnar loro i boni costumi e quali vita debba esser quella d'un bon principe,
son certo che al primo aspetto lo aborririano come un aspide, o veramente se ne fariano
beffe come di cosa vilissima (Il Cortegiano, IV, 8).
Fra i molti interventi critici su questa tragedia interessa, a questo proposito, un saggio di
Bruscagli, il quale osserva che l'influenza di Boccaccio si estende naturalmente a molte delle
tragedie di Giraldi, ma aggiunge che il riadattamento si colora di una moralità nuova ed
estranea al mondo decameroniano. Gli ideali borghesi dell'abilità e della furbizia sono
continuamente sostituiti dal Giraldi da quelli dell'onestà e del decoro (Bruscagli, 1976:85-90).
Come scrive Bruscagli, esiste una differenza sostanziale fra Orbecche e Ghismonda perché
l'eroina del Cinzio non ha scelto un «giovane di vilissima condizione» quanto, in realtà, un
cavaliere nobile d'animo e figlio illegittimo della regina d'Armenia, come egli stesso rivela in
un monologo. Oronte ricorda anche il suo duro servizio presso la corte di Sulmone, e la
propria lotta contro «gli odii e la cruda invidia di cortegiani». Il suo lungo monologo,
fiducioso del futuro, si conclude con l’apparizione sulla scena dei due falsi cortigiani che
sono venuti per portarlo all’esecuzione. Non sorprende che uno di loro citi Ariosto: «Vedi
come l’uomo erra!» (III, 5).
L'audacia della Ghismonda del Boccaccio va spiegata con il fatto che non si sente
affatto colpevole per aver sposato un uomo non nobile, mentre Orbecche, riconoscendo la
propria slealtà, affronta il padre soltanto quando il conflitto è apparentemente risolto, e allora
chiede perdono.118 L'argomentazione più provocatoria nella perorazione di Ghismonda viene
quindi smorzata dall'autore ferrarese e messa in bocca al saggio consigliere Malecche. Fra i
primi due atti (che anticipano la tragedia) e gli ultimi due (nei quali si estende la catastrofe),
si trova quindi ironicamente in posizione centrale l'opera di persuasione del consigliere
Malecche, la quale occupa quasi interamente il terzo atto.119
L'importanza che Giraldi dedica alla figura del consigliere nei drammi, può
certamente essere interpretata come un tributo a quella professione; è questa, infatti, la
visione del Lebatteux, il quale ha affrontato le opere giraldiane tenendo presenti gli
118 Orbecche si rivela molto meno spietata e audace del suo modello boccaciana quando si tratta di difendere la propria
scelta del marito. È vero che l'eroina di Giraldi spiega il suo amore riprendendo l'argomentazione di Ghismonda, cioè di
avere con "giudizio certo" scelto Oronte "di vil sangue nato" fra "mill'altri illustri" (Ivi, II. 4); ma invece di affrontare
direttamente il padre come la protagonista del Boccaccio, ella si difende nella solitudine di un monologo.
119 Questa scena rappresenta un'innovazione rispetto alla novella-fonte, nella quale Malecche invece opera per
conto del tiranno per convincere la coppia a ritornare dall’esilio.
127
avvenimenti locali di Ferrara e collegando la fabula dell'Orbecche ad uno degli episodi più
tristemente celebri della cronaca di Ferrara.120 Se vogliamo restare in ambito letterario,
ricordiamo che nel Giudicio sulla Canace Giraldi rileva il ruolo fondamentale del consigliere
nel genere tragico, biasimando lo Speroni che, nella rappresentazione di questa figura nella
Canace, dimostra di non sapere «à che fine i consiglieri si usano da i signori». «A me pare –
egli continua – che nelle cose dubitose, e perigliose, è di molta importanza, si chiamino, ove
bisogna sia di consiglio maturo, o di parer prudente, mentre nella Canace questo consigliere
non interviene, se non per udire cosa in aria» (Giud, 18).121
Nella Tragedia a chi legge, il nostro autore scrive che la scena centrale della
persuasione operata dal consigliere potrebbe essere esclusa dal dramma, qualora un lettore la
ritenesse eccessivamente lunga:
E s'ad alcun, cui grave sia d'udire
ragioni, ch'a pietà possin piegare
Un animo disposto a la vendetta,
Troppo lungo parrà forse Malecche,
Egli a sua voglia lo si accorci, ch'io
Mai perciò non verrà seco a tenzone.
Il tentativo di convincimento di Malecche fallisce; ma la discussione non è priva di
conseguenze per lo svolgersi dell'azione, poiché il tiranno alla fine della discussione riesce a
persuadere l'ingenuo consigliere fingendo di aver cambiato idea; fatto che spinge le vittime
fra le sue braccia, quindi alla morte.
La discussione fra il consigliere e Sulmone può essere considerata isolatamente e
come esempio di persuasione non riuscita; si tratta della prima delle discussioni giuridiche
120 «C'est en effet l'épouse adultère de Niccolò III qui, dans la nouvelle d'Orbecche, sert de modèle à Selina, la
femme lascive de Sulmone, condamne elle aussi pour inceste [...] Giraldi qui réserve au segrétaire l'initiative de
donner une apparence de justice au châtiment. L'identitication de Niccolò III devient plus difficile, mais Giraldi,
par ce biais, peut réaffirmer l'importance politique du secrétaire, du conseiller, capable dans les pires
corconstances et quand le prince lui-même n'écoute que sa fureur, de résoudre le difficultés inattedues par sa
prudence et son sens de la situation.» (Lebatteux, 1974:297-8)
121 In questo ambito può anche essere interessante gettare uno sguardo sulla Rosmunda di Rucellai (1515), dove
la figura del cortigiano possiede molte similarità con quella di Giraldi. Nella Rosmunda il capitano Falisco si
trova in un dilemma, perché oscilla fra i sentimenti di gratitudine e di pietà nei confronti dell'eroina e la
sottomissione leale al suo signore, il tiranno Alboino. È il dilemma della fede: a Falisco rincresce il dover agire
contro Rosmunda, che in passato gli aveva salvato la vita, ma sarebbe per lui ancora più grave disubbidire al suo
presente signore. In una scena centrale del dramma del Rucellai il capitano riesce, grazie alle sue doti retoriche, a
convincere il tiranno barbarico a lasciar vivere l'eroina e persino a sposarla, dimostrando così che cosa era capace
di fare "con le parole". Falisco deve però lasciare la scena definitivamente nel terzo atto: le sue armi sono le
parole, non la spada; con la persuasione egli ha compiuto il suo dovere e non può spingersi oltre senza tradire il
suo Signore. Falisco (e il nome non è casuale) si trova in una posizione intermedia, quindi non può agire;
tantomeno cambiare la natura bestiale del suo signore. Nel quarto atto della tragedia il capitano viene quindi
sostituito dal fidanzato di Rosmunda, che mette in atto la vendetta e uccide il tiranno. La sconfitta della ragione
di questo consigliere sarà un tema ricorrente nelle tragedie di Giraldi, nelle quali i consiglieri quasi mai hanno un
ruolo positivo nello sviluppo verso l'ordine finale.
128
che saranno una caratteristica del dramma giraldiano. Vediamo ora le linee principali di
questi dibattiti.
Una parte delle discussioni presenta l'impianto tipico del dibattito processuale, il quale
mira a stabilire la gravità della colpa dell'imputato. Secondo la tradizione del diritto romano
vi sono tre tipi di argomenti difensivi. Il primo, in cui l'accusato semplicemente nega di aver
commesso il reato (lo status coniecturae) non riguarda né le tragedie di Giraldi, né la tragedia
in generale, in quanto esso non esprime dilemmi etici. Nel secondo, (lo status finitionis),
l'imputato invece ammette di aver commesso il reato, affermando però che l’azione rientrava
nel suo diritto; egli nega perciò di aver compiuto un crimine. Questo tipo di situazione offre
ampie possibilità di intrecci tragici, come dimostrano l'Orestiade, l'Antigone (difesa di valori
familiari), il Julius Caesar (difesa dello Stato) e il Cid di Corneille (difesa dell'onore). Ora, il
procedimento di status finitionis nelle tragedie che presentano un'eroina formata sul modello
di Ghismonda ci indurrebbe a porre questa domanda: era giusto sposare l'uomo amato senza
il permesso del re? La risposta sarebbe tuttavia negativa e già anticipata dai prologhi delle
tragedie giraldiane. Interessa dunque principalmente il terzo tipo (lo status qualitatis), che
implica alcune delle circostanze attenuanti in gioco (passione e/o gioventù, ignoranza,
provocazione, ecc.), perché in questo caso una parte della responsabilità soggettiva
dell'imputato viene scaricata su fattori oggettivi: colpevolezza per ignoranza è il caso di
Edipo, per provocazione quello di Tieste, per passione quello di Fedra e delle regine
disobbedienti del nostro autore.
Prima di incontrare il tiranno, Malecche sa che il suo compito sarà molto difficile
perché i re, una volta presa una decisione, difficilmente si ritirano e cambiano idea. Malecche
deve quindi convincere il re che egli può permettersi di cambiare idea e gli suggerisce che un
suo ravvedimento non darebbe luogo a una perdita di dignità; anzi, il suo perdono sarebbe
interpretato come segno di magnanimità.122 Lo scontro verbale inizia da parte di Sulmone
che ricostruisce i tradimenti di Oronte e di Orbecche; accorgendosi sempre più, mentre parla,
della loro slealtà. In questo modo, egli spinge il consigliere a valutare le circostanze dal suo
punto di vista: «Oh, se veduto avesti,......... E se sentito avesti le parole.....». Malecche viene
consultato solo perché aiuti il tiranno a scegliere quale tipo di vendetta attuare. Sulmone non
desidera affatto discutere sulla vendetta in quanto tale:
Ma pria ch'io mi disponga a la vendetta,
Voluto ho che tu intenda quanto i' m'abbia
di tal figlia a lodare e di tal servo
E pigliar teco il modo, con ch'io possa
Di tal oltraggio far piena vendetta:
122
Malecche inizia seguendo la tattica prescrittagli dal Cortegiano: osserva discretamente i tempi, non cerca
«d'intromettersi in camera o nei luochi secreti col signore senza esser richiesto» e di conseguenza, quando si
accorge dell'arrivo del re, si prepara a simulare calma spiegando in una replica a parte: "voglio ritirarmi / Quivi
in disparte e finger non vederlo / E aspettar che chiedere mi faccia / Per qualche messo, prima ch'io mi mova, /
Perché non paia che qui atteso i' l'abbia / Per volerli di ciò mover parola» (Orb, III. 1)
129
Che gran vendetta grave ingiuria amorza. (Ivi, III. 2)
Il consigliere dovrà quindi rovesciare la situazione, spostando il discorso dalla vendetta alla
sua legittimità. Nella prima replica il consigliere conferma la propria solidarietà al tiranno:
"duolmi, signore..."; ma tuttavia ignora intenzionalmente la richiesta esplicita del sovrano e
rigetta l'idea stessa della vendetta a favore del perdono: «Sí perché 'l far vendetta è d'ognun
proprio, / Ma il perdonare è da signor gentile» (Ivi).
Per la mentalità greca antica la colpa è sempre oggettiva, quindi anche colui il quale
commette un reato senza saperlo per quanto possa essere sfortunato, è colpevole. Soltanto
nell'epoca cristiana, con l'introduzione dei concetti del perdono e della penitenza, diventa
possibile introdurre nella tragedia il principio delle circostanze attenuanti.
Ora, se lo scontro su un dato concetto è la base di ogni discussione, questo appartiene
anche al processo giuridico, in quanto si tratta di stabilire il vero significato di un'azione
commessa. In un saggio sul problema dell'ambiguità etica nella retorica rinascimentale,
Quentin Skinner spiega e dimostra le premesse teoriche, nonché l’ampio uso, nella letteratura
rinascimentale, della paradiastole, cioé della ridescrizione retorica; egli osserva come la
maggior parte delle ansietà espresse dai filosofi sulle implicazioni pericolose dell'Ars
rhetorica siano rivolte alla pratica della paradiastole (Skinner, 1994:275). Si tratta di una
delle tecniche più potenti dell'argomentazione in utramque partem su azioni sociali e sui
significati conseguenti: la tecnica della ridescrizione retorica appare nei casi in cui non si
tratta di negare che un atto sia stato commesso, bensì si pone la necessità di persuadere gli
interlocutori ad adottare una diversa attitudine nei confronti dei fatti verificatisi.
Questo è ciò che si verifica nei drammi in cui i consiglieri si sforzano di convincere il
sovrano ad adottare il principio dell’equità. Nel De Clementia Seneca raccomanda al sovrano
di ricorrere all'equità, e non solo alla legge scritta (Cicerone era arrivato alle stesse
conclusioni nel De Legibus).123 L'interpretazione cristiana dell'equità implicava invece la
subordinazione della giustizia al diritto divino, alla legge naturale, «essendo / La pietà cosa
naturale à Dio» (Eup, III. 6).124 Nel terzo dei Dialoghi sulla vita civile Giraldi dedica molto
spazio alla questione dell'equità, e la definisce:
123
Il concetto dell'equità si è però in seguito sviluppato, assumendo caratteristiche diverse da quella che era la
aequitas dello ius romano; poiché in base ai consigli dei due filosofi latini non si trovano i concetti di
misericordia e di bontà, che sono emersi sotto le influenze aristoteliche e cristiane e codificati nei codici di
Giustiziano.
124 Il termine "legge naturale" è usato per la prima volta dai sofisti e poi da Platone nel Gorgia, dove Callicle e
Socrate ne presentano due opposte interpretazioni. Per Callicle legge di natura significa che, esattamente come
succede fra gli animali, l'individuo più meritevole ha il diritto di dare le leggi al popolo e anche di essere al di
sopra della legge; ed è questa la tesi che verrà ripresa dal Machiavelli nel '500. Per Socrate, invece, legge di
natura è quella che la maggioranza, cioè il popolo si dà da solo, e che tutti gli individui senza eccezione devono
rispettare. Cicerone sostiene però nel De Legibus, riprendendo l'interpretazione di Socrate, che una parte delle
leggi scritte rimane assoluta, immutabile ed universale. Secondo l'oratore latino la base della legge scritta è la
legge di natura, che è un aspetto della razionalità, è comune a tutti gli uomini ed è di origine divina. Al di sopra
della legge scritta la quale, applicata in astratto ai casi particolari può essere iniqua, esiste il concetto di equità.
130
l’equità (la quale si può dimandare un modo di clemenza giunta alla giustitia) le cose
severamente statuite, perché somma giustitia non divenga somma ingiuria. La quale
equità giudicò Platone tanto necessaria alle leggi, (le quali, se non sono temperate da
buoni giudicii, sono quasi Tiranni de gli uomini) che avendogli mandato a chiedere i
popoli di Arcadia, che volesse dar loro le leggi, Egli intendendo che non erano capaci
dell'equità, non le volle lor dare. Parendogli ch'hove la severità delle leggi non possa
essere temperata dall'equità, divengono esse aspere spessissime volte, e crudeli; e però
diceva Agesilano Re de Lacedemoni, che non solo era cosa lontana dalla umanità, ma
crudele l'essere troppo giusto. (Ec, 1202)
L'introduzione da parte del consigliere del principio dell'equità, rivela come i due
interlocutori non condividono però lo stesso scopo: in base all'applicazione o meno della
legge naturale, le discussioni, da giudiziali, diventano deliberative, indirizzandosi verso le
conseguenze future per il sovrano. Mentre il re non auspica un vero dialogo, desiderando solo
che il suo ordine sia eseguito, il consigliere mira invece a discutere gli effetti dell'ordine. La
persuasione del consigliere richiede quindi che il referente della discussione muti,
spostandosi dal passato dell'imputato verso il futuro del sovrano.
Nella letteratura tardo-rinascimentale la vendetta viene raramente interpretata come
dovere e come indice di grandezza d'animo, mentre abbondano gli exempla dove la clemenza
viene considerata manifestazione di nobiltà utilissima al sovrano. Infatti, la generosità di
fronte alle offese è strettamente legata sia alla padronanza di sé sia alla conseguente
repressione dell'ira e della violenza; tale topos, sempre di derivazione senecana, ricorre di
frequente nelle tragedie del Cinquecento e, pressoché, in ogni dramma di Giraldi.125
All'antitesi perdono-vendetta Sulmone aggiunge, nella sua replica, gli ossimori di una
figlia, che me da padre non tiene e di un fedele che inganna. Rifiuta di perdonare perché, a
suo parere la vendetta è segno della regalità:
Vedrà quel tradittor, vedrà la figlia,
(Se figlia si dee dir femina tale)
ciò che possan gli scettri e le corone, (Ivi, ivi, ivi)
Questo va risolto appellandosi alla legge naturale, che è il presupposto della legge scritta o il suo sostituto,
quando la prima appare difettosa o non ha previsto il caso specifico.
Anche Lucas ha notato che il dilemma giuridico di queste discussioni costitiuisce un tema di grande attualità: «Il
convient de rappeler qu'à l'époque le problème des lois civiles se pose un peu partout en Europe sous un jour
nouveau. La redécouverte de nombreux textes anciens a donné une acuité particulière à ce problème.» (Lucas,
1984:188)
125 Cito alcuni dei luoghi comuni che ricorrono in queste discussioni nei drammi del Giraldi: «Ai quanto è dura
cosa / Sperar, con le vendette, / Di ristorare il danno / Che faccia alma orgogliosa»; «Io stimo che si a più de la
vendetta / Degno di nobil core il perdonare» (Epi, III. 4 e V. 3); «perché 'l far vendetta è d'ognun proprio, / Ma il
perdonare è da signor gentile» (Orb, III. 2); «Cosa, Fratel, non è di un Re più degna / Che il perdonar,
quantunque punir possa, / Ne mai biasmato fù l'usar clemenza. / Ma il troppo inacerbir sempre die biasmo»;
«Meglio è che vostra Altezza pecchi / Più ne l'usar pietà, che crudeltade" (Alt, III,5); "essendo / La pietà cosa
naturale à Dio, / Chi si dà à incrudelir, subito viene / Nemico à la bontà de' sommi Dei" (Eup, III. 6).
131
Da questo momento lo scontro si trasforma in un lungo elenco di ragioni, da parte del
consigliere, per perdonare gli amanti, solo a tratti interrotto da brevi e sprezzanti frasi del re.
Nei suoi interventi Sulmone si limita a rassicurare faticosamente il consigliere della propria
presenza, permettendogli quindi di continuare a parlare: «Or segui»; «Di pur ciò che ti piace,
/ Senza sospetto alcun, ché mi fia a grado / Udirti»; inoltre, egli attacca la retorica di
Malecche: «Tu mi vuoi far, Malecche, uscir dal giusto / con queste tue parole»; «Deh, se
questo mi mostri, creder voglio / che si posson nodrir ne l'aria i cervi».
Nelle brevi repliche del tiranno ricorrono le antitesi, sempre intese a rilevare
ironicamente l'assurdità delle idee del consigliere. Il ricorso esplicito all'antitesi è una
caratteristica del sovrano, certo significativa, in quanto implica la coscienza della natura
teatrale del potere, ma riguarda anche tutta la corte, poiché le accuse di Sulmone sottolineano
che è ben conscio del potere dell'arte retorica, la quale può volgere ogni giudizio al suo
contrario: «Dai mi vuoi a veder che 'l bianco è nero, / E che l'espresso mal mi torna in bene, /
Malecche?» Le antitesi riflettono però, soprattutto, il potere del sovrano; alla sua domanda
ironica: «Che poss'io forse far d'una colomba / Un'acquila? O d'un topo un leon fiero», il
Consigliere risponde: «Sì potete, Signor, quando vi piaccia» (III. 2). Per farsi ascoltare,
Malecche ignora le offese e tenta l'adulazione: «ogni cosa / Che mi viene da voi m'è onore e
pregio», cercando così di convincere il tiranno dell'effettiva impotenza della propria retorica,
poiché ascoltare il suo parere «non toglie l'arbitrio al re».126
Il procedimento principale nella difesa di Oronte è quello descritto dal Quintiliano
come recordatio meritorum, la concezione cioè che la colpa debba essere bilanciata con i
precedenti meriti del colpevole. Oronte è stato un cortigiano fedele e si è distinto a corte per i
suoi pregi guerrieri, e inoltre «il raccordarvi de' gran fatti egregi / Fatti da lui, per la corona
vostra / Devrian estinguer questo vostro sdegno. (III. 2)127 Anche le argomentazioni di difesa
126
Malecche mostra di conoscere il "giusto mezzo" retorico, quella "certa mediocrità difficile e quasi composta
in cose contrarie" continuamente raccomandata nel Cortegiano (III. 5), quindi, è cauto anche nell'adulazione.
Quando egli cerca di imporre le proprie ragioni a Sulmone, precisa: «(non perch'io istimi esser di voi più saggio,
/ Ch'avanzate in prudenzia ogni mortale, / Ma perch'io so che spesso l'ira toglie / Il vedere altrui quel che
bisogna)» (Orb, III. 2).
Nella corte tirannica dell'Orbecche è naturalmente presente anche l'adulazione, per cui Sulmone si trova
affiancato da due cortigiani ipocriti, che non fanno che ripetere le sue parole, e che nell'ultimo atto acclamano la
scelta del tiranno di massacrare la propria famiglia. L'esagerazione e l'adulazione sono le tattiche retoriche del
cortigiano infedele e corresponsabile della corrosione del tiranno: "Veggendosi sempre obediti e quasi adorati
con tanta riverenzia e laude, senza mai non che ripresione ma pur contradizione, che da questa ignoranza
passano ad una estrema persuazione di se stessi, talmente che poi non ammettono consiglio né parer d'altri."
(Cort, IV. 7). Seguendo Aristotele, l'adulazione viene esclusa, dal Castiglione, dalla lingua cortigiana: "Sarà
adunque il nostro cortigiano stimato eccellente ed in ogni cosa avrà grazia, massimamente nel parlare, se fuggirà
l'affettazione" (Cort. I. 35). Anche il Machiavelli denuncia il fatto che le corti sono piene di adulatori (Crf. Il
Principe, XXII). E Giraldi sottolinea al suo "giovane nobile" che l'adulazione è «vizio indegnissimo di nobile
animo, il quale tanto è in odio à generosi cori che piuttosto eleggono di patire pena per dire il vero, che portare
ricchi premi per adulare» (DGN, VI).
127 Quando Sulmone rigetta un'applicazione dell'equità su questa base si trova in realtà, in accordo con il
Machiavelli, che in uno dei Discorsi (XXIV) afferma che «le repubbliche bene ordinate costituiscono premij e
pene a loro cittadini, né compensano mai l'uno con l'altro». Le ragioni del segretario fiorentino sono logiche: «se
a un cittadino che abbia fatto qualche egregia opera per la città, si aggiunge, oltre alla riputazione che quella
132
dell'eroina ritorneranno quasi identiche in altre tragedie di Giraldi; ne presenterò un'analisi
nella lettura dell'Altile. Qui desidero invece focalizzare l’attenzione sull'argomento principale
del consigliere, che si fonda sull'immagine del re:
Mal: Signor, gli scettri e le corone mai
O 'l far vendette de gli oltraggi avuti
Non mostrano alcun re.
Sul: Ma che 'l dimostra?
Che'ei si offra a ognun per manifesto segno
Ove si drizzi ogni nefanda ingiuria?
Mal: Questo non dico io, Sir, che un uom re mostri,
Ma un animo gentile, un core invitto,
Una ferma prudenzia, un pensier saldo
Di dominar piú di ciascun, se stesso; (Ivi, ivi)
Il problema essenziale è costituito dal come reagire di fronte all'oltraggio dell'istituzione
regale. Il tiranno vuole mostrare «ciò che possan gli scettri e le corone», poiché ritiene che se
non reagirà con durezza darà «a ognun per manifesto segno, ove si drizzi ogni nefanda
ingiuria» (Ivi, III. 2). Per Sulmone la violenza è un mezzo indispensabile di governare:
Ma io tengo
Per cosa certa, che 'l timore
Sia colonna de' regni e che senz'esso
Ne vadano gli imperi a mal'ora.
Un re devrebbe esser terribil sempre, (V.1)
e:
Nati ad un parto
son come due fratelli il regno e l'odio.
E chi non cerca esser temuto, cerca
Lasciare il regno tosto e venir servo. (Ivi, ivi)
Sono parole che ricordano il noto passo del Principe, XVII, dove il problema viene
considerato come una questione di tattica politica non vincolata all'etica, e dove il segretario
indica pragmaticamente il timore che il sovrano può suscitare nei sudditi come uno dei mezzi
più potenti per il mantenimento del potere: «Nasce da questo una disputa: s'egli è meglio
essere amato che temuto o è converso. Rispondesi che si vorebbe essere l'uno e l'altro; ma
perché egli è difficile accozzargli insieme, è molto più sicuro esser temuto che amato.»
cosa gli arreca, una audacia e confidenza di poter sanza temere pena fare qualche opera non buona, diventerà in
brieve tempo tanto insolente che si scoglierà ogni vincolo del vivere civile».
D'altra parte, l’insegnamento del Machiavelli non è qui applicabile, perché la situazione del re nei confronti dei
cortigiani è del tutto diversa dalla repubblica alla quale si riferisce il Machiavelli; nella corte si tratta infatti di
un rapporto di dipendenza reciproca, dove il cortigiano viene in qualche modo ricompensato in virtù dei suoi
meriti e della sua sottomissione. È il meccanismo della grazia, ma è anche il dilemma dell'exemplum: da un lato
il re dovrebbe punire, per dimostrare così alla corte le conseguenze di un'azione sleale; dall'altro lato tale
dimostrazione di crudeltà, usata contro uno degli uomini più meritevoli, potrebbe indurre negli altri
collaboratori un senso di sfiducia verso il sovrano.
133
Bisogna comunque considerare che questo topos abbia una tradizione molto più antica, e
come la contiguità intertestuale rimandi forse, anzitutto, a Seneca, il quale lo presenta nel
dibattito tra il consigliere e il sovrano nella Tieste, nelle Troades e nel De Clementia, nonché
nella tesi di Nerone nell'Ottavia pseudosenecana. Attribuire le parole di Nerone a Machiavelli,
significa però fraintenderlo; per quanto il segretario affermi come sia preferibile l’essere
temuti all’amati, egli sostiene pure che la crudeltà inutile crea soltanto odio nei confronti del
principe. La differenza fra il principe ideato da Machiavelli e il tiranno Sulmone consiste nel
fatto che per Machiavelli il timore della pena è uno strumento usato dal principe e dalla legge
per proteggere lo Stato e i cittadini, mentre gli atti crudeli di Sulmone non presentano alcun
valore positivo giacché mancano di qualsiasi finalità collettiva, essendo causati dalla sua ira.
Era stata Orbecche a dare il primo e più conciso ritratto di Sulmone:
Par che voi non sapiate quant'è crudo
L'empio mio padre e quant'ei poco istimi
Stato, imper'od onor, figli e se stesso,
Quando disposto s'è di far vendetta. (II. 3)
In questi pochi versi l'eroina elenca molte delle caratteristiche principali del tiranno: la
crudeltà, anche contro la propria famiglia, il malgoverno, la mancanza del senso dell'onore e,
con queste, la causa scatenante del conflitto, l'ira, quale elemento fondamentale
dell'intreccio.128 L’ira è una passione condivisa da quasi tutti i sovrani giraldiani, accecati
dalla rabbia e resi implacabili. L'ira costituisce un senso deviante dell’onore che, oscurando la
mente del sovrano, sottrae i suoi gesti alla ragione e alla prudenza; l'ira pone il re sullo stesso
piano dell'eroina e il tiranno viene così ad assumere tratti femminili, perché passionale e
privo di autocontrollo (Bushnell, 1992).129
Dunque, nell'Orbecche, da un lato agisce l'autocrate delirante e operante come
tremenda calamità, quasi un difetto dell'ordine naturale simbolizzato dall'esercizio inconsulto
del potere; dall'altro lato vi è un'eroina dominata dalle passioni, che in ugual misura non
riesce, come il tiranno, a sottrarsi all'immanenza: questo perché il peccato di entrambi è
esiziale. Secondo quanto scrive Benjamin, la frenesia del tiranno nel compiere le sue azioni
inconsulte suggerisce l'antitesi fra la sacralità del potere di cui è investito, e l’abiezione della
sua persona (Benjamin, 1980:55). Di qui, la conseguenza della contraddizione la quale
riunisce in un'unica persona i due aspetti contrastanti della sacralità del potere e dell'ethos del
128
Nella Repubblica, Platone – delineando la prima sistemazione teorica della figura del tiranno -, lo classifica
come un tipo di uomo o meglio, come una condizione morale: l'uomo tirannico è abbandonato dalla razionalità,
è preda delle passioni e degli eccessi, essendo dominato dall’eros, dall'ira e dall'avidità (Rep, IX). Per Platone il
tiranno non è un vero politico perché non sa neanche comandare a sé stesso: il conflitto fra la ragione e le
passioni può essere risolto solo dall'esercizio della razionalità con l'intenzione di trasformare le passioni in
alleati nel viaggio verso il bene.
129 Se colta nel suo contesto culturale l'ira dei sovrani è un'emozione estremamente negativa perché, nei trattati in forma
di dialogo, il rinascimento esalta il valore dell'ascolto e del dialogo come occasioni di autoconoscenza: far convivere, con
sapiente modulazione e misura parole e silenzio, è indice della gravitas ciceroniana nonché del decoro retorico.
134
re, che è la tragedia assume nel suo interno anche le problematiche politiche suggerite dai
dubbi sulla legittimità del potere del tiranno. La mancanza di autocontrollo e la prepotenza
sono tradizionalmente le caratteristiche più evidenti del tiranno tragico, mentre la temperanza
caratterizza il buon sovrano, lo spiega Malecche:130
Com'esser può ch'altri mai regga altrui
E regger sé non sappia? Il maggior segno
Che mostrar possa un uom degno d'impero,
E' non lascar sé vincere al furore,
Che spesso l'uom conduce ov'ir non deve.
e, più avanti:
Ma vincer sé medesmo e temprar l'ira
E dar perdono a che merita pena
E ne l'ira medesma, ch'è nemica
A la prudenzia et al consiglio altrui,
Mostrar senno, valor, pietà, clemenzia,
Non pur opera istimo di Re invitto,
Ma d'uom ch'assimigliar si possa a Dio. (III. 2)
Dopo l’elenco delle varie ragioni per le quali il sovrano deve perdonare la figlia, il consigliere
conclude il suo discorso affermando una tesi opposta a quella di Sulmone:
Se volete che da ognun si dica
Che quanto voi di gran potenzia e stato
Di gran lunga avanzate ogni mortale,
Così anco molto e molto il sovrastate
In mostrarv'uom; devete dar perdono,
A la figliuola e a Oronte e che la gloria,
Ch'acquisterete in perdonar tal fallo,
Farà maggior qualunque vostr'onore. (Ivi, ivi)
E' importante notare come Malecche riveli invece una mentalità utilitaristica e strategica; la
sua razionalità lo allontana dagli ideali e dalle illusioni umanistiche, in quanto egli si batte
contro la vendetta perché la considera non solo inutile, ma anche dannosa per il suo signore.
L'anziano consigliere mette al primo posto l'onore del re. Se il sovrano usa la clemenza,
130 «Che non lasciasse, che disdegno, od ira / Od appetito di vendetta il fosse / Bagnarsi nel civil sangue le mani
[...] Per mostrar che non ira, né disdegno, / Ma una mite giustizia è ciò l'induce» (Cle, II. 5); "Et fé meno honorate
le corone / Il darsi in preda od al furore ò a l'ira, / La qual ben spesso à la ragion fà forza / Et toglie l'huom la
mente"; "Caro Fratello mio frenate l'ira / Et non vogliate, che la virtù vostra, / Che sì illustre vi hà fatto per
l'adietro..." (Alt, III. 5); "E non ode ragion turbato core, / Che sia contraria à l'impeto de l'ira" (Sel, I. 4); «Ai
signor mio, / Ove lasciate che vi meni l'ira?» (Ant, I. 3); «Il crudele influsso il suo effetto habbia / Che danno
l'huom uscir fuori di mente» (Eup, II. 7); «Chi stimolato è da crudele affanno, / Da la disperation fatto sicuro, / A
l'impossibil anche il pensiero volta,/ Il gran dolore onde mi avampa il core, / Di consiglio non è punto capace /
Vinta da l'ira la ragion rimane» (Epi, IV. 2).
135
.... non sarà gente o lingua alcuna
Che per così onorata e sì bell'opra
Non alzi il vostro nome al cielo. (Ivi, ivi)
Il desiderio vendicativo del tiranno si oppone, in questo modo, alla virtù machiavellica del
consigliere, il quale sa che la messinscena della buona reputazione è un supplemento
necessario del potere politico. Si tratta sempre di un topos senecano che – assunta dal De
Clementia e dall'Ottavia -, si incontra in quasi tutte le tragedie del ferrarese; l’uso del
suddetto topos è stato analizzato dettagliatamente, in relazione alla discussione centrale fra
Agrippa e Mecenate, nella Cleopatra di Giraldi.131
Seneca considera la clemenza un mezzo che permette al regnante sia di crearsi
un'immagine positiva che di ribadire il proprio potere: la clemenza rappresenta la superiorità
di colui che la può esercitare su chi la riceve. L'argomentazione di Malecche non è però né
quella cristiana, che valuta la clemenza come il culmine delle virtù, né quella di Aristotele,
secondo il quale l'esercizio della virtù contiene in sé la sua ricompensa: il consigliere di
Sulmone opera invece su un piano razionale e pratico, difendendo la clemenza in quanto
strumento, poiché gli interessano la reputazione e la magnificenza del sovrano. La clemenza è
una virtù politica e la razionalità del consigliere lo allontana quindi dagli ideali e dalla cultura
umanistica, la quale non accetta di separare le norme etiche dalla virtù.132 Il vero contrasto
tra il consigliere e il tiranno non è quindi quello fra la crudeltà e la pietà, bensì fra le due
diverse concezioni della realtà: quella del tiranno si scontra con il realismo del mondo
retorico di Malecche.
Prima della ricapitolazione degli argomenti, Malecche conclude la difesa facendo
riferimento a sé stesso:
E s' anco questo
131 Mentre Horne interpreta la discussione come una polemica contro le tesi machiavelliana, dove Agrippa è la
portavoce del segretario fiorentino (Horne, 1962), è invece più articolata l'analisi del Lebatteux, che, replicando
a Horne, afferma che le argomentazioni si basano non solo sulle idee machiavelliane, ma anche su quelle
esposte da Seneca nel Della Clemenza e che la condanna delle tesi di Machiavelli non è affatto esplicita. Lo
studioso francese afferma che l'opposizione fra i due consiglieri è un contrasto dove Seneca viene proposto
come alternativa positiva alle idee del Machiavelli esposte da Agrippa (Lebatteux, 1974). Lo scontro nella
discussione tra le due fonti Della Clemenza e Il Principe si trova dunque su un livello superficiale, perché i
dibattenti concordano sul fine: è il mezzo a venir discusso. Un altro intervento di critica intertestuale è infine
dato nel 1981 da Giannina Solimano che individua, insieme al De Clementia, la Storia Romana di Cassio Dione,
quale fonte della discussione fra i consiglieri nella Cleopatra. (Horne, 1962; Lebatteux, 1974; Solimano, 1981)
132 Si tratta di una della novità più scandalose del Machiavelli, che nel Principe mette in rilievo l'inefficacia
delle virtù convenzionali e concepisce la virtù come la capacità amorale di ragionamento pratico e di azione
libera dall'etica. Sul concetto di virtù si legge nel vocabulario ideologico allegato all'edizione Rizzoli (1975) del
Principe: «Il concetto è svuotato dal suo tradizionale significato etico: si contrappone alla virtù cristiana
(paziente sottomissione alla volontà divina nell'attesa di una vita ultraterrena e perfetta), aristotelica (giusto
mezzo, perfezione morale, dominio della ragione), stoica (accettazione rassegnata degli eventi, epicurea (mezzo
per raggiungere la tranquillità dell'animo). [...] Esso indica invece l'energia, l'efficienza e la volontà del politico;
è la capacità di adattarsi alle circostanze e riassume tutte le doti richieste ad un principe per fondare, riordinare e
mantenere un principato; prudenza, tenacia, industriosità, valutazione obiettiva delle forze disponibili e loro
adeguazione al fine prefissato.»
136
Poco istimate (il che non credo), almeno
(Se nulla puote appo un signore eccleso
Il servir d'un leale e fedel servo)
Possa la fede mia tanto ora in voi
E 'l mio luongo servir, ch'imperti pace
A la vostra figliuola, al vostro Oronte. (III. 2)
Tale argomento, che ricorre spesso nei discorsi deliberativi e giudiziari dei consiglieri
drammatici, si fonda sulla grazia del cortigiano,133 per cui i consiglieri chiedono al re di
considerare il perdono come un favore personale. Il Cortigiano consacra il modello culturale
e politico dell'uomo di corte che deve guadagnarsi la grazia e la benevolenza del suo signore,
non per scopi personali, ma come mezzo per poter dire al Principe «la verità di ogni cosa che
ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di despiacergli» (Cort. IV. 5).134 Castiglione
afferma la necessità, da parte del cortigiano, di ricorrere alla sprezzatura per ottenere la grazia
del signore. La grazia è l'esercizio della professione che può rendere il signore grato nei suoi
confronti poiché "per aver adunque favore dai signori, non è miglior via che meritargli" (Cort,
II. 20). Si è quindi spinti a leggere il successo del ricatto sentimentale dei cortigiani
drammatici di Giraldi alla luce dell'avvicinamento più realistico ed utilitaristico dei rapporti
di corte nella seconda metà del '500, rispetto all'idealismo dell'inizio secolo.135
La corte è una catena gerarchica che si estende dai servi al sovrano. Per ottenere la
gratitudine del sovrano, il cortigiano deve possedere la grazia, concetto complesso e ambiguo
nella cultura del Rinascimento; perché, se da un lato essa assume il significato di armonia, ed
è un dono del cielo (come nel caso del contesto religioso o artistico), dall’altro la suddetta è
spesso intesa e indicata quale strumento, rimanendo così legata all'esercizio pratico, quindi
alla gratitudine e al debito. Per capire il concetto di grazia può essere utile tenere presente
l'ambivalenza semantica dell'espressione essere grato, la quale varia secondo l'uso passivo o
attivo del termine (Saccone, 1992). Anche nel Cortegiano (I, 24) si discute sull'ambiguità del
133
Crf.: Alt, III. 5; Eup, II. 6; Sel, I. 4; Cle, I. 5.
Sono palesi le affinità fra la grazia e la sprezzatura: «Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché
delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo
contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa per
grande ch'ella si sia» (Cort. I. 26).
135 È anche il pathos del genere tragico a dettare le leggi su questo punto. Poca efficacia hanno quindi i lunghi
elenchi degli argomenti logici e ragionevoli dei consiglieri; è proprio questo che confermava ironicamente la
replica del tiranno Sulmone dopo il lungo elenco di argomenti del consigliere: «tanto ponno in me le tue parole,
/ Che commovermi sento insino a l'alma/ Mentre i' t'ascolto» (Orb, III. 2). Ed è giusto che sia così: i personaggi
si esprimono all'interno del genus grande del quale scopo principale è il commuovere e suscitare passioni,
sebbene la forma mista e il fine edificante delle tragedie del Giraldi lascino anche ampio spazio al docere e al
probare. Negli scontri diretti con il re non domina la ragione, ma il pathos degli affetti familiari e del dovuto
riconoscimento ai cortigiani fedeli, che si impone sulle figure per contrasto e sulle battute sprezzanti dell'ira e
della disperazione.
134
137
termine, ricordando che «per la forza del vocabulo si po dir che chi ha grazia quello è grato».
In Misteri pagani nel Rinascimento, Edgar Wind ha dedicato un capitolo alle Grazie di
Seneca, ossia all'interpretazione rinascimentale dell'immagine classica delle tre divinità; egli
sostiene: «perché le Grazie siano tre, perché esse si tengano allacciate per mano, viene
spiegato nel De beneficiis attraverso il triplice ritmo della generosità, il quale consiste nel
dare, nell'accettare e nel restituire» (Wind, 1985:35).136
4.1.4 Un gioco di maschere
Verso la fine del terzo atto Sulmone incomincia apparentemente a muoversi, come se si
arrendesse per stanchezza, annoiato dall'interminabile monologo del cortigiano.
L'accondiscenza del tiranno è resa più verosimile dalla trovata felice dell'autore di fargli
esprimere di seguito dubbi e preoccupazioni per le conseguenze politiche del suo perdono.
L'illusione del pubblico è comunque destinata a durare poco, perché tutta la retorica di
Malecche viene, nei primi versi del soliloquio dell'atto seguente, rifiutata dal tiranno come
favole e cianze; il tiranno mette quindi in moto il piano dell'esecuzione della famiglia di
Orbecche. Sulmone rivela così i suoi piani al pubblico prima di mettersi una maschera
bonaria, nella simulata riconciliazione con la famiglia. E' questa una regola nel Giraldi: gli
inganni dell'intreccio drammatico vengono sempre messi in evidenzia. Questa trasparenza
determina, nei drammi, la totale assenza di colpi di scena; si ottiene, invece, l'ironia
drammatica. Il pubblico è quindi a conoscenza della falsità e dell'ipocrisia dei personaggi
presenti in scena. Non dovendo sforzarsi per capire che cosa si celi dietro, il pubblico può
136 Fra i vari esempi di interpretazione citati dallo studioso inglese, uno sembra particolarmente illuminante per
la sua sintesi: quello tratto dall'Hieroglyphica di P. Valeriano. Quando il Valeriano osserva che "non si debba
passare sotto silenzio il fatto che una delle Grazie è raffigurata con la faccia voltata dall'altra parte e nascosta,
per indicare che chi dona qualcosa deve farlo senza ostentazione", egli potrebbe benissimo riferirsi alla
sprezzatura del Cortegiano, che agisce e dona, dissimulando, lo sforzo e l'arte. Ma le analogie all'interpretazione
di Valerio al mondo cortigiano non finiscono qui, poiché: «l'altra Grazia mostra apertamente la faccia perché chi
riceve un beneficio deve mostrarlo pubblicamente e dichiararlo». Infine c'è la terza Grazia che «mostra un lato
della faccia e nasconde l'altro, significando così che nel restituire un beneficio noi dobbiamo nascondere la
restituzione, ma esibire il beneficio ottenuto». Questa Grazia è sempre significativa per la situazione del
cortigiano, in quanto la sua sopravvivenza, la sua ragione di esistere, si trova proprio nell'esibire il beneficio,
nell'apologia, mentre si addice meno alla figura del re, che deve sì saper restituire ma soprattutto, conoscere la
concezione stoica secondo la quale chi dà un beneficio è più maestoso di chi riceve; e questo dare regale deve
sempre essere esibito e rappresentato.
Anche Giraldi fornisce una versione dell'allegoria nel Discorso sul servire un gran principe: «Quindi gli antichi
dissero che tre erano le Grazie, e facendole dipingere vollero che stessero in tal guisa che due avessero volto il
viso verso chi le mirava e la terza avesse le spalle rivolte à riguardanti, volendoci in quella guisa mostrare che
chi fa il beneficio se ne dee smenticare e quali gittarlosi dopo le spalle; ma chi il riceve lo si dee sempre tenere
avanti agli occhi e cercare di renderlo raddoppicato al suo benefattore.« (DGN, cap. VI)
138
dedicare la propria attenzione interamente agli strumenti della dissimulazione e della
simulazione.
Nei drammi di Giraldi il mondo della corte si rivela la patria della dissimulazione,
dell'articolazione della simulazione, delle confessioni e delle menzogne: essa è insieme la
realtà evidente del principe e l'occultamento degli strumenti per il mantenimento del potere. I
drammi tendono però a mettere in evidenza proprio gli strumenti retorici del potere: volti a
rivelare il lato occulto nella corte. Ciò che il pubblico cortigiano pur conoscendo e recitando
ogni giorno, non può esprimere direttamente. E' questo uno degli scopi dell'autore ferrarese:
ostentare la finzione a corte.
L'ambientazione cortigiana dei drammi comporta quindi un gioco di maschere e una
continua dissimulazione che, oltre ad avere molte affinità con le situazioni del dramma, fa
parte del realismo ideologico del Cinzio. Se Castiglione sottolinea la necessità di saper
vestirsi un'altra persona tutte le volte che il suddito si ritrova secretamente con il signor suo,
e di saper mutare strategia retorica a seconda delle circostanze (Cort, II. 19), nel Discorso sul
servire a corte di Giraldi si consiglia al giovane di assumere la forma di Proteo, e di
conformarsi di continuo alla natura di coloro coi quali vive nella corte.137 In questo modo la
corte risulta un'istituzione teatrale.
Potrebbe sembrare fuori luogo il soffermarsi sulla pronuntiatio in un'analisi che non
prende in considerazione la messa in scena dei drammi, ma d’altronde l'ironia è l'unica figura
retorica la quale utilizza il non verbale come segno di distinzione (Lausberg, 1969: 129, §
234). Oltre all'ironia, anche lo smascheramento della dissimulazione presuppone, in genere,
la competenza della situazione e del referente dell'enunciazione. E' quindi significativo che in
Giraldi le repliche drammatiche accentuino l'iconicità dell'actio e che siano disseminate di
descrizioni dei gesti dei personaggi con le susseguenti interpretazioni degli stessi, quali
osservatori accorti dei loro interlocutori. Queste continue descrizioni dell'aspetto dei
personaggi non si riferiscono solo agli sforzi interpretativi degli interlocutori, ma il referente
di tali discorsi è, spesso, l'enunciatore stesso, che, come il tiranno dell'Orbecche, è cosciente
di dover «accompagnar con le parole il viso / Perché non abbiano del pensier mio indizio».
Vediamo alcune delle repliche nell'Orbecche che si riferiscono all'actio, alla costante sfiducia
alle apparenze e alle sue decifrazioni:
Non è meno di me miser Oronte
Se dagli occhi si può vedere il core (II, 3)
137
Sul rapporto tra il Discorso ”cortegiano” di Giraldi e l’Orbecche si veda Moretti (2008).
139
Ma di là veggio a me venire Orbecche
Tutta malinconica lagrimando, e penso
Che ne sia ragion questo:
Però ben fia ch'io le mi vada incontro
Con viso lieto, ancor ch'acerba doglia
I' serri dentro al core, ancor che grave
Sia non manifestar il duol nel volto. (ivi, ivi)
Dimmi, se forse il sai, che vuol dir ch'egli
Si mostra sì turbato ne l'aspetto? (III, 2)
Che non suol un gran Re per cosa lieve,
Lasciar che 'n esso possa ira, né sdegno
O mostrar fuor così palese il core. (ivi, ivi)
Ristringer voglio l'ira e simolare
Esser pien di contento e d'allegrezza
E accompagnar co le parole il viso,
Perché non abbia del pensier mio indizio. (III, 3)
Non vedete dal ben gli espressi segni? (III, 4)
Vedete con che lieto
Aspetto egli vi mira! (ivi, ivi)
Fate allegro viso
Quanto più far potete (V, II)
A corte i personaggi recitano in continuazione, sapendo di avere di fronte attori altrettanto
bravi. E' chiaro che l'ideale della chiarezza pedagogica di Giraldi potrebbe trovarsi facilmente
in contrasto con la dissimulazione della lingua cortigiana; il drammaturgo dovrà quindi agire
in modo tale che sull'asse esterno prevalga la chiarezza contenutistica, mentre nei dialoghi
interni, dove una chiarezza esagerata risulterebbe svantaggiosa al personaggio parlante, il
senso del discorso dovrà essere ricavato solo da una critica consapevole dell'elocuzione
dissimulata. Inoltre‚ anche gli interlocutori del dissimulatore scoprono talvolta l'inganno, e il
pubblico è informato sul perché e su come ciò avviene. Questa insistenza nel rappresentare la
decifrazione dei messaggi linguistici non deve però essere considerata solo come un elemento
pedagogico nei drammi, poiché è in questi episodi che risiede anche l'autoriflessione del
dramma.138
138 La tendenza di esplicitare l’actio non si indebolisce nei drammi che seguono l’Orbecche. Nel primo atto
degli Antivalomeni si situa uno scambio di repliche fra madre e figlio che illustra bene come gli interlocutori si
confrontino sulla scena del Giraldi, cioé come le parole, e con esse l'espressione, nella corte drammatica abbiano
valenze molto relative. Il principe Uranio sta concludendo il suo monologo, in cui si è lamentato
dell'incomprensione del padre, quando si accorge dell'arrivo della madre, e dice a sé: «Fingerò d'esser lieto in
viso, anchora / Che pieno sia d'inestimabil noia.» (Ant, I. 5)
140
I gesti e l'intonazione della voce del dissimulatore devono nascondere e non rivelare
(come avviene, al contrario, nel caso dell'ironia). Particolarmente interessanti risultano, a
questo proposito, le osservazioni psicologiche di Torquanto Accetto sulla difficile arte della
dissimulazione, la quale «contiene esser d'assai e talora parer da poco»; perché, sebbene sia
naturale, richiede dal dissimulatore temperanza e prudenza. «Quello in che prevale il sangue
o la malinconia o la flemma o l'umor collerico» - spiega Accetto – «è molto indisposto a
dissimulare». I personaggi malinconici non possono quindi riuscirci, perché «l'umor
malinconico, quando è fuor di modo, si fa tante impressioni, che difficilmente le nasconde»; e
neppure il tiranno è in grado di celare l’ira perché «la collera, che è fuor di misura, è troppo
chiara fiamma da dimostrar i propri sensi» (Accetto, 1943:65-6).139 Sin qui le regole da
manuale, conosciute anche dal consigliere Malecche che, osservando l'aspetto del tiranno,
assicura e tranquilizza l'eroina:
Vedete con che lieto
Aspetto egli vi mira.
Questo sol vi dee far l'animo queto,
E tròvi ogni sospetto:
Che quantunque altri l'ira
Cerchi chiuder nel petto
E quantunque usi ogn'arte
Perché l'animo suo nessuno intenda,
Forz'è, che si comprenda
(Mal grado suo) l'irata mente in parte:
Che si scuopre di fore
E nel viso dimostra aperto 'l core. (III. 4)
Nella corte dell'Orbecche, però, le leggi da manuale non bastano perché sono proprio la
figura malinconica e quella irata a nascondere i propri pensieri, simulando un viso contento.
5.1.5 La falisità e la fede
Ma Lida, che nel retroscena aveva sentito le sue lamentele, lo smaschera subito: «S'io non ti havesse hor hor
Figlio veduto / Quantunque tu veduta me non habbia, / Dar col tuo lamentar espresso segno / D'infinito dolor,
potrei pensare, /Che questo viso, c'hor mi mostri lieto, / Di qualche tua allegrezza indizio fusse. / Ma veggo
chiaro che letitia finta / Mi dimostri nel viso, & nel cor chiudi / Infinito dolor, che ti consuma,/ Ne sò perche tu
meco finga.» (Ant, I. 6)
Neanche Nicio si fida delle parole della madre, ed esclama in un discorso a parte: «Volesse Dio, che tal fusse nel
core / Qual'hor ne le parole ella si mostra", per poi rivolgersi alla madre: "Nel cor non son men lieto, che nel viso
/ mi mostri...».
Ma la regina insiste: «Figliuol mio caro / Il molto amore, ch'io ti porto, face / Ch'io veggo quel di te, che mi
nascondi. /[...] / Aprimi la cagion de la tua doglia, / Che tu chiaro vedrai, ch'io ti son madre» (Ant, I. 6)
E il figlio: «Dicesse ella pur ver, ch'io sarei lieto. / Maravigliarmi fate di me stesso / Io son come esser soglio».
(Ant, I. 6)
139 Nel suo saggio sulla simulazione, il Bacon osserva che «permettere che l'intimo dell'animo trapeli attraverso
l'espressione del volto è debolezza pericolosa, poiché agli indizi di questo genere si suol dare maggiore
attenzione e maggior peso che non alle parole in realtà pronunciate» (Bacon, 1988:159).
141
La prima corte drammatica di Giraldi è interamente costituita da false apparenze:
nell'Orbecche tutte le figure principali dissimulano e ben tre dei quattro personaggi centrali
sono colpevoli d'infedeltà e di simulazione; inoltre, e alla base di tutto, si trova Selina, la
moglie incestuosa del tiranno, uccisa dal marito e tornata per vendicarsi. Nella prima scena
del secondo atto la protagonista racconta alla nutrice come abbia ingannato il padre,
convincendolo che non avrebbe potuto sposare il re propostole perché non sopportava di
doversi allontanare da lui. Oronte, a sua volta, simula di aiutare il re nel convincere Orbecche
ad accettare il matrimonio, ma Sulmone smaschera entrambi: «O se veduto avresti con che
viso / dissimulò la dislealtade Oronte [.../.../.../] E se sentito avresti le parole / De la mia
scelerata e iniqua figlia / E udite le querele e visti i pianti / Che da gli occhi versò, fingendo
amore / Verso di me» (III. 2). Il consigliere Malecche appare l'unico personaggio onesto della
tragedia; la conclusione del dramma mostra però l'assoluta inadeguatezza e la catastrofica
conseguenza della sua ingenuità.
La corte dell’Orbecche è il regno della falsità, dove il valore della fede è oggetto
dell'ironia antifrastica e viene ripetuto costantemente. Troviamo un esempio in una scena
dove l'infido tiranno, per stipulare una pace apparente, si incontra con il suo infedele servitore
Oronte:
Sul: Non venne ad alcun men la mia fede,
Quando ad altrui con sé legata i' l'habbia.
Oron.: Non dubito, alto Sir, che Vostra Altezza
Non sia per attenermi con fè quello,
Che 'l suo fedele consiglier Malecche,
Sotto il pegno di fé dianzi m'ha detto
A nome d'essa (III. 4)
Sulmone evidenzia quanto sia vano fidarsi delle apparenze cortigiane: eliminerà i dubbi di
Orbecche, e afferma nell'ultimo atto: «E se fian ciechi / Io bene in guisa gli occhi aprirò loro»
(V. 1). Ciò avviene nel brevissimo quarto atto, quando Sulmone massacra Oronte e i nipoti,
dopo averli fatti convocare con la pretesa di benedirli. La simulazione è quindi uno strumento
di vendetta nell’Orbecche, come lo è in altre tragedie giraldiane. Nell'Altile, per es., il falso
cortigiano consiglia: «fingi / Fede, e amor, e sotto habbi il coltello / A dar l’ultimo colpo, à
chi ti crede, / Si tosto, che l'occasion ti s'offra.»; e: «S'altri puote / Offendere di nascosto, è
gran sciocchezza / Il nemico assalir palesamente» (Alt, I. 4; III. 3).
Con la sua vendetta il sovrano si abbassa al livello dei sudditi. Quando Giraldi nel
Discorso sulle tragedie tratta della verosimiglianza dei personaggi, egli pone come esempio
la vendetta di un uomo coraggioso compiuta in modo aperto e diretto, non nascosto. Qui ha
invece luogo una femminizzazione del sovrano; come ha mostrato Rebecca Bushnell,
l’identificazione del tiranno con la donna è un tema ricorrente nei trattati e nei drammi
rinascimentali:
142
This identification gave the male playwright a way of showing how frightening a tyrant
is, as something irrational, uncontrollable, and fundamentally incomprehensible. At the
same time, the contradictory cultural value of the feminine, whereby women are strong
in their irrationality and yet weak and thus easily mastered by men, also permitted the
playwright to suggest that tyrants are eventually controllable. (Bushnell, 1992:340)
Come abbiamo visto, il nodo della discussione fra Malecche e il tiranno non è tanto la
questione della colpa degli imputati, quanto l'immagine del re. Questa è un concetto
fondamentale per Giraldi, non solo nei drammi, ma anche negli scritti apologetici. L’impiego
di questo valore va considerato alla luce degli ideali cavallereschi ancora presenti nella
cultura ferrarese del Cinquecento, benché il significato religioso del termine diventi
naturalmente importante negli anni della controriforma cattolica.140
Se ricorriamo alla metafora studiata da Ernst Kantorowicz, il sovrano possiede due
corpi distinti: quello naturale, soggetto all'azione del tempo e alla fragilità umana, che può
perire e che sottostà al concetto dell'onore individuale; e quello politico, il quale sfugge alla
morte passando da un corpo fisico all'altro attraverso la successione. L'onore di questo
secondo corpo simbolico, che include in sé le fondamenta della società, deve essere
salvaguardato e costruito strategicamente (Kantorowicz, 1989). Si tratta di una concezione
realista del potere regale la quale, se non esclude, almeno frena ogni tentativo di
mistificazione della figura che lo incorpora: il sovrano è una persona ficta. Come dice
l'anziano ministro Malecche, senza rendersi conto dell'ironia drammatica:
Perché le gemme e gli ostri
O 'l posseder molt'oro
Non fa Re altrui, se de la fede è privo,
Che più val del poter, più del tesoro. (III. 4)
Malecche rivela qui un'idea oggettiva dell'istituzione regale, del secondo corpo del re;
vediamo come il consigliere spiega la sua convinzione all'eroina:
La fé, Reina, è proprio
Ne' Re, come nè corpi nostri l'alma.
Che come non si può tenere in vita
Questa caduca salma
Dopo che n'è da lei partita,
Così se restano vuote
Le promesse dè Re di fé, non puote
Esser più cosa in lor che Re gli mostri. (Ivi, ivi)
«Ainsi la propagande officielle, jouant su le double sens du mot fede, voit dans la dynastie d'Este la seule
famille italienne qui se soit sans cesse soumise au respect absolu de la loyalité chevaleresque et que n'ait
jamais hésité à offrir à l'Eglise un soutien d'autant plus ferme qu'il est plus ancien.» (Lebatteux, 1974:290)
140
143
Il tiranno Sulmone sbaglia invece pensando che il suo corpo istituzionale possa servire come
alibi per le sue crudeltà personali. Il tiranno è caratterizzato dalla mancanza di fede, che si
manifesta nella superbia. Esclama Sulmone:
Biasmato ne sarò? Che biasmo puote
Avere un re di cosa, ch'egli faccia
Le cui opere tutte sotto il manto
Real stanno coperte? (III. 3)
La prepotenza spinge il tiranno a vivere secondo la massima che la porpora copre; ciò non è
solo un errore strategico, ma anche etico, poiché il tiranno crede di trovarsi al di sopra e aldilà
di ogni giudizio; in realtà egli è un uomo soggetto all'hybris. Sia nella tragedia classica, che
in quella cristiana, la superbia è strettamente collegata all’ambito del blasfemo: come nella
tragedia greca il tiranno disprezza il sacro, in quella cristiana l'hybris è prepotenza e
negligenza nei confronti della divina Provvidenza.141
Ma se 'n cielo
Regna pietà, se Dio l'umane cose
Mira con occhio giusto, aspra vendetta
T'aspetta traditore. A queste voci
Sorrise quel crudel, come chi cosa
Oda che scherna, o che si prenda a gioco; (IV. 1)
La fede del sovrano appare necessariamente diversa da quella dei cavalieri, dei sudditi,
poiché egli non è subordinato a nessuno; la sua fede resta quindi una questione di onore e di
religiosità individuale. Il concetto di 'fede' presenta allora due significati: di pietà cristiana e
di lealtà cavalleresca.142 Anche Machiavelli riprende queste considerazioni nei Discorsi (I,
11-13), dove esamina i rapporti fra politica e religione. Secondo il segretario fiorentino la
religione riveste un valore fondamentale per gli Stati, perché non solo unisce gli uomini a Dio,
ma anche gli uomini fra loro; garantendo così l'universale rispetto di quei valori che
assicurano una coesione morale all'intera società.143
Lo scontro retorico tra Sulmone e il suo consigliere è preparato dal secondo
intermezzo corale dell'Orbecche, costituito da un'antitesi fra l'uomo misero, attaccato al
141
Nelle tragedie greche il disprezzo per il divino si manifesta in modo diverso da quelle cristiane: nell'Edipo,
l'hybris nei confronti del divino è desiderio di penetrare irrispettosamente nel mistero divino, nell'oscuro.
L'hybris rinascimentale e cristiana diventa invece ignoranza e indifferenza, ponendosi quasi all'opposto della
trasgressione di Edipo.
142 Come ricorda Lebatteux, questa duplicità era stata notata da Cicerone, che nel De Officiis (I, vii) intende la
fede - fundamentum iustitiae - come reciproco obbligo fra gli uomini e gli dèi: la fede religiosa e la fede
reciproca tra le persone (Lebatteux, 1974).
143 È forse più noto l'exemplum del cap. 11 dei Discorsi, quello di Numa, che «trovando un popolo ferocissimo,
e volendolo ridurre nelle obbedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa al tutto
necessaria a volere mantenere una civiltà, e la constituí in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di
Dio quanto in quella republica.»
144
mondo e chi, invece, vede il mondo come ombra fugace,- ed è consapevole della precarietà
della ragione umana: «Dunque perché il nostro veder s'appanna?»
Il tema della fede si trova quindi ironicamente al centro dell'Orbecche, dove tutti i
personaggi centrali sono infedeli. E’ pure trattato dal coro dell’atto IV che glorifica la fede
cristiana, la quale assume le stesse funzioni dell'amore neoplatonico congiungendo insieme le
“cose contrarie”.144 La fede fra gli uomini diventa così uno strumento, un'immagine della
fede cristiana, come l'amore terreno è un mezzo che può indurre l'amante a raggiungere il
vero Amore. Come Venere, anche la fede tiene le cose unite insieme e in ordine; il mondo, fu
creato dal caos, dal profondo orror, celava in sé la bellezza che stava per nascere, e un
universo senza fede contiene in sé le possibilità di armonia tramite la fede reciproca tra gli
uomini. La fede elogiata dal quarto coro nell'Orbecche è la legge divina: la fedeltà all'ordine
del cosmo, osservata da tutti gli elementi ed esseri, eccetto che dall'uomo. Ma consegue
quindi che gli uomini che mentono non potranno mai giungere a godere della beatitudine.
Nell'Orbecche sono rappresentate due parti inconciliabili, ambedue colpevoli di
infedeltà. La colpevolezza reciproca e il messaggio morale della fabula vengono messi in
rilievo dal narratore anche in apertura della novella, dove si spiega come il racconto
"mostrerà in che stima deono havere i figliuoli i padri loro; e che i sentieri de i Re deon
sempre loro servar lealtà; e che i Re non deono romper la fede a che data l'hanno, accioché
Iddio non lascia loro avenir quello ch'avenne a coloro, de i quali hora vi ragionerò" (Ec, II. 2).
La concezione della fede nel brano citato è schiettamente religiosa e si trova in contrasto con
le visioni pragmatiche del potere del Machiavelli, che afferma:
E hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può
osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso
necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro
alla umanità, contro alla religione. (Il Principe, XVIII)
Le parole del narratore della novella-fonte dell'Orbecche confermano anche la diversa
posizione della fede da parte del re e dei sudditi: la punizione, infatti, giunge sempre da un
gradino più alto e la vendetta di Orbecche presenta lo statuto di una risposta divina.
La simulazione e la fede, sia come gioco retorico che come problematica etica,
costituiscono così una delle novità rispetto alla raffigurazione del potere nella tragedia antica.
La realizzazione drammatica del ruolo del cortegiano appare priva di illusioni. Mentre nel
Cortegiano i cortigiani sfruttano l'assenza del Signore per idealizzare la propria esistenza, nei
drammi giraldiani avviene il contrario proprio nei monologhi dei cortigiani. Paradossalmente,
lo scontro nel quale il cortigiano ha il monopolo della parola rappresenta il più grande
fallimento dell'opera del consigliere. Di fronte a Malecche il re dà l'impressione di ascoltare
144
Osserva Walter Moretti: «Questa «fede», assunta da Giraldi a principio metafisico nella sua visione del
cosmo, potrebbe ricordare le cosmogonie presocratiche care a Francesco Patrizi e alla sua teoria della letteratura
esposta nell’Università di Ferrara pochi anni dopo la morte del Giraldi» (2008, 38).
145
pazientemente; ma è la sua totale indifferenza nei confronti delle parole che, insieme alla
rabbia, permettere al consigliere di parlare, come se l'ascolto degli argomenti lo spingesse
ulteriormente a vendicarsi. Questa rappresentazione degli sforzi inutili del saggio consigliere,
troppo fiducioso nel potere della retorica, è fra le scene più patetiche e ironiche che Giraldi
abbia mai scritto.
I discorsi persuasivi costituiscono una delle differenze fondamentali fra la tragedia
rinascimentale e quella greca, anche perché in quest'ultima il dialogo, non mira alla
conciliazione (non cerca la persuasione), mentre nella tragedia rinascimentale il dialogo è
processuale. La forza perlocutoria delle argomentazioni è un aspetto che fa parte dell'insieme
dell'epicizzazione del dramma moderno; Antigone non cerca di persuadere Creonte. Vedremo
invece che in Giraldi sono rari i casi in cui i suoi consiglieri riescono a convincere il re. Pare
quindi, che i drammi anche in queste situazioni rinneghino il valore pragmatico della parola
nell'azione, e che le discussioni diventino anzitutto repertori di topoi e di figure retoriche.
Come già detto, i dibattiti etici nei drammi di Giraldi possono essere letti come dei
mini-trattati, indipendentemente dall'azione drammatica, e viceversa. Affrontando queste
discussioni nel loro contesto drammatico è però inevitabile notare che, come i numerosi
trattati sul cortigiano nel '500, anche i drammi del ferrarese svelano un crescente pessimismo.
Il sovrano sapiens e magnanimo è percepito come un'utopia, e ne deriva la necessità del
consigliere. Ma anche tale presenza si rivela spesso inutile quando la collera rende il re
irrazionale. Nei drammi sono rari i casi in cui i consiglieri riescono a far valere la loro
ragione, come si afferma negli Antivalomeni:
E dura cosa
Il poter persuader a mente irata
quel, ch'è contrario a la cagione, ond'egli
Ha conceputo l'ira. (Ant, IV. 3)
La rappresentazione del potere nelle tragedie giraldiane è in tal modo vicina al pessimismo
realistico del Machiavelli, che afferma «Perché questa è una regola generale che non falla
mai: che uno principe, il quale non sia savio per se stesso, non può essere consigliato bene»
(Il Principe, XXIII).
Proprio perché l'autore si trova a rappresentare un mondo in cui la parvenza ha un
valore superiore a quello dell'essenza, è necessario che egli opponga il suo consigliere, uomo
retorico, al coro filosofico; l'avventura pragmatica del cortigiano nega una prospettiva più
profonda e vasta dell'universo di cui fa parte.
Il quadro sanguinoso presentato dall'Orbecche mette in mostra quasi esclusivamente
gli eccessi negativi della (dis-)simulazione, sino a farla diventare sinonimo di tradimento,
mentre i drammi seguenti danno una visione più articolata della retorica a corte, in cui i
cortigiani hanno la funzione di attenuare il conflitto. E’ infatti significativo che, mentre le
prime tre tragedie di Giraldi, (Orbecche, Cleopatra e Didone) rappresentano la morte
146
dell’eroina, i drammi che seguono, a lieto fine, rappresentano la morte di cortegiani malvagi.
In fin dei conti una conclusione felice sarebbe inconcepibile nell'Orbecche: le forze del male
non possono essere afferrate, perché non sono circoscritte e collegate a personaggi specifici,
ma si distribuiscono su quasi tutti gli abitanti della corte e sulla stessa vita umana. Quel netto
binarismo etico che caratterizzerà le tragedie a lieto fine di Giraldi è assente nell'Orbecche la
quale, invece, si confronta ancora con la tragedia antica, svelando come le concezioni
cristiane della provvidenza siano incompatibili con la tragedia senecana del destino.
Nell’Orbecche il mondo cortigiano soccombe, ma sarà risuscitato nei seguenti drammi
originali del ferrarese in un progetto poetico ben diverso, dominato da uno spirito più
didattico.
147
5.2
L'ALTILE : UNA GHISMONDA CINQUECENTESCA
L'Altile si sarebbe dovuta rappresentare nelle celebrazioni in occasione della visita di papa
Paolo III a Ferrara nel 1543, ma l'uccisione del primo attore il giorno stesso dello spettacolo ne
ostacolò la messa in scena. Dopo l'Orbecche, il dramma di Altile è quello che ha goduto di
maggior attenzione da parte della critica; ciò si deve anzitutto al carattere di manifesto che
questa prima tragedia a lieto fine, composta solo due anni dopo l'Orbecche, riveste nel corpus
del ferrarese. Il lieto fine non è però l'unica ragione per cui l'Altile rappresenta il modello della
nuova tragedia di Giraldi; forse è più importante il fatto che esso contenga quasi tutti i motivi
che saranno centrali nei drammi esemplari di Giraldi: innanzitutto la dialettica eticizzante fra la
ragion di Stato e l’amore (quest’ultimo che in Orbecche veniva offuscato a causa della crudeltà
del tiranno e della vendetta da parte degli esseri soprannaturali). Ciò non toglie che la storia
dell'Altile possa essere considerata come una variante a lieto fine dell'Orbecche (ricordo, a
questo proposito, che i due primi drammi originali di Giraldi si basano su due novelle
consecutive degli Hecatommithi le quali, a loro volta, presentano molte somiglianze con la
storia di Ghismonda e la novella V. 7 del Decameron).
Con l'Altile viene dunque presentata una variante del tipo di Ghismonda; inoltre, si
incontra, per la prima volta, in questo dramma la figura emblematica del cortigiano infido ed
intrigante. Le tragedie che presentano una protagonista modellata su Ghismonda possono
venire difficilmente comprese senza che si indaghi sulla relativa modalità di trasformazione
rispetto al modello rappresentato dalla novella del Boccaccio, poiché non si tratta solo di
intrecci nuovi, ma anche di una diversa interpretazione a sfondo moralistico della condotta
dell’eroina.145 A ciò si aggiunga che la novella di Ghismonda è tutt'altro che rappresentativa
per il Decameron, in essa l'amore ostacolato e finito tragicamente funge da exemplum morale di
passione punita, quasi unicamente in quei casi in cui il desiderio comporta una volontà malefica.
La critica ha messo in rilievo questo profilo rinnovato di Altile; per Horne, Altile è «the
most human and appealing of all his heroins», e anche Peggy Osborn trova che questa eroina «è
senza dubbio una delle creazioni più riuscite del teatro tragico giraldiano» (Horne, 1962:72,
Osborn, 1991:162). Studiando l'Altile, è mia intenzione, anzitutto focalizzare l’attenzione sul
ruolo dell'eroina e sulla rappresentazione del conflitto d'amore che costituisce una caratteristica
peculiare della nuova tragedia di Giraldi.
Altile, sorella del re Lamano, si è sposata clandestinamente con Norrino, il più valoroso
cortigiano del re. L’ascesa politica e affettiva di Norrino è oggetto dell'invidia degli altri uomini
di corte, in particolare di Astano il quale, essendo innamorato dell'eroina, si vendica rilevando
al re la situazione di Altile. Questi gli avvenimenti che caratterizzano il primo atto, per lo più
rappresentati mediante monologhi dei personaggi in scena. Quindi il servo Bruno, venuto a
145 Nell'ambito ferrarese la fabula di Ghismonda era già stata oggetto del 1499, di una tragedia, la Pamfila di
Antonio Cammelli, indicata da Horne come una delle fonti dell'Orbecche (Horne, 1962:49 e segg.).
148
conoscenza del complotto, riesce a convincere Norrino ad abbandonare la corte, ma una serva
ascolta l'ultima parte del dialogo e fraintende così la situazione (atto II). L'atto centrale, invece,
rappresenta le varie reazioni alla fuga di Norrino: la contentezza del Capitano, la paura di
Astano e la disperazione di Altile che, credendosi abbandonata e tradita, decide di uccidersi;
l'eroina viene però fermata dalla sorella Naina che le spiega la vera ragione della fuga di
Norrino. Segue, poi un durissimo scontro fra Lamano e l'eroina, in cui quest’ultima afferma il
suo diritto nello scegliersi il marito e descrive i pregi di Norrino, tuttavia il re non accetta le sue
ragioni e la condanna a morte. Alla fine Naina riesce a fermare il re che si slancia contro
l'eroina per ucciderla, Altile esce di scena e Naina affronta Lamano tentando, invano, di indurlo
alla clemenza. Nel quarto atto Norrino è stato catturato e il Capitano Liscone è costretto a
portare ad Altile una spada e un vaso di veleno, affinché ella possa scegliersi la morte. Quindi,
mentre l'eroina si prepara a lasciare la vita circondata dalle donne del coro scorge Norrino che
viene condotto a morte e gli corre incontro (atto IV). A questo punto entra in scena Venere la
quale, dopo aver rivelato il vero significato dell'amore, dichiara che gli amanti hanno sofferto
abbastanza; per questo ella ha narrato la verità a Lucrone, re di Tunisi e padre di Norrino, il
quale ora sta arrivando con la sua delegazione: così ha luogo, il riconoscimento di Norrino da
parte di suo padre. La delegazione straniera riesce a fermare l'esecuzione, e Astano capisce che
il suo gioco è finito. Lamano ritira la sentenza di morte, tutti chiedono reciprocamente perdono
e il matrimonio fra Norrino e Altile viene ratificato. Infine, il Messo rivela che Astano si è
suicidato.
5.2.1 Lo scontro diretto
Ai quanto mal son giunti in una fede
Amore, & Maestà. (Alt. IV. 5)
L'Altile inizia con un lungo monologo pronunciato dal re Lamano che, con l'aiuto del cortigiano
fraudolento Astano, è venuto a conoscenza del matrimonio segreto fra la sorella e il cortigiano
Norrino. Il re accusa l'eroina di aver data «la ragione in preda [...] à l'appetito, e come cieca / Il
lascivo desire hà preso in guida» (Alt, I. 1); questa situazione costringe quindi Lamano, come
Tancredi in Boccaccio, a diventare crudo «fuor dal costume» suo. L'antitesi tragica si è in tal
modo stabilita già nella prima scena la quale, insieme con il primo atto, espone l'antefatto,
presenta i diversi vizi a corte e, contemporaneamente, le figure principali del dramma.146 Tra
146
Il monologo di Lamano costituisce un repertorio di qualità esemplari presenti nei drammi di Giraldi. Dopo
aver spiegato la difficoltà di trovare la vera fede fra gli uomini, il re passa al tema dell'ingratitudine,
esemplificata dal comportamento di Norrino, marito segreto di Altile; inoltre, mentre Norrino è colpevole
d'infedeltà verso il suo signore, la colpa di Altile sta nell'aver macchiato l'onore regale. Nel monologo
introduttivo di Lamano manca solo un tema per completare il panorama dei vizi cortigiani: l'invidia, agente
scatenante della catastrofe e impersonata dal cortigiano Astano. Questo peccato, caratteristico delle classi
inferiori, viene però trattato dal capitano Liscone nell'episodio seguente, e ripreso ampiamente nella terza scena,
149
questi si trova il cortigiano Astano, prototipo del villano a corte, e figura fondamentale nella
logica della tragedia a lieto fine che deve mostrare la punizione dei malvagi, insieme alla
salvezza dei mediamente colpevoli. Avremo modo di soffermarci sulla figura del cortigiano
intrigante negli altri drammi, in questa sende l’attenzione è rivolta primariamente alle
corrispondenze tra l’eroina e il suo errore.
La protagonista entra in palcoscenico nel secondo atto, dove dialoga con il suo amantemarito; un episodio raro nei drammi di Giraldi. Si tratta senz’altro di una censura premeditata;
infatti, non tenendo conto della prima metà della fonte novellistica, Giraldi concentra l'azione
intorno alle conseguenze negative dell'amore segreto e, inoltre, escludendo anche le scene
idilliache fra gli amanti.147 Queste appaiono, sin dall'inizio, marcate dall’ironia poiché tutti i
personaggi centrali, tranne i giovani amanti, sono a conoscenza della catastrofe che sta per
avverarsi. Si aggiunga che il dialogo e i sospiri amorosi fra l'eroina e l'amante vengono,
secondo un artificio tipico della commedia, ironicamente scanditi e disturbati dai commenti e
dalle incitazioni a parte del servo Bruno che, essendo a conoscenza del pericolo, si
spazientisce:148
E' stato insino ad hora, Altile, un gioco
Ben strano vi parrà ciò, c'hà à venire.
[...]
Sete del vostro mal, Donna presaga.
Ma tardi dopo il fatto altri si pente.
[...]
Non credo, che più mai stesser costoro
A' ragionar si lungamente insieme,
Vedi come ho contraria hoggi ogni cosa. (Alt, II. 2)
L'esclusione delle scene idilliache indica quindi una precisa scelta rappresentativa: come la
retorica dell'eroina, anche quella dell'amore conquista i monologhi. Il nostro autore lo spiega
con le seguenti parole nel Discorso:
costituita dal monologo dello stesso: «Credo che [...] l'invidia / Nemica sia del ben, de la virtude, / Più ch'a
figliastro ben fiera matrigna» (Alt, I. 3).
La serie di soliloqui nel primo atto del dramma mostrano come Giraldi moltiplichi le istanze di presentazione
dell'errore di Altile secondo diverse prospettive: prima Lamano sfoga la rabbia, segue poi una scena dove la
narrazione epica viene sostituita da un'esposizione del problema etico, nella quale il re informa e ordina al suo
Capitano di catturare l'amante di Altile; la scena seguente appartiene al Capitano, che pronuncia un monologo
sentenzioso sul male dell'invidia, collegato al cortigiano meschino che ha tradito Norrino. Così, quando il
cortigiano maligno entra infine sul palcoscenico, il pubblico lo conosce come un'incarnazione dell'invidia. L'atto
si conclude ironicamente con il monologo dell'innamorato Norrino.
147 L'esempio più chiaro di questa "censura" sono gli Antivalomeni, dove i quattro amanti non si incontrano mai,
dovendo invece esprimere il loro amore in soliloqui oppure nei dialoghi con i rispettivi fratelli.
148 Ciò avviene anche nella Didone, nell'ultimo incontro fra l'eroina ed Enea dove l'intromissione di Achate
serve a diminuire il pathos della scena. Altile, in realtà, condivide molti tratti di Didone: entrambe sono vedove,
colpevoli di aver violato la fede che dovevano al primo marito, a tutte e due viene lasciata dall'amante una spada
con la quale decidono di uccidersi.
150
Et non tengo io biasimevole, che in questa specie di tragedie vergine reale sfoghi in scena
da sé [...] le passioni amorose, dogliendosi o lamentandosi onestamente, non con ragionar
con l'amante, non con mezzano, ma sola, in quel modo, ch'ella farebbe nella sua camera
istessa. (DCT, 218)
L'eroina giraldiana è una figura isolata nell'amore; non è affiancata dal suo amante, ma
combatte da sola. Norrino infatti non convince quando si scusa prosaicamente con Altile per
non aver affrontato il re allo scopo di comunicargli il loro matrimonio, ed è reticente di fronte
alle richieste insistenti di Altile:
Ma così gran fatica è a trovar tempo
Opportuno à tal cosa appresso lui,
Ch'io non hò mai potuto, insino ad hora,
Pigliarmi occasion commoda à questo. (Ivi, ivi, ivi)
In più, Norrino fugge dalla corte quando viene scoperto, salvando la vita solo grazie all'aiuto
del servo Bruno. La stessa vigliaccheria si ripete negli altri amanti di Giraldi: vi è ben poca
eroicità nel giovane Oronte, marito di Orbecche, il quale deve ricorrere ad un consigliere nella
speranza che questi riesca ad ottenere per lui il perdono dal tiranno, mentre il marito di
Arrenopia si lascia convincere da un cortigiano ad ucciderla. Ne deriva di conseguenza che il
nesso scatenante fra l'eroico e l'erotico si trova solo nell'eroina.
Ora, bisogna naturalmente guardarsi dall'interpretare l'assenza di un amante combattivo
soltanto come un modo per esaltare l'eroicità femminile, poiché appare chiaro che la passività
dell'uomo (richiesta dalla struttura drammatica), è resa necessaria per mantenere nettamente
distinti i campi del conflitto, già confusi a causa dell'importanza assegnata ai diversi
intermediari. Il contrasto si compie all’interno del nucleo familiare, costituito dall'eroina e dal
padre-sovrano; dove l'amante è ridotto a svolgere la terza parte ingombrante: il risultato è che
nello scontro tragico rimbalza il patetico della figura femminile isolata.
Ciò avviene nella seconda apparizione in scena di Altile dove, credendosi tradita e
lasciata da Norrino, decide di togliersi la vita. La scena è un lungo monologo che si tramuta poi
in dialogo con la sorella, la quale tenta di raccontarle la verità sulla scomparsa di Norrino. Il
monologo dell'eroina è incentrato sul tema della morte e dell'onore perduto:
Il Fratello hò perduto, che perduto
Ben posso dir di haverlo poi ch' ad odio
L'hò mosso contra me sì giustamente.
Hò fatto oltraggio al mio sangue, & violata
La fede, ch'io devea à la sant'ombra
Del mio primo Marito, & mi son priva
De l'ampio Regno, ch'ei mi havea lasciato
In uso, e al fin perduta hò sì me stessa
Ch'io non son più, come dimostro, Altile,
Ma un ombra sol di me, poi che mi hà morta,
Et sepolta in infamia, il mio Norrino.
151
Col fuggirsi da me. Dunque, Poi ch'io
Non hò nel Mondo più rifugio alcuno,
E à me son morta, esser voglio anche morta
A' gli altri, perche sol la Morte puote
Trarmi à un tempo d'affanno, e di vergogna. (Ivi, III. 3, c.n.)
I suoi sentimenti per Norrino rimangono comunque inalterati: «Che se bene egli me non ama,
io ami / Non potrò non amarlo» (Ivi, ivi, ivi). «Altile diventa la prima di una serie di eroine
giraldiane il cui amore per i propri uomini non vacilla mai, qualunque siano i patimenti che
devono vivere», scrive Osborn (1989:161). Tuttavia, nonostante questa costanza, l'eroina
ammette di aver sbagliato scegliendo Norrino, perché pronuncia il suo mea culpa e decide di
morire quando crede di essere stata lasciata e tradita da Norrino stesso; una volta scoperta la
verità, difende però con veemenza la propria scelta di fronte al re.149 Nella scena seguente il
monologo di Altile si situa, nelle tragedie di Giraldi, l'unico scontro diretto fra l'imputato-eroina
e il giudice-re. Bisogna quindi che ci soffermiamo su questo episodio centrale, per affrontare la
questione della colpa tragica, e per vedere come si articola l’argomentazione.
E' Lamano a iniziare la discussione, commentando subito ironicamente le lacrime e i
sospiri di Altile e ponendo delle domande retoriche che contengono accuse implicite: «piange il
marito morto, o il Drudo fuggito?» Il biasimo per mezzo della lode, l'adulazione iperbolica, è
spesso indizio di ironia nella letteratura rinascimentale, come scrive Castiglione: «Simile a
questa materia che tende all'ironico è ancora un altro modo, quando con oneste parole si
nomina una cosa viciosa» (Cort, 2, LXXIV). Proprio perché l'ironia antifrastica è scoperta,
quale tropo che sostituisce il significato letterale con un significato traslato, questa specie di
ironia viene impiegata nei drammi quasi esclusivamente dal re, l'unico personaggio che può
permetterselo. Lamano infatti continua, e chiama l'eroina «Donna gentile» ma l'accusa nei
confronti della sua libidine insatiabile diventa presto esplicita, per cui Altile da donna gentile
diventa una femina scelerata e malvagia. La donna viene poi accusata di fingere l'onestà col
pianto, di aver simulato l'amore per il marito morto:
149 Questa confessione di Altile è interessante perché nei drammi cortigiani del Giraldi il monologo viene
impiegato per dare una pausa alla simulazione continua, in modo che i personaggi possano esprimere la verità di
fronte al pubblico. La protagonista della prima tragedia a lieto fine ha commesso lo stesso errore di Orbecche, e
ha scelto Norrino «tra tanti Signori, tra tanti Regi / Che mi han chiesta per moglie al fratel mio» (Alt, I. 5). Non
sarà quindi superfluo osservare che, mentre Orbecche difende la sua scelta in un monologo, Altile ricorre al
monologo per ammettere la sua colpa; l’ambivalenza di Altile si manifesta, rispetto alla sua hamartia, con un
comportamento opposto a quello di Orbecche, che chiede perdono al re (Orb, III. 4). In nessuno dei due casi,
comunque, si tratta di un'interiorizzazione del conflitto perché la scissione è, in entrambe, una conseguenza e
della loro simulazione di fronte agli altri e del fatto che l'eroina non abbia saputo comprendere la realtà che la
circonda. Altile pronuncia il suo mea culpa e decide di morire quando crede di essere stata lasciata e tradita da
Norrino (Alt, III. 3); quindi, essa, scoperta la verità, difende con aggressività il suo amore di fronte al re.
Orbecche invece, essendo stata ingannata dal padre-tiranno che finge di averla perdonata, chiede umilmente
perdono. Queste variazioni dipendono dall’hic et nunc delle enunciazioni: pare che Altile non riconosca il suo
errore dal punto di vista morale ed universale, valutandolo sempre in base agli effetti pragmatici della propria
scelta. L’eroina calcata sulla Ghismonda è, in Giraldi, consapevole di giocare a scacchi con avversari talora
anche sconosciuti, e non può fare altro che tentare di individuare le conseguenze della sua prossima mossa.
152
Pensavi forse di portare in testa
La benda nera e i neri panni in dosso,
E in atti dimostrarti ad ognun schiva
Esser la pudicitia manifesta? (Ivi, III. 4)
Le accuse di falsità terminano con una minaccia esplicita che anticipa la sua reazione: «Io ti
farò tosto vedere».
Altile, da sua parte, affronta il sovrano con un'energia tracotante che non ha nulla da
invidiare alla Ghismonda del Boccaccio; la prima frase pronunciata esprime il netto rifiuto di
partecipare alla conversazione:
Non devresti parlare meco, Lamano,
In guisa tal, dal tuo stato, & dal mio
Troppo lontana. Ma poi che pur sei
Tanto tracsorso oltre al dever, ti dico,
Che de lo stato tuo ti pigli cura,
Et lassi regger me da me medesma. (Ivi, ivi, ivi)
In questo modo l'eroina sposta subito il referente del discorso dall'accusa nei suoi confronti,
all'interlocutore, più precisamente sull'ira del re in modo da rendere le sue parole meno valide,
per poi dichiarare la propria indipendenza. E' a questo punto che interviene la sorella Naina,
giudice oggettivo dello scontro, dicendo: «Vedi che pon disperatione, e Amore / Insieme
aggiunti», e critica Altile che ora nulla stima, neanche il re perché «ogni cosa tien di se
minore». L’atteggiamento dell'eroina ha quindi in parte funzionato, perché il referente non è
più la sua colpa, ma la stessa situazione discorsiva.
Lamano accetta infatti il cambiamento di oggetto effettuato da Altile, e ne descrive
l'aspetto: «Vè che femina rea, vè con che viso / Mi risponde costei». Allora l'eroina, costretta a
rispondere direttamente alle accuse, si difende affermando che il suo onore non risiede nelle
vesti vedovili, bensì nell'animo:
Nè nelle bende nere, nè ne' panni
(Ch'anch'io non vo che in ciò tu mi dia biasmo)
Bruni (com'hai Lamano teco pensato)
Posi l'honor, ma ne la mente casta,
Ne l'animo pudico, & sol per questo
Lui, che degno di me mi parve, io scelsi,
Gelosa del mio honor, per mio marito. (Ivi, ivi, ivi)
Lamano non accetta la valenza dei segni non manifesti, non visibili; l'eroina, dal canto suo,
resta dell'opinione che i segni più veridici non sono quelli più evidenti, e coglie l'occasione per
lanciare un'accusa dissimulata mediante un'antitesi. A suo parere la nobiltà è data dalla virtù,
non dal sangue:
Ma, posto che si virtuoso spirto
153
Paia à te vil, à me, che con dritto occhio
Mirato hò il suo valor, più di me degno
E parso, che qualunque Re superbo. (Ivi, ivi, ivi)
L'ironia antifrastica è sempre l'arma del re che replica: «un nobil cavalier certo sceglieresti».
Altile continua ad accusare il fratello di lasciarsi guidare dall'ira, ma, mentre Lamano minaccia
per mezzo del proprio potere, l'eroina deve minacciare per mezzo di Dio, spettatore e giudice
supremo del processo: «Ma à questo torto, il Re del Ciel sel vegga». Altile rifiuta di dialogare
persino con la sorella Naina, che si intromette e tenta di calmarla:
Nai: Siate, Sorella mia, col Re modesta.
Alt: A che modesta? Sia pur modesto egli,
Et, se mi vuole impaurir, minacci
Di darmi vita, che mi fia la morte
Un precioso, e ben bramato dono,
Se da lui mi sia data, poi che vuole
Far morte dare al mio caro Marito
Il quale è la mia vita. (Ivi, III. 4)
Con quest'ultima replica l’eroina non solo annulla le minacce del re con il paradosso
dell'ossimoro vita-morte, ma rifiuta anche di prendere atto dell'incitamento della sorella,
rivolgendo invece verso il re l'accusa che era diretta a sé. A questo punto la tensione fra i due
aumenta sino a provocare una rissa, evitata soltanto grazie all'intervento di Naina, che ordina al
re di deporre il coltello e ad Altile di lasciare la scena; diventa allora chiaro che il contrasto si
innesta, più che altro, fra la combattiva ed irrispettosa retorica di Altile e la rabbia che questa
genera nel sovrano. Lamano si chiede stupito perché qualcuno non toglie le ciance à questa
lingua; quindi esclama: «Anchor non taci?»
Il contrasto fra i due diventa acuto fino a precipitare in una colluttazione proprio perché
si tratta di uno scontro diretto fra il colpevole e l'offeso, non mediato da un terzo. La
discussione fra Lamano e Altile comunque non risolve nulla, perché gli interlocutori sono
troppo coinvolti emotivamente: è l'ira a scontrarsi con la disperazione e l’insolenza. In realtà il
conflitto fra gli antagonisti si risolve in un discorso che resta chiuso sulla propria retorica e
sull'ethos degli interlocutori, senza affrontare la questione principale della colpevolezza di
Altile; la retorica dell'eroina essendo troppo esplicita e offensiva.
E’ vero che un discorso esplicito può essere meno pericoloso di quello sottile e coperto
dei cortigiani, con il quale si rischia di rimanere intrappolati. Ma è un rischio che i sovrani di
Giraldi non corrono, perché le loro decisioni sono quasi sempre troppo certe per venire ritirate a
causa di giochi retorici; essi possono infatti permettersi di dare tranquillamente la parola agli
interlocutori – quasi come una stravaganza giocosa. Il discutere con un sovrano, del resto,
comporta sempre uno scontro fra impari in cui l'interlocutore deve sempre osservare la norma
imprescindibile della sprezzatura, che consiste nella medietas, mentre Altile ne è totalmente
priva. Infatti il suo iniziale ed esplicito rifiuto a collaborare perdura lungo tutta la discussione.
154
Essa usa la medesima retorica sprezzante del re, si permette di giocare con le antitesi, alterna il
contenuto referenziale con l'ossimoro, e riesce a vanificare la più potente arma
dell'interlocutore: la minaccia di morte, che in bocca all'eroina diventa vita.
5.2.2 La mediazione
Con la figura di Naina entra in scena la mediatrice, una delle premesse fondamentali della
nuova tragedia di Giraldi, che mira a evitare gli scontri diretti; l'opera di persuasione di Naina
permette al discorso di spostarsi finalmente sul piano giuridico. Essa commenta dapprima l'ira,
l'impeto e il furore del re tuttavia, possedendo una maggiore capacità elocutiva rispetto ad
Altile, ricorre anche all’adulazione esplicitata attraverso il contrasto fra l'ira e la virtù,
abitualmente manifestata dal sovrano. Il tono del dialogo fra questi è completamente diverso
dal precedente e la discussione è marcata da affetto e rispetto reciproco: Lamano chiama Naina
«sorella mia» e parla del suo «animo honesto». Il re può così spiegare le ragioni della sua
reazione, e il discorso si sposta sul piano etico ed universale della giustizia e delle leggi;
ciononostante, dopo un elenco di luoghi comuni sulla donna e sull'onore, egli conclude
riferendosi di nuovo alle parole pronunciate da Altile, come se queste fossero diventate la
ragione principale della sua rabbia:
io le farò vedere
Se forse le saprò tornare in bocca
Tutte quelle audacissime parole,
Ch'ella hà contra di me sì altera usate. (Ivi, ivi, ivi)
A questo punto Naina si rende conto che il discorso sta entrando in un vicolo cieco e si affretta
a spostare il referente del discorso di nuovo sul re, avvertendolo che egli rischia di scendere al
livello di Altile, cioè di una femmina, se reagisce troppo crudelmente:
Fratel mio, non dè un core invitto
Lasciarsi trasportar fuori dal giusto
Per le parole altrui. (Ivi, ivi, ivi)
Quindi, al discorso di Lamano sull'onore regale, Naina oppone l'idea della dissimulazione
pietosa, quell'atto di carità che consiste nel coprire le debolezze e gli errori altrui: «Deve coprir
altrui prudenza quello, / Che l'altrui poco senno have commesso»; si tratta della dissimulazione
dei figli di Noah i quali, di fronte alla vergogna del padre ubriaco, coprirono il suo corpo nudo
(raccomandata calorosamente dall’Accetto nel suo trattato sulla dissimulazione onesta). Ma
quando - contrariamente al tiranno dell'Orbecche -, Lamano rifiuta l'idea di «celare sotto questo
mantello il gran delitto» ciò non è un indice di crudeltà, poiché egli si oppone a quello che è
generalmente la strategia del tiranno: celare; azione che, in questo caso, sarebbe inutile, poiché
155
la corte conosce il matrimonio segreto di Altile.150 Fabio Bertini ha analizzato questa scena
come esempio encomiastico del modello di governo del Princeps Iudex scelto
dall’amministrazione estense (2007). Il sovrano deve quindi prima di tutto essere un mero
esecutore e solidale fideiussore nei confronti del popolo. Il re si vede costretto a dimostrare la
sua inflessibilità di fronte alla disubbidienza della sorella e del marito:
Che se fusse il delitto loro occulto,
Farci dar morte in corte ad ambidue,
Senza dar di tal fatto alcun indicio.
Ma, poi che il lor delitto è ogn'un palese,
Voglio che sia palese anche la pena. (I. 1)
La rappresentazione e la dimostrazione appartengono imprescindibilmente all'esistenza dei
personaggi regali, che è esemplare. Ne è consapevole Lamano:
Et certo habbiate, che come dispare,
Più un nevo sù la faccia, che ogni macchia,
Che sia nel corpo in ciascuna altra parte,
Cosi un'error, che sia in persona illustre.
Perch'ella è sempre nel cospetto à ognuno,
Quantunque piccol si scopre sommo. (III. 5)
Egli ritiene che il modo fondamentale di dimostrare la regalità sia quello di scoprire, di
manifestare; la discussione fra i due fratelli è dunque tornata sul piano universale ed etico.
Naina tenta infatti una similitudine adulatrice, creando un parallelo fra il fratello e Giove:
Fratello, se i suoi fulmini mandasse,
Per ogni nostro error, Giove dal Cielo,
O' ch'egli in breve rimarria senza arme,
O che non rimarria persona viva. (Ivi, ivi, ivi)
Si ripete quindi la situazione dell'Orbecche, dove l'interlocutore tenta di spostare la discussione
sulla reazione del re all'offesa ricevuta, quindi sull'immagine regale.
150
L'orecchiare e la diceria, che si oppongono al decoro "maestoso" e grave delle camere reali, entrano nel
quadro degli influssi comici della tragedia giraldiana e, ovviamente, sono i servi a svolgere la funzione ignobile
di orecchiare. Nell'Orbecche, una cameriera svela il segreto dell'eroina e di Oronte al tiranno. Mentre nell'Altile,
dove lo svolgimento dell'azione viene manovrato dai servi, Brai, che è venuto a sapere del pericolo in cui versa
il suo signore, origlia i sospiri amorosi fra Norrino e Altile; una serva ascolta da una finestra la conversazione
fra Brai e Norrino, la interpreta male, poi la riferisce all'eroina, facendo sì che questa si creda tradita.
Molte sono, nelle tragedie di Giraldi, le massime che descrivono la corte come luogo dello sfruttamento e
dell'uso malvagio della parola. La Fama appare spesso come una personificazione della corte stessa, la quale
viene descritta come il luogo dove «spesse volte avviene, / Ch'i muri, i sassi, i pavimenti, i tetti / Palesan quel,
che si pensava occult», e dove «insino le travi /Et i pareti tutti, ..., / Hanno occhi più che non hebbe Argo mai»
(Alt, III. 1; Did, III. 5; crf. anche Sel, IV. 3). Nella dicotomia drammatica occulto-palese la corte può quindi
anche occupare il polo dello svelamento. Mentre la dissimulazione è l'areté del cortigiano onesto, che è un
agente dell'ordine, la diceria della corte rappresenta l'uso socialmente disintegrante delle parole e serve spesso a
creare digressioni minacciose nelle tragedie a lieto fine. La corte è il luogo dove si «bisbiglia ogn'un per ogni
conto»; questo, di conseguenza, costringe il re a ricorrere alla dimostrazione diretta della propria autorità.
156
In questo luogo ci interessa però innanzitutto la difesa dell'eroina e il suo errore d'amore,
poiché le circostanze attenuanti, impiegate nella difesa da Naina, ritornano come luoghi comuni
in quasi tutte le discussioni centrali dei drammi di Giraldi. La prima è che il crimine, inteso
come error d'amor, deve essere perdonato:
Et degna è di perdon, Fratello, Altile,
Poi che disperazione, e Amore assedio
Le havevan posto al core, & tolto il lume. (Ivi, ivi, ivi)
Naina tenta qui di togliere la responsabilità all'imputato tramite un'antropomorfizzazione
dell'amore: bisogna incolpare Amor e non gli amanti, vittime della sua forza. Poi c'è il motivo
dell'età del colpevole poiché, come Aristotele ha osservato una volta per tutte, la passione e
l'innamoramento appartengono per natura alla gioventù:151
Novo non vi è, che la Sorella nostra
E nutrita ne gli agi, & è d'etade
Verde, & fiorita, & è difficil cosa
Quando con armi tali Amore assale
Giovane donna, & à i diletti avezza,
Poter diffesa far contro il suo sforzo, (Ivi, ivi, ivi)
Ma anche questo argomento viene rifiutato da Lamano che, in linea con i filosofi stoici, ritiene
che la passione non possa essere accettata come elemento attenuante: non si deve rimproverare
la natura per i nostri atti irrazionali e per i mali che ne derivano.152 La passione dell'eroina
rimane quindi sinonimo dell'hamartia perché, sebbene l'amore sia spesso personificato, ai
personaggi non può essere cancellata la responsabilità delle proprie azioni, come aveva tentato
di fare Speroni nella Canace, ove l'amore incestuoso tra i fratelli è imposto dalla vendicativa
Venere.153 Nel Giudicio sulla Canace Giraldi critica questa soluzione, e scrive:
151 L'età è quindi uno degli argomenti che ricorrono con più frequenza nei tentativi di scusare la disubbedienza
degli amanti tragici. (crf.: (Orb, III. 4; Eup, I. 1; Ant, I. 3). Scrive Giraldi nei Dialoghi della vita civile:
«essendo essi bramosi del piacere, cercano con ogni diligenza di condurre a fine il desiderio loro e, posto che
questo loro desiderio sia in ogni cosa ardente, è egli ardentissimo nelle cose della libidine, la quale in loro si
scuopre focosa, per la copia del sangue e del vivace calor naturale1 ch’hanno con esso loro. E questa libidine
aumenta incredibilmente i disordinati desideri, ed è questo appetito non solo in lor focoso, ma vario e quasi
infinito, per essere essi instabili e spiacer loro oggi quello che ieri lor piacque, perché i desideri loro non sono
formati in quella parte dell’animo, ove ha la ragione stabile e ferma sede » (VC, 1048).
152 «E perciò non devete pensare che l’età giovanile, benché abbia intorno le passioni e i desideri che noi
dicemmo, non possa essere indirizzata a quel fine che è il migliore di tutti gli altri in questa vita e per lo quale
tutte le altre virtuose operazioni si fanno. Perché all’una e all’altra potenza soprastà questa miglior parte, come
reina, quando non l’è impedito l’ufficio suo» (VC, 1060).
153 Nel terzo Dialogo della vita civile il nostro autore affronta la questione del rapporto fra colpevolezza e
ignoranza, parafrasando sia Cicerone sia Aristotele nell'Etica Nicomachea: « ignoranza, in quanto appertiene
alle azioni, è di due maniere:a l’una quando l’uomo fa la mala operazione non per ignoranza, ma
ignorantemente, l’altra quando pecca per ignoranza, cioè per non sapere, né aver potuto sapere che tale
operazione sia male. Alla prima operazione sono sottoposti gli iracondi e gli ubriachi, i quali male operano per
ira o per essere ubriachi; perché, ancora che prima sapessero che far questo o quello era male, non- dimeno,
157
& mi hanno mosso molte volte à riso le sciocchezze che fa dire questo Autore, à Macareo
nella terza scena, del secondo atto, per volersi escusare dalle sceleraggini, dicendo doppo
molti viluppi; ch'erano impoeto che in vece d'alma mosse le sue mambra, accio lo indusse;
lequali membra egli chiama per ardite e scelerate [...] volendo egli philosophare per
iscusare se stesso. (Giud, 8)
Per difendere l'eroina, Naina sostiene ancora che l'onore della donna è salvo, perché gli amanti
sono sposati: «pensar non dovete, che non sia / Salva come mai fù, la sua honestade» (III. 5)
Aggiunge anche l'argomento della consanguineità, per cui l’uccisione di un parente implica il
commettere una ferocia inconcepibile, ricorda i meriti di Norrino, per cui il sovrano con la sua
dura punizione rischia di «levar l’animo tutto / a gli altri di servir con diligenza».154 Infine,
quando il re rifiuta di ascoltarla, affermando che è Van ragionar di questo perché statuito ho
ciò ch'io voglio fare, Naina compie un ultimo sforzo elencando tutti gli argomenti; e conclude
con la propria morte per dolore. Ma il pathos non funziona di fronte a Lamano, che sordo agli
appelli alla pietà, si riferisca continuamente alle leggi.
Sin qui avviene la difesa. Occorre però aggiungere che sebbene le circostanze attenuanti
non vengano accolte dal re, queste stesse funzionano sull'asse esterno, dove costituiscono il
fondamento della semi-colpevolezza dell'eroina, necessaria per creare la compassione. La
fabula dell'Altile è una versione a lieto fine di quella dell'Orbecche, una differenza
fondamentale fra i due drammi si trova però nella figura del re: sebbene non accetti l'idea della
clemenza, il re dell'Altile non viene rappresentato come un tiranno. Lamano nell'Altile e il
tiranno Sulmone nell’Orbecche affermano infatti che l'offesa contro l'onore regale e la rottura
della fede nei loro confronti sono imperdonabili, ma alla fine dello scontro il sovrano
dell'Orbecche finge di perdonare l’eroina, per poi rompere invece il patto di fede, mentre
Lamano, fedele alla propria parola, dichiara apertamente di essere deciso a punire gli amanti
con la morte. La parola e l'atto di Lamano sono legati, fra essi non sussiste menzogna strategica,
neppure la minima esitazione di fronte alle implorazioni dei consiglieri. Ma la coerenza fra
parola e azione non è l'unico segno di distinzione fra i sovrani: Sulmone vuole punire gli
amanti perché si considera personalmente offeso, dato che governa con l'arma del timore: «chi
non cerca esser temuto, cerca / Lasciare il regno tosto e venir servo» (Orb, V. 1). Il
ragionamento di Lamano è, invece, politico; non si tratta di rancore personale, di vendetta,
quanto di un'applicazione inflessibile della giustizia. Essendo il presupposto della sua sovranità,
l’argomento della legge ritorna continuamente nei discorsi di Lamano:
Disprezzata hà la statuita legge,
Che, per costodia de la Pudicitia,
Da nostri Antecessor fù stabilita,
accecati dal disordinato impeto dell’ira e dal calore del vino, per non avere il buon conoscimento, peccano
ignorantemente, non già per ignoranza.» (VC, 1134)
154 «Caro fratello io prego che vi piaccia / Considerar, che d'un medesimo sangue / Siamo tutti nati.» (Ivi)
158
[...]
Et hà contra la legge, già tant'anni
Osservata, e temuta, ha pur voluto
Compiacersi, è impor macchia al sangue nostro (Alt, III. 5)
Come ha visto anche Bertini, il sovrano dell'Altile personifica quindi la legge, che antepone
l’aspetto civile a quello familiare, garanzia ai sudditi senza distinzione o attenuanti parentali
(Bertini, 2007). Ponendosi in questo modo, come una fusione intertestuale fra i tipi del
Tancredi boccacciano e quello del Creonte sofocleo.155 Nell'Altile il conflitto non è tanto
l'offesa personale a spingere il sovrano a condannare Altile, bensì, come in Sofocle, la difesa
delle istituzioni e delle leggi.
Ma riflettiamo ora sulla colpa dell'eroina. Si tratta di un discorso che riguarda la
maggior parte delle eroine di Giraldi, poiché la scelta di mettere in scena più versioni della
storia di Ghismonda ne comporta l’inserimento in un contesto più ampio, in quanto include
problematiche sociali, quali l'istituzione del matrimonio e l'ordine collettivo.
Dal punto di vista sociale sono principalmente tre fattori ad aggravare la colpa di Altile:
il basso ceto dell'uomo amato, la clandestinità del loro rapporto e, infine, la disubbedienza al
padre-sovrano. La donna ha commesso un crimine nei confronti della pudicizia. Alla prima
questione Altile, come Ghismonda, mediante il confronto con il re, si autodefinisce come un
soggetto interamente responsabile delle proprie azioni. L'eroina non è vittima dei desideri
dell'amante, avendolo liberamente scelto. «Libera son rimasta e di me donna» - afferma,
aggiungendo: «Qual legge mi costringe a starmi sempre / Senza marito, s'io non voglio?» (ivi,
III. 4). Ma la legge esiste; quindi Altile si limita a sostenere che, siccome è vedova da tre anni,
ha il diritto di risposarsi, ma non giustifica, come invece la Ghismonda del Boccaccio, il fatto
di aver scelto un uomo non nobile. E anche Naina conclude il suo discorso condannando
l'eroina per aver scelto un marito non nobile: «Ma, se diceste, che da poco saggia / Havesse
fatto, à prendere un huom tale / Per suo marito, ove un Re haver potea, / Direste il ver.» (III. 5)
Rimasta sola dopo aver ricevuto la conferma da parte del re della condanna della sorella,
Naina ammette fra sé la legittimità della punizione. La disubbidienza dell'eroina va
indubbiamente contro l'ideologia gerarchica che regna nell'universo fittizio e la sua arroganza
di fronte al sovrano non rappresenta certamente un ideale di decoro. In Giraldi, il significato
etico di status sociale è totalmente diverso da quello dell'universo umanamente variopinto e
"borghese" del Boccaccio. Come ha osservato Bruscagli, l'autore trecentesco avanzava la
possibilità di capovolgere la condizione sociale delle persone, mentre il consigliere
dell’Orbecche deve spiegare tale evento servendosi della crudele Fortuna; per cui, l'infrangersi
della gerarchia sociale viene interpretato come catastrofe tragica (Bruscagli, 1976).
155 Secondo l'interpretazione hegeliana - ribadita a causa del contesto storico da Vernant , Sofocle presentava
nella tragedia lo scontro fra due etiche ugualmente legittime, laddove Creonte incarnava la pubblica moralità in
conflitto con la pietas, in virtù della sua funzione di sovrano, non per crudeltà individuale.
159
Le discussioni sul valore della nobiltà di sangue vantano, nel Cinquecento, una
tradizione secolare nella letteratura italiana. A tale proposito, Danilo Aguzzi Barbagli osserva
che la novella di Ghismonda era utilizzata dalla trattatistica politica cinquecentesca per
dimostrare come la nascita non assicurasse la nobiltà all'uomo (Aguzzi Barbagli, 1989:372); e,
sebbene nei trattati politico-pedagogici atti a esaltare la figura del principe venga ammesso che
l'eredità del sangue non basta di per sé a rendere l'uomo nobile, essa non viene certamente
considerata un elemento di ostacolo (Garin, 1964:58). Il sottofondo ideologico nella tragedia di
Giraldi è d’impronta tardo-rinascimentale: quindi, a differenza dell'esaltazione boccacciana del
coraggio di Ghismonda, la scelta autonoma delle sue eroine rimane un errore e il sovrano da
tiranno si tramuta in necessario difensore della polis. L'ideologia aristocratica dei drammi è
inflessibile. L'autore sviluppa quindi una hybris in senso inverso, che comporta una
declassificazione dell'eroina, la quale non scavalca le barriere sopra di sé, ma prevarica quelle
sottostanti. Solo la scoperta dell'origine regale di Norrino legittima il lieto fine e salva Altile
dalla morte; con la scoperta della parità di rango il sistema di valori sociali coincide infatti con i
valori individuali dei protagonisti.
La scelta da parte dell'eroina di un marito non nobile implica inoltre il topos della
disubbidienza al re-padre, presente in molti delle tragedie di Giraldi. Difatti, una delle idee più
diffuse della cultura del Cinquecento è infatti l'esistenza di un «ordine naturale», organico, cui
tutte le cose devono sottostare, e solo attraverso l'adesione a tale assetto ogni cosa può
raggiungere la sua vera "perfezione", manifestandosi esterioramente la sua armonia. Nella
figura del padre di famiglia è dunque insito, per i trattatisti cinquecenteschi, un modello di
ordine domestico, ove confluiscono il rispetto dell'ordine naturale e quello dell'autorità stabilita
dalla gerarchia sociale. In questo ambito la figura del padre di famiglia rappresenta quella del re
e viceversa: nei trattati di '"economia" del Cinquecento sono diffusi i parallelismi aristotelici fra
la famiglia e lo Stato. Nei trattati della seconda metà del secolo si avverte poi una più marcata
adesione all'idea della famiglia non solo come simbolo dello Stato ma anche come nucleo
fondamentale della società; contemporaneamente l'idea dell'ascesa personale per merito
dell'ingegno o della fortuna è sostituita da un altro modello, una sorta di aristocrazia mentale, la
quale fa riferimento a un rigido ordine naturale che ciascun individuo è tenuto a rispettare.
Lebatteux nota che nei Dialoghi della vita civile Giraldi insiste sul rapporto che unisce il
principe ai suoi sudditi, secondo la tesi paternalistica del potere che si trova riassunta da
Xenofonte nel Ciropédia (Lebatteux, 1974:284, 185). Quindi, sia il padre che il principe
appartengono ad una legge naturale precedente a ogni codificazione dei rapporti politici e
giuridici, conforme ad un ordine eterno e naturale delle cose (Frico:1987). In questa prospettiva
la disubbidienza dell'eroina giraldiana diventa forse più grave di quella di Antigone, non
trattandosi solo di un conflitto fra la legge naturale della pietas e la legge della polis, bensì
dell’infrazione dell'ordine naturale. Ovviamente, il rispetto della gerarchia sociale “naturale" e
la protezione dello status quo vanno mantenuti anche all'interno del matrimonio; per cui il
160
rapporto coniugale fra una regina ed un uomo appartenente ad una classe inferiore sconvolge la
naturale gerarchia familiare e sociale. La morale difficilmente poteva essere più chiara e
universale, se anche una serva pronuncia nell'Arrenopia: «Felice è quella, che il parer del padre
/ Segue nel maritarsi» (Arr, III. 4); perché, come dice un familiare nell'Euphimia : «Il dispartirsi
dal matur consiglio / Di padre, e di madre, è proprio un procacciarsi / Ruina estrema, e al fin
morte crudele.» (Eup, II. 3) Alla disubbidienza al padre e alla disparità cetuale nella coppia
(almeno sino al disvelamento finale), si aggiunge infine il terzo fattore storico che incrimina
l'unione della coppia centrale dell' Altile: lo statuto clandestino del matrimonio. Dice Lamano:
Ella sapeva pur, che ne la corte
E' quella santa legge, che le Donne,
Di qual si sian conditione, & grado,
Et gli huomini anco, che celatamente
Si congiungono insieme, son dannati,
Senza remissione alcuna, à morte
Et che non è accettata alcuna scusa. (Alt, III. 5)
Questo aspetto è stato messo in rilievo da Pieri, che in un saggio sul novelliere di Giraldi
ricorda che i matrimoni segreti erano una piaga economica e sociale del Cinquecento (Pieri,
1978 b:68). Esistono dunque valide ragioni per cui l'hamartia di Ghismonda è interpretata
come un errore letale per cui, solo un miracolo può salvare le donne dalla morte (come avviene
tramite gli interventi di Venere e di Giunone, o meglio, della divina Provvidenza, nell'Altile e
nell'Euphimia). Il lieto fine dell'Altile ha luogo con la riunificazione degli sposi in una scena di
perdono reciproco, tale da segnalare il rientro dell'eroina in seno alla famiglia:
Lam.: In tanto io prego voi, Ligonio mio,
Se forse d'ira in me voi foste acceso,
Che come havete hora cangiato il nome,
Et la sorte, & lo stato, cosi anchora
Cangiate verso me l'animo e il core.
Et voi altresi Altile, & siavi à grado
Più tosto raccordarvi il beneficio,
Che l'onta ricevuta hoggi da noi.
Tal che s'hò datto forse à voi oltraggio,
Questa felicità tutto l'emendi. (V. 6)
La riconciliazione fra le parti è un simbolo evidente di magnanimità politica.156 Il matrimonio
fra Altile e Norrino è finalmente legittimo, ufficiale, concorde al volere del pater familias, fra
un uomo e una donna socialmente pari.
156 La gratitudine è indice di magnanimità, ed è una delle virtù più elogiate del Giraldi, mentre l'ingratituine
costituisce uno dei vizi più disprezzati. Nell'ultimo atto dell'Altile i due re fanno a gara per risultare il più
gradito. Prima Lamano esprime "l'obligo" e la gratitudine che sente nei confronti di Sethino per «il generoso e
nobile atto" di aver fermato l'esecuzione di Norrino; subito dopo si rivolge al re Lucrone, padre di Norrino,
proclamando la propria sottomissione e pregandolo di considerarlo come suo figlio "minore", insieme a Norrino.
161
A questo punto pare ovvio estrapolare dall'intreccio e dalla conclusione di questo
dramma un'analisi, sulla linea di quella strutturale che Michel Olsen ha compiuto sulle novelle
di Giraldi. Olsen dimostra il carattere reazionario degli Ecatommiti in quanto l'amore coincide,
alla fine, con i valori e con l’ordine sociale. Secondo Olsen la coincidenza finale dei valori
individuali degli amanti con i valori sociali dell'autorità i quali, a loro volta, concordano con i
giudizi espliciti dell'autore, elimina ogni tensione dalle novelle giraldiane, rendendole noiose:
«Dans l'histoire de la nouvelle son importance négative est de premier ordre. Il montre une
tradition narrative, à tendance argumentative dès son début, réduite, à la seule affirmation d'une
système de valeurs qui tend à être identique dans chaque nouvelle.» (Olsen, 1976:262) Questa
ripetitività di motivi e di strutture vale indubbiamente anche per i drammi di Giraldi, dove la
vicenda di amore contrastato si risolve in armonia nell'ultimo atto, precisamente o con la
scoperta dell'origine regale dell'amato della regina oppure con il riconoscimento del
colpevole.157 L'universo di Giraldi è etnocentrico, scrive Olsen, «un punit ‘vers l'exterieur’ et
Lucrone a sua volta prega Lamano che al figlio Norrino «dia nulla / Per dote de la Moglie», e continua: «Ne
pure accetto voi per figlio,/.../ Ma per maggiore, e questa vita, è il regno / V'offro tutto, e vo' che l'una, e l'altro /
A vostra voglia usate, e voglio anchora / Che, in ricompensa de l'havuto dono, / Vi sia Ligonio mio sempre
vassallo.»
A questo punto Lamano, che naturalmente rifiuta i doni, ha serie difficoltà nel superarlo in gratitudine e
generosità, ma si riferisce alla dote ed esclama: «vò che n'habbia oltra la dote prima, / Una ricca cittade in sopra
dote» (Alt, V. 5).
L'aggettivo "ingrato" è fortemente spregiativo nel linguaggio drammatico del Giraldi. Il motivo
dell'ingratitudine ritorna spesso nella sua produzione, al punto che la critica non manca mai di collegarlo alla
contesa del nostro autore con il suo alunno Pigna, la quale si concluse con la partenza di Giraldi dalla corte
ferrarese. Il Pigna aveva messo in dubbio la paternità giraldiana del Discorso sul comporre romanzi; allusioni
piuttosto esplicite al tradimento del Pigna si trovano anche nei prologhi delle tragedie posteriori al fatto.
Introducendo l’Euphimia il prologhista dice: «Il Poeta, che mai sempre é pronto / A giovar, né ad alcun mai fece
ingiuria, / Se non volessi ( per la sua modestia) / Che più tosto da se à vergognar si habbia / Chi si trouva
macchiato di tal pece, / Che voglia egli esser quel, che il manifesti, / Anchor che di ben far strana mercede, /
Ricevuta habbia, con non lieve oltraggio.» E il prologo dell'Arrenopia, scritta poco prima di lasciare Ferrara,
conclude: «Piacciavi udire attentamente questa / Favola tutta a' buon costumi ordita, / Et or composta dal Poeta
nostro / Sol per lasciar, su questa sua partenza, / (Mal grado de gl’ingrati, e de i maligni) / Appresso voi di lui
grata memoria».
Giustamente il Lebatteux sottolinea l'insistenza del Giraldi su questo vizio in un contesto etico generale: «Si
Giraldi revient avec insistance dans son œuvre sur l'ingratitudine, [...], ce n'est pas uniquement parce qu'il a été
meurtri profondément par celle de Pigna, comme s'accordent à le reconnaître la plupart des critiques, mai aussi
parce que dans sa réflexion sur le pouvoir il l'assimile à l'insoumission au prince» (Lebatteux, 1974:285).
All'ingratitudine è dedicata un'intera deca degli Ecatommiti. Nei Dialoghi della vita civile si legge: « perché fu
opinione di Seneca che non fosse vizio alcuno fra noi, piú contrario alla umanità e che piú scioglia la
congiunzione degli animi umani, che la ingratitudine, la quale ha non meno in odio Iddio ottimo massimo, che
la si abbiano, tra noi, gli animi gentili e magnanimi.» (VC, 1194-95). L'ingratitudine è tematizzata anche nel
canto XXI dell'Hercole.
157 Giraldi, del resto, opera nei medesimi anni in cui Lutero riduce il matrimonio ad un puro atto civile e la
cerimonia nuziale ad una benedizione. Per la Controriforma il matrimonio rappresenta, invece, un'istituzione
fondamentale nell'azione di restaurazione morale e sociale; di qui, molti critici hanno quindi interpretato la
trattazione del matrimonio negli Hecatommithi alla luce della nuova dottrina tridentina. Cito da un saggio di Pieri:
«Il ‘matrimonio tridentino’, in cui la sposa era attivamente coinvolta con una dichiarazione di volontà esplicita e
formale, presupponeva un nuovo senso di responsabilità da parte dei contraenti, senza più imposizioni esterne»
(Pieri, 1978 b:55. Crf.: Maestri, 1979; Piéjus, 1980, 1985). In questo senso, il matrimonio controriformistico
esaltato nei drammi rappresenta una rivalutazione del ruolo femminile. Come sottolinea Marie-Francoise Piéjus
in conclusione di un suo articolo sugli Hecatommithi: «pur que le mariage puisse remplir son rôle dans la
perspective de moralisation de la société que Giraldi appelle de ses voeux, il est nécessaire que la femme y
162
l'on se réconcilie à l'intérieur» (ivi, 261). E’ difficile obiettare contro una tale interpretazione
anche delle tragedie di Giraldi, tuttavia, la lezione esemplare dell'eroina non può venir ridotta
alla semplice esaltazione di un sistema patriarcale e aristocratico. Il dramma mette in scena il
castigo di questa eroina, il che si verifica per ben quattro atti; ma a questo segue il lieto fine,
dunque il premio per gli amanti. E' questa mancanza di coerenza, peraltro già notata, nella
logica disgiuntiva, a rendere problematica la lezione del dramma, tuttavia, forse è proprio qui
che si rivela la natura della tragicommedia. La fusione fra la commedia e la tragedia avviene
con il riconoscimento 'comico' della coppia di amanti quale continuazione della vecchia società
“tragica”, nel senso di maestà, onore e gerarchia.
5.2.3 Il dialogo sull’amore
Il matrimonio costituisce una novità della letteratura tragica moderna, nuovo è altresì il
carattere e lo sviluppo del processo, che asseconda il fine legato alla soluzione dell'intreccio.
Poi, il carattere conciliativo di questo matrimonio, il quale riguarda in primo luogo la questione
dello Stato, comincia con l'evento dirompente della passione irrefrenabile, cui è opposta dal
coro l'antitesi celestiale; dove infine, la soluzione dialettica impostata sulla sintesi di una
bonaria e edulcorante unificazione degli sposi, esclude gli altri possibili e più interessanti
sviluppi della favola tragica. Una lettura d'insieme dei drammi a lieto fine di Giraldi svela, però
che l'agnizione non è l'unica ragione delle conclusioni positive. Come già detto, sarebbe facile
vedere nelle nozze finali e nel compiacimento per l'amore dei due giovani una morale comica
ma, proprio per innalzare la materia, il coro e le presenze divine intervengono parlando di
un'altra specie d'amore. Giraldi stesso ammette di aver scelto il lieto fine per compiacere il
pubblico, affermando che questa soluzione, la quale rende le sue tragedie più leggere, può
«servire alla ignoranza degli spettatori» (DCT, 184); ma nello stesso paragrafo egli riconosce al
fine tragico solo «poco più di grandezza» di quello lieto». Giraldi non accetta quindi di venire
ostacolato dal lieto fine nella trasmissione di un messaggio etico, bisognerebbe dunque
interpretare anche il lieto fine in rapporto alla serietà del genere tragico.
Vediamo ora quale funzione assuma l'amore nell'insieme del dramma, poiché
un'interpretazione della semplice struttura profonda, che elimini tutto ciò che appartiene alle
altre isotopie e altri livelli connotativi, esclude facilmente un riconoscimento dei tratti retoricostrategici del testo. Difatti, una simile interpretazione degli intrecci del tragediografo ferrarese
tralascia proprio quella parte centrale della trattazione rinascimentale della donna e dell’amore,
presente nel testo drammatico mediante il coro. Sono principalmente i cori a dare un senso
adhère et que, prenant conscience de ses responsabilités, elle domine sa traditionnelle faiblesse.» (Piéjus,
1980:290)
163
positivo all'amore ma, a ben guardare, anche nell'intreccio l'amore assume una funzione
perlomeno ambivalente. Viceversa, proprio per il fatto di essere amato da Altile, anche Norrino
incomincia a sospettare di discendere da un’altra progenie:
Creder mi fà, che quantunque sia stato
Servo appresso al Soldan molt'anni, & molti,
Et hor mi trovi in Siria anche à servigi
Del Re Lamano, io sia d'altra progenie
Che d'essere insino hor non mi hò creduto.
Così nobil pensier, come quel fue,
Che mi fè per la speme in sì alto luoco,
Come è stato l'amar la mia Reina,
Et il giungermi à lei per matrimonio.
Non sarebbe caduto in basso spirto.
Che rade volte avien, che à tali altezze
Chi nato è d'humil huom col core aspiri.
Che l'Aquile non generan Colombe
Nè timida Cervetta il Leon fiero. (Ivi, I. 5)
L'amore ci rende capaci di scorgere ciò che l'intelletto non può vedere; e sono i cori a ragionare
sulla saggezza e sulla forza mistica dell'amore. Il primo coro dell'Altile raccomanda di usare
l'intelletto come guida e di non sottomettersi «A l'ira, od al furore / E al gran desio». Questa
semplice presentazione dell’antitesi tragica viene trattata in maniera più articolata dal seguente
intermezzo corale dell'Altile, che inizia con l'assimilazione neoplatonica fra l'amore e il sole:
Questa beltà, che sì diletta à gli occhi
De gli huomini mortali,
Per cui sì fiero par che l'arco scocchi
Amor contra di noi,
Se non siam più che sciocchi,
O' non chiudiamo il lume à i raggi suoi,
Esser ne face uguali
A' gli spiriti celesti, & immortali.
Si tratta di una metafora petrarchesca ricca di connotazioni semantiche - che è ampiamente
sfruttata dal Giraldi anche nel suo canzoniere, le Fiamme. L'origine è sempre Platone, per il
quale la vista è il senso più nobile; benché sia stato Ficino a trarre le conseguenze ultime, con
l’affermazione che l'innamoramento comincia sempre dagli occhi. Interpretando ed elaborando
insieme le Enneadi del Plotino e il Timeo platonico, Ficino coglie negli occhi della donna il
primo gradino per ascendere al bene divino.158 Per cui, come il sole è il regolatore dei cieli,
158
Si tratta di una tradizione che parte da Platone per raggiungere il Rinascimento tramite il Petrarca e la poesia
cortese. Amore è desiderio di bellezza: è la visione della bellezza terrena che fa crescere le nostre ali rendendoci
capaci di raggiungere la visione della vera bellezza. Dalla lirica erotica medievale al Petrarca e in seguito, la
vista è stata esaltata come il senso più potente; la conquista avviene attraverso l'occhio. Nel Fedro, Platone
164
della vita, delle stagioni, così l'amore crea e regola le generazioni degli uomini: «Per questa
ragione Orfeo ha chiamato Apollo il vitale occhio del cielo» spiega il Ficino (De Sole, VI). Ma
l'idillio neoplatonico dei primi versi del secondo coro dell’Altile viene subito rotto da un freddo
però, con il quale inizia l'esposizione sul dualismo e sul divario fra i sensi e la bellezza
immateriale. Quasi rispecchiando il lieto fine del dramma, viene qui riconosciuto che la
contemplazione della bellezza comincia dai sensi, ma che attraverso ed oltre i sensi si può
arrivare a contemplare il vero bene e a disprezzare i pensieri terreni:
Così dunque, morendo à questo Mondo,
Ch'al senso prima occorre,
Vive, di desio piena alto, & fecondo.
Ne l'altro, ch'è lontano
Da noi, & ogni immondo
Piacer, che fa chiunque il segue vano,
Non pur fugge, ma abborre,
Et da quel sommo ben non si sà torre.
Anche se l'amore viene ispirato dalla bellezza terrena e caduca, esso tende verso l'alto: «senza
temer caldo, ne gelo / Ma lieta a poco, à poco / Sormonta, & fra gli Heroi ritrova luoco».
L'amore possiede la capacità di nobilitare, perché, come la ragione, dona agli uomini la forza di
salire «fra gli Heroi» e verso Dio, insegnando all'amante ad amare il sommo bene. L'ultima
strofa del coro si riferisce all'intreccio tragico e pone i protagonisti, come sempre in Giraldi,
alla stregua di exempla di chi si ferma ne la prima vista e arde di van pensiero. Se l'amore non
è inteso nel modo giusto, esso tiene l'amante legato al basso e lo porta a disprezzare la verità; i
tre versi del congedo invitano quindi l'amante a sollevare il pensiero verso l'alto, verso il
tabernacolo di Dio.
E’ questa la dialettica centrale della speculazione neoplatonica: Venere possiede una
doppia natura, situata fra la carnalità terrena e la spiritualità divina; la prima desidera la
sensualità, mentre l'altra tende alla contemplazione; entrambe inoltre coesistono e combattono
nell'uomo. Ficino si era appropriato di questo topos platonico dell'ambivalenza dell'amore,
trasformandolo in una delle sue immagini simboliche più feconde, per sviluppare una serie
dialettica di antitesi e di analogie che gli permettesse di fissare l'intelletto e la natura della
formazione del cosmo, quale armonia che segue al conflitto. L'armonia non viene mai intesa da
Ficino come calmo equilibrio, bensì come il ricomporsi drammatico di un ordine che oscilla
sempre fra la corruzione e la generazione. Venere è la pacificatrice che concilia ciò che
nell'universo è separato, creando l’armonia: la Venere celeste muove alla contemplazione,
l'altra, Venere pandemia, alla generazione. Scrive Ficino:
scrive che la vista «è il più chiaro dei sensi che possediamo, che essa stessa è brillante di una superiore
chiarezza». E anche per il Ficino la visione è l'origine dell'amore (Sopra lo amore, II, ix).
165
Siano dunque due Veneri nella anima la prima celeste, la seconda volgare: ambedue
abbino lo Amore: la celeste abbia lo Amore a cogitare la divina Bellezza: la vulgare abbia
lo Amore a generare la bellezza medesima nella materia del Mondo." (Sopra lo amore,
VI, vii)
Da questa distinzione, la quale risale al Simposio e al Fedro, prendono le mosse tutti i trattatisti
d'amore del Cinquecento. L'amante deve saper estrarre dalla bellezza sensibile ciò che favorisce
l'amore superiore; non fermarsi a essa, ma usarla quale punto di partenza, come un’occasione
per ascendere alla verità necessariamente bella e amabile. Nel dialogo sull'amore di Giraldi che
introduce gli Ecatommiti, si rinuncia alla concezione ficiniana di continuazione fra i due amori,
per accogliere invece le idee di Bembo, tese a definire la necessità di una netta conversione. Gli
stessi temi sono ripresi nel terzo coro dell'Altile che si rivolge a Venere. La prima strofa è
costruita sull'antitesi fra amore cieco e amore celeste:
Non sente più divina cosa al Mondo
De la tua face, Amore,
Chiunque con ver lume
Riceve il fuoco tuo santo, e fecondo.
Ne cosa è, che più l'huomo nel profondo
De le miserie metta,
Che l'alta fiamma del tuo vivo ardore,
S'alcun riceve lei fuor del costume
Debito in mezzo il core,
Sì che divenga in lui ceco furore.
La seconda reitera il concetto secondo il quale l’uomo è libero nelle sue scelte, l’amore
sensuale, dannoso e vano, si trasforma in difetto della volontà umana e non dell'amore in
quanto tale:
Ne dir si dee, che tua virtù perfetta
A' noi cagione sia
(Come dicon gli sciocchi)
Di seguir quel' ch' al nostro mal n'alletta,
Che libero è il voler nostro, & inetta
E' a piegarlo ogni forza,
(S' egli non vuol) da la diritta via.
Questa strofa è invece una ripresa di una parte del monologo di Naina, la quale si situa
nell'ultima scena del terzo atto, dove l'amore e la fortuna sono assunti come forze simili:
Ma che accusar si deve Amor, ò Sorte?
Noi siamo auttor de la Fortuna nostra,
Et Sorte, e Amor son vani nomi al Mondo,
Trovati, per coperta de gli errori,
Da chi da sè medesmo in error cade. (Alt, III. 6)
166
Nonostante le forze dell'amore e della fortuna, il responsabile è sempre l'individuo. Si tocca in
tal modo il tema della coesistenza del libero arbitrio con la predestinazione, problema che viene
accennato anche nel secondo dei Dialoghi della vita civile, dove Giraldi afferma: «so che la
predestinazione è una ordinazione nella mente divina ab aeterno, di quello che si dee fare da
noi per grazia in questa vita; ma con tutto ciò non voglio io mai rimanermi di tenere per cosa
vera che la predestinazione non lage la libertà nostra ma che si sta con lei il libero voler nostro»
(Ec, 1269). L'insistere sul libero arbitrio, come fa Giraldi nei cori dei drammi, non deve essere
solo interpretato come una conseguenza del nuovo e più severo clima religioso. Il problema è
ovviamente di primo piano nella questione della colpa tragica ma può anche essere considerato
alla luce delle idee neoplatoniche. La distinzione poi fra impulsi naturali e libero arbitrio, e la
separazione fra senso e ragione, finiscono con l'assegnare all'uomo sia una condizione morale
particolarmente complessa sia una natura difficilmente definibile, a causa della sua posizione
nella cosmologia rinascimentale. Questo motivo ricorre nei cori dei drammi del Cinzio, dove
contribuisce allo scopo educativo delle tragedie ma è anche ripreso costantemente nella
trattatistica coeva e della poesia cinquecentesca da Bembo in poi. Di qui, nei cori il dualismo
dell'amore platonico viene spesso ridotto alla lotta fra la ragione e il desiderio: nel primo coro
della Cleopatra la ragione viene esaltata come «Reina / A l'Ira, od al Furore / E al gran disio» e
come la fiamma «per cui siamo detti / Non huomini, ma Heroi»; mentre nel quarto si lamenta
che il creatore ci abbia dato una ragione troppo debole in confronto alla passione:
il nostro mortale.
Si à la ragion prevale,
Ch'ella non hà sovra il desire impero
Molto meglio era pure,
Che il divin sotto se tenesse il frale. (Cle, IV)
Il senso è ciè che accomuna l'uomo agli animali ma è la ragione che determina del primo la sua
essenza umana, alla quale egli resta fedele, se non si lascia attrarre dai piaceri del corpo e dalle
lusinghe del mondo esterno.159 Ritorniamo ora al terzo coro dell'Altile e alla terza strofa, dove
l'effetto dell'amore celeste è paragonato alla catarsi dai mali:
Ne chi à te l'alma invia
Come dee, può sentir doglia aspra, & ria.
L'amore onesto è purificazione dalla passione e delle sofferenze tuttavia, quando l'amante non
vede oltre il dolce, amato sguardo, l'amore stesso ostacola l'ascesa verso il bene. Bisogna avere
occhi buoni, da cervo, per vedere come la fiamma d'amore spinga gli uomini a mettere le ali e
159
Sono evidenti i parallelismi con Aristotele e con Gli Asolani: «Se così è, - disse allora il santo uomo - che la
ragione sia degli uomini e il senso delle fiere, perciò che dubbio non è che la ragione più perfetta cosa non sia
che il senso, quelli che amando la ragione seguono, ne' loro amori la cosa più perfetta seguendo, fanno in tanto
come uomini, e quelli che seguono il senso, dietro alla meno perfetta mettendosi, fanno come fiere. [...] Perciò
che ad esse la volontà libera non è data, ma solo appetito» (Gli Asolani, III, 14)
167
ad innalzarsi verso Dio; mentre gli amanti sciocchi bruciano invece lentamente nel fuoco vano.
L'ultima strofa del coro si riferisce ancora alla coppia di amanti drammatici, i quali non sono
illuminati dall'Amore celeste, bensì attaccati ai desideri vuoti e malsani:
Questi vedrà, che in quel ch'à dramma, à dramma
Altri arde vanamente,
Non si deve fermare,
Ma, quale al fonte và veloce Damma
Per l'obietto terreno, che lo infiamma,
Poggiar se ne de al Cielo,
Là dispiegando l'ali de la mente,
Ov'è chi il puo beare.
Et mostrargli, che mente
Il Mondo, s'altri à sue lusinghe assente.
Et chi è di simil zelo
Acceso, dal desir vano si scioglie,
Et non prova le angoscie,
Che, per insane voglie,
Hora prova Norrin, prova la Moglie.
Questo intermezzo corale è particolarmente esplicito nell'esposizione del dinamismo tragico
dell'amore; il vano amore è cieco, è l'ate, che può essere superato soltanto con una vista più
acuta, quella dell'anima, capace di scorgere oltre le ombre terrene; solo in questo secondo caso
l'amore diviene purificazione dai mali. Come si è visto, anche le massime ricorrenti nelle
repliche dei personaggi sottolineano la cecità dell'amore, idea di per sé ambigua, che in
un'ottica speculativa non è comunque necessariamente negativa. Per Ficino l'amore è sempre
cieco; l'amore volgare è tale perché gli occhi degli amanti sono bendati dal desiderio terreste,
cosicché non possono intravedere il vero amore, quello celeste, e quindi innalzarsi verso il vero
Bene; ma anche l’amore autentico è cieco, in quanto i veri amanti non vedono già il corpo
terrestre dell'amato, bensì l'invisibile bellezza dell'animo, la cui luce è verità. Quando i
neoplatonici considerevano l'amore cieco perché si trovava al di sopra dell'intelletto, la loro
teoria era conforme alla concezione dei teologi rinascimentali e, in seguito, anche a quella dei
gesuiti: i misteri più alti trascendono la comprensione e devono essere appresi in quello stato di
oscurità ove la logica svanisce. Ora, a parte il fatto che l'amore dell'eroina aveva percepito la
nobiltà di Norrino, le tragedie ignorano il significato profondo e completo della teoria filosofica
sulla cecità dell'Amore, per considerarla solo in connessione al peccato dell'amore volgare.
Come spiega Panofsky, tale interpretazione si contempera bene con la tradizione petrarchista e,
in generale, anche con la cultura cinquecentesca estranea alle accademie; di qui, nell'arte e nella
letteratura rinascimentale prevale l'uso dell'Amor bendato per indicare la forma più bassa,
puramente sensuale e profana dell'amore, in contrasto con il tipo più elevato e spirituale (sia
matrimoniale o platonico o cristiano) (Panofsky, 1975:135-84).
168
Il terzo coro dell'Altile riprende quindi il grande topos platonico e ne trae una schietta
lezione morale, nella quale le antitesi sono onnipresenti: ver lume - ceco furore, mal - diritta via,
ombre mortali - cose celesti, e immortali, l'obietto terreno – cielo; in pieno accordo con la
conclusione di Romito negli Asolani, il coro non disdegna di sottolineare la vanità della figura
neoplatonica e di quella petrarchesca per il dolce, amato sguardo, il riso e il parlar soave. Non
mi soffermo qui sul quarto coro (costruito intorno all'idea platonico-cristiana del mondo come
semplice simulacro ombroso), per passare invece all'inizio del quinto atto dove Venere
interviene direttamente per assolvere gli amanti i quali, anche se degni di punizione a causa del
loro vano desir, hanno sofferto abbastanza e sono stati quindi purificati dal dolore.
In Giraldi l'effetto dell'introduzione degli dei è quella distanza ironica intellettuale
tipica dell'allegorismo umanistico, della quale si era servito Alberti nel Momus dove erano
proprio gli dei a parlare delle vicende umane. Come gli intermezzi corali, anche i discorsi delle
presenze divine sono posti sopra l’intreccio, quali giudizi indiscutibili dell'azione drammatica;
perché, in una cultura cortigiana i personaggi mitologici fanno parte del grande e variegato
quadro di divulgamento del codice platonico-petrarchesco del Cinquecento.160
Nella Lettera sulla Didone il nostro autore si difende dalle critiche che gli erano state
rivolte per aver messo sul palcoscenico tragico le figure del mito, spiegando che gli era
sembrato corretto mantenersi fedele alla fonte, in quanto gli dei apparivano come i personaggi
dell’epica virgiliana. Il poeta mantovano costituiva il modello epico ideale per Giraldi che
quindi, e a differenza dell'Ariosto, introduce gli dei pagani anche nel poema Hercole.
Nell’Altile e nell'Euphimia le suddette figure sono delle innovazioni anche rispetto alle fonti
novellistiche, e sono legittimate dalla stessa definizione della tragedia mista; esse sono richieste
(in particolare Venere e Giunone), dalla tematica cortigiana e filosofica dell'amore, all’interno
della quale, tuttavia, non svolgono la funzione di deus ex machina, un espediente che Giraldi
giudica negativamente nel Discorso. Il deus ex machina, osserva, «si dee schivare con ogni
ingegno; che troppo mal sodisfatto rimane lo spettatore, quando vede, che uno Iddio è
introdutto nella scena, et finisce la favola, con dire nella maggiore importanza della soluzione:
Io voglio che cosí, o cosí sia finita la azione» (DCT, 179). La ragione, infatti, appartiene
sempre al programma didattico: l’esito finale felice deve scaturire logicamente dall'interno
degli avvenimenti.
E’ vero che l’intervento della trascendenza aiuta l’autore a ristringere il tempo
dell’azione secondo i precetti aristotelici, ma ciò poeteva essere risolto anche senza
l’introduzione della dea, la cui funzione principale consiste nel pronunciare un giudizio morale
sulla condotta dei personaggi. L'espediente delle rivelazioni oracolari serve quindi all'autore a
togliere la casualità ambigua della peripezia dalla fabula tragica: Venere entra in scena per far
160
Dall’altro canto, non va sottovalutato che le figure mitologiche, che appaiano pure nell' Orbecche, nella
Didone e nell'Euphimia sono anche espedienti atti a destare la meraviglia, a rappresentare «cose fuori del
verisimile».
169
sapere, è come un prolungamento del coro nell'asse interno dei drammi. Possiamo quindi
affrontare il discorso nell’Altile sulla massima autorità in materia d'amore. Venere inizia
raccontando la propria nascita secondo la cosmologia del Timeo e si presenta come colei che
diede «à le create/ Cose perfezione e grazia [...] / Et le giunsi con sì ferma catena, / Che non
lasciano mai l'ordine loro.» L'uomo è il microcosmo, prescelto da Dio e da Venere: è un essere
unico nella grande catena gerarchica degli esseri:
Et special cura habbiamo il Figlio, & io
De l'huom fra quanto nasce sotto il Cielo,
Come di picciol Mondo in cui ridotte
Son tutte le nature, & poco è meno
Ch'à gli spiriti Celesti ei non sia uguale. (Alt, V. 1)
Ma anche Venere, dopo aver spiegato che l'amore è un dono fatto all'uomo perché nel «carcer
cieco, / Possa goder de la celeste vita» e «contemplare chi di bellezza è il fonte», condanna
l'amore di Norrino e di Altile, da desir vano indutti. Se la tragedia comunque finisce bene, ciò è
dovuto unicamente al fatto che gli amanti «pentiti de l'error commesso / Ci chiederian
tacitamente aita»; essi hanno cioè sofferto abbastanza da venire graziati (Ivi). L'aiuto portato da
Venere il quale, nonostante l'invocazione del primo coro veniva negato nell'Orbecche, giunge
ad Altile e a Norrino perché, anche se essi manifestano «impuro l'animo» hanno tuttavia
pregato Venere con divoto core, pentitisi dell'errore commesso. Allora Venere se ne può andare
contenta:
Lasciando certo, & singolare essempio,
Che, anchora che gli Amanti escan dal giusto,
Se da ver pentimento essi son tocchi,
Giunger non gli lasciamo à miser fine. (Ivi)
E' difficile non scorgere nella catarsi di questi eroi una rappresentazione dell'assoluzione del
cristiano dopo la confessione: Venere viene dotata dell'agape cristiano.
Accanto ai fattori sociali dimostrati dall'intreccio, l'hamartia dell'eroina si spiega pure
con il suo ignorare il vero significato dell'amore, conoscenza successivamente acquistata
attraverso il dolore e la sofferenza vissuti nel dramma. L'amore dell'eroina inizia con il vano
desio, per giungere ad un livello superiore; e Giraldi introduce con il lieto fine delle tragedie
anche la catarsi interna ai personaggi tragici. L'eroina si salva in conclusione grazie alla catarsi
aristotelica, grazie a una purificazione operante per razionalità, che tramite la sofferenza la
metta in grado di passare dall'ignoranza alla conoscenza del bene. La purificazione dalla
sofferenza funziona come un ponte fra il divario creatosi dall'esaltazione neoplatonica
dell'amore da un lato e la severa critica sociale del sentimento dall'altro.
I drammi trattano quindi la tematica dell'amore su due livelli distinti: l'intreccio
dimostra le conseguenze negative dell'amore erroneo, mentre i cori, partendo proprio dagli
170
effetti di una scelta socialmente sbagliata, sviluppano un discorso teso ad esaltare il valore e i
benefici morali che derivano dalla scelta della Venere celeste; questa nelle vesti di Giunone,
mette in guardia dalle tragiche conseguenze dell'amore volgare, il quale mira unicamente a
soddisfare i sensi e l'appetito. In tutte le tragedie giraldiane l'amore appare come una forza
negativa e socialmente distruttrice, destinata a portare sconvolgimenti, ad entrare in conflitto
con il decoro regale e a contrastare la virtù politica: l'amore è una forza che va regolata per
evitare la catastrofe di Orbecche, di Didone e di Cleopatra. Nelle tragedie a lieto fine l'amore
gioca invece un doppio ruolo; è l'amore dell'eroina a scatenare il conflitto, ma è sempre il
medesimo che, con la sua percezione quasi soprannaturale della qualità nascoste dell'amato e
con l'intervento della Reina consacra l'unione, creando in tal modo il lieto fine: l'amore vincente
è la pietà, non il piacere, e la sofferenza è necessaria alla gioia finale.
171
5.3
GLI ANTIVALOMENI: LA MEDIAZIONE
5.3.1 Un conflitto “comico”
Gli Antivalomeni, fu scritta nel 1548 in occasione del matrimonio della figlia del duca d'Este, e
rappresentata tre volte nel 1549.161 Questa tragedia, che Giraldi definiva come «varia e grave e
dilettevole», è senz’altro la più tendente al comico delle sue nove tragedie.162 La tragedia trae
da Terenzio il doppio intrigo, mentre riprende da Plauto lo schema dei conflitti generazionali
tra i vecchi e i giovani, quindi il topos strutturante dello scambio delle persone ripreso dai
Mecaechimi, con conseguenti ostacoli all'amore e equivoci da scoprire; altre caratteristiche
comiche sono poi l'intreccio doppio, i travestimenti e i tranelli amorosi. Fa anche parte della
cronaca che Giraldi scrive la sua unica commedia, gli Eudemoni, contemporaneamente alla
stesura degli Antivalomeni.
Due trame si intersecano in questo dramma: la prima è costituita dal conflitto d'amore
fra il re e i quattro giovani, l'altra tratta del dilemma di fedeltà del cortigiano Emone, il quale ha
scambiato i figli del re con i nipoti del suo primo Signore per assicurare l’ascesa al trono degli
eredi legittimi. Si tratta inoltre dell'unica tragedia giraldiana a non assumere il titolo dalla
protagonista femminile, fatto che indubbiamente riflette una diversa focalizzazione nel dramma,
come l'importanza della terza figura del consigliere come exemplum della fede. E’ Emone ad
aprire il dramma raccontando l'antefatto, mentre dichiara, con la solita autocaratterizzazione
esplicita dei personaggi esemplari del nostro autore, che «L'amor, la fè d'un servitor fedele, /
Con la morte del Re suo non si spegne» (Ant, I. 1). La vicenda di Emone inquadra l'intrigo
comico degli amori contrastati: l'anziano consigliere appare sul palcoscenico nella prima e nelle
ultime scene del dramma.
Come già ricordato, l'introduzione del consigliere non costituisce una novità delle
tragedie di Giraldi; nuova è però la continua e insistente messa in rilievo di questa figura e dei
vari cortigiani. Questo fenomeno non riguarda solo il consulto fra il sovrano e il cortigiano,
poiché nelle tragedie del ferrarese i ragionamenti delle diverse figure cortigiane occupano la
scena tanto quanto i due protagonisti, se non più. Il ruolo dei cortigiani è stato appesantito
anche rispetto a quello delle novelle-fonti, sino a farli apparire in primo piano nell'economia
dell'intreccio. Possono essere elencate alcune delle rinnovazioni più rilevanti a tal proposito.
161 L’impegno di Giraldi nella messincena dei suoi drammi è documentata dalle sue lettere al duca nell’autunno
del 1549, ora raccolte nel Carteggio (lett. 49, 50, 51).
162 Carteggio, lettera 50.
172
Nella novella-fonte dell'Orbecche, il ruolo del consigliere Malecche è molto limitato, e
la sua opera di persuasione è menzionata con poche righe; mentre nel dramma egli occupa un
ruolo importante e ne domina la scena centrale. Nell’Altile il ruolo del re è stato ridotto in modo
da assegnare più spazio agli interventi dei cortigiani. L'infido e geloso Astano - non esiste nella
novella, dove si accenna solo all'invidia nella corte; e nella stessa tragedia Giraldi ha introdotto
la figura tormentata del capitano Liscone che, contro la propria coscienza, si vede costretto a
eseguire gli ordini del re. Nella Cleopatra è stato inserito un dibattito lungo tra i due consiglieri
di Ottavio sulla sorte di Antonio, già morto; la Didone è popolata di ben ventuno attori tra
familiari, cameriere e consiglieri, mentre gran parte dell'Arrenopia è dedicata agli scontri
personali fra i diversi cortigiani del giovane ed inesperto re. Nella Selene la figura del traditore
Gripo è stata arricchita di tratti soggettivi; mentre il tiranno dell'Euphimia è circondato da
numerosi cortigiani sofferenti a causa della bestialità del loro signore; nell'Epitia l'anti-eroe
Iuriste si trova a dover discutere con Podestà e il suo segretario, personaggi inesistenti nella
novella. La drammatizzazione degli Antivalomeni, infine, è incentrata sul destino del fedele
cortigiano Emone, colpevole di aver scambiato i figli regali, mentre nella novella Honorio, il
saggio consigliere del nuovo re, si limita a apparire solo nella conclusione.
Questo l’argomento degli Antivalomeni. L'antefatto è raccontato dall'anziano cortigiano
Emone nella prima scena del dramma: re Loteringo d'Inghilterra è morto da anni e ora regna il
barone Nicio. Questi non ha mantenuto la parola data al predecessore di far sposare la figlia
Charia, e di procurare la corona al figlio di lei, e ha invece fatto sposare bassamente sia la figlia
che Chaira, la vedova del vecchio sovrano. Chaira e Cherinda hanno partorito un maschio e una
femmina e, contemporaneamente, la moglie di Nicio ha messo al mondo due gemelli. Ora,
diciotto anni dopo, tutti vivono presso la corte di Londra; il re Nicio non sa che l'anziano
consigliere Emone, con il consenso delle due donne, ha scambiato i figli in modo da restituire il
trono agli eredi legittimi. Charia e Cherinda hanno scoperto che i loro figli si sono innamorati
di quelli di Nicio, e anche il re è furioso avendo saputo come il figlio Uranio si sia innamorato
di Philene. La regina Lida, cerca di calmare Nicio, e a convincere Uranio a dimenticare Philene.
Il re invia quindi il suo consigliere Honorio a parlare con il figlio, ma neppure il consigliere
riesce nell'impresa; un servo suggerisce invece a Uranio di violentare Philene per «spegnere la
sua fiamma» (atto II). Essa, che ha scoperto i piani di Uranio, si traveste da uomo per partire
con l'esercito in Scozia al posto del fratello Emone, mentre quest'ultimo indossa le vesti della
sorella. Uranio si infuria quando scopre il travestimento e, per vendicarsi, accusa Emonio di
fronte al re di aver assunto le sembianze di Philene per poter entrare nelle stanze di sua sorella.
Emonio viene quindi arrestato (atto III). Sotto tortura egli confessa di essere rimasto a corte a
173
causa della figlia del re; quindi, viene condannato a morte. Ora non sono però solo Emonio e
Philene a rischiare la vita, perché anche gli altri due principi minacciano di suicidarsi. A questo
punto Charia e Cherinda temono di perdere i propri figli e, dopo aver consultato Emone,
decidono di rivelare la vera identità dei principi al re. Nell'ultimo atto le due donne confessano
lo scambio alla regina; il re affronta Emone, condannandolo a morte. Nell'ultima scena Honorio
difende il suo anziano pari sottolineando il valore della fede; egli riesce infine a persuadere il re,
che accetta il doppio matrimonio quando un Sargente annuncia la morte del re di Scozia, quindi
la liberazione di un altro regno per la seconda coppia.
In questo dramma l'amore ha una funzione chiaramente comica. L'amore dei quattro
giovani, dei quali Uranio fa da portavoce, si manifesta nell'ostinazione ad opporsi alla ragione e
ai personaggi anziani. La tematica dell'amore negli Antivalomeni si distingue, nondimeno, dal
significato che questo affetto assume negli altri drammi di Giraldi perché qui, sin dall'inizio, è
chiaro che il sentimento dei quattro principi è un amore onesto che non contrasta con i valori
etici, ma unicamente con i progetti immorali dell'ambizioso re Nicio. L'amore serve a creare un
intrigo movimentato con più suspense, dove la peripezia non avviene prima della fine
nell'ultimo atto. A questo progetto collabora pure la mutevolezza dell'amore dei giovani così
come essa viene rappresentata dall'incoerenza del comportamento di Uranio che, per la
disperazione e sotto l'influenza di un famigliare malvagio, tenta di fare violenza alla sua amata
Philene.163 Il tentativo di Uranio fallisce, di nuovo grazie a un elemento comico, quello del
travestimento; allora, lo «smisurato amor, ch'egli portava / A' Philene cangiossi in si grand'odio,
/ Che voltò ogni pensier à la dar morte» (III, 7). Poi, quando Philene viene condannata a morte,
Uranio minaccia di suicidarsi. Come nella commedia classica, l'amore ha una funzione
decisamente positiva per il risvolto felice del dramma: grazie all'amore dei due giovani il tutto
viene scoperto e diventa possibile giungere ad una soluzione pacifica e giusta.164 Fra queste
due sfere, quella amorosa e privata dei giovani, e gli intrighi politici del re, i diversi consiglieri
e mediatori del dramma agiscono instancabilmente per un lieto fine.
163 La persuasione del familiare, come anche la rappresentazione del tentato stupro di Uranio, viene invece
esclusa dal dramma. Si tratta sempre della preoccupazione, onnipresente nell'autore, del decoro: tali episodi
vengono eliminati come non abbastanza onesti e decorosi per l'ambito tragico. «Mai non lascerete venire in
iscena cose lorde, sozze, disoneste, villane, vergognose, fecciose e ischifevoli» avverte Giraldi (DCT, 223). E
dunque: «Non è luoco, Signor, questo / Di ragionar di ciò», dice il famigliare, prima di lasciare la scena insieme
al principe.
164 Qui dunque l'intreccio del dramma esclude la distinzione tra l'amore fatale e l'amore imposto e ragionato;
l'amore dei giovani vince perché Philene è degna di essere amata. Dice Uranio: «le sue virtuti / La dimostrino
uguale à ogni Reina». È una rivalutazione dell'innamoramento (del nobile) che rende l'uomo in grado di
percepire ciò che la ragione non può conoscere. Come Orbecche e Altile, anche il principe Uranio ama Philene
senza sapere che essa, in realtà, è di origini regali.
174
Il conflitto tra il re e i principi innamorati predomina nei primi quattro atti degli
Antivalomeni. I primi due rappresentano i vari tentativi di convincere il principe Uranio a
dimenticare Philene. Nella terza scena del primo atto la regina Lida cerca di calmare l'ira del
marito, mentre nelle due scene seguenti Nicio e Uranio pronunciano un monologo, dove
ognuno espone i propri sentimenti e punti di vista. Nella sesta scena Lida assume il ruolo di
mediatrice, affrontando il figlio per indurlo a ragionare. Uranio prega poi la madre di
intercedere per lui presso il padre, quindi all’inzio del secondo atto ella prova nuovamente a
calmare il marito. Il re decide invece di incaricare Honorio per convincere Uranio a dimenticare
la sua amata:
Sapete quanto
Vaglia in persuadere Honorio nostro
Il bene altrui, con qual'arte proceda
A' trar le passioni à l'huom del core, (II. 1)
Alla fine del quarto atto Emone rivela lo scambio dei figli regali, mentre l'ultimo rappresenta le
conseguenze e i modi di questo svelamento, dove emerge di nuovo la necessità della figura del
mediatore. Difatti, le donne non osano affrontare il re direttamente, ma si rivolgono alla regina,
narrandole la verità, e implorandola di intercedere per loro presso il marito:
Et vi prego a pregar per noi pietade.
Veggo il Re uscir, gir me voglio in casa,
Che non posso soffrire il suo cospetto,
Tanto è il timor che mi percuote il core. (V. 1)
Nella scena che segue avviene l'unico confronto fra Nicio e Emone, dove quest'ultimo si
difende:
La fè à punto, Signor, che à l'ossa debbo
Del mio Re primo, il qual non amo meno
Morto, che già io lo mi amassi vivo,
A' ciò m’indusse. (V. 2)
Le ragioni dei consiglieri ha raramente effetto, e il re ordina che Emone sia imprigionato
insieme alle due donne. La suspense viene quindi mantenuta sino all'ultima scena, in cui
interviene come mediatore finale il consigliere Honorio.
5.3.2 La fede
Il dialogo fra Honorio e Nicio, dove Honorio riesce a convincere il re, rivela la morale del
dramma, ma anzitutto dimostra la funzione fondamentale del mediatore. Difatti, quando la
discussione fra i due diventa troppo accesa, accorre di nuovo Lida come mediatrice:
175
Nic. Di tua fe non vo', Honorio in questo, segno,
Nè perche tu avocato sij à costoro,
Ti hò fatto quì venir. Ma perche un modo
Si trovi di dar lor morte si acerba
Che par sen vada il guiderdone à l'opra,
Lid. Signor, per contentezza mia lasciate,
Senon per altro dir ciò ch'egli vuole.
Nic. Io non voglio ascoltar,
Ho. Io più parola
Non vi dirò di ciò.
Nic. N'hai dette troppo.
Lid. Deh piacciavi d'udir il suo parere,
Che, se il vostro ben fia dal suo diverso,
Egli però non vi terrà, che voi
A' vostro modo non facciate,
Nic. Dica. (Ivi, V. 3)
Il consigliere Honorio inizia quindi il suo ragionamento, ma è introdotto dal re; interviene
quindi ancora la regina:
Lid [...]Però piaccia
A' la Maestà vostra ch'egli giunga
Al fin di quel, ch'hà incominciato à dire,
Farà poi vostra Altezza à modo suo.
Nic. Segua. (Ivi)
Honorio riesce infine a convincere il re tramite l'esempio di fedeltà di Emone:
Bisognava
Pensar, com'io pur diceva dianzi,
Ch'amore, & fede, che invecchiata sia
Nel cor del fedel servo al suo Signore,
Non si spegne in lui mai se non per morte.
In parte è giusto, Sir, dar pena à Emone,
E in parte merta anchor qualche pietade.
Merta gastigio per l'inganno usato;
Pietà, poscia ch'à ciò la fe l'hà indutto.
Et credo, Sir, se senz'ira vorrete
Aprir la mente vostra, che più tosto
Servi vorreste haver simil a lui,
Che d'altro core, ove bisogno fusse. (Ivi)
Questo re possiede tanti tratti tirannici: l'ira, l'avidità, la slealtà, origine di ogni male, come dice
Emone: «L'essere mancato de la fede / A' Loteringo, Nicio, d'ogni male / Stat'è cagione» (Ivi,
IV. 5). A mio avviso, la salvezza etica dell'impostore Nicio è esssenzialmente dovuta ai
176
consiglieri che lo circondano: Gli Antivalomeni è, in tal modo, una demonstratio di quanto
saggi e fedeli consiglieri giovino al re.165
Emone è una personificazione della fede, virtù intorno alla quale la casa estense
costruisce tutta la sua propaganda, e che Giraldi esalta costantemente nei testi apologetici
(Lebatteux, 1974:256). In Giraldi l'identità dei personaggi drammatici è concepita in base ad
una sottomissione all'autorità legittima: l'areté del cortigiano si fonda quindi sul giusto mezzo
nel difficile equilibrio fra l'onore personale da un lato e la lealtà al signore dall'altro. E il
parametro fondamentale della sua eroicità è costituito dalla fede. Il consigliere diventa quindi
una figura tragica quando si trova al servizio di un tiranno.
Il consigliere deve, con le sue capacità retoriche, aiutare il signore a navigare scegliendo
il "giusto mezzo" e, contemporaneamente, essere fedele a se stesso. Come scrive il Castiglione:
Il fin adunque del perfetto cortegiano [...] estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo
delle condizioni attribuitegli da questi signori talmente la benivolenza e l’animo di quel
principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad esso
convenga sapere, senza timore o pericolo di dispiacergli; e conoscendo la mente di quello
inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi
della grazia acquistata con le sua buone qualità per rimuoverlo da ogni intenzione viziosa
ed indurlo al cammino della virtù. (Cort, IV. 5)
La fedeltà e l'obbedienza verso il signore sono estremamente precari, perché possono venire
facilmente in conflitto con la passione soggettiva, la suscettibilità dell'onore, il sentimento
dell'offesa, dell'amore e con altre accidentalità (Hegel, 1963:627-8). Hegel trova il più
bell’esempio nel Cid, e rintraccia all'interno della tragedia spagnola, il verificarsi di collisioni
motivate dal contrasto fra gli interessi individuali del cortigiano e quanto gli dovrebbe invece
prescrivere l'etica di un comportamento onesto, forse per il carattere spiccatamente cavalleresco
di quelle corti; ma anche nella tragedia italiana del Cinquecento il consigliere è indubbiamente
una figura nata dall'ambito storico e letterario della cavalleria. Non v'è dubbio che tutta la
società cinquecentesca, in particolare quella ferrarese, dove l'ideologia cavalleresca serve da
alibi al governo dei duchi, vive un clima in cui le idealità feudali, ormai esangui e prive di
validità, conservano il loro fascino; e dove esse, ancora, sono suscettibili di regolare molto
genericamente, quasi come un'etichetta di corte, i rapporti dell'umanità cortigiana (Lebatteux,
1974).
Come abbiamo già notato nell’analisi dell’Orbecche, a partire dell'inizio del
Cinquecento il concetto della fede diventerà sempre più relativo, collegato ad una visione
165
Non a caso, in conclusione del dramma viene introdotto un ultimo servitore fedele: un Sargente che non
vuole riconoscimenti materiali per i propri meriti dal re perché, «Il guiderdone / Hò, Signor mio, poi ch'io mi
veggo havervi / Con la venuta mia fatto contento» (Ant, V. 3).
177
realista, non più fiduciosa nelle massime universali degli umanisti. Anche se i doveri del
sovrano e dei sudditi sono diversi e vanno tenuti separati, vale la pena di rammentare che per
ambedue, sia per il re che per il cortigiano, si nota nella letteratura del Cinquecento un
allontanamento dall'interpretazione medievale e cavalleresca della fede verso una visione meno
trascendentale, più concreta e pragmatica.166
5.3.3 Mediare e attenuare
Nella sua analisi della novella di Giraldi, Michel Olsen sottolineava la capacità dell'autore nello
sviare ogni conflitto irrisolvibile.167 La tendenza ad evitare i conflitti forti e diretti è anche parte
del progetto drammaturgico di Giraldi, e il lieto fine ne è una conseguenza. Nei drammi il
Cinzio impiega però altri mezzi per attutire i conflitti, rispetto alle novelle.
Difatti, nella struttura della tragedia a lieto fine è fondamentale la funzione mediatrice del
cortigiano-consigliere nel conflitto fra i due poli, che sostituisce il ruolo che il coro aveva nella
tragedia antica: proprio a causa dell'importanza assegnata a questo personaggio "tragicomico"
nell'intreccio, la collisione viene smorzata.168 E' forse più facile illustrare tale fenomeno con
l'Orbecche dove i poli del conflitto non si incontrano prima della falsa conciliazione. Là il
tiranno si scontra invece con il vecchio consigliere Malecche che è, come ha notato anche
Musumarra è quasi un personaggio da commedia (Musumarra, 1972:108). Quando nelle ultime
scene i due antagonisti si incontrano direttamente, il dramma finisce in catastrofe.
Nell'Orbecche, l'azione si snoda tutta intorno al conflitto principale che, a sua volta, si sviluppa
mediante il triangolo dei due poli e il mediatore. Questo stesso schema concerne anche i
conflitti delle altre tragedie di Giraldi. L'interlocutore del personaggio giraldiano è, quindi, solo
eccezionalmente l'avversario: è il triangolo a dominare e a porre al centro la figura
dell'intermediario. Nell’Altile l'eroina esce viva dalla discussione con il sovrano solo grazie
all'intervento di una terza parte, rappresentata dalla figura della sorella Naina.
166
La necessità di trattare gli ideali con un certo realismo si era già manifestato, per Giraldi, nell'opera
apologetica del Commentario nella quale, sebbene la propaganda dinastica del regime estense si basasse
soprattutto sull'affermazione che la fede era l'unica guida della politica ferrarese, ricorre a argomentazioni
realiste quando la casa d’Este deve rispondere a accuse di crudeltà.
167
«un sujet narratif qui serait le véritable auteur d'un effet mettrait en question, par son action, même fictive,
le rôle de l'autorité. Cette autoritée peut certes être critiquée si elle dépasse les normes d'ordre et de mesure
qu'elle doit maintenir, mais c'est le hasard qui "punit" dans ces cas, non pas l'objet de l'autorité. La
confrontation entre objet et autorité est soigneusement évitée.» (Olsen, 1976:263)
168
Sempre per la stessa ragione viene anche amplificato il ruolo della nutrice. Nel dramma di Giraldi la
confidente dell'eroina non si limita a sentenziare astrattamente sulla condizione della donna e sull'infelicità della
vita umana, ma i suoi discorsi si riferiscono spesso alla propria situazione di vita particolare nel contesto sociale
della corte. La nutrice è l'interlocutore principale dell'eroina che, anche se regina, raramente esce dalla sfera
privata e dal proprio dolore. In tal modo la nutrice collabora al progetto dell'autore di collocare i personaggi in
due gruppi che non si incontrano quasi mai, - vale a dire, lo spazio pubblico rappresentato dal re, e quello privato
dei personaggi che circondano l'eroina.
178
Gli scontri diretti sono fatali perché l'eroina assume in essi un ruolo che non è suo: ella
esce dall'isolamento, dalla concentrazione sul proprio essere, per agire; e l'agire della
protagonista femminile della tragedia sfocia sempre nella catastrofe. L'identità di una figura
drammatica viene costruita mediante le configurazioni sceniche alle quali partecipa. In questa
luce pare chiaro che la tragicommedia del nostro autore esiga un'eroina isolata, rinchiusa nella
sfera sentimentale, proprio quel tipo di eroina che dominerà nella produzione drammatica di
Giraldi dopo Gli Antivalomeni; mentre, non solo per ottenere il lieto fine, ma anche per il fatto
che il dramma necessità di una sorta di comunicazione fra le parti, l'autore si vede costretto a
spostare i processi materiali, su personaggi secondari. Entrambi i personaggi che creano la
collisione principale nel Giraldi rappresentano la passione, mentre la ragione appartiene ad una
terza parte, al consigliere-mediatore che prospetta il nodo che tiene insieme i due poli nella
ricerca dell'ideale aristotelico del giusto mezzo. La tematica del primato della ragione opposta
alle passioni si trova ovunque nei dialoghi drammatici, negli intermezzi corali, nonché nei
trattati filosofico-morali cinquecenteschi.169 Il conflitto fra i due protagonisti drammatici è
passionale, una terza parte è necessaria per far sì che si costituisca l'opposizione tematica
fondamentale fra passione e prudenza. E’ rappresentativo lo scontro diretto tra il re Nicio e
l'innamorato Uranio negli Antivalomeni, dove Nicio avverte:
Amore, Uranio,
E cieco, & divien cieco chi si lascia
Appannar da lui gli occhi, com'hai fatto
Tu inson ad hora.
E Uranio controbatte: «E come / Dite ch'Amore à me hà appannato gli occhi, / Cosi gli appanna
voi ira, & disdegno.» (Ant, III. 4) Sempre per analogia, i tre personaggi centrali richiamano
l'attenzione su un luogo comune del neoplatonismo e dell'aristotelismo cinquecentesco,
secondo il quale i tipi umani vengono determinati dalla varia proporzione fra tre elementi
costitutivi: l'ira, la concupiscenza e la ragione. La razionalità non appartiene alla gioventù
dominata dalle passioni sfrenate e a chi si lascia dominare dall'ira. La ragione è invece un'ideale
che appartiene alla maturità, l'ideale dell'eroe misurato, che raramente viene incorporata dal re.
Nei drammi giraldiani l'unico valore saldo è la prudenza, mentre ogni specie di passione viene
condannata. Ci si potrebbe quindi aspettare di vedere spesso rappresentato un consigliere
vittorioso tuttavia la ragione dei consiglieri esce raramente vincitrice negli scontri con i re. Si
tratta senza dubbio di un'eredità senecana, rafforzata dal pessimismo quasi realista che l'autore
169
Questo tema si rivela anche come una problematizzazione moderna dei protagonisti, poiché l'autocontrollo è
un'attività che richiede lo sdoppiamento dell'individuo fra una potenza mentale che comanda e una natura
subordinata costretta ad obbedire.
179
condivide con la maggior parte di coloro che si occuparono della cortigianeria nella seconda
metà del '500.
Accanto all'introduzione del mediatore, i conflitti delle tragedie vengono "disturbati" da
personaggi che non sanno decidere da quale parte stare, e dall'introduzione di un'infinità di
figure che non c'entrano nella necessità dialettica della collisione. Questi personaggi superflui
per lo svolgersi del dramma che, quando non disturbano il conflitto, servono però ad illustrare
l'ambiente, e sono caratteristici del dramma naturalista e dell'epica.170 Le tragedie doppie e
miste del nostro autore contengono invece molte figure che servono solo a creare opposizioni di
qualità, rafforzando in tal modo i caratteri degli altri personaggi, e anche figure che sono
puramente tautologiche.171 Tuttavia, eccezione fatta per il tiranno nell'Orbecche, i sovrani
giraldiani non sono circondati da figure che sono pure estensioni del suo potere e volere, e
hanno vicino a sé cortigiani i quali si oppongono alla loro reazione crudele e che, quindi,
attenuano il conflitto. Lo stesso discorso vale per l'eroina che entra in opposizione, non solo
con il suo antagonista e i suoi uomini, ma anche con i membri del suo stesso gruppo.
Nell'Epitia, sono le donne solidali con l'eroina e il coro ad opporsi al suo piano di uccidere
Iuriste per vendicare il fratello; analogamente, nell'Euphimia sono le donne del coro e la nutrice
a criticare l'eroina per la sua esasperata fedeltà nei confronti del marito infido, portando così la
fabula a una lieta conclusione. Grazie a queste figure secondarie, all'eroina non viene concesso
di morire e neppure di scontrarsi direttamente con il suo antagonista.
5.3.4 L’ambiente cortigiano e la fuga
E' indubbbio che l'impiego della figura del cortigiano e l'inserimento del vasto repertorio di
figure secondarie è una conseguenza del mescolamento dei generi nella tragedia di Giraldi. Con
l'attenzione data alla situazione esistenziale dei vari cortigiani l'autore combina l'assoluto dei
destini eccezionali dei protagonisti tragici, contaminandolo con il relativo dell'esistenza
quotidiana dei personaggi secondari. In questo modo due gruppi si confrontano nel dramma.
Abbiamo visto che Giraldi difendeva il grande numero di attori nei suoi drammi, in base al
bisogno di verosimiglianza, al bisogno cioè di adattare il materiale ai tempi del poeta: è il
desiderio di creare uno spettacolo in cui il pubblico si possa riconoscere, e non un dramma
170
Lukács sostiene infatti che la tragedia di Shakespeare riesce a creare una dialettica tragica proprio perché evita figure
superflue, come la regina Lida negli Antivalomeni: «Had he provided either Lear or Gloster or both with a wife, which an
epic writer certainly have had to do, he would have had either to weaken the concentration round the collision (if the
conflict with the children had produced a conflict between the parents) or the wife would have been a dramatic tautology
- she could only have served as a diminishing echo of her husband.» (Lukács, 1964:107)
171 Nell'Orbecche, i due cortigiani malvagi e adulatori del tiranno costituiscono, in realtà, una figura unica; lo
stesso vale per la figlia dell'eroina nella Selene e per una grande parte dei cortigiani, i quali servono solo a
rappresentare l'ambiente di corte.
180
eroico fra virtù astratte, a portarlo a questa soluzione.172 Quindi, per quanto concerne la
tragedia di Giraldi, non vale quel luogo comune che considera una delle distinzioni principali
fra commedia e tragedia: il rappresentare cioè la prima i personaggi nel loro contesto sociale,
mentre invece la tragedia metterebbe in rilievo l'individuo singolo; la messinscena della corte
tende quindi ad inglobare maggiormente nel dramma dei protagonisti tutti i personaggi che
vengono inevitabilmente coinvolti nel conflitto principale.
E' l'ambiente della corte collaborare al lieto fine dei drammi. E' questo un contrasto
palese fra l'Orbecche e l'Altile, prima tragedia a lieto fine. Mentre nell'Orbecche i cortigiani che
circondano il tiranno sono incapaci di influire sull'azione, limitandosi all'ingenuo consigliere
Malecche e ai due malvagi adulatori, nell'Altile si trovano cortigiani che agiscono influendo
sull'andamento del dramma. Difatti, nel primo dramma a lieto fine si trovano le tre categorie
fondamentali di figure cortigiane: l'intrigante malvagio, il cortigiano fedele, il quale tenta di
convincere il sovrano a cambiare l'idea, e infine il servo di Norrino, che agisce in opposizione
agli ordini del sovrano. I cortigiani, come Honorio negli Antivalomeni, che hanno giurato
fedeltà, non possono agire se non per mezzo della persuasione; e se questa non funziona, sono
costretti a eseguire gli ordini del loro signore. I personaggi che si trovano su un gradino
inferiore nella gerarchia cortigiana, sono personaggi “comici”, e quindi sono più liberi,
assumendo funzioni più determinanti nello svolgimento delle azioni drammatiche. Per questa
ragione il vecchio cortigiano Emone negli Antivalomeni, che non si sente vincolato dalla fedeltà
al nuovo re, scatena l'intrigo scambiando i neonati, mentre il servo Bruno nell'Altile può salvare
la vita di Norrino e nell'Epitia si giunge ad un epilogo positivo grazie alla disobbedienza del
Capitano.
Il dramma giraldiano anticipa quindi la tragedia francese in quanto rappresenta lo scontro
dei doveri del servitore pubblico con la sua coscienza privata: esso presenta infatti spesso
consiglieri che si trovano a compiere un servizio simile a quello del Cortigiano del Castiglione,
sforzandosi di mitigare gli eccessi di un re testardo in preda all'ira, con lo scopo di riprodurre
uno stato di equilibrio. Ma, come si è visto, dimostrano anche come riuscire in questo sia
difficilissimo, perché il consigliere si trova spesso di fronte a signori che «son tanto corrotti
dalla mala consuetudine e dalla ignoranza» che è impossibile "dar loro notizie della verità"
(Cort, IV. 9). Il problema viene affrontato nel secondo libro del Cortegiano, dove si chiede a
Federico Fregoso di rispondere «se un gentiluomo, mentre che serve ad un principe, è obligato
nel ubidirgli in tutte le cose che gli comanda, anchor che fossero disoneste e vituperose».
Stando al Fregoso, il dovere del cortigiano è di «ubidir al signor suo in tutte le cose che a lui
sono utili ed onorevoli, non in quelle che gli sono di danno e vergogna». Il cortigiano non deve
mai rendersi «ministro della vergogna del signore», ma è anche vero che "molte cose paiono al
172
L'importanza di questi personaggi minori può anche essere vista come una parte della promozione didattica e
morale del popolo e della piccola borghesia, che Lebatteux nota pure per la novellistica di Giraldi (Lebatteux,
1974:282).
181
primo aspetto bone, che sono male, e molte paiono male, e pur sono bone. Però è lecito talor
per servicio dè suoi signori ammazzare non un uomo, ma dieci mila..." (Cort, II. 23). I
cortigiani legati dalla fede non possono agire liberamente, ma hanno comunque sempre il
dovere di tentare di fermare il signore dal commettere crimini vergognosi. Nel Castiglione
viene descritto un uomo ideale, proprio da manuale, privo di fragilità, insicurezze e istinti
irrazionali e personali; mentre sono proprio questi aspetti a venir drammatizzati nel Giraldi. E’
sintomatico che, quando il dilemma di Fregoso ritorna nel trattato di Giraldi sulla cortigianeria,
la soluzione diventi la fuga:173
Ma se porterà la sorte (il che non credo io che possi avvenire in corte di onesto, e onorato
Principe) che il signore in cosa disonesta il ricerchi, non voglio ch'egli gli contradica....
Ma finga di voler pensare, come far possi quanto egli desidera, e, toltosi da lui, di subito
gli si levi di corte. (DGN, VI)
Annota Maestri: «L'idea della fuga è una costante di questo trattato, avanzata con la stessa
cautela con cui anche si suggerisce che nella corte è meglio non entrare» (Maestri, 1989:94). La
fuga, motivo ricorrente anche nei discorsi delle figure cortigiane delle tragedie di Giraldi, può
sembrare un elemento romanzesco e anche comico, essa rivela anche un conflitto del quale
l’unico sviluppo è quello di evadere.174 E' iniziata quella fuga dalla società di corte che
costringe l'uomo a vivere tradendo se stesso; è questa stessa fuga che troverà la sua espressione
dissimulata nei drammi pastorali nella seconda metà del '500 e nella rifioritura mitologica
dell'età d'oro. I cortigiani giraldiani, invece, devono accontentarsi di poter lamentare la propria
infelice condizione di vita sulla scena, come fa Olimpo nella Cleopatra, riprendendo la solita
similitudine nautica:175
Chiunque più, senza servire altrui,
Menar da sè vita honorata, e queta,
Molto erra, e molto. se dal desio folle
Di haver favore appo i Signori, lascia
Il suo tranquillo stato; e nel mar entra
De le corti, e si dà à servir, fra questi
Ravolgimenti d'onde, à Re, à Signore,
Che non è sì turabato l'Oceano,
Quando da varij venti egli è commosso,
Quanto sono quei, che ne le corti sono, (Cle, IV. 5)
173
Ricordo, per correttezza, che poco prima della domanda di Fregoso, anche nel Cortegiano (II. 22) si legge:
«Ma se 'l nostro cortegiano per sorte maligna sua si troverà essere a servicio d'un che sia vicioso e maligno,
subito che lo conosca, se ne levi».
174 Nell'Euphimia, la nutrice decide di voler scappare dalla corte, perché non vuole «esser presente / A spettacol
sì fier» (Eup, III. 2), e nello stesso dramma anche un capitano fugge, seguendo la nutrice e l'eroina per salvare la
pelle e per servire una signora più degna. Ma non lo fa prima di essere costretto, ed è sempre l'onore a essere il
peso decisivo sulla bilancia della scelta: «Io mi vorrei poter quivi levare / Con honor mio, che non sarei costretto
/ Ad esseguir commision si fiera», egli esclama nel secondo atto posto di fronte agli ordini crudeli del tiranno;
ma obbedisce finché gli è possibile.
175 Crf.: Ottavia, 384-394.
182
5.3.5 La lezione del coro
Nonostante l’operare dei due cortigiani fedeli, la conclusione lieta Negli Antivalomeni non
appare solo un loro merito, ma pare imposta dalla divina Provvidenza. E' la notizia della morte
del Re di Scozia a convincere finalmente il re a perdonare gli amanti e gli intriganti a corte.
Dice Honorio:
Hà prevenuto
Ogni consiglio il Cielo, poi che in questo
Disturbo, cosi grave, in un momento
Vi hà fatto dar così lieta novella,
Per levarvi ogni noia, & in sicuro
Porvi ciò, che potea travagli darvi. (Ant, V. 3)
Mediante questa replica si cerca anche di far comprendere al pubblico che il lieto fine è pura
grazia divina. Come aveva avvertito il prologhista:
E che quella infinita alta bontade,
Che con gran providenza il tutto regge,
Mirando con giusto occhio i casi humani,
In sì grande incostanza de le cose,
Non manca mai di favorire il giusto,
Usi pur quanta usar sà astutia, e inganno
Chi, tralasciato il giusto, col suo ingegno,
Si pensa di acquistare utile, e pregio,
Perche vedrete tal giunto a l'estremo,
E la secure haver quasi sul collo,
Che, in quello istesso punto, che la morte
Gli era dinanzi à gli occhi, sia serbato
A le allegrezze, e tal, ch'era nel colmo
De le letitie, in quanto occhio si gira,
Post'esser ne l'abisso de gli affanni.
E' essenziale la dicotomia fra il coro e il consigliere nella struttura morale del dramma; e
l'ironia è causata dal fatto che il cortigiano di Giraldi rimane chiuso nella sua fede nelle
possibilità dell'uomo di governare le forze del mondo. E' il cortigiano a credere nel potere
dell'astuzia, nella retorica e nel valore empirico degli exempla, i quali possono aiutare l'uomo a
capire la politica, e perciò, a prevenire la storia. Dice Honorio:
I successi del Mondo, d'hora, in hora,
Mostran come si debba regger l'huomo
Nel labil corso de la vita humana.
Et se l'huom con prudenza ben scorgesse
L'avenire, e il passato, e da le cose
Passate del futur pigliasse essempio,
183
Assai meno erreria discorso humano. (Ivi, II. 3)
Poco prima il coro aveva invece professato che:
Sì, ch'à l'huom poco vale
Disegno far, perche rimanga fermo
Quel ch'ei fra se dispone.
Perche vi s'interpone
La incostanza del Mondo, e il face infermo,
Quindi'è ch'io mai non formo
Nè in piacere, nè in dolore il mio pensiero,
Ma sempre temo, & spero,
E in ogni cosa la inconstanza affermo.
Ha luogo uno spacco quasi ironico tra il coro e la prospettiva particolare dei personaggi.
Quest'ironia si riferisce, in fin dei conti, anche al progetto e alla retorica del dramma esemplare.
Essa è la constatazione della difficoltà di far valere la prudenza in un mondo incostante
dominato dalle passioni e dall'arbitrarietà; per questo l'uomo deve sempre introdurre l'elemento
dell'insicurezza, del caso, in ogni calcolo razionale che fa. Ciò implica pure un deciso
allontanamento dalla fiducia umanistica, verso una visione più pessimistica dell'uomo, il quale
troppo spesso si crede demiurgo senza tenere conto del piano impercepibile del giudice
supremo, che entra e conclude i drammi indipendentemente dalle conclusioni delle discussioni
e dal volere dei sovrani. Al di sopra del re drammatico si presenta l'unica vera sovranità, quella
divina, che entra in scena come supremo giudice, come il solo creatore della storia. La tragedia
a lieto fine di Giraldi contiene la provvidenza divina che punisce i colpevoli e premia gli
innocenti: negli Antivalomeni l’infedele Nicio non viene punito per la sua usurpazione del
trono. Morrison aveva messo in rilievo l’ambiguità etica della conclusione del dramma,
un’ambiguità più caratteristica della commedia, che non la tragedia (basta ricordare la finale
della Mandragola). Le conseguenze tremende dell’infedeltà e dell’avidità ha invece luogo
nella Selene con la figura di Gripo. Qui, invece di soffermarsi sull’infedeltà di Nicio, il dramma
pone tutto il peso sull’exemplum positivo di Emone, e sulla sua lealtà nei confronti del suo re
morto.
184
5.5
LE ANTITESI ESEMPLARI: L'EUPHIMIA
L'Euphimia, composta nel 1554 o nel 1555, si trova tra i drammi di Giraldi che più
marcatamente rivelano una retorica esemplare. In questo dramma, che è basato sull'ultima
novella dell'ottava deca degli Ecatommiti, «nella quale si ragiona dell'Ingratitudine», i valori
etici e sociali sono rappresentati tramite il costante raffronto di figure polarizzate, dove la
malvagità di un tiranno di bassa origine viene opposta alle virtù delle figure nobili. Il ruolo
centrale dell’ingratitudine in questo dramma è stato spesso, e a ragione, legato alla biografia di
Giraldi, in quale proprio nel 1554 si trovava in una polemica amara con il suo discipolo Pigna,
il quale aveva contraccambiato i favori datigli, con accusare il suo maestro di plagiarlo nel suo
Discorso sul romanzo.176 La presente lettura del dramma, pur riconoscendo le tracce
biografiche nel tema dell’ingratitudine, sarà invece più interessata alla struttura e alla retorica
esemplare del dramma.
Il primo atto della tragedia è interamente occupato dalla narrazione dell'antefatto.
L'eroina si lamenta con la nutrice di aver preso per marito il «vil oggetto» Acharisto,
opponendosi così al volere del padre, che avrebbe voluto sposarla a re Philone. Acharisto aveva
perfino complottato per uccidere il vecchio re, ma era stato liberato dalla prigione e salvato da
Euphimia. Dal familiare del re Philone, spia nel palazzo di Acharisto, si viene a sapere che
questi ha progettato di liberarsi di Euphimia accusandola falsamente di adulterio, per poter
essere libero di stringere un altro matrimonio politico; il familiare racconta anche che Philone
ha armato i suoi uomini per salvarla. Nel secondo atto un familiare di Acharisto cerca
inutilmente di persuaderlo a cambiare idea e a salvare la vita all'eroina, la quale accetta invece
la condanna a morte. Un cortigiano riesce a convincere Acharisto a prolungare per tre giorni la
vita di Euphimia, affinché essa possa prepararsi a morire. Giunone entra in scena in apertura
del terzo atto e rassicura il pubblico che interverrà per salvare l'eroina, per unirla a una
gentil'alma. Nel frattempo Acharisto cambia idea e decide di far uccidere la moglie il giorno
stesso, però questo non avviene perché nel quarto atto Euphimia fugge obbedendo agli ordini
della statua di Giunone. Nell'ultimo atto un messo di Acharisto riferisce che l'esercito è stato
sconfitto dai cavalieri di Philone, e che Euphimia e la nutrice hanno trovato rifugio nel tempio
176
Sulla delusione di Giraldi nei confronti del suo discipolo Giambattista Niccolucci (Pigna) e la sua
rappresentazione in Euphimia, si veda l’introduzione di Irene Romera Pintor alla sua edizione della tragedia
(2008). Nel Carteggio di Giraldi si trova la sua lettera a Pietro Vettori, datata aprile 1554, nella quale racconta la
sua profonda delusione per il comportamento di Pigna: «[…] perché Giovan Battista Pigna, mio scolare da
fanciullo insino a questa età, ed il quela io addottorai con una onorevole orazione, è stato così poco grato e così
pieno di ambizione, ch’avendo io composta questa opera per lui e datagliele, gli la si ha attribuita a sé e poscia
ha voluto dare a credere al mondo che io l’abbia tolta a lui», Carteggio, 264,
185
di Giunone. Un alfiere narra il duello tra Acharisto e Philone che si conclude con la morte del
tiranno. Ora il Senato desidera Philone sul trono, ed egli acconsente solo a condizione di
sposare l'eroina, la quale infine si fa convincere dal coro.
Oltre ad essere dominato dall'antitesi, il dramma è interamente basato sulla struttura del
triangolo erotico, formato dai tre personaggi principali: l'eroina, Acharisto e Philone. Nel primo
atto dedicato alla presentazione delle coppie antitetiche la nutrice oppone le virtù di Euphimia
alle qualità negative del marito. L’eroina è una «Alma gentil, che non credo che mai / Fusse più
fermo amor, fede più ferma / Di quella di costei verso il marito», mentre Acharisto è uno
scelerato core, un ingrat'huom (Eup. I. 2). Nella terza scena dove, attraverso un familiare,
avviene la presentazione del re Philone, sono invece i valori sociali a dominare nelle antitesi.
La prima oppone Euphimia al marito:
Che non può tolerar la nobiltade
Di così chiara Donna il suo cor vile,
Per lo vil sangue onde il malvagio è nato.
Come ha affermato Lucas, in questo dramma si insiste non solo sull’etica ma anche sui stati
sociali, che sono stati invertiti (Lucas, 1989:139). L'altra antitesi esemplare della tragedia è
costituita da re Philone - che vuole dimostrare «ch'un vero amore, una sincera fede / Di
generoso cor, nato altamente, / Ferma si stà» e dall'ignobile Acharisto, «vilmente nato» (Eup, I.
3). La marcata opposizione tra i due uomini illustra chiaramente la connessione fra amore e
nobiltà: Philone è un cavaliere costante e Acharisto, exemplum di «quanto instabil sia la fé,
l'amore / D'huom vile, amato da polcella illustre, / Benché poscia sia alzato ad alto grado» (Eup,
I. 3). l dramma è costruito sulla rappresentazione dei conflitti dei personaggi del triangolo, su
due contrasti principali: Euphimia vs Acharisto, Acharisto vs Philone. Ma prima
dell'accentuarsi di questi conflitti, il secondo e il terzo atto servono, principalmente, a
rappresentare i caratteri antiteticamente esemplari del tiranno e dell'eroina.
5.5.1 Un principe nuovo
L’impostore Acharisto, villano machiavellico, è uno dei personaggi più negativi nel corpus
drammatico di Giraldi. E’ lui a incarnare il peccato dell’ingratitudine in quanto ripaga la
generosità della moglie ingenua, con la crudeltà.177 E’ interessante soffermarsi sugli scontri tra i
consiglieri e i tiranni perché Giraldi li usa per vivisezinare la logica del malgoverno. Il secondo
atto si apre con una scena in cui il consigliere affronta il tiranno, cercando di salvare l'eroina.
Acharisto, ben consapevole della propria ingiustizia, afferma che la sua decisione è
irremovibile, prima ancora che il consigliere abbia profferito una parola:
177
Acaristo significa ingrato in greco (Romera Pintor 2008: xxi).
186
Non bisogna, che tu cerchi d'indurmi
Ad aver di costei pietade alcuna,
Ch'io son disposto à farle dar la morte. (Alt, II. 1)
Il consigliere allora ricorre subito alla modestia, al confessum, solitamente messo fra parentesi
nei testi tragici: «(perdonatime, i vò da fedel servo / Dirvi quel, che mi ditta la mia fede)»; e
poco più avanti: «(Perdonate s'io dico il parer mio)» (II. 1).178
Il linguaggio del tiranno è invece disseminato di antitesi e di ossimori, quasi a rifletterne
il suo paradossale potere: lui farà «la più pudica donna in terra adultera», perché ai re «sta il far
colpevol l'innocente, / E mostrar non colpevol chi hà peccato». Acharisto ricorre alla litote
quando parla della regina: chiede ironicamente se «non hà da curar'altro / Il Re del Cielo, che
pigliarsi cura / Di questa feminuccia», mentre i pianti dell'eroina diventano «quattro
lacrimuccie» simulate (IV. 1, 6). Con quest'ultima replica egli diventa vittima della propria
retorica, la quale, con la terminiologia di Grice (Grice, 1978)179, è costituita da un’implicatura
conversazionale, cioè una rottura del contratto tra i partecipanti al dialogo. Ma Acharisto non
riesce nel suo intento, perché il consigliere, a sua volta, ne adotta un’altra strategia: egli assume
le parole del tiranno alla lettera, cogliendone anche l'occasione per parafrasare il Vangelo, dove
si affrema che gli ultimi saranno sempre i primi. La litote, di conseguenza, aumenta il valore
del soggetto: «V'ingannate, Signor, non cadde fronda, / D'arbore in terra senza il voler suo». Il
consigliere utilizza poi il luogo comune del timore di parlare, ma viene tranquillizzato da
Acharisto, che considera comunque gli argomenti del consigliere ridicoli, e quindi, inoffensivi:
«Dì ciò che ti par di dire, / Che son sempre per ridermi di quanto / Tu mi dirai,» (Alt, II. I).
Scoperta la vanità delle sottigliezze retoriche e delle dimostrazioni regionevoli, il cortigiano
178
Ricordo che nelle edizioni cinquecentesche la parentesi è spesso surrogabile con la virgola.
A questo topos d'argomentazione l'oratore ricorre per ottenere simpatia e per affermare la propria
affidabilità presso l'ascoltatore; egli si presenta cioè come un altruista, disposto a correre persino rischi
personali per dare consigli. Va anche ricordato che per il cortigiano del Castiglione la modestia è un
aspetto della sua elevazione morale, un abito, quindi vicina all'ironia socratica, così come essa viene
descritta da Aristotele nella Retorica. Il Tasso presenta invece una visione diversa, più pragmatica,
quando nel Malpiglio ovvero della Corte afferma che il cortigiano deve nascondere una parte delle
proprie abilità in modo da evitare di essere oggetto dell'invidia, citando Socrate come esempio.
Un’identica visione traspare anche nel Giraldi, nel discorso sul servire del cortigiano (DGN, I). Lo
sminuire la propria importanza non appartiene solo alle formule di cortesia; si tratta di un efficace
veicolo retorico perché serve a far sembrare inoffensiva la propria retorica, e ad abbassare la guardia
dell'interlocutore, in modo da poterlo colpire più sottilmente. E, in realtà, si tratta di un arteficio
retorico che demarca la superiorità dell'utente; nel rinascimento era infatti comune collegare l'ironia
socratica con la diminuizione dei propri meriti.
179 Mi riferisco alle riflessioni formulate da Paul Grice sulla conversazione quotidiana, nel celebre
saggio Logica e conversazione. L'analisi diGrice pone al centro le "implicature conversazionali" - i
processi con i quali il locutore può implicare qualcos'altro di ciò che realmente dice. Per intendere le
implicature conversazionali è necessario tenere presente il contesto dell'enunciazione. Tesi principale
del Grice è che la comunicazione linguistica quotidiana presuppone il principio di cooperazione - un
accordo condiviso da tutti i locutori -, in base al quale viene promesso uno scambio il più efficace
possibile. L'imperativo del Grice è: «il tuo contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo
stadio in cui avviene, dallo scopo o orientamento accettato dallo scambio linguistico in cui sei
impegnato». Egli nomina poi, memore di Kant, le quattro categorie che fondano il principio di
cooperazione (Grice, 1978:204-5).
187
decide di usare il medesimo linguaggio del re; minacce e intimidazioni. Di fronte al sovrano
che conosce unicamente il linguaggio intimidatorio, tente di suscitare timore, e chiama in causa
i due spettatori esterni alla corte: Dio e il popolo:180
Potete far ciò che vi è a grado, poi
Che sete quì Signor, ma vi ricordo
(Perdonatime, i vò da fedel servo
Dirvi quel, che mi ditta la mia fede)
Che sopra voi maggior signore havete,
Che mira con giusto occhio i fatti humani; (Eup, II, 1)
Più che a un Dio-spettatore, il consigliere di Acaristo si rivolge a un Dio-giudice. Il timore del
giudizio divino, però, non smuove affatto il tiranno Acharisto, che anzi precisa seccamente: «tu
guardi il Cielo, & io miro la terra, / E so , ch’essendo qui Signore, i’ sono / Di quella auttorità
nel regno mio, / Ch’è Giove in Cielo» (Eup, II, 1).
Non a caso, dopo aver minacciato con lo sguardo divino, il consigliere espone il pericolo
rappresentato dall'altro destinatore, quel terreno, «che veggendo / Il popol giunta è tanto stratio
questa / Donna innocente, ... impeto poria contro voi fare»; e, «Restare i' veggo questo popolo
tutto / Pien di doglia incredibile, veggendo / Giungere à fin cotanto indegno questa / Donna» (II.
1 e 6). Il popolo è però uno spettatore che, a differenza di Dio, ha una vista limitata, e può
venire ingannato dalla semiotica del potere, in quanto vede solo una parte della realtà. Scrive
Machiavelli:
A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è
bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo, che, avendole e osservandole
sempre, sono dannose, e parendo di averle sono utili; come parere pietoso, fedele, umano,
intero, religioso, ed essere; (Il Principe XVIII)
Di nuovo, si nota che i consiglieri e i sovrani di Giraldi concordano sul fine, che è quello di
dare al popolo un'illusione, una rappresentazione conveniente al sovrano; il disaccordo è
costituito dal mezzo più efficace per raggiungere tale scopo. Per cui, introducendo lo spettatore
divino, il cortigiano opera un accrescimento del fine: infatti, non si tratta solo del potere regale
impersonale - il secondo corpo del re di cui parla Kantorowicz - ma anche del sovrano quale
individualità che, a sua volta, verrà giudicata dal Dio. La clemenza diventa così la soluzione
migliore, perché oltre ad assicurare meglio il potere, rappresenta la vera manifestazione della
pietà cristiana. Ora, Greimas sottolinea che la persuasione, come sfida, è un contratto che
implica una complicità oggettiva fra manipolatore e manipolato, i quali devono accettare di
giocare lo stesso gioco e di condividere lo stesso codice d'onore:
180 Il motivo dello spettatore divino ricorre spesso anche nei cori dei drammi di Giraldi (Crf.: Arr, cori I
e III; Eup, cori II, III e V).
188
Gesù fornisce un altro esempio che può servire da contro-caso. Se lo schiaffo di cui
parlano i Vangeli è una provocazione e una sfida, non ci sono apparentemente che due
risposte possibili: o agire rendendo lo schiaffo (e affermare così un poter-fare), o non fare
niente (e accettare così una constatazione di impotenza). Ora, Gesù adotta una soluzione
deviante: presenta la guancia sinistra. Si tratta non solamente di un rifiuto a "giocare lo
stesso gioco" ma, al tempo stesso, della proposta di un altro codice d'onore. (Greimas,
1985:221)
Secondo il modello semiologico lo schema narrativo della manipolazione è stato suddiviso da
Greimas in tre parti sequenziali: la manipolazione, l'azione e la sanzione. Nella fattispecie, il
cortigiano mira a dimostrare che egli e il popolo condividono lo stesso codice di giudizio, un
compito per sé difficile, proprio perché si tratta di segni, sempre arbitrari. Il re deve costruire il
simulacro della parvenza. Per questa ragione le discussioni fra i cortigiani e il re si spostano su
quali principi siano indici della regalità. Come nel gioco retorico del Principe sul 'bene', nei
drammi di Giraldi 'l'onore' diventa un aggettivo più che un sostantivo, dove la sua arbitrarietà e
fragilità sono causate dall’essenza retorica, o meglio, dal fatto che tale valore non è mai stabile,
ponendosi bensì sempre come oggetto di interpretazioni contrastanti e dipendenti dalle varie
istanze di giudizio. Tale valore trasforma le discussioni sulla questione della colpa in dibattiti
sui codici e sulla loro stessa retorica. La persuasione del cortigiano risulta essere allora una
combinazione fra l'intimidazione (per mezzo delle minacce a Dio), e la tentazione (quando egli
esprime i vantaggi che il perdono recherebbe al re).181
Nei drammi rappresentano il mondo della corte e non solo - come nei drammi classici e
storici fiorentini -, il rapporto del sovrano con lo Stato. Ma il popolo non è assente e, non a caso,
in questo dramma che presenta un re impostore esso assume una particolare rilevanza. Ciò
avviena anche negli Ecatommiti, per esempio nella novella V, 10, del tiranno Riccio Lagnio
che suscita il furore del popolo e viene destituito dalla signoria.
In Giraldi la funzione del popolo è positiva, nel senso che il suddetto costituisce una
minaccia per qualsiasi sovrano che erri nella condotta politica; certamente il re non viene
considerato rappresentante dei sudditi, ma deve comunque tenere conto del popolo e saperlo
manipolare. Nell'Orbecche la minaccia del popolo fa quindi parte dell'argomentazione del
consigliere il quale, nello scontro con il tiranno, si chiede se Oronte o il re straniero Selino
siano più adatti a reggere lo Stato; avverte Malecche: «Oh se sentito aveste, sir, com'io / Quanto
abborisce questo il popolo tutto!» (Orb, III. 2).182 Nel Principe Machiavelli raccomanda al
181
Il consigliere di Acharisto ripete quindi gli argomenti di altri consiglieri che lo hanno preceduto
nella produzione drammatica di Giraldi, come Mecenate nella Cleopatra che si schiera dalla parte della
clemenza riprendendo i consigli che Seneca dà a Nerone, sia dal Della Clemenza che dall'Ottavia (Cle, II.
5). Lo scopo di Mecenate è di dimostrare il valore della clemenza , ma la sua razionalità lo allontana
dagli ideali e dalle illusioni umanistiche; egli si batte contro l'uccisione di Antonio perché la considera
inutile e dannosa per il suo signore.
182 La stessa situazione si ripete negli Antivalomeni, dove nell'ultima scena il consigliere Honorio cerca
di dissuadere il re dall’uccidere la vedova, la figlia e il cortigiano del suo precessore. Nicio, principe
nuovo e impostore, vuole invece punire i ribelli perché ritiene che "questo proprio sia / Stabilire il
mio Regno eternamente", dando così un esempio per il futuro perché: "Popol che vede, che il Signor
189
sovrano di suscitare timore, ma avverte contro l'odio del popolo: «Debbe, nondimanco, el
principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l'odio; perché può
molto bene stare insieme essere temuto e non odiato» (Il Principe, XVII. 3). Similmente, anche
in Principe, XIX: «Concludo, pertanto, che uno principe debbe tenere delle coniure poco conto,
quando il popolo li sia benivolo; ma, quando li sia inimico e abbilo in odio, debbe temere
d'ogni cosa e d'ognuno». La rilevanza data al popolo è senz'altro anche dovuta all'influsso di
Seneca, il quale aveva affermato che per il sovrano non esiste protezione maggiore dell’amore
dei sudditi (Della Clemenza, I. xix). Inoltre, nell'Euphimia il consigliere mette in guardia
Acharisto (come Seneca, nell'Ottavia, fa osservare a Nerone che il popolo non tollererebbe le
nuove nozze): «che troppo horribil cosa / Pare al popolo un Re, che si dia à fare, / Spinto da un
reo desire, opera ingiusta/ Giunta con crudeltà» (Eup, II. 1). Nell’Ottavia è il popolo a
determinare una svolta nell'azione drammatica con la rivolta contro Nerone, mentre in
conclusione dell'Euphimia, il Coro convince la regina a sposare il nobile Philone perché il
popolo detesta Acharisto quindi, «se non facea questo/ A rischio andava, che il popolo tutto/
Non si levasse, e indi non nascesse/ Qualche tumulto, a universal ruina». In un articolo,
Giannina Solimano si sofferma sul concetto di popolo nella Cleopatra e osserva: «non
troviamo nella Cleop. il motivo conduttore del Clem. senecano, cioè il rapporto attivo tra
sovrano e popolo, rapporto che si concentra nella tradizionale metafora della testa e delle
membra, dell'anima e del corpo» (Solimano, 1981:405). Infatti, la metafora a infomrare il
rapporto tra sovrano e popolo in Giraldi è quella del padre e figli. nonostante la funzione
positiva, il popolo viene sempre rappresentato come una massa indistinta che minaccia di
colpire il re; esso cioè non entra nell'universo chiuso della corte tragica, non gli viene mai data
la parola.
L’Euphimia è piena di citazioni machiavelliche che caratterizzano questo tiranno, il cui
nome simbolico indica la condotta politica; ed anche il monologo di Acharisto è costituito dai
soliti luoghi comuni e dagli exempla sul potere del timore e sul fine che giustifica i mezzi.183
vendetta / Fa de gli oltraggi fattigli, comprende / Quanto astener si dee da fargli ingiuria / Et ciò gli
Imperi ferma" (Ant, V. 3).
Lo stesso dilemma si rispecchia nella tragedia anche in un ambito più ristretto: quello familiare, dove
è la Regina a svolgere il ruolo del consigliere implorando il marito di essere mite nei confronti dei figli:
"Sapete, Sir, che mai non fù biasmato / Il regger con pietà le cose humane, / Et se si brama in un
Signor, che regga / Il popol con pietà non con asprezza, / Quanto più bramar ciò si dee ne padri /
Verso i figliuoli lor" (Ant, II. 1).
Gli Antivalomeni si conclude invece lietamente, perché il sovrano ascolta il consigliere che, con Seneca,
avverte: "Si dee considerar, che ciò non faccia / Il popolo infiammar contra di voi; / [...] / Però
devendo voi attender solo / A' confirmarvi il Regno, come havete / Già cominciato, e con prudenza
molta, / Et essendo per prova manifesto / Che la fortezza de Reami sono / I cori di color che son
soggetti." (Ivi, V. 3)
183 È una situazione che conosciamo dall'Orbecche, dove Sulmone rivela il proprio essere e i suoi
progetti al pubblico subito dopo il congedo dal consigliere; come Sulmone, anche Acharisto esordisce
con un monologo, dove esprime ironicamente il disprezzo per la scarsa capacità persuasiva del
consigliere:
"Il timor vano, c'hà cercato pormi / Questo semplice, è proprio un voler fare / Paura à me, come à
bambin la balia, / Quando per quetar lor, fa baco, baco" (Eup, II. 2).
190
Egli è un esempio di «quelli che per scelleratezze sono pervenuti al principato», e la sua avidità
è una conseguenza della sua hybris sociale. Acharisto è una caricatura del Machiavelli
misinterpretato, poiché l’etica del dramma non rigetta affatto il realismo pragmatico delle sue
tesi. Una prova può essere costituita dal discorso dei consiglieri di Corinto sulla situazione del
nuovo signore:
la novitade
De gli stati fà far cose à Signori
Sian boni pur, sian quanto voglian giusti,
Che non fanno poi, che confirmati
Sono nel Regno, e come è da lodare
Novo Signor, che tenga gli occhi aperti,
E cerchi servar sè, servar lo stato,
Dando gran pena, dando agro castigo
A chi nascosto gli apparecchia insidie, (Ivi, V, 2)
La prassi politica di Acharisto non è però rivolta alla conservazione dello Stato, presentandosi
invece diretta dall’avidità personale che nell'antefatto lo ha spinto a tentare di uccidere il
vecchio re, e che ora lo muove ad agire in modo analogo con la moglie, per poter sposare la
principessa d'Atene. «Che dee far' altro un re - si chiede - che cercar sempre / Di far maggior lo
stato, di acquistarsi / Maggior potenza?» (Ivi, II. 2). Acharisto, del resto, ritiene che sia l'oro a
creare il re:
Che l'oro è quel che riputar fà l'huomo
L'aver voltati a questa via i pensieri
Signore essere mi ha fatto di Corinto.
Fin ch'io seguì quel, che volea ragione,
Hebbi Fortuna à miei desir nemica,
Disse Lisandro, ch'ove non giungea
Il cuoio del Leon, vie si deveva
La pelle aggiunger d'una volpe. Io dico
Ch'ove giunger non puote la vitute
Cercar tu dei, che vi ti meni il vitio.
Che, quando tu acquista la potenza,
Il vitio di virtù tiene sembianza. (Ivi)
Nella letteratura medievale il criterio di distinzione fra un governo legittimo e un governo
tirannico è prevalentemente morale, ed è legato all'individualità del sovrano.184 Bisogna quindi
Lo stesso rifiuto ironico delle parole del consigliere avviene per bocca del giovane principe Uranio
negli Antivalomeni, che dopo aver lasciato intendere al vecchio cortigiano che starebbe lì per lì per
cambiare idea, rimasto da solo esordisce: "vista / L'hora non hò, che si mi sia levato / Questo vecchio
inanzi. Porga questi / Consigli ad altri" (Ant, II. 5).
184 Questa tradizione si fonda sull'idea aristotelica che il potere, per essere legittimo, debba essere
vantaggioso per i cittadini, secondo un criterio che diverrà prevalentemente etico quando, nel
Medioevo, si aggiungerà il dovere dell'assoluto rispetto delle leggi naturali.. Di qui, in letteratura, il
sovrano si trasforma nel modello di ogni virtù, pubblica e privata, mentre il tiranno viene
rappresentato come l’espressione di ogni vizio (Lanza, 1977:194-208).
191
arrivare alla fine del Quattrocento per trovare i primi giudizi sulla tirannide legati all'esercizio
politico del potere, non soltanto ed esclusivamente al piano etico. Si tratta però, in realtà, di un
intermezzo breve, perché già a partire dalla letteratura della seconda metà del Cinquecento, con
la caduta della repubblica di Firenze, il popolo scompare dalla scena e da ogni partecipazione
politica, e si ha un abbandono pressoché definitivo della dottrina della sovranità popolare. Va
comunque ricordato che la principale ragione ideologica dell'antimachiavellismo di tanti
intellettuali del Cinquecento risiede appunto nel principio che il principato si regge sulla forza e
sull'astuzia del principe; il che contrasta anche con i tentativi idealistici di giustificare i
principati sulla base del bene del popolo. Per Machiavelli, la scelta dell’azione di governo viene
sempre compiuta nell'interesse del sovrano, non per il popolo, il quale diventa invece, come in
Giraldi. un ostacolo alla tirannide; per cui la scelta della clemenza è saggia, perché ne assicura
il potere. Giraldi opera però a Ferrara, per un principato che si appoggia, almeno nel suo
programma propagandistico, al suo popolo.
Guy Lebatteux ha connesso la lezione politica posta in conclusione dell'Euphimia a altri
testi di Giraldi. Nell'apologetico Commentario, Giraldi descrive l'ascesa degli Estensi come
un'evento provvidenziale: «I quai Principi, à guisa d'alcuni buoni geni venuti di cielo, con tale
animo si rivolsero a difendere, stabilire, accrescere, favorire, e col favor loro nobilitare quella
città, c'havevano ricevuto in protezion loro.» (Com, 13, Lebatteux, 1974:281). L'Euphimia
potrà con questo essere interpretata anche come una rappresentazione dell'instaurazione degli
estensi, allo stesso modo di Philone, gli Estensi furono invitati dal Consiglio dei Saggi a
reggere il governo, risolvendo così un conflitto di potere fra più famiglie; per la qual cosa,
proprio essi avrebbero salvato Ferrara dalla tirannide (ivi, 274). A Ferrara la monarchia viene
quindi considerata essenzialmente come un contratto sociale tra il popolo e il re, reso
necessario a causa dell'impossibilità di altre forme di governo.185 Come nota Lebatteux, l'ideale
politico dell'autore ferrarese è quello di un principato paternalistico posto al di sopra della legge;
nelle sue opere egli delinea un principe ideale che non è il soldato o il condottiero o il principe
"nuovo” di Machiavelli, bensì tende ad essere (sulla linea della più tarda trattatistica politica, a
sostegno di una monarchia nel senso francese), «l'anello di una lunga catena», in cui il popolo
possa ritrovare la sua storia (Lebatteux, 1974:287). La trasmissibilità del potere dinastico
diviene quindi, nelle tragedie di Giraldi, uno scudo contro gli orrori delle ambizioni politiche
dei singoli e contro i “colpi” della fortuna.
5.4.2 Un exemplum meraviglioso
185 Spiega Lebatteux: «Giraldi refuse le thèse de l'origine naturelle de la monarchie, tell qu'il la trouve
resumée dans De Clementia et reprise dans le Courtisan, au profit d'un évolutionnisme politique qui
offre l'avantage de préstenter le régime monarchique comme issu d'un contrat social rendu nécessaire
par l'échec des institutions qui l'ont précédé, d'en faire donc le régime d'avenire, dès lors qu'il semble
le seul apte à assurer la félicité du citoyen dans le plus libre rapport de dépendance envers le
pouvoir.» (Lebatteux, 1974:278)
192
Mentre nelle prime tragedie di Giraldi domina l'eroina creata sul tipo della Ghismonda, i
drammi che seguono e che si sviluppano sempre più in direzione della tragicommedia - quali
l'Euphimia, la contemporanea Selene e anche l'Arrenopia -, presentano protagoniste modellate
sul tipo patetico della Griselda. Questa eroina boccaccesca viene messa a dura prova dal marito,
che finge di uccidere i loro figli, e la caccia di casa. Griselda incarna la costanza poiché
sopporta tutto, è fedele e sottomessa, mentre il marchese agisce contro di lei con matta
bestialità. E già che parliamo di differenze fra i drammi, va anche osservato come il
riconoscimento, il quale crea il lieto fine dei drammi dove agisce una Griselda, sia di un'altra
specie rispetto a quello che salva la vita di Ghismonda; infatti, il lieto fine delle
drammatizzazioni di Ghismonda è conseguente ad un riconoscimento sociale, laddove nella
Selene e nell'Arrenopia avviene un riconoscimento morale unito al demascheramento degli eroi,
travestitisi per scoprire la verità. Con l'Euphimia entriamo invece in un mondo cavalleresco e si
verifica un graduale sviluppo verso il tirannicidio, al quale consegue il lieto fine.186
Gli adattamenti giraldiani della Griselda concordano, a grandi linee, con la maggior
parte delle reinterpretazioni dell'eroina del Boccaccio, in particolare quella di Petrarca, dove
ritorna la tendenza a vedere nella protagonista un ideale femminile.187 E’ la vittima che attira a
sé le disgrazie, e che deve sottostare alla prova di castità. Al motivo cristiano-medievale della
fedeltà amorosa esemplificata da questa eroina, si aggiunge poi nella cultura rinascimentale
l'ideale cortese che esalta la forza dell'amore; di qui l'eroina esemplata sulla Griselda è una
donna fragile, minacciata di morte o di violenza, la quale pur avendo perso tutto, incarna la
rassegnazione al destino e all'amore. In Anatomia della critica, Frye definisce questo tipo di
eroina come 'supplice' e spiega che una tragedia che presenta che ha una 'Griselda' in qualità di
protagonista è molto vicina al concetto di pathos; l'eroina del dramma martirologico, nella
fattispecie, corrisponde a una delle fasi della tragedia proposte da Frye: «il personaggio
principale è dotato della maggiore dignità possibile in contrasto con gli altri personaggi, sicché
viene posto nella prospettiva di un cervo abbattuto dai lupi». Le fonti della dignità dell'eroe
sono il coraggio e l'innocenza, e «a figura centrale tipica di questa fase è di solito quella della
donna calunniata, molto spesso una madre del cui figlio si sospetta la legittimità» (Frye,
1969:292). E' chiaro quindi che poche eroine potevano rappresentare meglio di Griselda le virtù
186
Come afferma Horne, con l'Euphimia il mondo cavalleresco dell'epica entra per la prima volta nella
tragedia (Horne, 1962:136), e anche l'eroismo, nell'amore, è connesso a valori cavallereschi.
Nell'ultimo atto l'innamorato Philone si scontra in duello con Acharisto, trasformandosi in un
guerriero-amante della letteratura cavalleresca, disposto ad affrontare i pericoli e a soffrire per la
donna amata. Il duello fra i cavalieri Acharisto e Philone è l'unico nelle tragedie di Giraldi, e si
conclude con la morte del nemico. Come nei poemi cavallereschi, il duello segue quella legge,
secondo la quale il migliore trionfa sempre, aiutato da Dio che decreta la vittoria dell'uomo giusto e
virtuoso.
187 La novella di Griselda ebbe un’enorme fortuna nei secoli seguenti. Il primo a riprendere il tema fu il
Petrarca, che nella sua traduzione latina, De insigni obedientia et fide uxoria, presenta Griselda come un
esempio di cristiana rassegnazione. (Senilis, XVII. 3). Egli enfatizza meno del Boccaccio la mostruosità
del marchese Gualtieri, condizione necessaria questa per evitare che l'obbedienza di Griselda appaia
assurda e per poter concludere il racconto esaltando il valore esemplare dell'eroina.
193
morali esaltate dal clima controriformistico della seconda metà del '500. L'esempio positivo
incarnato da questo modello di eroina va considerato alla luce degli ideali stoici che,
opponendosi alla descrizione aristotelica sulla naturale inferiorità morale della donna,
attribuisce all'uomo e alla donna uguale capacità di praticare le virtù fondamentali della
pazienza e della sopportazione.188
Negli ultimi due atti dell'Euphimia, con la fuga dell'eroina e l'arrivo di Philone, si
accentuano i contrasti fra i protagonisti. Acharisto, l'unico tra gli uomini delle eroine in Giraldi
che non possa nemmeno vantare un'origine nobile, aveva simulato l'amore per Euphimia
tuttavia, dopo la morte del vecchio re, rivela i veri sentimenti verso «costei che tanto ho in odio,
quanto / Non si può odiar mortale» (Eup, II. 1). La meschinità di Acharisto viene messa in
rilievo proprio dall'eroico re Philone, che non lotta per la riccezza o per il potere, ma
unicamente per salvare la vita dell'eroina; «Al regno non penso hora, i' penso à Euphimia» (IV.
7). L'amore di Philone è costante e disinteressato:
Philon [...]
Vista Euphimia, l'imago sua nel core
Ricevette con forza tal, che sempre
Viva, viva ve l'ha tenuta, e tiene,
E fermo tien (I. 3)
Il legame consacrato dalla tradizione cortese fra amore e nobiltà resta comunque secondario per
l'etica dei drammi, dove esso funziona come un ulteriore pretesto della lezione politica
pragmatica, che esalta un ordine sociale rigidamente gerarchico e immobile.
Ben quattro dei cori dell'Euphimia ragionano sull'amore e sul desiderio; e in questo
dramma l'autore scopre del tutto il carattere aristotelico del suo neo-platonismo, sostituendo
Venere con Giunone, dea protettrice del matrimonio, la quale rappresenta l'amore nel suo
giusto mezzo. Nel terzo atto, infatti, le sofferenze dell'eroina sono incorniciate dalla dea del
matrimonio, che appare nella prima e nell'ultima scena. Il secondo coro si era rivolto alla divina
Provvidenza, pregata di intervenire in favore dell'eroina; la risposta arriva subito in apertura
dell'atto nelle vesti di Giunone la quale, che entrando in scena, loda il matrimonio:
Tanta la virtude è del matrimonio,
Che non pur cosa sacra è tra mortali,
Ma nel Cielo è tenuta anco divina.
E chi di fede in questa parte manca,
188
È principalmente l'esempio della Griselda a venire rispecchiato dalle massime prescrittive
sull'amore nei drammi di Giraldi; nelle quali esso viene solitamente collegato alla fedeltà e alla
costanza: «Chi bene ama deve anc'haver cura/ De l'honor de l'amico dopo morte"; "un vero amor, una
sincera fede/ Di generoso cor, nato altamente/ Ferma si stà»; «non sciorrà Morte/ Il vincol de l'amor";
"quando altri ama di bon core, / Non può far sdegno, non può far ingiuria»; «Un fido amor, una
sincera fede / Fà, che sì altri le cose d'altrui cura,/ ... insino à tanto/ Che non vede in sicur poste le
cose/ De la persona amata"; "Amor, Naina, ogni difficil cosa/ Fà agevole, e non teme chi ben ama /
Disagi non dirò, non dirò pene,/ Ma il morire» (Alt, IV. 5; Eup, I. 3; III. 5; V. 4; Sel, IV. 1; III. 3).
194
Et usa crudeltà contra la donna,
Che gli sia moglie, subito fà cosa,
Ch'offende i numi de l'eterna fede. (III. 1)
La dea promette di salvare l'eroina che «in sino ad hora assai pena hà sofferta / De l'essersi al
voler del Padre opposta», e dichiara infine: «che gran pena deono haver coloro, /Che si danno
ad offender la mogliera, / Che casta sia, che lor mantenga fede» (Ivi). Come nell'Eneide, la dea
predice il futuro matrimonio del protagonista: «Giungerò Euphimia ad un gentil'alma, / Con cui
lieta vivrà tutti i suoi giorni».
L’idea di introdurre Giunone può essere derivata all'autore dall'Ottavia, dove l'ombra di
Agrippina entra in scena ragionando sulle prossime nozze del figlio, con un monologo al quale
seguirà la fuga di Ottavia.189 In Giraldi, l'intervento trascendentale di Giunone serve però,
anzitutto, a condurre all'estremo la costanza esemplare della protagonista e a proclamare, come
la Venere nell'Altile, che l’eroina ha sofferto abbastanza per poter essere considerata purificata
e venire così perdonata. Giunone non esiste nella novella-fonte, tuttavia nella tragedia essa
diventa necessaria per il fatto che solo una dea può convincere la protagonista, fedelissima al
vincolo matrimoniale, a fuggire dalla morte impostale dal marito. Anzi, più che fuggire, l'eroina
viene praticamente trascinata via dalla nutrice alla fine del terzo atto, e le due donne poi
scampano agli uomini di Acharisto rifugiandosi nel tempio di Giunone. La terza canzone corale
si rivolge alla dea del matrimonio «cui note son le voglie / De la Reina nostre, e come regge /
Sol lei desio d'honor»:
Tu Santa Dea, tu sola, col tuo nume,
Puoi far vedere la verità palese,
La qual, questi, c'hà il lume
De la mente appannato, così offese,
Come già osservato, i messaggi e il dialogo del coro nell’intreccio drammatico fanno sì che
venga riflessa su piccola scala sia la convivenza difficile della letteratura esemplare e
precettistica con la tragedia. Il dialogo sull'amore di Giraldi, apparentemente una sintesi del
matrimonio cristiano, stabilito da Dio come conciliazione del basso con l'elevato, (così come
Giunone, una ripresa della Reina degli Asolani, vince sulla Venere neoplatonica). Pieri osserva
sugli Ecatommiti che «l'eros decameroniano viene così disciplinato attraverso il matrimonio e
innalzato da istinto naturale a dovere morale e civile, razionalmente controllabile e quindi
portatore di ‘quiete’» (Pieri, 1978 b:54).
Quindi, non solo nell'intreccio, ma anche nella lirica filosofica del coro si rispecchia la
necessità controriformistica di riaffermare la priorità della famiglia sull'individuo, del dovere
Euphimia ha molti tratti in comune con l'eroina senecana: come questa è condannata a
morte dal marito tiranno che vuole sposare un'altra donna, ed è costretta a lasciare la patria.
189
195
sull'istinto e della moglie sulla donna. Tuttavia, anche in questo caso bisogna tenere conto delle
richieste implicite nel terzo genere drammatico. Infatti, le tragedie con esito infelice non
corrono il rischio di ambivalenza per quanto concerne la colpa tragica; l'autore poteva
difficilmente cantare l'amore terrestre e in più concludere lietamente i drammi. Proprio a causa
del lieto fine diventa quindi importante per Giraldi sottolineare l'errore dei protagonisti e, in
più, enfatizzare mediante gli interventi soprannaturali, che la loro salvezza è dovuta alla grazia
e alla pietà divina, non alla forza dell'amore sensuale. Nella terza scena del terzo atto Euphimia
si sta preparando a morire, tuttavia non accusa il crudele marito e, inoltre, conosce bene le
ragioni della propria sofferenza, insite nella disubbidienza al padre:
Ma tutto fù per ignoranza mia,
Che mi avea Amor levato il san discorso,
E data in preda a l'appetito insano.
Cheggio perdon di novo a la sant'ombra
Del Padre mio, se in ciò l'offesi, e prego,
Che con paterno amore, egli raccolga
Lo spirto de la sua infelice figlia,
Ch'a lui son per manda libero, e sciolto.
A Dio ben chieggio in gratia, che il mio essempio
Insegni ad ogni figlia, ad ogni figlio,
Di non disubedir padre, né madre. (III. 3)
Il paradosso di Euphimia risiede nel fatto che, come è cieco l'amore, così anche la sua costanza
sentimentale. In generale, per le eroine, amare significa lasciarsi guidare da una costanza
passionale la quale, per quanto meravigliosa, elimina la razionalità e talora pure la volontà
individuale. In tal modo, nella ripresa della figura di Griselda, la qualità della costanza
dell'eroina boccaciana non è priva di problematicità. Le eroine selgono da solo il loro amante,
e la loro regalità fa sì che la costanza nell'amore abbia conseguenze sociali molto più ampie
rispetto al caso della povera contadina del Boccaccio.
In realtà la fusione, nella figura della regina tragica, del tipo della ribelle Ghismonda
con quello della Griselda, produce gravi conflitti nell'Euphimia. In seguito al matrimonio con
l'ignobile Acharisto, l'eroina è costretta a scontare la pena di aver disubbidito al padre.
Euphimia stessa descrive l'amore che la lega a Acharisto in apertura della tragedia come
«sincera fé, l'amore perfetto, / Che portat'ho, con cor sì puro, / Al mio marito» (I. 1). E, quanto
più Acharisto si mostra crudele nei suoi confronti, tanto più si ostina ad amarlo; perché, come
tutte le eroine di Giraldi, ella non può non amare il marito:
Ch'io son costretta amar, ch'io sempre amai,
Quantunque egli mi sia così crudele.
E, pur ch'ei non macchiasse l'honor mio,
A grazia mi sarebbe andare a morte,
196
Poi ch'egli mi odia più, quanto più l'amo. (Ivi, III. 3)
A causa della sua estrema costanza, l'eroina deve affrontare l'incomprensione degli altri
personaggi: «Havete pietà di questa fiera?», le chiede un capitano, al quale ella risponde:
«Come non debbo havere pietà, essendo / Egli sol quegli, ch'io m'haveva eletto / Per perpetuo
Signor de la mia mente?» (V. 4). Euphimia è anche l'unica a temere che il tiranno muoia nel
duello con il cavaliere Philone. Quando Acharisto è costretto ad arrendersi, sfrutta quindi la
costanza dell’eroina, chiedendo che sia lei a condannarlo a morte Euphimia reagisce nell'unico
modo possibile; cioè pregando per la vita del marito. L’eroina, che soffre per il fatto di essere la
combinazione dei due tipi boccacciani contraddittori, si dibatte fra i suoi doveri politici come
regina e le sue virtù femminili, secondo un dilemma che non esiste nella novella-fonte, la quale
narra soltanto che Philone «preso lo ingrato huomo, il diede ad esser morto» (Ec, VIII. 10).
Tuttavia, come avviene di consueto in Giraldi, nel dramma la situazione problematica non
viene condotta sino alla fine, perché l'autore decreta la morte del tiranno per le ferite. Neppure
dopo la morte di Acharisto l'eroina appare sciolta dai legami di fedeltà verso il marito e si
oppone quindi alle seconde nozze, resistendo a lungo all'opera di convincimento del coro. E'
questo l'ultimo conflitto della tragedia e, per la sua essenza etica, l'unico a contenere una
potenzialità tragica nel senso classico, hegeliano; Euphimia infatti cede e accetta il nuovo
matrimonio soltanto quando viene messa di fronte alla propria responsabilità politica e al
pericolo di un tumulto popolare, «più stimando il bene universale / Che il proprio suo». Le
seconde nozze di questa regina costante risultano allora un chiaro esempio di virtù femminili
che, contrastando con le responsabilità politiche, devono cedere. In tal modo l'eroina può
mantenere l’apparenza della vittima che si sacrifica per il bisogno altrui. Può sposare Philone e
restare allo stesso tempo una Griselda.190
L’eroina è una personificazione di idee specifiche: quelle della sottomissione, della
costanza, del matrimonio. Nella fattispecie, al fastidioso autocompiacimento e l’estrema lealtà
coniugale dell’eroina, falsamente accusata di adulterio e condannata a motre dal marito, fa
riscontro non solo l'incomprensione, bensì, e anzitutto, il riconoscimento dell'eccezionalità del
suo comportamento da parte degli altri personaggi. In conclusione del dramma, Euphimia viene
quindi innalzata ad exemplum di virtù coniugale da Philone, antagonista del tiranno:
[...] io mi credo
Che si ritroverian poche altre in terra,
Di fè sì ferma, solo ella può dare
190
Un parallello del dilemma della regina fra amore e dovere politico figura nell'ultimo atto della
contemporanea Selene, quando l'eroina riceve le teste del figlio e del marito, ritenuto traditore dello
Stato. Ma neppure il difficile disaccordo fra l'ethos dell'eroina e la politica viene approfondito. Le grida
di dolore della donna di fronte allo spettacolo atroce provocano più irritazione che indulgenza nel
Senato, poiché Rodobano è considerato un nemico dello Stato che non merita in nessun modo i pianti
della regina e, tantomento, la sua fedeltà: «Ma poi, che la ruina egli del regno / E la morte cercava de la
moglie, / (e sù la nostra fè) con ogni torto, / Più caro n'è veder lui, e il figlio / Morti, che morta la
Reina nostra, / Et in grave periglio il nostro regno» (Sel, V. 6).
197
A l'altre essempio, quali esser devriano
Verso i mariti, che non pur non danno
Cagion di doglia à lor, ma per lo meglio
De la lor vita le hanno, (Ivi, V. 7)
Mentre la crudeltà del tiranno dovrebbe suscitare l’orrore, e le pene della sua vittima, invece, la
pietà, la costanza dell'eroina serve anche a creare il terzo sentimento nel pubblico: la meraviglia,
spesso menzionata da Giraldi nel Discorso. La fedeltà di Euphimia viene più volte
esplicitamente definita meravigliosa: «E' meravigliosa / La fè, che regna in questa nobil alma»
dice Philone, mentre la Nutrice esclama: «Questa mi pare / La maggior maraviglia, che veduta /
Fusse in terra» (Ivi, V. 7 e 5). L'Euphimia appartiene a quei drammi di Giraldi che più
esplicitamente ne dichiarano la funzione esemplare, anche mediante le repliche dei personaggi
drammatici. Nel soliloquio del familiare del tiranno Acharisto veniamo a sapere che l’eroina:
Esser potrà questa meschina essempio
A quante donne son per maritarsi,
Chi il dispartir dal matur consiglio
Di padre, e madre, è proprio un procacciarsi
Ruina estrema, e al fin morte crudele. (II. 3)
Più avanti, l'eroina esprime il desiderio di morire sapendo che Dio, (come il tragediografo)
«farà, dopò me, restare al mondo, / Viva la luce de l'honestà mia»; mentre un servo, ragionando
sul desio, spiega che «essempio così ampio hora ne porge / Acharisto, che ben si può vedere, /
Da chi hà sano il giudizio, à che ria strada / Si piega chi si dà in preda di tal vitio» (Ivi, III. 2 e
6). E nell'ultimo atto è la vicenda della coppia protagonista a costituire l'esempio; Philone
dichiara infatti di essere contento perché: «Bastami, haver fatto manifesto, / Con così chiaro
segno, à tutto il mondo, / Che l'amo piu, che la mia propria vita» (Ivi, V. 7). Nel quarto atto un
familiare inizia il suo monologo riassumendo le diverse fasi della fabula, viste e vissute dai
personaggi drammatici; insistendo sulla percezione del pubblico:
Chi non sapesse quanto la Fortuna
Aggiri, e turbi le mortali cose,
Mir quel, ch’è avvenuto in questa corte.
Che n’havrà essempio tal, che vedrà chiaro,
Che fermezza non hà cosa mortale.
Vedi Acharisto di vil sangue nato,...
Vedi il nostro Signore havere in odio / Acharisto...
Vedi tenersi la più lieta donna / Euphimia...
Vedila, per fuggir l'aspro supplicio, / Esser costretta a abbandonare il regno,...
Il familiare conclude il suo monologo raccomandando al pubblico la giusta reazione a questo
spettacolo:
Certo chi a mirar ciò volge il pensiero,
198
In tal diversità d'human successi,
Non può non restar pien di maraviglia.
E pretende anche di decidere quale elemento debba destare una maggior meraviglia:
Ma sovra ogn'altra maraviglia, parmi
Maraviglioso, che questo crudele,
Dopo cotante sue sceleratezze,
Non dirò resti re di questo impero,
Ma per vendetta de l'oltraggio fatto,
A questa pudicissima Reina,
Che stata è a lui cagion di ogni suo bene,
Non si accenda così contro lui Giove,
Che il mandi a morte, (IV. 3, c.n.)
Una siffatta tendenza a mettere in mostra, a svelare la propria retorica, è stata spesso
sottolineata nella drammaturgia inglese del '600, ed anche additata come caratteristica della
tragicommedia (Pearson, 1980:35).
5.4.3 La retorica del pathos: una nuova erocità
L'eroina di Giraldi viene sempre valutata in rapporto all'onore, «uno dei premi della virtù» (Ec,
1182) connesso, innanzitutto, all'onestà, all'ubbidienza e in opposizione allo 'sfrenato
appetito'.191 A questo proposito, Dionisotti ha messo in rilievo che la parola la quale, nella
seconda metà del '500, aumenta progressivamente d’importanza nel significato e nell'uso, è
l'onore: «Il posto che fra Quattro e Cinquecento aveva avuto l'Amore, fu preso nella seconda
metà del Cinquecento dall'Onore. [...] di libri sull'onore e sul duello è pieno il mercato italiano
a cominciare dal 1550, non prima» (Dionisotti, 1976:153). Lebatteux nota però che l'onore
esaltato dall'autore ferrarese non è affatto quello cavalleresco e privato (spesso causa di
disubbidienza) bensì l'etica civile dell'onesto, fondata sull'ubbidienza (Lebatteux, 1974:307).
Nei drammi del ferrarese è evidente che il motivo dell'onore sta guadagnando terreno
ma, nel contempo, è interessante notare come la sua funzione muti; negli ultimi drammi l'onore
subisce uno slittamento semantico dal termine generico allo specifico, individuale e intimo. Nei
primi drammi (l'Orbecche, l'Altile e la Didone), l'onore si manifesta, principalmente, nella
salvaguardia dell'esteriorità, e nel presente drammatico esso è spesso sinonimo di decoro, per
cui il compito di salvaguardare l'onore dell'eroina viene assegnato al coro e alla nutrice. Per le
191 L'onore, spesso sinonimo di pudore, viene ossessivamente ripetuto dalle massime prescrittive
sulla donna: «una Donna deve / Castitade apprezzar più che la vita,/ Che Donna, senza honor si puo
dir morta» (Alt, III. 5); «Ch'una donna impudica sola basta /A imporre eterna macchia à ogni alto
stato» (ivi, I. 1). L'onore è anche un topos ricorrente nei discorsi del re nelle tragedie del Giraldi che
sottolineano l'opposizione centrale onore-amore; Sulmone rimprovera infatti a Orbecche il suo "poco
riguardare il nostro honore" e Lamano accusa Altile di aver voluto «Compiacersi e impor macchia al
sangue nostro».
199
prime eroine tragiche di Giraldi l'onore non costituisce una sofferenza intima, rivelandosi
invece come un valore sociale ed esteriore.
Il sempre maggiore sviluppo verso la tragicommedia crea una nuova specie di eroismo
femminile e, di conseguenza, anche una diversa enfatizzazione dell'onore. Nei drammi che
presentano una Griselda, l'eroina non si identifica tramite l'agire, quanto attraverso il suo essere
statico ed esemplare di moglie fedele. Arrenopia, Selene, e anche Euphimia lottano quindi per
conservare la propria esemplarità, combattono con la loro infelice onestà e il petto miseramente
casto.192 L’ampio uso del monologo nei drammi di Giraldi è senz'altro una conseguenza del
vasto impiego della dissimulazione dei personaggi; appare illustrativa, per la situazione della
Griselda, la replica della nutrice nella Selene:
Non dite ciò Reina, perché quando
V'havesse ogn'un per impudica, & trista,
Ritrovandovi voi, quando parlate
Con voi medesima, più che neve bianca,
Più contentezza havete, & più allegrezza
Che se la vostra fama andasse al cielo
Chiara, & lucente, & conosceste poi
Che falsa fosse, & voi nel ver malvaggia (Ivi, I. 4).
Questo aspetto della lingua della corte si rivela essenziale, perché la dissimulazione è un'arte
che viene esercitata da tutti i personaggi indipendentemente dalle loro qualità morali e dalla
loro professione. E' quindi significativo che fra tutte le eroine tragiche, Euphimia e Selene,
protagoniste passive e patetiche, siano le uniche a non ricorrere alla dissimulazione. Il
personaggio drammatico, in Per la Griselda, forse si dovrebbe parlare più di pathos che di
passività. Invero, si tratta di protagoniste psicologicamente indifferenziate che, tuttavia, in virtù
della loro opposizione alla realtà circostante, appaiono dominate dall'unico pathos dell'amore:
esse sono state create per suscitare la commozione nel pubblico.193
Come nei dialoghi cinquecenteschi, anche nei drammi di Giraldi le capacità retoriche
delle donne non sono pragmatiche o appellative: le eroine sono infatti destinate a fallire le
poche volte che si confrontano direttamente con la controparte. La loro forza persuasiva si basa
invece sul pathos e sul richiamo alle virtù femminili e si rivolge prevalentemente al pubblico. Il
dolore dell'eroina viene espresso mediante le figure retoriche della ripetizione,
dell'annominazione, delle antitesi, nonché dell'allitterazione; il tutto mira ad esprimere lo sfogo
192
Di questa lotta desolata e solitaria dell'eroina, la nutrice è il principale testimone e supporto. Afferma
Selene: «Non sò, cara Nudrice, che mi giovi, / Che la conscientia mia sia netta, e pura, / E la mia fama più che
pece nera, / Credo, che meglio fora, che 'n effetto / Colpevol fossi, e ch'io m'havessi il nome /Di casta, e
saggia, ch'essendo pudica, / Per trista, e dishonesta il mondo m'habbia.» (Sel, I. 4)
193 Le parole di Frye si addicono bene per descrivere questo modello di eroina: «la tradizione centrale del
pathos sofisticato è l'analisi di un'anima isolata, la storia di come qualcuno, riconoscibile in noi stessi, sia
tormentato da un conflitto tra il mondo interno e quello esterno, fra la realtà immaginata e quel tipo di realtà che
è stabilita dal consenso sociale.» (Frye, 1969:53).
200
passionale. Difatti, solo eccezionalmente l'eroina pronuncia discorsi, che non si riferiscono alla
propria situazione esistenziale. Le parole ridondanti che la descrivono sono: dolore, infelicità,
miseria, morte, amore, onestà, onore, fede. E' vero che con questi monologhi dell'eroina l'autore
riprende uno dei luoghi comuni pieni di potenziale drammatico della novellistica, ma nel
dramma la conseguenza è che il lirismo soggettivo sostituisce l'oggettività drammatica e lo
scontro diretto tra le due forze principali viene, per questa ragione, a mancare. In tal modo si è
costituita una della premesse fondamentali per la tragicommedia.
Abbiamo visto che sebbene i due tipi principali di eroine di Giraldi presentino molti
tratti in comune, essi incarnano due diverse forme di eroicità. L'eroina modellata sulla
Ghismonda appare più vicina all'eroicità tragica classica, poiché essa rappresenta e innesca un
conflitto fra dovere e desiderio, all’interno del quale il pubblico risulta in opposizione con i
sentimenti privati. L'amore costituisce qui una minaccia all'ordine sociale. La Griselda si trova
invece al centro di un dramma privato, nel quale appare come una martire che difende il sacro
matrimonio.
Sia la tragedia sia la commedia possono svolgere la funzione di critica sociale mettendo
in scena gli errori del passato, che si tratti di tirannia, di un sistema sociale sbagliato, oppure di
modelli di eroismo arcaici, proponendo alla conclusione del dramma un nuovo ordine che li
rinnegano (in entrambi i generi l'eroina può creare il nuovo mediante la ribellione al sistema).
La tragedia a lieto fine di Giraldi pare invece compiacersi con il presente nella certezza
dell’intervento della divina guardia preservatrice. Inoltre, mentre le forze che generano l'azione
nella tragedia sono quelle tradizionalmente, a partire da Aristotele, connesse all'uomo; e la
commedia, con i suoi intrighi, accoglie in maggior grado la partecipazione femminile, l'eroismo
passivo della durevolezza e della preservazione della Griselda pare tragicomico. Nella nuova
tragedia di Giraldi è infatti un errore presupporre che l'attività necessariamente si equivalga
all'eroismo. L'eroina idealizzata ed esemplata sulla Griselda esce viva e vincitrice del conflitto
perché incarna gli ideali dell'universo tragicomico: l'accettazione del proprio destino, e la fede
nella giustizia divina, che con il suo governo, in definitiva, rende superfluo quell'eroismo,
sinonimo di azione.
Una tale interpretazione delle tragedie a lieto fine, come esaltazione del presente
mediante un'eroina costante, è vicina al giudizio di Ariani che ne sottolinea la mancanza di
critica sociale, tuttavia dimostra anche che la questione del genere non può essere trattata
indipendentemente dalla realtà storica esterna al testo, e viceversa. E' chiaro che le ragioni della
passività dell'eroina possono essere considerate come un effetto del clima controriformistico,
che si fa sentire in modo sempre più pressante durante il '500. Discutendo sulla passività
femminile nel dramma di Giraldi, Lucas evidenzia come le stesse tendenze ricorrono nei trattati
sulla vita civile a partire dal 1530 dove, nonostante la donna occupi un ruolo sempre più
importante nella famiglia e si verifichi una rivalutazione della sua condizione sociale, la libertà
201
d'espressione della medesima viene limitata da una codificazione sempre più rigida (Lucas,
1987:287).
Oltre ad effettuare un paragone con l'etica civile contemporanea e ad additare le
eventuali infiltrazioni controriformistiche, bisognerebbe rivolgersi alla letteratura e vedere se i
modelli dell’eroina si trovino anche nella letteratura non-drammatica del secolo, più
precisamente se le funzioni retoriche dell'eroina presentino delle affinità con quelle assunte
dalla donna nei trattati coevi. E possiamo rivolgerci al dialogo sull'amore di Giraldi, che fa da
introduzione alle prime cinque deche degli Ecatommiti, un dialogo di chiaro stampo
decameroniano, nonostante l'influenza sia ristretta al piano formale.194 Appare inoltre
influenzato dagli Asolani, per quanto Giraldi esclude la “rivoluzionaria” partecipazione attiva
delle donne del dialogo del Bembo.195 In realtà anche nei dialoghi del Bembo e del Castiglione
il ruolo della donna è limitato; la presenza femminile è necessaria per completare il ritratto
della conversazione ideale della corte, ma, più che partecipare attivamente alla conversazione,
le donne ascoltano. In rapporto ai dialoghi del novelliere giraldiano è superficiale affermare che
le donne siano escluse perché, se si leggono gli Ecatommiti secondo l’intento dell'autore, cioè
come un'unità strutturale dove le novelle funzionano come exempla adottati per la persuasione
secondo l'utile dulce, ci si accorge che la partecipazione delle donne non si limita solo al
narrare le novelle, sono infatti le loro reazioni ed emozioni a venire ampiamente riferite nei
commenti. Riporto il giudizio femminile del racconto di Orbecche:
Fu con tanta efficacia da Lucio raccontata la sciagura d'Orbecche, e con tanta pietà da
ognuno udita, che versarono tutti da gli occhi un fonte di lagrime. Et tutte le donne
specialmente, come più tenere, e più pietose, tanto di compassione ebbero alla misera, e
tanto di dolore sentirono alla crudeltà usata verso Oronte, e verso que’ due innocenti
bambini, che parve loro, che altro fine non meritasse che quello, che per le mani della
figliuola, egli aveva avuto. (Ec, 407)
I commenti prestano molta attenzione agli effetti patetici suscitati dalle novelle, perché
l'efficacia e il successo del racconto vengono confermati qualora esso riesca a creare la
compassione. In questo campo le donne sono, qui, come nel Decameron, il pubblico ideale in
quanto sono «più tenere e più pietose» degli uomini: sono loro ad avere intelletto d'amore.196 Si
può quindi sintetizzare che sono principalmente due le funzioni retoriche delle donne sia nei
194 La polemica nei confronti dell'opera del Boccaccio, messa all'Indice da anni, è infatti esplicita negli
Ecatommithi, designati dalla Pieri come «una sorta di anti-Decameron» (Pieri, 1978 b).
195 Ora, tale fenomeno non deve però essere considerato solo in connessione alla tradizione
cinquecentesca del dialogo d'amore, in quanto, come spiega Bruscagli, la gestione maschile della
cornice novellistica è una caratteristica condivisa anche dai dialoghi della Controriforma; quando cioè
il fine didascalico del dialogo richiede direttive più autoritarie (Bruscagli, 1976:XVIII).
196 È vero, d'altro canto, che il Decameron è dedicato alle "donne innamorate", mentre il destinatore del
novelliere di Giraldi è più ampio: nell'introduzione egli si rivolge infatti a «coloro che alla miglior
forma del vivere cercano di darsi».
202
dialoghi come nei drammi: esse sono pubblico, sia implicito, che incluso nell'universo fittivo,
poiché sono loro a manifestare le emozioni che le storie dovrebbero causare.
5.4.4 Uno spazio ideologico
L'eroina ribelle, l'impostore e il cortigiano infido sono elementi mobili nel testo, giacché essi si
sforzano di superare i limiti preposti dall'ideologia, entro un ambiente che non possono mutare.
I gradini sulla scala gerarchica permangono immutati. La struttura gerarchica presenta una
funzione stabilizzatrice, come scrive René Girard nel suo lavoro sul desiderio mimetico nello
Shakespeare:
Degree is more than the source of all stable meaning, more than the mechanism of
differentiation in the sense of modern theory; it is a paradoxical principle of unity among
men. [...] In the absence of Degree, rivalry profilates. In the presence of Degree, rivalry is
not absent, but it is less destructive. (Girard, 1991:194)
E' il meccanismo dell'esclusione che domina la scena cortigiana la quale, come scrive Ferroni,
«ha il compito di escludere, col suo solo atto simultatorio tutto ciò che essa non può incastrare
dentro di sé: al limite, essa può perfino assumere dentro di sé la realtà materiale, il negativo, ma
solo al fine di escluderlo» (Ferroni, 1980:11). I tipi boccacciani dell'eroina disubbidiente, del
cortigiano villano in cerca di fortuna e dell'impostore machiavellico sono in contrasto con
l’etica del mondo gerarchico del dramma.
Come già detto, la mobilità costituisce, generalmente, la qualità dell'eroe; ma
nell'universo drammatico giraldiano nessuno ha diritto di oltrepassare il limite, e anche i
personaggi mobili servono solo a confermare la fissità dello spazio culturale. La mobilità delle
eroine, invece, le rende soggette all'hybris o all'hamartia, poiché l'universo gerarchico ammette
solo l'esistenza di protagonisti fissi, predefiniti dall'ideologia aristocratica. Per i drammi,
l'opposizione spaziale esterno-interno può quindi venire tradotta in ideologia aristocratica vs
ideologia borghese, oppure decoro tragico vs libertà comica o ancora novella esemplare vs
Boccaccio. Fra le intenzioni didattiche dei drammi vi è quella di consolidare e di definire la
ragione dell'esistenza delle frontiere, di mostrare cioè la costruzione del mondo mediante
l'esclusione di tutto quanto non sia ammesso. In Giraldi le figure comiche sono però entrate
nella corte e, scombussolando l’universo tragico, hanno così collaborato alla creazione della
nuova tragedia.
Lo spazio giraldiano è composto da più zone e fra queste la visibilità è veramente scarsa;
o meglio, i personaggi operano instancabilmente per rivelare solo una parte selezionata del
proprio mondo e del proprio essere. Inoltre, allo spazio terreno dove personaggi recitano, si
oppone il mondo dell'aldilà. La tragedia è un gioco fra l'uomo e il destino - scrive il giovane
Lukàcs - un gioco dove Dio è lo spettatore; di conseguenza, la sua parola e il suo gesto non si
mescolano mai alle parole e ai gesti dei giocatori (Lukács, 1974:152). Lukács distingue quindi
203
fra la tragedia e la storia perché in quest'ultima, invece, vi sono gli dei che non si accontentano
di essere solo spettatori del compimento e della rivelazione, ma esigono di dirigere e di mettere
in atto quel compimento. Ciò che rende i drammi di Giraldi delle tragicommedie è proprio la
presenza della giustizia divina, la quale interviene con il suo verdetto in conclusione del
dramma. Il secondo coro dell'Euphimia delinea chiaramente le differenze fra la tragedia greca e
quella cristiana di Giraldi:
Non direm che il peccato
Fusse cagion del male
A Thebe, ma il fatale
Destin, che le fù dato,
Poscia che il bene oprar hor nulla vale,
E'n doglia è Euphimia, e in gioia questo ingrato.
Ma se non è à Dio tolto
L'arbitrio, e la potenza,
E la sua providenza,
Vede quel, ch'è in occolto,
Creder vò, che la ria cruda sentenza
Cadrà sovra chi n'hà il nostro ben tolto.
I drammi contengono un'accettazione dell'esistenza del simulacro come una necessità naturale,
anche se negativa. Ne consegue la necessità di assegnare un ampio spazio alle istanze autoriali
nel prologo, tramite l'introduzione delle deità e negli intermezzi corali, che servono sì come
istanze denunciative, ma soprattutto come rassicurazione per gli attori cortigiani che, sebbene il
loro mondo sia privo di essenza, le sue strutture portanti rimangono salvaguardate da Dio.
Dallo spazio ideologico dei drammi emergono più contrapposizioni, il popolo vs la corte, la
nobiltà vs i non nobili tuttavia, per quanto riguarda lo sfondo filosofico, è più importante quella
fra il mondo terrestre e quello trascendentale; la concezione cioè che tutte le essenze del mondo
terreno costituiscono un sottoinsieme di vanità, quasi uno spazio dove la vita è velo e gli
uomini, spogli frali, vivono in questo stato tenebroso oscuro essenzialmente per renderci
meritevoli del cielo e dei sommi valori trascendenti. Mentre il sapere umano è cieco, Dioautore è «l'occhio del cielo», che vede e apprende tutte le cose con un'intuizione globale: egli è
spettatore, destinatore e giudice del teatro terreno e ha una conoscenza totale dell'intreccio.
204
5.5
LA SELENE E LA CATARSI DELLA CORTE
«Per vostra fé, non scopriamo i nostri errori». «Pur bisogna scoprirli,» rispose il signor
Gasparo, «per sapergli correggere» (Cort, III. 72)
La Selene è scritta pochi anni prima della pubblicazione dei Discorsi nel 1554, e rappresentata
nel 1547 e nel 1551. L’argomento è tratto dalla quinta Deca degli Ecatommiti, «nella quale si
ragiona della fede de Mariti, & delle Mogli». Selene inaugura la stagione nella produzione
drammatica del ferrarese dominata dall'eroina calcata sul tipo di Griselda. Nonostante la
protagonista sia molto più elaborato nella tragedia che non nella novella, ne dramma risalta
l’esempio negativo di Gripo, cortigiano avido di potere.
L'esposizione dell'antefatto ha inizio nel primo atto con il consigliere Gripo che narra al
suo servo come quindici anni prima, dopo essere stato degradato dal re Rodobano, abbia
falsamente accusato Selene di adulerio e tentato, in seguito, di uccidere il re. Quest'ultimo
riuscì invece a fuggire con il figlio in Persia, convinto di essere stato tradito e tantato ucciso da
Selene. La bramosità del potere di Gripo lo ha fatto tradire la regina, il Senato, il re Rodobano e
il defunto re. Ora è venuto un bando dalla Persia promettendo una città a chi avesse ucciso
Selene. Il Senato egiziano reagisce promettendo lo stesso premio a chi uccide Rodobano. Gripo
vede minacciati i propri piani di far sposare il figlio Ipparco con Selene, perché lei desidera
tentare di pacificarsi con il marito. L'eroina decide infatti di mandare in Persia Antigono, un
vecchio amico di Rodobano.
L'atto secondo espone i destini dei diversi personaggi. Entra in scena il nobile cortigiano
Antigono, che si offre di andare in Persia, egli sospetta l’esistenza di un traditore alla corte di
Selene. Intanto Gripo, che aveva progettato per partire per uccidere Rodobano, ignora i piani di
Antigono, espone la sua strategia al pubblico, prima di venir informato della decisione della
regina. Rimasto solo sulla scena, Gripo si lamenta del fallimento del proprio progetto.
All’inizio del terzo atto va in scena Ipparco, il figlio di Gripo. Di fronte alla disperazione del
padre, lo rimprovera e riesce a convincere il senato a vietare ad Antiogo di partire per Persia.
L’atto si conclude con la disperazione di Selene e Antigono. Un monologo della Nutrice apre il
quarto atto, mentre Selene si mostra rassegnata di fronte alla decisione del senato di mandare
Gripo e il figlio in Persia. Avviene quindi finalmente un incontro diretto tra i due protagonisti,
Selene e Gripo, la fedeltà estrema e il tradimento totale. Quando Selen esce dalla scena Ipparco,
toccato dalla nobiltà della regina, esprime i suoi dubbi al padre. Arriva dalla Persia Antioco,
consigliere di Rodobano, con la notizia falsa della morte di Rodobano e del figlio; la notizia
della morte è un stratagemma del re che vuole recarsi in incognito in Egitto per scoprire la
verità. La reazione di Selene alla notizia della morte del marito, toglie ogni dubbio da parte del
consigliere Antioco sulla sua innocenza. L’ultimo atto consiste di ben dieci scene, pieni di
intrighi da parte di Rodobano il quale travestito da armeno arriva in Egitto portando due teste
che somigliano a quelle di lui e suo figlio. Sono scene in cui tutti i personaggi sono presenti. Di
205
fronte al Senato Selene scopre le teste del marito e del figlio, mentre si dispera in un lungo
monologo. Il Senato le impone di far esibire le due teste al popolo d’Egitto come quelle di due
traditori. Selene si oppone solo di fronte alla proposta di matrimonio dal re armeno, e allora
Gripo si tradisce: interviene, toglie la testa dalle mani dell'eroina e accusa Rodobano di aver
voluto uccidere la regina. A questo punto il re si fa riconoscere; Gripo confessa tutto e viene
condannato alla prigione a vita insieme al figlio. La fedeltà della regina è finalmente premiata,
e l’ultimo atto serve a sottolineare la virtù cristiana dell’umiltà.
5.5.1 Il male a corte
Selene è un carattere che incarna le virtù femminili della costanza, della fedeltà e della
devozione – avremo modo di analizzare la funzione di questo modello femminile in Euphimia,
la presente lettura del dramma darà invece anziuttto attenzione ai ruoli dei cortigiani nel
dramma. E’ il mondo della corte ad essere trattato nel dramma, tramite i vari tipi di cortegiani
che la abitano: il falso e avido Gripo, l’anziano leale cortegiano Antigono, e Antiocho, saggio
consigliere di Rodobano.
In Anatomia della critica il Frye sottolinea come tanto nel modo tragico quanto in quello
comico sia contenuto il personaggio dell'escluso della società, e che, mediante la morte
sacrificale, la tragedia prenda le parti di questo personaggio. All'eroina della tragedia a lieto
fine di Giraldi, reintegrata nella società nell'ultimo atto, tale sacrificio non è stato concesso. Per
la mancanza del sacrificio dell'eroe tragico, le tragedie controriformistiche introducono quindi
con l'intrigante invidioso la figura del nemico da espellere, della vittima ripugnante, del
pharmakos caratteristico del modo comico. Il dramma di Giraldi presenta spesso la dicotomia
dell'eroe contro il villano; quest'ultimo funziona come un capro espiatorio e serve a concentrare
l'ostilità del pubblico intorno a sé, mentre i personaggi vittime di costui mirano a suscitare i
sentimenti del terrore e della pietà, necessari per la catarsi. E' chiaro che il cortigiano infido è
un espediente utile al tragediografo che vuole evitare di toccare la sacralità regale, ma dall'altro
canto la presenza di quella figura può anche essere vista alla luce di una concezione negativa
della vita a corte. Nel Discorso sul servire un gran Principe Giraldi parafrasa Il Principe (XVII,
2), attribuendo ai cortigiani la "tristizia" del volgo:
Perché essi, che maggiori offerte ti avevano fatto, e fingono di haverti caro, al pari
dell'anima loro, sono i primi (quando manchi al servitore il favore del principe) che ti si
voltano contra, o che cercano di darti l'ultima spinta, anchora che, per singolari benefici
ricevuti, ti si sentano infinitamente obligati (DGN, VI)
Vediamo ora la situazione della Selene. Nell'antefatto, Gripo aveva tentato senza successo di
uccidere il re e adesso, quindici anni dopo, cerca di far sposare suo figlio con la regina; e,
inoltre a uccidere il re. Come Astano nell'Altile, e al contrario degli strategi delle scene comiche
206
contemporanee, Gripo è un regista che dopo i primi successi parziali è destinato a fallire. Ecco
come narra la prima messinscena con la quale riesce ad ingannare il re:
A lui m' andai e su la sua corona
Giurare il fei che non direbbe nulla,
Di cosa, che da me intendesse, prima
Che di quanto io dicea nol fessi chiaro.
Ei la fede mi diè. Dapoi gli dissi
Che mio mal grado i' gli diceva cosa,
Che gli havesse a spiacer, ma che la fede
E la servitú mia m' aveva astretto
Farli saper quant'io voleva dirli.
Dopo i' gli dissi, che la sua mogliera
Spesso con uno adultero giaceva.
Et veggendol dubbioso, i' gli m'offersi
Far sí, ch' ei troveria quanto io avea detto. (Sel, I. 1)
Gripo non riesce con il primo progetto, perché i suoi sicari così scioccamente escono dai
nascondigli e il re fugge, ma ora ha tutta la corte in mano, e ha fatto credere che il re voleva
uccidere Selene. Nel terzo atto Gripo trova una soluzione per ostacolare il viaggio in Persia del
saggio cortigiano, e dà nuovamente istruzioni di recita al figlio.197 Nelle tragedie a lieto fine il
tempo non ha durata orizzontale, semmai circolare; nel senso che tutti i valori etici e sociali
sono eterni, come la fedeltà che va osservata anche dopo la morte, e l'amore che si trova al di là
del tempo. Per Gripo, invece, il tempo corre: egli parla della sua vita anteriore al dramma, e
racconta come l'età lo abbia cambiato. «Incominciai allora à provar quanto/ Pesi lo scender
d'alto a basso grado» (I. 1), dice; ed è una sensazione che diventa sempre più acuta in lui, nello
stesso modo che la coscienza lo strugge sempre di più col passare degli anni sino a trasformarlo
in un uomo completamente corrotto. Così confessa al Servo nella prima scena della Selene:
Com’ ho provato in me che la coscienza
Del male affligge più che quanti mai
Tormenti può patire uomo mortale.
E' stata la degradazione politica a far scattare in Gripo la meschinità e l'invidia; vittima della
propria ambizione delirante, è capace di tutto per ottenere ricchezza e potere. La sua retorica è,
ovviamente, machiavellica:
Quando desire
Di signoria, d' imperio induce al male,
E' molto tolerabil, e per questo
Non debbiamo temer sinistro alcuno. (IV. 2)
197
«Tu, col servo, n'andrai prima al Senato, / E 'l tutto gli dirai, facendo fede / Per costui ch'intes'hà co le sue orecchie, /
Vista con gli occhi suoi, tutta la cosa, / Et cerca porgli in cor tanto sospetto / Quanto fia d'uopo ad ottener lo 'ntento» (Sel,
III. 1).
207
Due scene dopo, l’onesto cortegiano Antigono, descrive la forza distruttiva dell’invidia a corte:
Molti da invida tocchi, per temere
Che non gli sia occupato il luoco loro,
Non lascian mai che la virtute altrui,
Si scuopra agli occhi del signor che regge.
Altri corrotti per moneta et altri
Per propria passion, fanno al ver froda,
Ond’i buon si veggono spesso oppressi
E i lusinghier, gli adulator fallaci,
Gli invidi, gli soperbi, gli scherani
Al ver sempre, a la bontà nemichi,
A’ sommi onori anzati e a’ sommi gradi. (IV, 3)
Gripo ha assunto la funzione di regista illeggittimo, così alla fine - ed è un destino che
condivide con il tiranno Sulmone nell'Orbecche - viene sconfitto proprio dal mascheramento e
dalla finzione. Il re controbatte con le stesse armi di Gripo, diventa registra di spettacoli: mette
in scena la propria morte, rimane pubblico dietro la maschera della visiera, e scopre tutta la
verità sulla corte. Il ruolo del sovrano Rodobano è molto limitato nel dramma: egli appare solo
nell'ultimo atto, quando mette in scena lo smascheramento di Gripo. Ciò non toglie che vicino
alle ambizioni maligne di Gripo, la catastrofe dell'antefatto della Selene sia dovuta all'esagerata
fiducia del giovane re nel falso segretario. Con Rodobano è dato un exemplum dell'errore
opposto a quello del tiranno, uno sbaglio che si rivela ad essere non meno disastroso, poiché il
re Rodobano è una vittima ingenua della perfidia del falso cortigiano Gripo. La sua colpa sta
nell'essersi fidato troppo del giudizio altrui, senza aver controllato la verità di persona. Ecco
una parte del monologo dove il cortigiano Antiocho spiega il grave errore del suo signore: «Se i
Signori, se i Re, per se medesimi, / Saper cercasser quelle cose almeno, / Che di momento sono,
e co' l'altrui orecchie / udir le cose non volesser, meglio / I popoli starian, c'hora non stanno; /
Perche frode d'altrui, nel più bel tempo, / che sperano vedere il vero aperto,/ Non appanneria gli
occhi, e per lo bianco / Non gli faria vedere alcuno il nero» (Sel, IV. 3). Rodobano è colpevole
di non aver usato la prudenza nel giudicare i fatti, quindi, di aver mancato a una delle virtù
principali del sovrano buono. La sua figura è un esempio di quel tipo di principe che secondo il
Castiglione era frequente fra i signori de' nostri tempo, essi nel Cortegiano (IV, 7 e 8) vengono
ritratti come ignoranti, e sono circondati da bugiardi e nemici; per cui non possono «intendere
mai il vero di cosa alcuna» con il risultato disastroso di «non sapere governare i popoli», quindi
di causare «tanti mali, morti, destruzione, incendi, ruine».
La scena giraldiana è senz’altro un luogo di rivelazione e di denuncia dei giochi retorici
e delle simulazioni cortigiane. Nel dramma sia gli svelamenti delle debolezze umane e delle
falsità sociali, che il tentativo da parte del coro di illuminare il pubblico sulle questioni
filosofiche e teologiche, vanno collocati entro la metafora del theatrum mundi. La metafora del
208
mondo come teatro, spesso collegata al dramma elisabettiano, ha una tradizione molto più
antica.198 Può essere assommata nella denuncia platonica della diversità fra le sostanze e le
apparenze, della verità che si svela soltanto alla vista interiore. Tale concezione ha
innumerevoli conseguenze: inizia dalla verità dell'Idea, dell'uno, del mascheramento di Dio,
che «ama nascondersi», per giungere sino alla mascherata umana in cui tutti interpretano un
ruolo. Sono spettatori gli uomini, ma il grande spettatore è Dio - creatore-autore che dal cielo
contempla la propria opera.199 Di fronte alla corte, la metafora diventa ancora più densa di
significato, proprio per l'onnipresente dis-simulazione; come osserva Maestri sugli
Ecatommiti:200
Perché questa è un'umanità che porta la maschera, che si muove su due piani spesso a
contrasto, l'intimo e l'esteriore, in un continuo atteggiarsi e formalizzarsi, che riflette, nel
Rinascimento al tramonto, il disagio di una società inquieta nel suo fondo, ma irrigidita in
una gerarchia che immobilizza ceti e classi e fa del contegno e della diplomazia, delle
simulazione e dissimulazione, strumenti di conversazione sociale, che dalla politica si
estandono alla vita privata, influenzando la stessa letteratura e pongono le condizioni di
linguaggio e comportamento ambigui (Maestri, 1971:322-3).
Dallo stratagemma ideologico del dramma segue necessariamente una concezione
dell'individuo non libero di crearsi la propria sorte ma soggetto ai piani della Provvidenza o di
una fortuna interpretata come strumento nelle mani divine. Ariani era arrivato a guardare con
simpatia alla figura di Gripo, vedendo in questa «soprattutto la sconfitta dell'ingegno, della sua
capacità di abbracciare nella rete delle sue ambiguità acutissime la superbia ingenuità degli
ottusi (che invece trionfano non per l'intelligenza, ma per l'ignobile prepotenza della loro
nobiltà di sangue)» (Ariani, 1974:157). Ma, nell'ideologia a governare i drammi di Giraldi non
può essere concessa la rappresentazione di una catastrofe per mezzo di un cortigiano infedele; a
un tiranno pazzo sì, ma il potere dei progetti di un ministro malvagio non poteva essere
198
Sulla storia di questa metafora, si veda Curtius, 1992:158-64.
Nel Dialogo della dignità delle donne dello Speroni gli dei sono rappresentati come spettatori degli uomini: «quasi in
mezzo di qualche teatro e d'ogn'intorno per ogni parte del cielo siedono li dei, tutti intenti a guardar le tragedie dell'essere
nostro» (Speroni, 1978:582). Anni prima Leon Battista Alberti aveva sottolineato satiricamente nel quarto libro del Momo
la costante falsità degli uomini, che indossano «finte maschere in tutto analoghe ai volti degli altri» per nascondere se stessi.
«L'intera vita umana non è altro che uno spettacolo» - scrive anche l'Erasmo – «in cui, chi con una maschera, chi con
un'altra, ognuno recita la propria parte finché, a un cenno del capocomico, abbandona la scena». E, come avviene nei
drammi del Giraldi, egli assegna alla fortuna la funzione di collaboratrice sottomessa nel piano divino; difatti «il
capocomico" spesso fa l'uomo «recitare in parti diverse, in modo che chi prima si presentava come un re ammantato di
porpora, compare poi nei cenci di un povero schiavo» (Elogio, XXXVIII).
200 Mentre questa concezione è principalmente legata alla produzione discorsiva, un’altro uso della supermetafora vita
tamquam scenae è invece connessa alla vista, alla simulazione visiva: è quella dell'ammirazione e della spettacolarità del
mondo, della geometria e del gioco dello specchio, caratteristica del manierismo e del barocco. La confusione visiva, il
mondo fatto di specchi, di ombre, di visioni e di allucinazioni, l'universo barocco e quello shakespeariano, non sono
rilevanti in Giraldi.
199
209
affermato in un exemplum tragico. Gripo è quasi una figura comica, e certamente i suoi tranelli
non possono arrivare a suscitare gli stessi effetti nel pubblico di quelli dell'ira del sovrano
tragico.201
Infatti, in aggiunta alle ambizioni sociali, Gripo è stato fornito di un'altra qualità
significativa: la vecchiaia che ha in lui una connotazione negativa come sulla scena comica.
Sono passati molti anni dal misfatto ed egli è diventato più insicuro, e come tale si rivela nei
discorsi col servo e nei monologhi. «Perduto ho ogni consiglio, né più trovo/ Luoco in cui
appoggiar possi la mente»; «Non saprei ove piegar la mente»; «Che dei Gripo più fare? Ove la
mente /Dei più piegare, se riesce in nulla / Tutto quello che pensi e che disegni?» (I. 1; II. 4). Il
figlio Ipparcho appare invece meno corrotto del padre; ammette di essere tormentato dai sensi
di colpa fino al punto di voler recedere dai suoi progetti, e quando, nel quinto atto, viene a
sapere che Rodobano è morto, dichiara di essere felice di non essersi tinto le mani con il sangue
di due Re innocenti. Poi, nonostante sia afflitto da sensi di colpa il figlio possiede prontezza
istintiva e capacità di reazione assenti nel padre, che appare invece paralizzato di fronte a ogni
nuovo ostacolo. Si tratta di una rinnovazione rispetto alla novella-fonte, nella quale Gripo non
chiede consigli al figlio, mentre nel dramma Gripo si rende contro che è la sua età ad impedirgli
di reagire con la stessa prontezza del figlio:
Vecchio che tenti con inganno cosa
Che porti seco periglioso fine,
Se caso avviene al suo desir contrario,
Si perde sì, cosi di se stesso esce,
Per timor c'ha d'inevitabil pena,
Che perde ogni prudenzia, ogni consiglio.
Or vedut' ho, che 'n simil accidenti,
Vede assai più, ne gli improvisi casi,
Un giovine, che un vecchio, ancor che astuto. (Ivi, III. 2)
Sono luoghi comuni che risalgono alla concezione della vecchiaia di Aristotele (Retorica, II) e
dell'Ars Poetica oraziana, ripresi spesso nella commedia e da una parte della trattatistica
cinquecentesca.202 In Gripo l'attributo della vecchiaia serve a ridicolizzare la sua figura, e ciò
non avviene per sminuire la sua pericolosità, l'azione dimostra chiaramente quanto danno egli
sia capace di compiere - ma per castigarlo ulteriormente.
201
Così era stata impiegata anche dal Pistoia nella tragedia Filostrato e Pamfila, dove il cortigiano agisce per danneggiare
l'onore reale e incoraggia gli amanti spingendoli verso la morte.
202 La Selene contiene ben quattro coppie di vecchi e di giovani: Selene e figlia, Rodobano e figlio, Gripo e figlio e infine
anche il re armeno con il figlio. Queste coppie fanno parte della teoria del Giraldi sulla tragedia doppia, già
emblematicamente realizzata tre anni prima della Selene, con Gli Antivalomeni. Nella Selene queste coppie non invitano
invece a un costante raffronto fra le generazioni, come nella commedia plautiana, perché l'opposizione fra le età vale solo
per la coppia di Gripo e del figlio.
210
Bergson ha analizzato il riso come un mezzo di correzione e di castigo sociale, in
quanto poche cose sono più temibili ed umilianti di essere esposti al ridicolo. Nel suo saggio
sul comico, Bergson parla del comico professionale nel senso che «il riso ha la giusta funzione
di reprimere ogni tendenza separatista. Il suo compito è di correggere la rigidità in elasticità, di
riadattare ciascuno a tutti gli altri, insomma di smussare dovunque gli angoli» (Bergson,
1991:139). In questa luce il comico diviene un mezzo didattico, uno strumento di
conservazione di ciò che è ammesso, e nei drammi di Giraldi è il sogno dell'ascesa sociale a
venire deriso e infranto. E' infatti questo il castigo più pesante e più efficacemente didattico che
i drammi impongono ai cortigiani infedeli come Gripo e Astano, e agli adulatori, quali Tamule
e Alocche nell'Orbecche, personaggi falsi, vanitosi e avidi di salire i gradini sociali,
ridicolizzati ed esposti al pubblico di corte.
E' caratteristico di Giraldi l'elemento ritualistico dell'espulsione di un individuo non
adatto alla società: nella Selene e nell'Altile, ma anche nell'Euphimia, sono i cortigiani
ambiziosi ad essere le capre espiatorie, quali figure sacrificali della corte intera che, con la
catarsi, esce curata e depurata dalla spettacolo a cui assiste.
Quando infine viene smascherato nell'ultimo atto, Gripo si autoaccusa pesantemente e
chiede di essere punito, dando l'impressione di voler vivere il castigo come un rito purificatorio.
Così avviene anche con Astano, falso cortigiano dell'Altile nell'ultima scena del dramma, dove
si ha un macabro post scriptum dopo la lieta riunificazione dei protagonisti, in cui il Messo e il
coro si rallegrano per il suo suicidio, poiché «è più che certo / Che la invidia è la morte à sè
medesima» (Alt, V. 7). Con il loro sacrificio Astano e Gripo espiano le colpe della corte:
l'invidia, la simulazione, l'ambizione e l'ingratitudine. Nella sua ultima replica di Gripo innalza
la propria storia ad un esempio per il pubblico:
Oime ho perduto
Il mio figliuolo, e me, io merto, io merto,
Empio ch' io son, ch' i can mi mangin vivo,
Per dar' essempio, che più d' ogni inganno
D' uomo malvaggio l' innocenzia puote,
E che bramar non si dee cosa alcuna
Contraria à l' onestà, contraria al giusto. (Sel, V. 9)203
L'origine del male nella Selene, come anche nell'Altile, è originata dall'invidia, distruttrice di
ogni virtù e tipico vizio dei cortigiani o, comunque, delle classi medie, predisposte a
partecipare alla lotta dell'ascesa sociale.204 Con questo motivo si rivela una delle novità di
203 Cfr. Egle 104. Non si dee desir cose che neghi / Il Ciel, né cosa a l'onesta contraria / Che non sen può veder felice
fine.
204 L'invidia è anche uno dei bersagli della trattatistica civile del Giraldi. In apertura del Discorso sulla cortigianeria egli
racconta la favola di Momo che, dopo essere stato cacciato dal cielo da Giove, incontrò l’Invidia e generò con lei la figlia
Maledicenza, concludendo il racconto così: «Ma se fecessero gli uomini quel che Giove fé per liberare il cielo, sarebbe
211
Giraldi: l'inclusione dell'hybris sociale causata dalle ambizioni frustrate dei membri del ceto
medio. Lo spiegava già la nutrice di Orbecche che, delineando la miseria dell'uomo in generale,
si sofferma sulla condizione di chi si trova nel "mezzano stato", alludendo ai cortigiani, che
«sempre aspirando a le grandezze eccelse, / A favori, a gli onori, a gli alti ufficii, / Al crescere
d'aver, mai si ritrova / Cosa, che lo contenti o lo sazii» (Orb, II. 2). Difatti, nell'universo di
Giraldi il desiderio boccacciano di eccellere socialmente viene unicamente incorporato dalle
figure negative, gli altri personaggi a corte si salvano perché sanno che,
Meglio è à le volte in povertade honesta
Viversi tutti gli anni, che in eccelso
Stato sentire il venenoso fischio
Con cui l'Invidia i fortunati assale.
Perche, che pover è, di lei non teme,
Et la sua povertà gode sicuro:
Ma se quest'aspre fiera da dimorso
Con l'aspro dente ne le gioie altrui,
Così ogni ben gli turba, & ogni pace; (Alt, I. 3 ).
La figura di Gripo viene messa in rilievo dal suo antagonista: il fedele cortigiano Antigono. Le
virtù di questo anziano consigliere vengono illustrate nel secondo atto: la saggezza (capisce che
c'è un traditore a corte), la dedizione totale alla sua signora, e la fede (Sel, II. 3). In un
monologo che Selene rivolge a Antigono gli viene designato il ruolo di salvatore:
Però, Antigono mio, perch' una volta
I' possa uscir di questi affanni, ho volti
Gli occhi in voi sol, come in crudel tempesta
I marinai gli hanno tutti intenti
Nel viso del padron, che gli governa.
Sperando uscir per lui fuor di periglio.
Commettendo a voi dunque insieme noi
La nostra afflitta, e travagliata barca,
Cercate, prego, di condurlo in porto,
Si che non tema più l'onde, né i venti.
Et sián tutte per voi salve e sicure (Ivi, II. 1)
La fede di Antigono va intesa sia in senso cavalleresco, che cristiano: lui è convinto che vi sarà
giustizia perché la divina Provvidenza premia gli innocenti. Tuttavia, alla fine del terzo atto,
quando viene ostacolato dall'operare per il bene della sua signora, appare assalito da dubbi:
Non sò che mi dir, dopo ch' io veggo
L' ordine de le cose sì mutato,
Che bisogna, a chi vuol' esser felice,
questi tempi malvagi fuori dalla parti abituali, e spargerebbono il tosco fra le fieri nei boschi o nelle selve, e non
contaminerebbero, come tutte dì fanno, le virtù altrui colle loro pestifere parole» (DGN, I).
212
Fuggir ogni virtù, seguire il vizio. (III. 4)
E' questo uno dei momenti più cupi del dramma. I dubbi di questo saggio consigliere sono così
allarmanti che anche il coro ne rimane coinvolto: difatti, dopo aver concluso gli atti precedenti
con un fiducioso ottimismo, esso si lascia andare con un'incitazione laica ad un carpe diem
rarissimo nei cori moralisti di Giraldi: «Viviamo, viviamo tutti / (Mentre possiamo) allegri, / E
scacciamo il dolor lungi da noi» (III).
5.5.2 La fortuna e la provedienza
Mentre nel romanzo si crea un effetto ironico quando la prospettiva del narratore è dominante
rispetto a quello dei personaggi, nel teatro, quella stessa funzione del narratore, proposto in
funzione di giudice, spetta al coro. L'ironia adoperata dal coro, nell'Orbecche, collaborava nel
creare confusione e aspettative frustrate; nei drammi dopo l’esordio, però, anche l'ironia del
coro partecipa al progetto didattico. Il coro si rivolge verso l'esterno, al pubblico in modo che
esso, per mezzo dello svolgersi dell'andamento diegetico, possa partecipare intellettivamente
alla disputa drammatizzata. Il coro ripete in modo dogmatico delle tesi, che poi discute
scoprendo in modo funzionale a questa dialettica i propri dubbi; per arrivare infine, in
conclusione della tragedia, grazie all'esemplarità conferita all'azione, ad una convinzione che
possa essere sentita come più sicura e più vera. La soluzione alle domande e ai dubbi posti dal
coro è stabilita a priori. L’incertezza serve solo a far progredire il pubblico-lettore sulla via
della conoscenza, verso la riconferma di quei valori dogmatici riformulati alla fine della
tragedia. Così il primo, il terzo e il quarto coro della Selene discutono sull'instabilità della
fortuna, il secondo tratta dell'intelletto del bene, mentre l'ultimo esalta la giustizia divina.205
Si potrebbe sintetizzare che il progetto drammaturgico di Giraldi è costruito intorno a più
coppie di concetti che vengono rappresentati dai diversi personaggi. Ciò vale anche per il
concetto della fede: mentre il re dovrebbe incarnare la fedeltà verso i valori etici e religiosi, la
fedeltà cavalleresca viene invece rappresentata dal buon cortigiano, e l'infedeltà dal suo
antagonista; infine, e sopra tutto, appare la divina Provvidenza, che nelle tragedie a lieto fine
interviene contro l'infedele fortuna. Su un piano più profondo il contrasto fra i cortigiani
infedeli e quelli fedeli si riferisce a quello tra la fortuna e la giustizia divina, discusso dal coro.
Come osserva Mercuri, si tratta di un tema fondamentale nella tragedia controriformistica, dove
«il tema del fato acquista una rilevanza particolare e viene a identificarsi con il concetto di
205Analogalmente, negli intermezzi corali della Cleopatra Giraldi sembra voler giocare denunciando ironicamente l'idea
della predestinazione: il secondo e l'ultimo coro, che affermano il potere della Fortuna selvaggia e l'esistenza della
predestinazione, contraddicono il primo e il terzo, i quali spiegano il significato del dono del libero arbitrio. Il coro passa
dall'idea del libero arbitrio, e dalla fiducia umanistica nella capacità dell'uomo di governare la propria vita, all'affermazione
che gli sforzi umani contro il suo destino predefinito sono vani: Cleopatra non poteva evitare la sua disgrazia agendo
diversamente poiché "sua ventura ha ciascun dal dì che nasce". In questi casi si potrebbe essere tentati di vedere due cori
autonomi, sul modello dell'Ottavia, dove l'uno sostiene l'eroina e l'altro Poppea, ciò tuttavia non cambierebbe nulla per
quanto concerne l'effetto ironico.
213
provvidenza divina; il fato in questa tragedia, come nelle posteriori controriformistiche,
investirà l'intera realtà e sottoposta alla giustizia divina sarà non solo l'azione morale, ma anche
l'azione politica». (Mercuri, 1973:90) Il cortigiano infedele andrebbe considerato, secondo la
stessa logica, come il destino quale espressione della fortuna che il dio-autore introduce nel
mondo dei grandi per mettere alla prova la loro costanza e prudenza.
La drammaturgia è impostata sulla variabilità della fortuna - campo semantico
dominante che ricorre nelle massime con una eccezionale frequenza mediante immagini e
termini diversi.206 Mentre gli eroi pregano costantemente Dio, l'errore essenziale di Gripo e dei
suoi congiurati è di non credere nell'esistenza della giustizia divina, bensì di vivere secondo il
concetto, rifiutato dall'autore, che la fortuna aiuta gli audaci. Il tema della fortuna è più che mai
presente nella Selene e non si limita solo ad apparire nelle massime ingombranti, ma fa parte
delle qualità morali, nelle dinamiche dialettiche fra la speranza e la disperazione, fra la fede e
l'infedeltà. Afferma Gripo: «La Fortuna, in cui man son l'human opre / Gli animosi, i gaglardi
aita sempre» (IV. 3), e il suo Servo: «mi par di poter dir sicuramente, / O che la providentia è 'n
tutto cieca, / Over che 'l mondo si governa a caso» (V. 2). E' un errore; non perché la fortuna
non gira e non può essere ingiusta, ma perché essi non hanno compreso che la fortuna in fin dei
conti è strumento della divina Provvidenza.
E' un motivo canonico nella tragedia del '500 rappresentare la corte come l'habitat
preferito della fortuna, come luogo prescelto per causare danni e sconvolgere. La fortuna
dominata dalla Provvidenza divina non è quella forza della commedia che dona all'individuo
speranze e possibilità. La fiducia che audaces fortuna iuvat è stata sostituita con una ripresa
della concezione boeziana della fortuna come forza cieca, malvagia e ingannevole; tuttavia,
come nell'universo dantesco, in Giraldi la fortuna è anche "ministra" di Dio. La differenza
sostanziale fra l'idea medievale della Fortuna, quella forza amica dell'uomo prudente del primo
Rinascimento, e la Fortuna operante nei drammi di Giraldi sta nella sua potenza. Nei drammi
edificanti essa appare sì come infedele, ma deve pur sempre arrendersi alla giustizia divina.
Sono le figure dei malvagi e degli erranti a fidarsi della dea bendata, poiché non sanno che i
suoi possibili doni sono vani, esche tentatrici. Dio si rende tuttavia conoscibile nella sua azione
206
Vengono adottate varie nozioni per designare questa forza soprannaturale, ma domina la fortuna, insieme con i termini
'sorte' e 'destino'. Essi sono tre lessemi quasi sinonimi; va però notato che non appare mai il 'fato', come nozione
paganeggiante della fortuna antitetica della provvidenza, la quale implica necessità e accidentalità rispetto alla volontà
umana.
Nelle massime il riferimento alla sorte tramite l'immagine del lancio di dadi, è l'agente che introduce l'aleatorietà con la
personificazione della dea che volta le spalle e della traditrice che sorride alla futura vittima, con la metafora del vento e
della tempesta che stravolgono, della serpe improvvisa e velenosa, del vetro che più splende più è fragile, e quella arcinota
rappresentazione della ruota, che ora innalza ora abbassa. Per dare un'idea generale, cito alcune delle immagini della
fortuna nelle massime: «quanto lieta si mostra a noi la fortuna, tanto / Più devemo temerla e men fidarsi / De le lusinghe sue
sempre fallacy»; «è propria questa / Nostra vita mortale / Quasi nave, che in mari sia a i venti e a l'onda / Ch'or da crudel
tempesta, / Che d'improvviso con furor l'assale, / Combattutt'è.....» (Orb, V. 2; I. 1); «Ch'al voltar, che Fortuna fà le spalle
/ A color, che mirò con lieto viso»; «Non deve un gran Signor porsi à tentare / La incostante, e volubile Fortuna, / Perche
chi troppo attizza questa serpe, / Ella si gonfia, e sì di venen s'empie» (Cle, II. 3; IV. 1); «So che di vetro è la Fortuna, e
tanto / Ella più fragil è, quanto più splende» (Ant, I. 2).
214
provvidenziale di ragione della storia umana. Il modo di riferirsi ad esso è sempre quello di chi,
guardando da un livello superiore, ripone una speranza nella fedeltà del creatore che non
abbandona le proprie creature. Nelle situazioni ambigue della colpa poi, i personaggi che lo
riconoscono come spettatore nascosto ed enigmatico, gli si rivolgono come ad un giudice
onnipotente delle vicende terrestri: «Quanto / I secreti di Dio sono nascosi / A' noi mortali, in
queste mondane ombre» (Alt, V. 7).
Quindi, per se si ricorda che il progetto di Giraldi è quello di ricreare la tragedia,
troviamo in questa dialettica di forze superiori a governare il dramma. La fortuna, intesa come
strumento della divina Provvidenza per mettere gli eroi alla prova, è un pensiero senecano
adatto a un'interpretazione cattolica della tragedia: la fortuna diviene sia base dell'hybris, che
agente della nemisi, mentre la Giustizia divina, nei drammi, è l'elemento di necessità.207 Il
quarto intermezzo corale della Selene espone la funzione della fortuna nell’universo
drammatico di Giraldi:
Questi lascia avenire
Talhor qualche martire
Perché nel cor ne sorga
Fermo e vivo desire
Che pensiero ci porga
Di non fidarci in nui,
Ma di voltare il core
A l'eterno Fattore,
E veder, che da Lui
Ci vien la sorte dura,
Per vie maggior ventura,
E che 'l mal che n' aviene,
Ne desta al vero bene.
Com'è noto, i critici sulla scia dell'Hegel, fra i quali la scuola lukácsiana, esaltano la tragedia
shakespeariana perché questa, come la commedia, si muove da un genere di società per arrivare
all'inizio di una nuova epoca; di qui le osservazioni negative nei confronti della tragedia a lieto
fine di Giraldi da parte di critici come Ariani. E' chiaro che in questa ottica appare doppiamente
reazionaria n dramma che, nonostante la lieta conclusione del conflitto opera in modo che la
vecchia società esca rafforzata dall'azione. Lukács direbbe che la collisione nelle tragedie
giraldiane non può aver esito tragico perché non sono storiche, ma vogliono invece
rappresentare una realtà a-storica e necessaria. L'ideologia gerarchica legata al processo di
rifeudalizzazione cinquecentesca dove i valori della classe e della nobiltà prevalgono su quelli
dell'intraprendenza borghese viene presentata come la giustizia eterna e non come un risultato
207
È anche questo tema a inaugurare la produzione drammatica del Giraldi: nella prima scena del primo atto dell'Orbecche
Nemisi spiega come la giustizia di Dio prima o poi diventa esecutiva: che è solo questione di quanto tempo Dio vuole
concedere ai rei per decidere di pentirsi; se soffrono anche i buoni, ciò avviene perché essi possano così guadagnare in terra
un merito maggiore alla beatitudine eterna.
215
del movimento generale della storia. Da ciò segue anche che il protagonista nelle tragedie non
sia un individuo storico secondo la critica lukácsiana ma un carattere dominato da una passione
particolare.208
I concetti della fortuna e della divina Provvidenza influiscono sui personaggi
drammatici, collaborando alla loro rappresentazione. Mentre al concetto di Dio corrisponde la
coppia antitetica fede-infedeltà, la tensione prodotta dalla natura incostante della fortuna si
riproduce nei personaggi nella tensione interiore fra la speranza e il timore. Questi due
sentimenti convivono, e più il dramma si avvicina alla fine più lo scambio si accelera, non solo
quale opposizione psicologica tra le figure - come nei dialoghi nelle scene iniziali fra l'eroina e
la nutrice - ma anche come conflitto interiore.209
Il lieto fine presenta delle conseguenze anche per la tensione drammatica: si passa dallo
scoppio del conflitto del primo atto, alla speranza legata ai vari tentativi di ostacolare la
catastrofe negli atti centrali; poi al riconoscimento, o al deus ex machina, prima della catastrofe
che sembrava inevitabile; quindi al lieto fine. L'oscillazione fra speranze e delusioni e serve a
mantenere costante la tensione drammatica e l'interesse del pubblico, come si legge nel
Discorso:
Si debbano nondimeno far nascere gli avvenimenti di queste men fiere tragedie in guisa
che gli spettatori tra l'orrore e la compassione siano sospesi insino al fine, il qual poscia
riuscendo allegro gli lasci tutti consolati. (DCT, 184, c.n.)
Quindi, dove i cori della Selene discutono sulla natura della fortuna, nell'intrigo ciò si traduce
nella dicotomia speranza-timore.210 Appartiene all'iconografia della tragicommedia l’ampio uso
208
È la stessa fissità che Pieri ha sottolineato per le novelle degli Ecatommiti dove, al contrario del Decameron,
e si può anche aggiungere al contrario della commedia, «i codici morali, economici, e politici sono
assolutamente intangibili, l'azione non ha più valore "modificante" e aggressivo, bensì conservatore e difensivo,
e gli "scambi" non sono più ammessi» (Pieri, 1978:53).
209 I luoghi comuni sulla speranza possono essere suddivisi secondo i tre motivi predominanti, connessi tra di loro secondo
un ragionamento moralistico. Un vasto numero descrive l'incapacità di sperare degli eroi sofferenti poiché «un'animo
affannato sempre al peggio / Rivolve tutto quel, ch'occorrer vede» (Did, V. 3); «Lunga doglia, Nodrice, e ad altrui toglie /
Ogni pensier di bene, e d'allegrezza, / E se ben vien talora, a pena il crede.» (Sel, III. 3). Dall'altro canto ritornano in
continuo le affermazioni che l'incostanza della fortuna è ragione di speranza per chi soffre e quindi assicurazione del lieto
fine della tragedia, mentre il fortunato deve temere.«Dunque se questa corte, / Già d'allegrezza piena, / Or è colma di pena,
/Non mi vo’ sì turbar, che con quel core / Non toleri il dolore / Col quale i' vissi già vita serena; / E creder vò che, come si
risolve / Spesso la goia in pianto, / Cosi chi ha molto pianto / Possa fare anco lieto,/ Ne lo stato inquito, / Chi le cose mortai
volve, e rivolve.» (Sel, Coro I).
Il terzo gruppo, infine, è costituito dalle massime che esprimono la sintesi etica del dramma, e cioè, che essendo la fortuna
meno potente di Dio e talora anche il suo strumento, i miseri non devono mai perdere la speranza: «sperare noi pur nel
divino aiuto, /Che mai non venne meno à ben nat'alma»; «la speranza non dee mai venir meno / A chi è innocente» (Eup, I.
1; III. 3).
210 Vediamo i valori di questa dicotomia dal punto di vista dei personaggi coinvolti. Il primo atto è dominato dal timore,
manifestato da Gripo, dal servo, da Selene e dalla figlia dell'eroina; la nutrice è l'unica a rappresentare la speranza. Ma nei
tre atti centrali timore e speranza si alternano:
Atto II:
1. Griphina prega Antigono di fare il possibile per convincere il re dell'innocenza di Selene. Speranza.
2. Antigono si duole dell'ingiustizia, ma è fiducioso sul futuro. Speranza.
3. Selene viene consultata dalla Nutrice. Timore - Speranza
216
di antitesi estreme. Con queste continue oscillazioni dal comico al tragico, con l'alternarsi fra
l’ottimismo e il pessimismo, e la conseguente ironia drammatica, le tragedie a lieto fine
risultano indubbiamente una rappresentazione più viva dell'instabilità della fortuna che non le
tragedie convenzionali.
Il mondo tragico classico è governato dall'inevitabilità, dal destino, da leggi che non
possono venir alternate; quello comico, invece, presume un'evitabilità, e con questa la fortuna.
Come la tragicommedia, la tragedia a lieto fine giraldiana è il risultato di una cooperazione di
queste due forze, cioé dell'inevitabilità tragica con l'apparenza di evitabilità della commedia. In
questo modo si rileva l'incontro fra la tragedia e la commedia nei drammi di Giraldi, poiché a
determinare la svolta finale dell'azione è sempre il coro e un universo etico fondato sui valori
eterni della Provvidenza; questi, infine, celebrano la vittoria sui tranelli dei personaggi che
cercano invano di uscire dalla staticità della tragedia.
4 e 5. Gripo si dispera dell'impossibilità di mettere in atto il suo piano. Timore.
Atto III:
1. Il figlio di Gripo trova un rimedio. Speranza.
2. Lamentele di Gripo. Timore.
3. Selene viene consolata dalla nutrice, ma vengono di seguito a sapere che il Senato ha proibito la partenza di Antigono.
Speranza - Timore.
4. Antigono accusa la fortuna di non soccorrere mai i buoni. Timore.
Atto IV:
1. Selene viene a sapere che Gripo parte per Persia. Speranza.
2. Il figlio di Gripo si lamenta, sentendosi in colpa. Timore.
3. Il consigliere di Rodobano esprime la contentezza che la verità sarà finalmente scoperta. Speranza.
4. Antiocho racconta a Antigono e alla nutrice la falsa notizia della morte del re. Disperazione.
Nell'ultimo atto la dicotomia speranza-timore si realizza nella conseguente coppia antitetica disperazione-gioia, dove il lutto
dell'eroina viene sostituito dalla gioia finale causata dal demascheramento del re.
217
5.6
L'ARRENOPIA E LA PRUDENZA
L'Arrenopia, l’ultimo dramma ferrarese di Giraldi, rappresentata nei primi mesi del 1563, è
tolta dalla prima novella della terza Deca degli Ecatommiti, che a sua volta porta forti
somiglianze con la novella decameroniana di Zinerva (Decameron II, 9), che il marito crede di
aver ucciso, ma che invece si traveste da uomo e si riunisce al marito nella conclusione della
storia. Una differenza caratteristica per la variazione di Giraldi, sempre inteso a celebrare i
valori della fedeltà mulierbe, è che il marito nella sua versione non tenta di uccidere la moglie
perché la crede infedele, ma perché intende tradirla.211 La versione di Giraldi enfatizza quindi
ancora di più il tema della fanciulla perseguitata.
Questo l’argomento: Il re d’Irlanda tenta di uccidere sua moglie Arrenopia per essere
libero di risposarsi. La regina è salvata dal cavaliere Ipolipso che però la crede un uomo, perché
indossa un’armatura e ha i capelli corti. Ipolipso la ospita nella sua casa quando il padre di
Arrenopia, re di Scozia, dichiara guerra a Astatio. Tutto ciò appartiene all’antefatto, mentre il
primo atto del dramma è dedicato al tema della gelosia, poiché Ipolipso è convinto che la
moglie lo tradisca con il misterioso ospite, mentre il suo servo Sofo cerca di fargli comprendere
l'assurdità dei suoi sospetti, e di consolare la moglie innocente. Nel secondo atto Arrenopia
espone l'antefatto mentre inizia la serie di trattative di guerra e di discussioni tattiche che
occupano larga parte del dramma. Arrenopia manda il suo paggio dal re Astatio per sapere
quali siano i sentimenti del marito nei suoi confronti e questi si scopre pieno di rimorsi in
quanto la crede morta. L'eroina decide quindi che è arrivata l'ora di svelare la sua vera identità,
mentre la crisi fra i coniugi Semne e Ipolipso si aggrava (atto III). Le discussioni sulla tattica di
guerra continuano sul campo di battaglia. Nell’ultimo atto si decide di far concludere la guerra
da un duello tre contro tre, ma il sangue non si sparge perché Arrenopia svela la sua identità, e
ne segue una riconciliazione fra tutte le parti.
Ariani descrive l'Arrenopia come la completa banalizzazione degli elementi più seri
della poetica giraldiana in un'esaltazione del diletto, mentre Horne la giudica come la meno
senecana e anche la meno aristotelica delle tragedie giraldiane, perché qui mancano le tre unità,
e anche l’orrore (Ariani, 1974:139; Horne, 1962:145). Più recentemente Davide Columbo,
nell’introduzione all’edizione dell’Arrenopia da lui curata, osserva che questo dramma si presta
bene ad analizzare il teatro di Giraldi nella sua specificità letteraria, senaz gerarchie
precostituite, in modo da coglierne la sostanza di teatro della sua complessità (Columbo, v).
4.6.1
211
Tre nodi intricati
Si veda Colombo, 2007, VI.
218
La complessità dell'intreccio viene annunciata anche dal prologo, che è particolarmente
specifico quando espone la morale e presenta la fabula. Nel dramma sarebbe contenuta una
serie di lezioni esemplari:
Or qui vedrete, spettatori, quanti
Ci apporti danno il non vedere il vero,
Et il lasciarsi a l'appetito in preda;
E che il non obedire a' suoi maggiori
E’ cagione di scandoli, ch'a guerra
Inducon spesso i più potenti Regi,
Questi versi contengono, in sintesi, le lezioni da trarre dalle tre trame che si intersecano nel
dramma: il «non vedere il vero» si riferisce al geloso Ipolipso, che nel presente drammatico
crede che la moglie lo tradisca; «il lasciarsi a l'appetito in preda» riguarda il marito dell'eroina,
il quale nell'antefatto la voleva uccidere per potersi sposare con un'altra donna e, infine, «il non
ubedire a' suoi maggiori» è l'errore di Arrenopia, che nell'antefatto si era sposata contro il
volere del padre. Il dramma contiene pezzi di trattatistica sulla donna e sul governare, tuttavia è
il vasto spazio dedicato alla tematica della guerra a irritare e intrigare i critici poiché, come nota
Horne: «once the initial situation has been outlined (Act I, Act II, scenes 1-4), the unfolding of
the plot is overshadowed by events which constitute the background to the story or are
incidental to it», per cui «the extensive military pageantry constantly threatens to eclipse the
drama of Arrenopia and Astatio, Semne and Hipolipso» (Horne, 1962:136,137). Difatti, più di
un terzo dalla pièce è occupato da discussioni sulla guerra, sulle tecniche del duello e sul
combattimento. A queste discussioni si aggiungono le scene che trattano il conflitto fra Semne
e il marito con discussioni sulla natura della donna e sulla gelosia, e il contrasto fra Astatio e
l'eroina, la quale aspetta solo il momento giusto per smascherarsi e così poter concludere
felicemente la guerra fra i coniugi e gli stati. Pare ovvio che la complessità della struttura di
questo dramma richiede invece un approccio critico che vada al di là dei giudizi di
apprezzamento.
Nel Discorso il nostro autore dichiara di preferire il doppio intreccio a quello semplice
per la tragedia a lieto fine, perché l'intreccio doppio offre la possibilità di sviluppare
simultaneamente problemi diversi. Scrive sulla tragedia a lieto fine:
Devete sapere che tali tragedie amano piú i nodi intricati, e sono piú lodevoli doppie che
semplici, il che non è cosí in quelle di doloroso fine, perché queste sono assai migliori
semplici che doppie, e per le semplici non intendo io ora quelle che sono opposte alle
implexe, ma quelle, la cui azione si riposa sovra una sola qualità di persona, e non si
maneggia nella scena con azione di diversa qualità; cioè che ci sia un saggio e un sciocco,
un crudele e un mite, un avaro, un liberale, un semplice e un astuto. (DCT, 189)
219
L'Arrenopia presenta tre trame, costituite da altrettante coppie in conflitto. I conflitti sono
strettamente congiunti perché sia lo scoppio che la risoluzione del subplot e dell'overplot
dipendono dal conflitto fra l'eroina e il marito. Le tre coppie che costruiscono le trame
drammatiche possono essere classificate schematicamente a seconda delle affinità e delle
qualità antitetiche che le contraddistinguono:
CONFLITTI
SUBPLOT
Semne vs
Ipolipso
PLOT
Arrenopia vs
Astatio
OVERPLOT
(guerra)
Astatio vs Orgito
QUALITÀ
ANTITETICHE
fedeltà vs
gelosia
gioventù vs
maturità
MEDIATORI
Il servo Sofo
costanza vs
incostanza
(il generale Omosio)
Paggio
gli ambasciatori
Non è il conflitto principale ad inaugurare il dramma, poiché il primo atto è interamente
dedicato all'esposizione del conflitto di gelosia fra Semne e Ipolipso. A causa dell'assenza di un
conflitto nella coppia regale nel presente drammatico, l'autore ha costruito un subplot con
funzione di illustrazione in una coppia di ceto inferiore: la virtuosa Semne che rischia di
perdere la vita a causa della gelosia infondata del marito. La gelosia è un motivo tipico della
novellistica; non è dunque casuale che, come nel caso dell'invidia, essa colpisca nei ceti medi, e
non fra i personaggi regali. Come il desiderio insano, la gelosia è una deviazione dell'amore che
rende ciechi e pazzi, viene infatti definita dal consigliere: «l'humor maniconico, in che sede /
Hanno queste fallaci opinioni, / Appanna in guisa gli occhi de la mente / A' chi le hà ricevute,
che non puote / Vedere il vero, e in continua croce / Tiene color, di ch'egli ha fatto preda.» (Arr.
I. 2).212 Questo raddoppiamento su un piano più basso dell'intreccio, e quindi anche delle
disgrazie e delle virtù femminili, funge di rinforzo alla lezione etica della protagonista. Semne
sopporta tutto, si tormenta, ma rifiuta di opporsi o di fuggire dal marito, e ripone pazientemente
tutta la sua fiducia in Dio. Con le sofferenze di Semne l'autore può quindi rappresentare in
scena, rispecchiandolo, il destino della protagonista dell'antefatto: come Arrenopia anche
Semne rischia di essere uccisa dallo sposo, ma neppure lei cerca rifugio presso i genitori perché
«il Padre / Contra il voler del qual presi Ipolipso, / Mi potrebbe sdegnare» (Arr, III. 3).
Mai come in questo dramma, Giraldi sfrutta le potenzialità della figura del mediatore
fondamentale per creare la mezzanità del personaggio tragico. Difatti, oltre a presentare
l'antefatto del subplot, il primo atto introduce la triangolazione dei rapporti caratteriali con un
212 Ricordo, a tal proposito, che la settima novella della 5. deca degli Ecatommiti contiene la storia del Moro di
Venezia, fonte dell'Othello.
220
mediatore posto al centro. E’ caratteristico per la tragedia di Giraldi l'andamento delle tre scene
del primo atto, con il posizionamento centrale del mediatore. Nella prima scena il servo Sofo
discute con Ipolipso e cerca di convincerlo dell'infondatezza della sua gelosia, segue un
monologo del servo, il quale poi conclude l'atto consolando l'eroina. Si è quindi costituito il
primo triangolo della tragedia.
Nella prima scena del secondo atto Ipolipso discute sulla guerra che ora lo ostacola da
scontrarsi in duello con Agnoristo, e crea in tal modo un ponte fra il subplot e l'overplot, che
occupa buona parte dell’atto.213 Le scene seguenti servono ad esporre le parti del conflitto e la
ragione della guerra, e a costruire il secondo triangolo della pièce, dove il fattore smorzante nel
conflitto non è un mediatore, ma un capro espiatorio Omosio, il generale malvagio del re
Astatio che serve per diminuire le colpe del giovane re. In un monologo un soldato si lamenta
della disastrosa condotta militare del generale Omosio, morto sul campo. Segue un dialogo fra
Astatio e il nuovo generale Alcimo, il quale spiega la disfatta militare con l'imprudenza di
Omosio. Alcimo narra poi in un monologo l'antefatto della guerra, come Omosio aveva
persuaso il giovane re a liberarsi di Arrenopia e come l'aveva catturata e uccisa. L'intersecarsi
fra le diverse trame diventa qui più stretto poiché, in queste scene viene presentato, mediante la
centralità della figura di Omosio, l'antefatto del conflitto principale. Alla fine dell'atto il paggio,
come mediatore, si è recato presso Astatio per scoprire i suoi sentimenti, e questo si rivela
pieno di rimorsi. I rimpianti di Astatio costituiscono dunque ancora un fattore mitigante che la
giustizia poetica può applicare per ottenere un lieto fine.
Nel conflitto dell’overplot, costituito dalla guerra, tocca agli ambasciatori pendolare fra
i due campi, ma è l'eroina a svolgere la funzione di mediatore finale: è la sua comparsa deus ex
machina a risolvere tutti i conflitti.214
213
Nel primo dei Dialoghi della vita civile molte pagine sono dedicate alla questione del duello, cito: «non solo
egli non è cagion d’onore a chi a tanta ingiustizia si dà, ma che tale affatto il perde, essendo il duello in odio e in
offesa d’Iddio. Però ch’egli ha riserbata la vendetta a sé, la quale cerca altri fare, per ingiuria ricevuta, nel
duello, attribuendo a sé quello che Iddio ha voluto che sia suo, contra le leggi naturali, divine e civili, contra i
magistrati e contra gli ordini delle ben fondate republiche e finalmente contra l’equita» (Ec, 1018). Per capire la
trattazione del duello nei drammi di Giraldi può essere utile ricordare la bolla di Leone X del 1519 contro i
duelli e, inoltre, sapere che il trattatista Giraldi, e molti altri con lui, confuta la validità di questa tradizione
cavalleresca. Alla base del rifiuto da parte di Giraldi del duello sta dunque il suo carattere arcaico e individuale:
il duello non va confuso con la guerra perché è spesso un risultato di passioni e inimicizie private. Le critiche
contro la prassi del duello si basano sullo stesso principio etico che porta al rifiuto della vendetta personale nelle
tragedie giraldiane, anche questa arcaica e incivile. Come la vendetta, anche il duello si trova in un difficile
equilibrio fra la giustizia e il crimine; è dunque meglio attendere pazientamente, e affidare la vendetta al DioAutore (Crf. Horne, 1962:141, 145). Bertini, che ha letto il dramma in relazione alla densa produzione
trattatistica sui tornei e sul duellare, nonché alla legislatura dell’epoca osserva che «Arrenopia risale al 1565,
anno dal quale la vituperata pratica del duello, quand’anche applicata per punto d’onore, si scontrava con I
severi provvedimenti che il Concilio di Trento aveva intrapreso per decretarne il divieto». (Bertini, 2007: 237).
214 Il meccanismo del travestimento, motivo ricorrente nelle commedie nonché nella letteratura cavalleresca
del Cinquecento, prevale fin dall'inizio dell'Arrenopia. E, come sempre nelle tragedie di Giraldi, il travestimento
è motivato dalla necessità, da uno scopo specifico: l'eroina deve nascondere la propria identità ed esistenza per
potersi riconciliare con il marito che la crede morta. Il travestimento serve però anche ad assegnarle la
possibilità di agire, in modo da ristabilire l'ordine sociale e, quindi, di poter rientrare nel ruolo passivo di moglie
221
Gli sviluppi dei tre plot dell'Arrenopia sono coordinati in modo da offrire varietà nel
dramma. Si tratta di una varietà tutt'altro che arbitraria, atta a creare contrasti, ad incrementare
la tensione e, anzitutto, a rafforzare il messaggio etico centrato sull'opposizione fra passione e
prudenza, che caratterizza tutte e tre i conflitti. Ciò diviene particolarmente palese trattando
l’overplot della guerra, che domina nel terzo e nel quarto atto, in cui ha luogo una serie di
discussioni di tattica. Si tratta di un topos attuale, come rammentato da Colombo «la moda dei
trattati sul duello e sull’onore, tipica delle corti padane specialmente nel decennio 1550-1560,
era particolarmente florida a Ferrara (Colombo, 2007: xvii). Tuttavia, invece di approfondire le
tematiche belliche e del duello, ampiamente discusse da Horne e poi, più recentemente, da
Bertoni, Colombo e Villari, desidero mettere in rilievo la rappresentazione dei valori etici nel
dramma.215 Giraldi applica talvolta la sua teoria della favola doppia, e inserisce coppie di
giovani e vecchi anche senza che abbiano una funzione specifica nello svolgimento dell'azione.
Il motivo dell'opposizione fra le età, come si trova nell'Arrenopia, è invece fondamentale
perché è atto a illustrarne l'ideale eroico, che va visto nel quadro del programma
controriformistico.
5.6.2 L’ideale della maturità
Ad innescare il conflitto nei drammi sono quasi sempre i desideri incontrollati della gioventù,
così anche nell’Arrenopia dove due re stanno per scontrarsi in guerra: Orgito, il padre
dell'eroina e il giovane re Astatio. La giovane età di Astatio è la ragione principale dei suoi
errori: essa lo ha reso facile preda del desiderio sensuale nell'antefatto e, ora, di fronte alla
guerra, è la scarsa esperienza a minacciarlo e a renderlo pericoloso per il proprio regno. Il
dramma presenta anche un altro contrasto di età, rimpiantato su un livello inferiore, poiché il
giovane re Astatio si trova ad oscillare fra i consigli dell'anziano e prudente capitano Alcimo e
quelli del giovane Nearisco. Lo scontro fra i due consiglieri si svolge in alcune scene centrali,
nelle quali i personaggi giovani riprendono gli argomenti di Orazio, che nell'Ars Poetica
delinea una concezione spietata e negativa della terza età; mentre la posizione del saggio
consigliere è di stampo platonico, o meglio, ciceroniano, considerando la vecchiaia come
momento di distacco dalla schiavitù del corpo e quindi di saggezza e di elevazione spirituale.
Alcimo descrive il suo signore e la pericolosa combinazione gioventù-potere in un soliloquio
che introduce il tema:216
L'esser giovane fà, che non conosce
Ne maneggi de l'arme specialmente,
e figlia nell'ultima scena. In realtà l'eroina compare poche volte e, prevalentemente, per ricordare al pubblico
che sta aspettando il momento giusto per rivelare la propria identità.
215 Horne, 1962:136-45, Bertoni, 2007, Colombo 2007, Villari 2012: LIV-LVII.
216 Crf.: la prima replica dell'Epitia: «Il mandar gioventù ne' magistrati / Nè quali si debba amministrar
giustitia, / Altro spesso non è, che por la spada / In mano d'huom, che de furor sia tocco» (Epi, I. 1).
222
L'huom quel, che è il suo meglio, per poco
Esperienza de le cose humane
La qual si acquista sol con lungo tempo. (Arr, III. 6)
Nella scena seguente l'anziano capitano si confronta con il giovane Nearisco e tenta di farlo
ragionare: «Figliuol mio, chi può vincer con prudenza / Non si dei mai ad usar la forza» (III, 7).
Ma è inutile, perché subito dopo, in un monologo, Nearisco riconferma il suo disprezzo per la
vecchiaia che non aspira alla gloria, ma solo alla cautela: «Certo egli è vero che logorano gli
anni / Non pure il corpo, ma gli animi e il core» (III, 8). La disputa continua nell'ultima scena
del terzo atto, dopo le esposizioni nei due monologhi dei punti di vista degli antagonisti, che
incorniciano, precedendolo e seguendolo, il loro raffronto diretto. Tocca a un personaggio
neutrale, all'Araldo, a descrivere la collisione inevitabile fra le età e trarne una conclusione:
Grave errore è da giovani signori,
Che i consigli dei vecchi abbiano a schifo,
E i giovanili pregino, e che paia,
Che come lor va un'huom canuto innanzi
Di veder comparir un lor nemico. (Arr, III, 11)
Horne propone un'ipotesi biografica sul ruolo delle età in questo dramma: «Giraldi is on the eve
of his departure from Ferrara, and he seizes the opportunity of complaining that the immature
Duke Alfonso, who succeeded to the title only four years before, is much too ready to listen to
the counsels of his young secretary Pigna and to ignore Giraldi, now in his sixtieth year»
(Horne, 1962:142). Ipotesi plausibile, anche perché il prologo si conclude con riferimenti a
questo conflitto, spiegando che la tragedia è composta «dal Poeta nostro / Sol per lasciar, su
questa sua partenza, / (Mal grado de gli ingrati, e de i maligni) / Appresso voi di lui grata
memoria». Tuttavia si tratta di una tematica dominante negli ultimi drammi del ferrarese, molto
presente nella Selene e negli Antivalomeni. E' interessante notare, a tal proposito, come anche
nel trattato sul cortigiano Giraldi metta in rilievo gli effetti psicologici che comportano una
differenza d'età fra il consigliere e il signore: «E mi pare che sia di molto importanza servire a
Signore dell'età sua, o poco maggiore. Perché questa simiglianza dell'età è come ministra
attisima a conciliare la benivolenza ove la gran differenza degli anni, [...] molte fiate è come
uno intoppo che impedisce di guadagnar quella grazia che desidera il servitore; [...] Vedendosi
sovente avenire che giovane Signore, il quale si vegga venire innanzi servitore canuto, ancora
ch'egli sia virtuoso e di molto merito, quasi l'abborisce, perché gli pare di avere appresso chi lo
possa riprendere» (DGN, I). L'ideale dell'equilibrio, da Giraldi attribuito agli anziani, rimanda a
quello aristotelico delineato nella Retorica (II, xiv), dove le virtù vengono collegate alle diverse
età dell'uomo; alla maturità dell'anima si giunge nell'età di mezzo, fra la gioventù "desiderante"
e la vecchiaia, biasimevole per cautela esagerata e per mancanza di desideri. Che le varie età
umane siano un argomento caro a Giraldi, come in genere ai trattatisti del secolo, è dimostrato
dal fatto che i tre Dialoghi della vita civile trattano le tre età dell'uomo: l'infanzia, dominata
223
dall'anima vegetativa, la quale non cerca altro che l'utile, la gioventù dominata dall'anima
sensitiva, e la terza età, la sola dove la ragione può vincere.217
Nell'Arrenopia non viene riconosciuto nessun merito alla gioventù di fronte all'età matura: non
solo il re Orgito è più saggio del giovane Astatio, il consigliere vecchio più saggio del giovane
Nearisco, ma anche l'esercito di Orgito è più forte perché è costituito da uomini anziani e
prudenti:218
Non mi è parso haver visti ivi soldati,
Ma tanti senatori armati a guerra
Tal, ch'havendo congiurata a la fortezza
Una prudenza singolare, e una esperienza singolare in arme,
sian per venir, sì saggi, e così forti
Ad assalir questa gioventù nostra,
Che se buona fortuna non ci aita,
Si vedrà, che fidarsi ne la forza,
Che porta seco la giovane etade,
E' fondersi sul vento. (Arr, III, 11)
E' infine il consigliere maturo a vincere sul giovane Nearisco quando essi si incontrano al
cospetto del re, nel quarto atto. A battaglia conclusa resta, allo sconfitto Nearisco, di esprimere
la sua delusione in un soliloquio:
Non avrei mai pensato, che il re nostro
Lasciata uscir si avesse da le mani
L'occasion, che gli ha sì bella offerta
La sorte, d'ire ad assalire Orgito:
Prima ch'egli parlasse con Alcimo,
217 La forza del magnanimo è sempre una questione di misura - lo spiega Lelio nel terzo Dialogo della vita
civile: «potete comprendere dalla fortezza, la quale essendo fra l’audacia e il timore, ha ella molto piú
somiglianza con l’audacia, che non ha col timore, e perciò non è ugualmente distante dall’uno e dall’altro» (ec,
1167).
Nel secondo dei Dialoghi Giraldi afferma di parafrasare Aristotele quando descrive i vizi dei giovani, che
«troppo presumendo di loro medesimi, piú si promettono degli avenimenti della fortuna che non conviene, e
poco o nulla considerano per qual camino si giunga, con virtuose operazioni, a lodevole fine. Il che è cagione
che non danno orecchie alle amorevoli ammonizioni e poco a’ saggi consigli, perché, non conoscendo la
ignoranza loro, si pensano di sapere ogni cosa, tanta è la veemenza dello spirito gagliardo che regna in questa
eta» (Ec, 1050). Mentre nel terzo dei Dialoghi della vita civile viene descritto l'ideale aristotelico del consiglio
maturo di deliberare lentamente per poi agire con grande prontezza (Et. Nic., VI, ix): «perché non si fa la
elezione in momento di tempo, anzi quando proposte ci sono le cose, le quali debbiamo o fuggire o seguire,
bisogna che ve intervenga il consiglio, il quale non è intorno al fine delle azioni, ma intorno a’ mezzi co’ quali
le azioni si debbono finire. Onde vi è bisogno di tempo, e però si dice che la prestezza è lontana dal consiglio e
che molte fiate la penitenza segue coloro che subito, senza far discorso sulle cose, si deliberano. Al consiglio
vien dietro il giudicio e al giudicio la elezione e dalla elezione vengono l’opere e gli effetti che si sono accettati
per gli migliori.» (Ec, 1141). Va a questo proposito ricordato, che la maggior saggezza degli anziani veniva
sottolineata anche tramite la distribuzione dei ruoli nei dialoghi cinquecenteschi: così, nella teatralizzazione dei
dialoghi degli Ecatommiti, Giraldi segue la tradizione e assegna al più anziano il ruolo di conversare e di esibire
la propria saggezza, mentre ai giovani spetta l'ascoltare e il rivolgere domande.
218 Una scena analoga a questa si trova nel poema eroico di Giraldi dove, nel terzo canto, Ercole sconfigge il
numeroso esercito nemico proprio con la prudenza.
224
Io l'avea in guisa a la battaglia acceso,
Che l'ora non vedea d'ira a giornata,
E quello ardore ha così raffreddato
Alcimo, che l'ha fatto venir gelo.
La freddezza de' vecchi è sì possente,
Che non vi vale ardor di giovanezza,
S'altrui s'oppone il suo volere a loro. (Arr, IV. 6)
Appartiene alla commedia di Plauto la figura del vecchio ridicolo e ingenuo preso in giro dai
servi, mentre Giraldi, eccezione fatta per la figura di Gripon nella Selene, ricorda e raccomanda
la commedia di Terenzio, poiché il rispetto nei confronti dei maggiori, dei padri, è essenziale:
«ancora che nascono ragionamenti crucciosi fra padre e figliuoli nelle sue favole, vi hanno
nondimeno sempre i figliuoli quei rispetti e quella riverenza che a padre si conviene avere, né i
padri nel riprendere i figliuoli usano villane e sconce parole [...] ma con paterna minaccia e
degna di nobile cittadino gli riprendono» (DCT, 95). Il pessimismo dei vecchi, denunciato
anche da Castiglione all'inizio del secondo libro del Cortegiano come disincanto e denegazione
a causa della dura esperienza della vita, diventa sinonimo di saggezza e attributo tipico sia del
buongoverno che del buon consigliere. In Giraldi gli atti di ostacolazione da parte degli anziani
significano cautela e prudenza: è un ideale che domina nei drammi dove l’azione è giudicata
positiva solo nei casi in cui è diretta verso un ritorno allo status quo dell'antefatto.219 Sono gli
antagonisti degli eroi a credere nell’azione dirompente.220 Ecco la descrizione dell’Omosio, il
capitano che nell'antefatto aveva convinto il giovane re ad uccidere Arrenopia:
La male sorte sua, e de la Reina
Volse che consultore Omosio havesse.
Huomo malvagio, e che nel mal 'operare
Havea delitto, e sol godea, quando
Inducea il Re à fare oltraggio
A gli sprirti gentili, (Arr, II. 6)
Nella novella-fonte viene invece accennato solo di sfuggita a questa figura, e il re viene
descritto senza che siano messe in rilievo le circostanze attenuanti, come la giovane età e il
consigliere malvagio.221 Il maturo consigliere Promacho narra come il furore di Omosio sia
stato sconfitto:
219 Philone nell'Euphimia è l'unica figura di rilievo a dimostrare la forza positiva della gioventù e della
passione in Giraldi; a ben guardare, però, questo personaggio rappresenta anzitutto il volere del padre dell'eroina.
In quel dramma, infatti, l'antitesi principale non era passione-prudenza, bensì nobiltà-non nobiltà.
220 Lebatteux ha notato la stessa tendenza nel Commentario di Giraldi: «Si l'on reprend le Commentario dans
son ensemble, on remarque que, dans la succession ferraraise, il distingue le princes guerriers des pacifiques, les
capitanes des diplomates, et témoigne, sans équivoque, de sa préférence pour les seconds» (Lebatteux,
1974:309).
221 «Nell'isola d'Ibernia regnò già uno, ch'Astazio avea nome, uomo valoroso, ma d'ingegno vario, e molto più
piegevole à satiare i desideri suoi, che di haver l'onesto, e la ragione per duce.» (Ec, III. 1, 529)
225
Omosio, General del campo nostro,
Spronato da sfrenato orgoglio, à pugna
L'essercito condotto ha col nemico,
Pensando, che il gran numer de le genti
Bastasse à porre il Re di Scotia in rotta,
Nè molto è andato, c'ha veduto chiaro,
Che vaglian più cento guerrieri arditi,
Et pratichi ne l'arme, ch' abbian duce
Che con l'antiveder conosca quella
Che si dee fare, e quel che può avvenire,
Che le migliaia, che non siano esperti
E da ira siano guidati, e da furore. (Arr, II. 3)
L'anziano consigliere trae, alla fine, le giuste conclusioni, non la Fortuna amica dei giovani, ma:
«perché la Fortuna / Che è detta aver le cose umane in forza, / Soggiace al fine a una prudenza
salda». Nell'Epitia, l'ultimo dramma di Giraldi, quest'ideale controriformistico della
magnanimità strategica sarà ulteriormente sviluppato.
Molti degli intermezzi corali di Giraldi sono dedicati alla tematica dell'amore; in realtà
quel topos è solo una parte di un argomento più vasto, che descrive la lotta che l'uomo deve
condurre per diventare degno del suo nome e del suo creatore. L'unica via di uscita dalle
tenebre create dall'ira, dall'ambizione e dal desiderio vano è la ragione, "regina" su tutte le
facoltà date all'uomo. Il tutto si collega al topos platonico e aristotelico delle diverse anime
dell'uomo e delle sue possibilità di scelta. L'errore tragico di entrambe le figure della coppia
principale sta nell'essersi lasciate dominare dall'anima passionale, o bestiale, che si manifesta
nel desiderio vano, il quale ci «priva di luce», e nell'ambizione, nell'ira, che ci «appanna gli
occhi col tenebroso velo» (Eup, coro I; Did, coro II).
In fin dei conti è la concezione del Pico, ossia rinascimentale, del potere proteiforme e
delle possibilità dell'uomo, l'unico fra le creature che si possa autocreare, insieme alla tremenda
responsabilità impostagli dal dono del libero arbitrio, a costituirne, quasi ironicamente, lo
sfondo etico dei drammi. Nonostante l’ortodossia di Giraldi, nel Discorso sui romanzi viene
accennato al maggior Pico per il suo commento alla Canzone del Benivieni. La celeberimma
Oratio di Pico della Mirandola è rappresentativa per il clima già controriformistico in cui opera
Giraldi, proprio a causa dell'enfatizzazione della dignità umana impastata di razionalità e per la
rilevanza che egli dà al libero arbitrio. Per Pico, l'uomo è un miracolo proprio per le forme
infinite che egli può assumere nell'ordine universale: l'Oratio inizia con una riscrittura della
Genesi in cui si racconta che Dio ha pensato l'uomo quale libero creatore di se stesso. E'
proprio questa indeterminazione a porre l'uomo - "opera di natura indefinita" - di fronte alla
scelta di degenerare fra i bruti o di rigenerarsi, tramite la sapienza, nella contemplazione di Dio.
La natura ontologica dell'uomo è data dall'integrazione dei diversi ordini della natura: quello
puramente fisico, quello vegetativo, quello sensitivo e quello razionale, ed è quest'ultimo dono
a rendere l'uomo artefice di se stesso, perché con l'intelligenza egli può giudicare e contemplare
226
l'universo, per poi usare la volontà e decidere quale ordine scegliere e far proprio. Così, quando
Giraldi, nei Dialoghi sulla vita civile, riprende la tematica pichiana, si ricollega ad Aristotele e
scrive:
Et perché non siamo di semplice natura, ma composti di tutte le qualità di vita, che sotto
il Cielo si ritrovino [...] egli è anco necessario, che quelle potenze delle anime, per le
quali siamo uomini, e partecipiamo di tutte le nature delle cose, che vivono, abbiano i lor
fini, a beni che dir gli vogliamo: e che questi fini quantunque contrario tenga Aristotile
ordinatamente rispondono alle tre potenze, o facoltà dell'anima, che in noi sono, i quali
beni sono l'utile, che riguarda la potenza vegetativa, il piacevole, che è dello
concupiscibile, e l'honesto, appropriato alla parte razioniale. [...] Et l'uomo, per essere fra
gli animali perfettissimo, è creato dalla Natura ad havere desiderio di tutti i tre questi beni,
e a cercare di conseguirli, per potere essere nella vita civile perfettamente felice. (Ec,
1144-45)
L'uomo deve però conoscere la gerarchia che controlla e regola queste potenze e saperle usare
in modo giusto, come viene spiegato ripetutamente dai cori. Cito dal primo coro dell'Arrenopia:
Il velo che ci pone innanzi a gli occhi
Questo velo mortale,
Così sovente il ver discorso appanna,
Così spesso ci inganna,
Che non usiamo di ragione il lume,
Come insensati e sciocchi:
Che poco il senno vale,
Se passion prevale,
Che quei che sono tocchi
Da voglia e da desire irrazionale,
Spesso giungono a tale,
Che per lo rio costume
Discernere non san dal falso il vero,
Quando l'idea dell'uomo di Giraldi non può essere uguale a quella di Pico, ciò non è soltanto
per la sua denegazione di ogni tentativo di ascesa di potere di individui di origine bassa o
borghese. Poiché, mentre nel '500 aumenta la coscienza della possibilità dell'individuo di essere
il proprio creatore, tramite un processo artificiale e retorico, tale libertà significa al contempo, e
anzitutto, responsabilità: l'autocrearsi dell'uomo avviene per forza e sempre secondo i
meccanismi di controllo della famiglia, della religione o dell'istituzione. La ragione
rappresentata dai drammi è uno strumento che serve all’uomo non principalmente, come presso
gli umanisti, per formare il mondo, ma prevalentemente per governare e per controllare se
stesso.
227
5.7
L'EPIZIA E LA CLEMENZA
L'Epizia, composta più di vent'anni dopo l'Orbecche, quale dono alla corte del nuovo mentore
Emanuele Filiberto, e forse intesa per un palcoscenico sabaudo, non fu mai rappresentata, ma
confluì "verginella" nella raccolta delle tragedie giraldiane del 1583, come scrive Celso Giraldi.
L'Epizia non presenta protagonisti regali; con questo dramma l'imborghesimento della tragedia
di Giraldi raggiunge il suo culmine, come aveva notato il Guerrieri-Crocetti (1932:698).
Herrick giudica invece l'Epizia come la migliore e la più emblematica delle tragedie di Giraldi,
e scrive:
Epitia illustrates nearly every feature of the tragedy that Cinthio sought to develop. It has
a double plot (two cases of seduction). Its threats of death keep the reader or spectator in
doupt, full of pity, torn between anxiety and hope, until the very end. It makes extensive
use of discoveries and reversals of fortune. It emphasizes the role of women in courtly
life of the sixteenth century. (Herrick, 1965:115)
L’Epizia è interamente dedicata a questioni giuridiche; pare che Giraldi abbia voluto
concludere il proprio corpus drammatico, includendo tutti i dilemmi giuridici sulla punizione e
sulla retribuzione presenti nei drammi precedenti, combinandoli in un sistema, spingendoli a
dialogare l'uno con l'altro.
Il primo atto è dedicato all'esposizione dell'antefatto Vico, il fratello dell'eroina, è
condannato a morte per aver violentato una donna del popolo. Il Podestà narra che il
governatore Iuriste ha promesso a Epizia di liberere il fratello qualora ella gli si conceda. Da
parte sua le promette di prenderla per moglie. In nome della legge il Podestà vuole ora
convincere Iuriste ad eseguire la condanna a morte, e discute quindi con il suo Segretario.
Iuriste, che teme la reazione dell'Imperatore se questo viene a sapere della sua condotta, decide
di mancare alla parola data a Epizia, di far uccidere Vico e di mandare il suo corpo all'eroina.
Intanto l'eroina, la sorella di Iuriste e una cameriera aspettano impazientemente il matrimonio e
il ritorno di Vico. Quando, nel terzo atto, il capitano le consegna il corpo di Vico, Epizia, e
nasconde l'ira e il dolore, e fa riferire a Iuriste di essere sempre «tutta a suo piacer». Al coro
racconta, al contrario, di aver simulato di accettare la decisione di Iuriste per poterlo uccidere.
Epizia viene però convinta dal coro e dalla zia a rivolgersi all'imperatore Massimiano per
ottenere giustizia, invece di vendicarsi personalmente. Venuto a conoscenza dell'offesa,
l'imperatore ordina a Iuriste di sposare l'eroina; questa fugge disperata dopo le nozze (atto IV).
A sorpresa di tutti, poi, l'imperatore condanna a morte il governatore. Le donne cercano invano
di persuadere Epizia a pregare per la vita di Iuriste, ma l'irremovibile eroina cambia idea solo
quando viene a sapere che il capitano ha ucciso un altro criminale al posto del fratello, che
invece è vivo. Infine, l'imperatore asseconda le richieste deIl'eroina graziando Vico e Iuriste. Il
dramma si può quindi concludere con la promessa di matrimonio fra Vico e la giovane donna e
con la riconciliazione tra Epizia e Iuriste.
228
Il dramma è costruito intorno a più processi che riguardano tre vergini violate: la donna
del popolo, violata da Vico, Epizia, tradita dal governatore Iuriste, e infine, e soprattutto, la
casta, pura vergine della Giustizia, violata da chi la doveva guardare. Difatti, come ha mostrato
in parte anche la Lucas, mediante i personaggi principali il dramma presenta ben cinque diverse
interpretazioni ed abusi della giustizia: il cieco rispetto della legge scritta, rappresentato dal
Podestà, l'abuso strategico del potere politico per scopi personali da parte di Iuriste, la
posizione intermedia rappresentata dal Segretario che sostiene che le leggi devono essere
adattate alle circostanze, la vendetta privata esemplificata dall'eroina e, infine, quella
dell'imperatore, che include l'uso dell'equità in modo strategico e pragmatico, rivelandosi
l'unica a poter risolvere i conflitti e ristabilire l'ordine (Lucas, 1984:189-90). I principi e le basi
giuridici e storici del dramma sono stati analizzate profondamente da Fabio Bertoni, anche
tramite una vasta documentazione di casi giuridiche dell’epoca.222 In questo luogo l’Epizia
sarà affrontata quale ultima tappa dello sviluppo della poetica di Giraldi, sottolineandone la
ridondanza delle strutture e il rafforzamento dei tipi che incarnano l’intrigo drammatico.
5.7.1 La violazione della giustizia
La prima scena è un monologo in cui il Podestà lamenta come Iuriste abbia disprezzato la
Giustizia quando aveva promesso a Epizia di liberarle il fratello, qualora gli si fosse concessa.
Nella scena susseguente il Podestà affronta Iuriste direttamente:
è molto meglio
Ch'ella la morte pianga del Fratello,
A che dannato l'hà la giusta legge,
Che voi vi habbiate à vergognar d'havere
Offesa, per piacerle, la Giustizia. (Epi, I. 2)
Il Podestà discute poi con il Segretario di Iuriste. Mentre quest’ultimo cerca di moderare e
valutare anche le qualità delle persone, il Podestà rifiuta il principio di equità e rigetta una serie
di circostanze attenuanti. Si oppone alla clemenza per l'offesa perpetrata contro la giustizia, che
per lui significa la legge, indifferentemente dal contenuto:
De le leggi d'altrui non faccio stima,
Et, quand'io fossi là, io serverei
Quelle cosi, come servare hor voglio
Questa, di cui ministro esser mi trovo. (Ivi, I. 4)
A dibattito concluso, niente si è risolto e entrambi sono fermi sui propri principi. Concludono il
primo atto i due monologhi del Segretario e del Cameriere di Iuriste, che commentano e
lamentano l'eccessiva severità del Podestà. La conseguenza dell'argomentazione di Podestà si
rivela nel secondo atto nei dubbi sull’insiurezza della situazione: «Da un lato bramo far
222 Bertini, 2008.
229
contenta Epizia, / Da l'altro mi ritrae da contentarla / La gran severità di quest'huom fiero» (Ivi,
II. 2). L'ultima apparizione del Podestà ha luogo nella quarta scena del secondo atto in cui egli,
discutendo con un Consigliere, parla della giustizia come principio che si trova al di sopra di
tutto e di tutti; essa seguirà anche contro il volere del signore il quale, come dice «piu tosto
dispiacere i' voglio / Che, per far torto, dispiacere à Dio» (Ivi, II. 4). Il Podestà può quindi
lasciare la scena definitivamente avendo ottenuto, sebbene ancora a sua insaputa, ciò che
bramava: la morte di Vico. Le posizioni del Podestà sono quelle che erano soliti tenere i
sovrani drammatici di Giraldi, come se il drammaturgo ferrarese non potesse concepire una
tragedia senza la presenza del dilemma etico e giuridico intorno all'applicazione equa, oppure
cieca delle leggi. E' inoltre chiaro che l'introduzione del Podestà, oltre a rappresentare la legge
cieca, serve come circostanza attenuante e come capro espiatorio per il governatore; nella
novella si narra infatti che questo «prima ch'egli andasse a giacersi colla Vergine, in vece di
liberare Vico, commise che subito gli fosse tagliata la testa», mentre nel dramma il governatore
si vede costretto, per via delle minacce del Podestà, a far decapitare Vico.
L'inganno e il tradimento di Iuriste sono svelati nel terzo atto, quando all'eroina viene
presentato il corpo morto del fratello; di qui ha inizio il conflitto di Epizia su come reagire per
ottenere giustizia. Questa viene descritta come una donna che all'occorrenza sa usare le proprie
doti: la Cameriera racconta, per esempio, come l'eroina sia riuscita a impressionare Iuriste:
Ha molta forza una bellezza rara,
Che si ritrovi in giovane polcella,
E s'ella è accompagnata da maniere
Nobili, accorte, e gentilmente usate,
Et da ragionar grato porta seco
Tanta efficacia, che potrà levare
I fulmini di mano al sommo Giove. (II. 5)
Purtroppo questa scena di persuasione appartiene all'antefatto: nel dramma non sono
rappresentate le doti retoriche di Epizia, la quale appare invece preda di quell'inflessibilità che
non dimostra nessun interesse nel dialogare, limitandosi a ripetere la propria decisione di
vendicarsi personalmente su Iuriste. Nella drammatizzazione della novella degli Ecatommiti
Giraldi ha inoltre esiliato nell'antefatto sia la scena di seduzione fra Iuriste e Epizia sia il
dilemma dell'eroina che deve decidersi se sacrificare la verginità per salvare la vita al fratello,
dove anche quest'ultimo tenta di convincere Epizia ad assecondare Iuriste. In netto contrasto
con la versione drammatica shakespearina della stessa novella, Measure for measure,
nell'Epizia tutti i motivi erotici sono stati censurati. Come Orbecche simula di accettare
l'uccisione del marito e dei figli per poi uccidere il tiranno, di fronte al cadavere del fratello
l'eroina finge di accettare che Vico sia stato giustiziato, solo per poter più facilmente uccidere
Iuriste: «andar vi voglio, e, sì tosto ch'io il vegga, / Adurmentato, il vò svenar con questo /
Coltello, che celato havero meco» (Ivi, IV. 2). Solo a metà del quarto atto il coro e la zia
230
riescono a convincere Epizia a rivolgersi all'Imperatore per ottenere giustizia.223 L'eroina nella
novella decide invece da sé, «mossa della sua natural benignità», di salvare Iuriste dalla
condanna a morte e affronta l'Imperatore personalmente, riuscendo, grazie alla sua abilità
retorica, a convincerlo. In veste drammatica Epita si allontana quindi dalla funzione di esempio
positivo che aveva nella novella. Per ottenere un lieto fine a dispetto di questa eroina
vendicativa, Giraldi deve cambiare la conclusione della novella, in modo che Vico si riveli vivo,
salvato miracolosamente da un capitano, che ha decapitato un altro criminale al posto suo. Solo
a questo punto l'eroina drammatica chiede, e ottiene, la salvezza del marito, insieme a quella
del fratello. Come l'abuso del potere di Iuriste, e l'eccessiva severità di fronte alla legge del
Podestà, anche il desiderio di vendetta personale dell'eroina rappresenta una minaccia all'ordine
civile. Lo sottolinea anche Lucas: nell'universo etico dell'Epizia non vale più il codice
cavalleresco, e la vendetta personale viene rifiutata e sostituita dalla legge dell'imperatore
(Lucas, 1984:183).
A partire dalla metà del quarto atto l'imperatore conduce invece il processo giuridico
verso la lieta conclusione. Sfila davanti a questo giudice supremo prima l'eroina, la quale
depone la sua accusa nei confronti di Iuriste; entra poi l'imputato che reagisce all'accusa con
menzogne, ma che non riesce a celare la propria colpevolezza. Infine viene chiamata la sorella
di Iuriste, che testimonia la verità. Dopo le interrogazioni delle parti coinvolte, il quarto atto si
conclude con il verdetto dell'imperatore, cioè, che il matrimonio fra Iuriste e Epizia sia
celebrato. L'eroina protesta ma poi annuisce:
Sia come piace à la Maestà vostra,
Ma io non ne sarò contenta mai. (Ivi, IV. 5)
Qui il sovrano viene mostrato come un giudice che dirige in modo assoluto i riti delle
retribuzioni e dei castighi, e che non sente neppure il bisogno di servirsi di consiglieri prima di
pronunciare il verdetto finale. Come abbiamo visto, il conflitto giudiziale tipico nelle tragedie
precedenti di Giraldi è, in questo dramma, spostato su un livello sociale inferiore in quanto il
ruolo del re inflessibile è stato assegnato alla figura del Podestà; mentre la figura del saggio
consigliere del sovrano è rappresentata dal Segretario. E' pur vero che anche l'imperatore
dialoga con il Segretario sul caso, ma gli argomenti di quest'ultimo vengono subito scartati. E’
come se l'autore, dopo aver rappresentato i fallimenti del consigliere dramma dopo dramma, si
allontanasse definitivamente da questa figura impotente, per riporre tutto il potere e l'intelletto
nella figura centrale di un re magnanimo. Il Podestà si oppone al sovrano clemente e prudente,
come i sovrani nei drammi precedenti si erano opposti ai loro consiglieri, ma nell'Epizia non c'è
nessun dialogo fra i due poli, che non si incontrano mai sulla scena.
223 L'eroina della novella non ha invece bisogno di essere persuasa da altri per rigettare l'idea della vendetta personale, ma
capisce da sola i vantaggi di rivolgersi all'Imperatore per ottenere giustizia.
231
Nell'Epizia l'amore, o meglio, il matrimonio, pare ridotto a essere uno strumento di
controllo e retribuzione, una merce di scambio abilmente usata dai protagonisti. All'inizio
Epizia si è data a Iuriste per ottenere la libertà del fratello condannato a morte, alla fine Iuriste e
Vico accettano di sposarsi con le donne da loro offese come espediente per liberarsi da una
punizione più grave; infine, per la donna del popolo violentata da Vico, il matrimonio significa,
non solo l'onore riacquistato, ma anche un'ascesa a un ceto sociale superiore.
Salvo è Vico, è salvo Iuriste, & salvo
E d'Epitia l'honor, & l'honor anche
De la violata Donna da Vico, (Ivi, V. 7)
Come nella commedia inglese del Rinascimento vengono qui enfatizzate le qualità materiali
dell'amore e del matrimonio, con la differenza significativa però che in Giraldi il valore
principale è l'onore, sempre intrinsecabilmente legato al santo nodo del matrimonio, che va
salvaguardato comunque e al di là dei rancori personali. L'eroina deve quindi dimenticare il
rancore che porta nei confronti di Iuriste che le ha ucciso il fratello «poi che l'è marito / L'abbia
per suo marito, e non per oste» (Ivi, V. 3). Il matrimonio si rivela palesemente come quel
strumento politico di punizione e di controllo che è stato in tutti i drammi precedenti. Nella
stretta connessione fra mancanza di controllo sessuale e disordine sociale, l'istituzione del
matrimonio viene rappresentata come imprescindibile per l'ordine sociale. Nonostante o forse
proprio grazie a “l'imborghesimento” della tragedia, le eroine innamorate e passionali dei primi
drammi sono state sostituite nelle ultime tragedie di Giraldi, con figure femminili che
rappresentano il valore puramente istituzionale e regolamentivo del matrimonio. Anche i motivi
neoplatonici, quindi, sono stati esclusi dagli intermezzi corali dell'Epizia a favore di
un'interpretazione controriformista, dove i valori massimi sono l'ordine, l'ubbidienza, l'onore e,
ancora, il matrimonio; questo, in conclusione del dramma, viene impiegato dall'Imperatore
come uno strumento di consolidamento del proprio potere mediante una catena costituita da
debiti e dalla dovuta gratitudine. L'alto valore del matrimonio viene sottolineato dal giudizio
dell'Imperatore, che prima condanna Iuriste a sposare l'eroina per aver tradito Epizia, poi lo
condanna a morte per aver violato la sacralità dell'istituzione del matrimonio, per la rotta fede.
Sodisfatto hò à l'honor de la Donzella,
Resta ch'io sodisfaccia anche à l'oltraggio
Ch' Iuriste fatto l'hà, sotto la fede,
[...]
Stato saria men mal, che sol violato
L'havesse, & non l'havesse fatto oltraggio
Con la giurata fede, promettendo
Di prenderla per moglie, che à quel modo
Violata havrebbe sol la pudicitia.
E' così, hà offesa quella, e offeso insieme
Il Re del Ciel, la fede, & le ragioni
232
Che statuite sono al Matrimonio
Da le divine leggi, & da le nostre. (Ivi, V. 1)
Come ricordato sopra, i conflitti dell'Epizia sono causati dalle violazioni di tre vergini: la donna
violata da Vico, Epizia tradita da Iuriste e infine la vergine della Giustizia. E, come al solito in
Giraldi, è molto presente la figura del mediatore dei conflitti. Ai diversi processi corrispondono
quindi tre triangoli di figure che si rispecchiano per equivalenza. Vediamoli.
Il primo atto, dove assistiamo al "processo" contro Vico, condotto dal Podestà, serve
essenzialmente come pretesto per illuminare il crimine di Iuriste, il quale ha deliberato di
salvare la vita di Vico in cambio della verginità di Epizia. Il dramma inizia dunque con
l'esposizione del conflitto conseguente alla licenziosità di Iuriste, quello fra la giustizia e il
mancato rispetto di essa. La portavoce della giustizia è qui la figura del Podestà, inflessibile nel
rispetto della legge scritta, che quindi si oppone sia al fatto che Vico sia graziato, che alla
condotta giuridica di Iuriste. Intermediario in questo conflitto è il Segretario del governatore,
che discute con il Podestà, sostenendo che le leggi sono generalmente troppo rigide, e cercando
di convincerlo della valenza dell'equità e della clemenza. Con la decisione di Iuriste di mandare
il corpo di Vico a Epizia, il processo contro Vico e il conflitto fra il Podestà e Iuriste ha una
risoluzione provvisoria.
Da questo fatto scoppia il conflitto fra l'eroina e Iuriste, che è il processo privato di
Epizia, la quale delibera di vendicarsi personalmente. Epizia non si scontra mai direttamente
con Iuriste, ma si trova invece a discutere con personaggi secondari: la Cameriera che va e
viene con notizie e doni, la vecchia Angela, la zia Irene, che si era rallegrata delle future nozze
della nipote. L'introduzione della zia di Epizia si è resa necessaria dal fatto che Angela, sorella
di Iuriste, viene ritenuta dall'eroina corresponsabile del crimine di Iuriste; la zia può invece
fungere come intermediario e operare per convincere Epizia sia a non vendicarsi personalmente
sia a intervenire presso l'Imperatore per salvare la vita di Iuriste, quando questo viene
condannato a morte. Tali conflitti si intersecano poi nel processo conclusivo condotto dal
giudice supremo dell'imperatore.
I diversi processi e i partecipanti del dramma possono venir illustrati schematicamente
da tre triangoli con i mediatori ai vertici:
La legge civile
(il caso di Vico)
La giustizia privata
(Il caso di Iuriste)
Il segretario
Iuriste
Il Podestà
Le donne
Epitia
Iuriste
La giustizia / il governo
(i casi di Iuriste e Vico)
l’Imperatore
(il capitano)
Iuriste/Vico
Imperatore
233
La grande mediatrice di tutti questi processi è l'equità, incarnata infine dalla figura
dell'Imperatore, che risolve tutti i conflitti, aiutato da un Capitano pietoso, il quale aveva fatto
uccidere un altro criminale al posto di Vico. E' interessante notare che nella novella-fonte
dell'Epizia non esistono questi intermediari, che con i loro interventi collaborano a creare la
nuova tragedia del letterato ferrarese: Podestà alleggerisce la colpa di Iuriste in quanto lo
spinge a rompere la promessa fatta all'eroina; le donne che incitano l'eroina a salvare Iuriste
hanno la funzione di mettere in rilievo la durezza dell'eroina, che quindi si avvicina all'ideale
tragico della mezza-colpevolezza. Infine, l'intervento del Capitano, il quale salva la vita di Vico,
non esiste nella novella, mentre nel dramma costituisce il deus ex machina necessario per una
soluzione felice di tutte le parti coinvolte. Pare significativo per lo sviluppo della poetica
drammatica di Giraldi che i suoi ultimi tre drammi, la Selene, l'Arrenopia e l'Epizia,
contengono tutti morti fittizie, dove i personaggi creduti morti resuscitano nell'ultima scena. E'
un modo per creare orrore e dolore nei drammi e, nel contempo, per mantenere il lieto fine; ma
è anche una realizzazione dell'ideale di una cultura conservatrice: lo status quo e l'abolizione
dello scorrere della storia.
E' altrettanto significativo che la costruzione a triangolo con la figura del mediatore al
centro è oggetto di un graduale sviluppo nella produzione drammatica del Cinzio, culminando
con l'Epizia, non solo grazie alla quantità di mediatori in questo dramma, ma anzitutto perché
qui è l'imperatore a svolgere il ruolo centrale di mediatore. Finalmente la figura del sovrano si
trova al centro, e al di fuori del conflitto, non più ridotto a incorporarne uno dei poli irrazionali:
nell'ultimo dramma il lieto fine dipende dalla saggia clemenza del sovrano e così si rivelano
superflui anche i consiglieri. Bisogna, in conclusione, indagare su come questo sovrano ideale
venga rappresentato.
5.7.2 La retorica della clemenza
Mai, come in questo dramma non destinato alla corte ferrarese, è esaltata la posizione del
sovrano. Gli attacchi alla giustizia avvengono in assenza dell'Imperatore, mentre l'ordine ritorna
con il suo rientro. Nella prima metà del dramma manca un centro di potere, si ha invece una
pluralità di diverse interpretazioni della giustizia, solo con l'arrivo dell'Imperatore appare un
centro che dirige l'azione in modo assoluto. Come dice la zia all'eroina: «Voi troverete in lui
quel, c'havere deve / Ogni Signor, c'habbia governo in terra, / Somma giustitia à gran pieta
congiunta» (Ivi, IV. 2). L'imperatore Massimiano conduce il processo in modo da rappresentare,
soprattutto, il proprio potere, senza il quale la clemenza non può essere concessa. Difatti,
234
quando l'imperatore sospende la condanna a morte di Vico e di Iuriste, non manca di precisare
che si tratta di pura clemenza:224
Meritava il gran fallo di Vico,
La pena, à che l'haveva condannato
La giusta legge. Ma poscia, ch'io posso
Temperar questa legge, & farla mite
Io son contento di donarti vivo
Il tuo fratel, Poi che gli hà perdonato
La Giovane violata, & ei per moglie
E' per pigliarla. (Ivi, V. 7)
In questo dramma interamente dedicato a questioni giuridiche, la legge viene violata da quasi
tutti i protagonisti. Vico violenta una giovane donna del popolo, il governatore Iuriste abusa
dell'eroina in cambio della vita di Vico, e poi non mantiene la promessa a Epizia. Il capitano
disobbedisce agli ordini del suo superiore, salvando la vita di Vico. Nella sua analisi del
dramma, la Lucas conclude che Giraldi vuole soprattutto dimostrare che le leggi morali e civili
sono necessarie, ma non sufficienti per realizzare la felicità civile; bisogna adattarle ai casi
particolari, cioè relativizzarle, per renderle funzionali (Lucas, 1989:192). Sono d’accordo con
questa interpretazione, poiché il grande sconfitto dal risvolto finale di questo dramma è senza
dubbio la figura inflessibile del Podestà.
Come abbiamo visto, le discussioni centrali nei drammi del ferrarese concernono tutte
l'immagine del re; in essi, con Seneca (Della Clemenza, I, xii), i consiglieri sostengono che la
differenza fondamentale fra un re e un tiranno si trova nella clemenza. In molti dei drammi è
mostrato come la clemenza venga osteggiata dall'ira del re; egli appare così una figura mezzo
colpevole, che quindi contrasta con l'ideale del sovrano delineato nel primo dei Dialoghi della
vita civile, dove Giraldi sottolinea:
la prima cosa che facea conoscere l'uomo re, era il sapere, vie più che gli altri
signoreggiare se stesso, [...] onde mai né giudicando, né punendo, né distribuendo le
dignità non era trapportato, né da odio, né da amore, né da sdegno, né da desiderio di
giovere, o da nuocere fuori del giusto. (Ec, 1034-35)
Un re adirato contrasta anche con la descrizione apologetica di Ercole II, che, Giraldi esalta nel
Commentario come un sovrano ideale appunto perché temperato; additando nella clemenza,
insieme alla fede e alla temperanza, le massime virtù del sovrano.225
224 Neppure il governatore si è meritato la grazia, perché l'Imperatore non pratica una distinzione fra intenzione
e azione: l'intenzione di Iuriste rimane la stessa, nonostante non sia eseguita dal Capitano. L'imperatore concede
la grazia solo quando viene richiesta dalla parte offesa (Ivi, V. 7).
225 Vale la pena di leggere la descrizione, nel Commentario, della clemenza di Ercole II, che era contrario alla pena di
morte: «Ne veramente con alcun'altra cosa s'appressono pien gli huomini à Dio, che è salvar la vita a coloro, ch'essi possono
uccidere. [...] Per questa singolar clemenza del Duca Hercole, si ragionava per ogniuno, che l'antico Hercole havea domanto
i nimici con la mazza, e con la man crudele, ma il nostro gli haveva vinti con la clemenza, con la humanità, e con la
piacevolezza.» (Com, 176)
235
Raffrenò dunque con l'imperio della ragione i piaceri, che sono l'esca di tutti i mali, e le
piu volte domestici nimici de' Principi, e l'insolenti furie dell'animo, accommodando tutti
i suoi pensieri alla gloria, e all'honore, e non pensava quanto egli potesse, ma quanto egli
devesse fare. Perch'egli sapeva quel detto d'Aristotile, che quanto più i giovani sono tirati
dà desiderij, tanto piu ancora gli debbano raffrenare; però per sottomettersi ogni cosa, egli
sempre si sottomise alla ragione, [...]Percioche egli hebbe sempre compagna di tutte le
sue azioni la temperanza, moderatrice de gli affetti, e delle passioni. (Com, 167)
La clemenza rappresentata dall'imperatore nell'Epizia non è affatto quella disinteressata
che può portare anche a conseguenze più gravi, ma un esercizio svolto dopo un'accurata analisi
del pro et contra, e nel rispetto del giusto mezzo raccomandato sempre nel Della Clemenza (II.
v) fra la crudeltà e la commiserazione ingenua. In tal modo l'universo drammatico di Giraldi
non rigetta il lato astuto del re, come non lo faceva neanche Seneca, poiché l'avvertenza
senecana contro la commiserazione non si distingue essenzialmente da quella del segretario
fiorentino contro la pietà del principe. L'imperatore è l'unico che può cambiare le leggi, come
spiega il Segretario:
Che chi à le leggi soprasta, può loro
Temperare, e ridurle à l'equitade,
E far minor la statuita pena.
E credo, ch'è di maggior loda degno
Chi ammollir cerca il duro de la Legge,
Che chi si mostra in osservarla acerbo. (Ivi, I. 4)
C'è un grande contrasto fra l'ideale umanistico rappresentato da Ottavio che nella Cleopatra,
probabilmente composta nella prima metà degli anni Quaranta, interpellava i suoi consiglieri
affidando loro il compito di decidere la sorte di Antonio; all'imperatore dell'Epizia, che dalla
propria assenza non ottiene altro che caos, e che, quando entra in scena, prende le descrizioni in
mondo autonomo, senza l'aiuto dei consiglieri. Viste insieme, le sconfitte dei consiglieri nei
drammi rappresentano innegabilmente un'ironia amara; o, forse, è più corretto descriverle come
un allontanamento realistico dal Castiglione, nello spirito invece del Machiavelli, il quale aveva
affermato che quando si doveva trattare della politica era «più conveniente andare dietro alla
verità effettuale della cosa, che all'immaginazione di essa». Come il Duca nei dialoghi del
Cortegiano, è la silenziosa assenza di Ottavio, la sua delega ai consiglieri, a renderlo una
presenza fondamentale: «Perché da me sol deliberare / Cosa non voglio d'importanza tale [...]
io voglio udir in ciò il giudizio vostro» (Cle, II. 5). Sia Ottavio che Massimiano sono sovrani
esemplari e ideali, ma rappresentano uno sviluppo ideologico dall'ideale umanista a quello
controriformista che si muove verso l'assolutismo.
236
Con la sua assenza l'Imperatore ha fatto entrare al proprio posto in scena dei capri
espiatori, per poi reprimere gli agenti ribelli e consolidare il proprio potere. Finalmente appare
in scena un sovrano che mette in pratica le teorie sostenute dai consiglieri nelle discussioni
centrali dei drammi precedenti: un sovrano, cioè, non sottoposto alla legge scritta, ma all'equità
e alla ragione, che si eleva sopra il contrasto senecano tra clementia e iustitia (Solimano, 1981).
Quando infine concede la clemenza, l'imperatore ha mostrato due volte il suo potere fare: una
perfetta dimostrazione machiavellica di creare paura e terrore, senza danneggiare il principato.
Nell’Epizia l'imperatore ha capito che, come il terrore e la paura, anche la clemenza è
uno strumento utile al sovrano. La clemenza diventa uno strumento per distinguere i nobili,
quelli che possono permettersi di essere generosi, dagli ignobili; in Giraldi essa viene intesa
prevalentemente come virtù politica (Solimano, 1981:402). La modernità dell'agire
dell'imperatore nell'Epizia sta nel fatto che le sue azioni non sono integre, nel senso che non
sono necessariamente coerenti con l'ethos dell'agente; inoltre, perché il loro fine non si trova
nell'effetto immediato dell'azione, che invece è un mezzo per giungere altrove, cioè alla
creazione della propria immagine.226 Con l'Epizia, tramite l'enfatizzazione dei risultati, viene
messo in scena come l'unione fra la prudenza etica e quella retorica risulti nella prudenza civile,
concetto che gode di un progressivo apprezzamento fra i moralisti e i trattatisti del Cinquecento.
E si tratta di una soluzione che va senz'altro vista alla luce dell'approccio controriformista della
materia politica, per cui si accetta che la Ragion di Stato possa avere una propria 'ratio' per
nulla contrastante con le suggestioni etiche della Chiesa Romana (De Mattei, 1979:50-64).
L'approccio realistico alla materia politica si impone nel Cinquecento, e anche gli scrittori
controriformisti erano consapevoli, come il Machiavelli, del carattere retorico del potere. Nel
suo libro sulla retorica machiavellica, Victoria Kahn fa notare che nella Ragion di stato del
Botero (1589) è sottolineato che la reputazione della prudenza e delle virtù del sovrano deve
essere creata strategicamente (Kahn, 1994). Kahn dimostra che con l'equazione fra la politica e
la retorica Giovanni Botero si serve del Principe non tanto come un programma ideologico, ma
come una strategia retorica. Si tratta di un'accettazione significativa; in primo luogo perché
implica un allontanamento dalla concezione umanista ed aristotelica che la virtù è premio
226 In realtà, la rappresentazione del sovrano nelle tragedie del Giraldi ha molti tratti in comune con il Principe
machiavelliano che, costretto a vivere l'ambiguità di essere sia volpe che leone, deve apparire pietoso, ma non esserlo; e
che, nell'interesse dello Stato, deve anche sacrificare le proprie virtù, vivendo il conflitto fra sentimento e Ragion di Stato.
Come scrive il giovane Lukács: "kingship and the idea of kingship do not allow of nobility; the highest goals, the
innermost essence of kingship demands something different - harshness and wickedness, ingratitude and compromise"
(Lukács, 1974:196).
237
sufficiente di se stessa, verso una visione più pragmatica tendente a richiedere che la virtù
produca qualcosa diverso da sé, e di giudicarla proprio in base al suo prodotto.
Come abbiamo visto, due interpretazioni diverse della giustizia sono rappresentate negli
scontri retorici dei drammi di Giraldi: quella "laica" vicina a ciò che generalmente andava
inteso come machiavellismo, rappresentata dal re, e quella controriformista del consigliere,
sempre basata su argomenti utilitaristici. Sono queste due diverse specie di machiavellismo, o
meglio, di ricezioni del Machiavelli che, concorrono a formare la rappresentazione del potere
nei drammi di Giraldi e che, finalmente, si fondono nella figura dell'imperatore dell'Epizia, il
quale sottolinea la dimensione retorica della prudenza civile, cercando nel contempo di farla
convergere con l'etica cristiana. Come ha rilevato Kahn, Machiavelli rappresenta un tentativo di
superare la tensione creata dagli umanisti fra la concezione puramente tecnica e
ideologicamente neutrale della retorica da un lato, e l'idea della retorica quale ragionamento
prudente legato a norme etiche dall'altro; dove un oratore necessariamente è un uomo saggio e
onesto - dove regna cioè l'armonia ciceroniana e quintiliana fra l'honestum e l'utile, fra
sapientia e eloquentia (Kahn, 1994). L'autore del Principe espone l'inadeguatezza nella pratica
politica di queste assunzioni umaniste e delle virtù tradizionali: secondo lui il principe può
mantenere il potere quando diverge da un concetto ingenuo e etico della prudenza e,
contemporaneamente, riesce a rappresentare se stesso come possessore delle virtù
convenzionali. Il sovrano diventa attore: un stratega retorico che cerca di far convergere una
dimensione retorica della prudenza con l'etica cristiana.
Sia la psicologia e la condizione del principe di Machiavelli sia quelle dei sovrani nei
drammi del letterato ferrarese, sono legate alla società e alla realtà circostante. Da ciò, la
retorica di Machiavelli e dei drammi di Giraldi fa uso massiccio di massime e di exempla nelle
argomentazioni, poiché questi topoi comportano un approccio particolarmente flessibile alla
politica e all'etica. L'idea che la reputazione della prudenza e della virtù regale venga creata
strategicamente è condivisa dalla maggior parte dei trattatisti sulla Ragion di Stato del
Cinquecento, e dai consiglieri e sovrani prudenti del Cinzio (De Mattei, 1979). Mentre nella
lettera introduttiva all'Aggiunta sulla reputazione di Ragion di Stato di Botero scrive:
Uno de i principali fondamenti di Stato, e di Governo, à giudicio di più intendenti, si è un
certo concetto atto, e fermo, che si ha della saviezza e del potere di un Principe. Il qual
concetto viene ordinariamente chiamato riputatione. (Kahn, 1994:75)
Come la Ragion di Stato del Botero, i drammi giraldiani mostrano l'unità fra l'interesse del
sovrano e la religione cristiana. Come fa notare Kahn, Botero crea un ponte fra la retorica
238
basata sull'utile e quella plasmata secondo il criterio cristiano del bene, e raccomanda la fede
per i suoi effetti positivi. Così è nell'interesse del sovrano imitare le virtù convenzionali perché
queste vengano notate sia dai sudditi che da Dio, spettatori e giudici delle sue azioni. L'azione
nel mondo drammatico non ha senso in sé, ma solo in relazione al suo effetto, al suo pubblico,
quindi come exemplum: ogni decisione del re dovrà venire presa in base all'ufficialità della sua
figura (Crf.: Della Clemenza, I, vii). Ricordando la descrizione di Accetto sul Dio dissimulatore,
non ci dovrebbe sorprendere che anche secondo Botero Dio ricorra alla retorica per dimostrare
il proprio potere, come nella seconda Aggiunta della Ragion di Stato:
Prudente sarà colui, che con poche asprezze, & esecuzioni, terrà i suditi in officio, e si
sarà tener per terribile, imitando in ciò Dio, il quale con tuonare spesse volte cagiona ne
gli animi de gli huomini paura, e terrore senza danno; ma accioche i tuoni non perdano il
credito, per non far mai colpo, tra le mille saetta qualche volta, e per lo più qualche cima
d'albero ò giogo di monte. (Kahn, 1994:78)
E' una perfetta descrizione del Dio-autore e anche del sovrano, che ricorrono alla retorica
esponendo strategicamente dei segni giusti, che conosce l'importanza di rappresentare il proprio
potere, di minacciare con la morte, in modo da creare timore e pietà, prima di regalare la
clemenza di una lieta conclusione. Un brano del primo dei Dialoghi della vita civile può infine
servire a illustrare in modo sintetico l'ideale eroico di Giraldi, sul quale vanno misurati i suoi re
tragici. «Se l'ingiuria è fatta al Magnanimo, il risentirsi della ingiuria, è lo sprezzarla: per esser
egli per la sua virtù di ogni ingiuria maggiore». E Giraldi continua poche righe più avanti
ricordando che da Aristotele:
è giudicato ufficio di huomo da bene, ciò è di magnanimo il perdonare le ingiurie peroche
è sentenza de’ Platonici che la magnanimità sia data all'huomo, non perché si dia per odio
al furore, all'impeto all'ira, ma solo per l'onesto, e però dicea Seneca, ch'era una gran
spezie di vendetta il perdonare; e il tempio delle grazie disse Aristotele, che fu posto in
mezzo delle città, perché si sapesse, che si havea a render bene, per bene; non perché si
havessa a render male per male, perché da quello viene la conservazion delle cittadi, e da
questo la destruzione, e la ruina loro. (Ec, 1025)
E' significativo che mentre nelle tragedie antiche non esiste la figura di un re impeccabile,
perché tale qualità lo metterebbe al di fuori, e al di sopra dell'azione drammatica e dei conflitti
per cui egli, al massimo, potrebbe apparire come un’entità risolutrice, come una specie di deus
ex machina alla fine del dramma, questa figura prende il posto della divina Provvidenza
nell'ultima delle tragedie del letterato ferrarese, quasi a inaugurare l'epoca delle monarchie
assolute. Nel corpus drammatico di Giraldi avviene uno sviluppo dalla corte atroce
dell'Orbecche, dove il sovrano clemente e prudente era un miraggio richiamato dalle parole
dell'ingenuo consigliere, alla finale realizzazione di questa figura nell'Epizia. Tuttavia si tratta
anche di un allontanamento dal genere della tragedia a favore della retorica esemplare, che
vorrebbe indicare un pacato vivere sociale: nell'Epizia come nell'Arrenopia la retorica della
239
trattatistica insieme con la struttura della commedia, hanno preso il sopravvento sulla tragedia
della quale non rimane che la serietà dell'argomento e l'elevato ceto degli protagonisti.
Giustamente Lucas vedere l'Epizia come il dramma più politico di Giraldi, nel senso che la
tragedia del ferrarese si è indubbiamente sviluppata confrontandosi sempre più con l'etica
sociale e la politica come ragioni e forze di disgregazione e di soluzione, ma questo sviluppo
testimonia inoltre uno sviluppo dalla tragedia verso le caratteristiche più tipiche della
tragicommedia del '600. Partendo dalle forze soprannaturali dell'Orbecche, dove anche il cieco
destino giocava il suo ruolo a fianco dell'onnipresente Fortuna, si arriva all'Epizia, dove il
sistema giuridico e la struttura sociale ordinano e regolano la società, diventando così garanti
del lieto fine.
240
5.8
LE LEZIONI SULL’AMORE
Una vena di simpatia nei confronti della sofferenza femminile attraversa innegabilmente la
tragedia di Giraldi,227 è la donna a venir ritratta:
le donne delle scene tragiche possono essere, quanto alla real qualità conviene, gravi,
prudenti e accorte; e possono usare nel favellare sentenze morali, e piene di senno,
secondo la lor condizione, perché tuttavia elle stanno nelle grandezze, e tra persone gravi,
e possono elle dalla continua conversazione apparar quello che le altre donne non
possono (DCT, 216).
Ora, non si tratta certamente di femminismo che non deve venir confuso con la semplice
esaltazione delle virtù femminili, e resta impensabile senza un ideale di libertà, mentre ogni
tentativo di ottenere l’indipendenza da parte delle eroine giraldiane viene schiacciato dall'etica
insita negli intrecci. Questo ha rilevato anche Corinne Lucas, che osserva che la qualità più
caratteristica di queste 'reine' è la passività, la quale non riguarderebbe soltanto la sfera
pubblica dello Stato ma anche quella privata nella quale si esprime come costanza e ubbedienza
(Lucas, 1987:285). Però, se nella tragedia greca l’eroina deve essere sacrificata per ristabilire
l'ordine sociale o morale da lei infranto, in quella a lieto fine tale sacrificio non è necessario,
perché la situazione si ricostruisce per mezzo di altri artifici. I drammi di Giraldi propongono
tre diverse soluzioni al conflitto centrale; quella classica è la morte della protagonista, quale
avviene nell'Orbecche e nelle tragedie storiche per quanto, come succede nei drammi a lieto
fine, l'ordine sociale possa anche venire restaurato sia tramite la scoperta della vera identità,
nobile, dell'amato sia con la finale sottomissione dell'eroina alla volontà pubblica.
La mancanza di libertà viene enfatizzata da tutte le eroine e ritorna continuamente nei
luoghi comuni che descrivono la soggezione della donna ai parenti maschi nella scelta del
marito. In conclusione del secondo atto Orbecche pronuncia un discorso sulla miseria
femminile sesso al mondo in ira, un lamento destinato a venir ripreso da molte delle eroine del
ferrarese.228 Il discorso di Orbecche è interamente costruito sull'antitesi fra la schiavitù
(rappresentata da catene, ceppi, servitù continova, perpetuo carcere, giogo) e la libertà, «don
che prezzar si dee più che la vita». Nonostante la natura abbia le sue colpe, i veri responsabili
della schiavitù femminile sono le regole sociali, e gli agenti ne sono «la madre, il padre, od il
227
De Besaucele sostiene che il nostro autore supera perfino Boccaccio nel culto dell'eroicità femminile
(1920:128); mentre Guerrieri Crocetti scrive che la sua portaognista ha «una luce eroica di martirio e di tenacia
[…] veramente e profondamente sentita» (Guerrieri Crocetti, 1932:750). Horne e Herrick sostengono che il la
scelta della protagonista fa parte della forte corrente di idealismo che caratterizza i drammi del ferrarese (Horne,
1962:160, Herrick, 1962:65).
228 Scrive Renzo Cremante nella nota dell'edizione dell'Orbecche: «lo sfogo di Orbecche si ispira, precisandone i
contenuti in termini contemporanei, a quella di Medea presso Euripide» (Orb, p. 341).
241
fratello od altri» per cui le donne non possono «far nostro desir contento» (Orb, II. 4). Neppure
lo status di sovrana le dona una qualche libertà: «Serva son donne mie, non son Reina» (Sel, V.
6), dice Selene; questo lamento è così caratteristico delle regine tragiche giraldiane che persino
la dea Giunone, ridotta ad un personaggio cortigiano, si lamenta in apertura della Didone: «Io
solo in voce ho di Reina il nome» (Did, I. 1).
Ma, prima di giudicare passiva l'eroina di Giraldi occorrerebbe far luce sul concetto di
passività, che in realtà, risulta un termine poco preciso per descrivere fenomeni circoscrivibili
all'universo retorico del dramma, poiché il linguaggio drammatico è per statuto performativo.
Caso mai è il silenzio a qualificare la passività, ma le eroine che non si oppongono verbalmente
all'ingiustizia sono, in Giraldi, in numero esiguo (d’altronde neppure il silenzio sfugge al
significante e che esso può essere persuasivo quanto la parola). E' vero che soltanto Altile e le
eroine storiche entrano in uno scontro retorico diretto con il loro antagonista principale, ma
molte delle eroine assumono qualità virili, sia travestendosi da guerriero come Philene negli
Antivalomeni e Arrenopia, sia ribellandosi contro l'ingiustizia come Epizia, mentre i loro mariti
sono muti ed inerti.
Secondo la definizione aristotelica una protagonista che non agisce non può essere
eroica. La prima e fondamentale virtù nella filosofia pratica di Aristotele poi, è la prudentia la
quale non è presente in eguale misura in tutti gli individui poiché dipende dalle passioni, che
costituiscono lo spazio in cui si attuano le virtù.229 Anche nella Poetica, Aristotele ritiene che i
fattori che condizionano la condotta morale dell'individuo varino tra le diverse categorie di
individui e che l'età e il sesso occupino delle posizioni pregiudiziali: la saggezza è più rara nella
gioventù che nell'età matura, e gli uomini sono più saggi delle donne; il sesso femminile è per
natura più mobile, passivo, fragile, più irrazionale e più facilmente vittima delle passioni di
quello maschile. Si tratta di luoghi comuni necessari per creare la verosimiglianza dei
personaggi. Spiega Giraldi:
E se ben pare che Aristotile dica che il senno e la prudenza non sia della donna, non si
dee così semplicemente intendere, ma ciò è detto in rispetto all'uomo. Perché per
prudente e saggia che sia la donna, non le conviene quel senno, quella prudenza, quella
gravità che conviene all'uomo savio, avuto rispetto alla qualità dell'una e dell'altro. (DCT,
217)
Lucas osserva che la regina incarna l’idea di continuità e unità, una descrizione che in Giraldi si
addice principalmente all'eroina esemplata sulla Griselda (1987:287). Questa interpretazione
229
Crf. Etica Nicomachea (VIII. 10); Economia (III. 140). Le condizioni preliminari per il possesso delle virtù morali
sono la saggezza, la capacità di giudizio e la libertà, elementi del tutto estranei alla donna, di natura passiva (De Anima
III. 5; La Politica 1. 13).
242
della donna si rivela però paradossale, se visualizzata in connessione alla forza sconvolgente
dell'amore legata all'eroina, nonché alle massime che la descrivono. La costanza dell'eroina
viene esaltata mediante il contrasto con le massime sulla donna che vengono ripetute nei
drammi. Sono principalmente tre attributi a caratterizzare la donna nelle massime: l'instabilità,
l'infelicità e la simulazione, le stesse che descrivono l'amore. Ecco alcune caratteristiche:
Noi per natura siam [...] molli (Alt, III. 5);
O sesso feminil, quanto sei falso? / Come sanno finger le donne, à voglia loro, (ivi, V. 5);
Veramente vero è, che son le Donne / Facili nel mutarsi (Epi, III. 5);
Perche le donne / Mobil, e varie son per la lor natura (Did, III.2);
Quanto sappiano ben finger le donne, / Se si veggon scoperte in sì gran fallo: / Se gli
occhi avesti, come Lince, acuti, / Penetrar non potrest il cor di donna / Che finger si
disponga. (Arr, II.8);
Sai come pronte al finger son le donne / Il contrario di quel che voglion fare (Sel, I. 1);
Che pianto in donna non fà fè del vero (ivi, V. 7).
Il primo aspetto che colpisce di queste massime è la loro misoginità, ma riflettono però, in
primo luogo, la funzione dell'amore nei drammi quale elemento scatenante del conflitto. Giraldi
coglie i luoghi comuni da più ambiti: se la simulazione è un pretesto tipico della commedia
cinquecentesca, in particolare di quella di Ariosto e di Bibbiena, l'instabilità e l'infelicità fanno
parte dei topoi umanistici sulla donna.230 Alla posizione di sottomissione si aggiunge quindi la
sua natura, più debole di quella dell'uomo, quindi più facilmente vittima dei giochi della rea
fortuna. Vediamo come l'idea dell'infelicità femminile fuoriesca in due monologhi nei drammi
di Giraldi, rispettivamente di Cleopatra e di Arrenopia:
la miseria
Del sesso feminil non hà qui pare,
Ne cosa vi è che più soggiaccia in tutto
A la fortuna, di noi Donne. Puote
Col senno l'uomo e con la sua prudenza
Al suo furore opporsi, e superarla;
Ma la fragilità nostra ci lieva
Anche l'ingegno, e fà da noi,
Come cieche e insensate, andiamo a dare
Col proprio core ne i più acuti strali
Ch'ella abbia, e trafiggianci insino a morte.
Ecco ch'essempio darne posso hor io, (Cle, I. 3)
230 Per esemplificare si può ricorrere al terzo libro del Cortegiano. Giuliano de’ Medici mette in luce i pregi delle donne,
affermando che loro sono eguali all'uomo per virtù e spirito, mentre Pallavicino, appoggiato dal Frigio, insiste sui loro
difetti. Dopo l'elenco delle diverse qualità femminili di corte che, a grandi linee, coincidono con quelle attribuite al
cortigiano - grazia, modestia, prudenza, bellezza, medietas -, la discussione si sposta sulla condizione infelice di
inferiorità della donna. Dalla donna si esige la castità, poi viene spesso ingiustamente accusata di infedeltà, e forzata dai
parenti ad un matrimonio non voluto. Memore di Platone (Rep, V. 5), Giuliano de’ Medici ricorre a più exempla per
dimostrare la saggezza femminile in politica, ma ciò non significa che manchino narrazioni atte ad esemplificare gli
ideali femminili della cautela e dell'ubbidienza. Nel Cortegiano la virtù indispensabile della donna rimane la prudenza,
essenzialmente come cautela, e l'argomento principale nell'accusa rivolta ad essa dal Pallavicino ne è l’irrazionalità, in
particolare nell'amore: la donna ama più volentieri chi non l'ama, spesso uomini indegni e vili.
243
Nè virtute
Ci giova, oimè, nè dote alcuna, quando
Si gode di mostrarci la Fortuna
Che, fra le cose che misere sono,
Noi siamo come segno a' strali suoi. (Arr, I. 3)
La fortuna agisce mediante l'amore, e la vittima è l'eroina. L'avvicinamento e il paragone fra la
fortuna e la donna è topico nella letteratura rinascimentale: come la fortuna, la donna è
incostante, imprevedibile e getta lo scompiglio nell'ordine sociale. L'eroina tragica soggiace
così ad un'altra donna, che non si può superare poiché le mancano la virtù e la prudenza
machiavellica e maschile.
Nell'universo drammatico giraldiano non figura l'accezione positiva della fortuna come
occasio, possibilità da afferrare da parte del singolo individuo, e amica degli eroi boccaccini.
Da tale punto di vista si rivela quindi doppiamente grave l'errore delle eroine: la donna non può
desiderare la fortuna, sono semmai gli uomini a batterla e urtarla. La donna deve attendere il
giudizio divino (anche questa una forza maschile che, in antitesi con la fortuna, fa parte delle
forze superiori che elaborano la struttura morale dei drammi). E’ questa la regola praticata dalle
"Griselde" di Giraldi.
La passività della regina è però anche una conseguenza delle riscritture drammatiche
delle novelle: come è stato rilevato, l'agire dell'eroina è legato al suo errore tragico, il quale
appartiene all'antefatto dei drammi, mentre le tragedie ne mettono in scena le conseguenze.
L’ostilità verso la creazione di conflitti tragici dove ambedue le parti lottino attivamente è una
delle caratteristiche della tragedia giraldiana. La tensione interiore di molte di queste
protagoniste deriva appunto dall'oscillazione fra l'intemperanza che le ha condotte all'errore
tragico, e l'attuale costanza, ferrea e imprescindibile, del loro amore. Collocando l'agire
dell'eroina all'antefatto e riducendola, nel presente drammatico, ad una vittima più o meno
passiva, Giraldi crea una tragedia basata su due poli, costituiti da "chi patisce" e da «chi è
cagione dell'azione» (LettD, 481).
Concordo con Horne che per la figura dell'eroina in Giraldi mette in rilievo la sua
incarnazione di virtù controriformistiche, «independence of spirit, constancy in the face of
adversity, and loyality in marriage» (Horne, 1962:160). A questo voglio però aggiungere che, a
mio avviso, nella logica di questi drammi l'errore dell'eroina non va sottovalutato, poiché si
corre il rischio non solo di perdere di vista il significato dell'amore nei drammi, ma anche la sua
funzione esemplare di aver creato le premesse del conflitto.
Lo statuto tragico dell'eroina nelle tragedie di Giraldi si rivela dal fatto che nella
maggior parte dei casi essa è sia la ragione che la vittima del conflitto tragico. L'intreccio
drammatico si chiude circolarmente intorno a lei: prima ha luogo la sua uscita dalla famiglia,
poi le varie peripezie, infine il rientro della medesima nell'ultimo atto del dramma. Sei drammi
di Giraldi si concludono con il perdono, quindi con il rientro in famiglia dell'eroina. In questo
244
modo il sacrificio tragico non avviene e - anche se le è stato assegnato un ruolo da protagonista
-, l'eroina perde l'eroicità tragica e la sua ribellione viene interpretata come vana ed erronea.
Con l'introduzione del lieto fine Giraldi ha proposto un nuovo modello di eroicità femminile
vicina alla novellistica e alla commedia ma, contemporaneamente, ha annientato l'eroicità
femminile della tragedia classica. L’insistere sull'appartenenza dei personaggi ad una società
alla quale devono sottostare (non più alle proprie forze interiori oppure al fato, ma alle regole e
alle influenze dei personaggi secondari), provoca la riduzione dell'eroico e porta indubbiamente
verso una "fatalità sociale", la quale viene rafforzata dalla protagonista femminile e decorosa,
caratterizzata, come abbiamo visto, dal suo stato di non libertà. Perché l'ossequio alle leggi
deve dominare i desideri personali.
Il lieto fine novellistico e comico di queste tragedie trasforma quindi drasticamente lo
statuto dei protagonisti; e ciò vale anche per l’antagonista maschile. L'intreccio delle tragedie a
lieto fine, dove gli ostacoli posti fra la donna e l'amato vengono abbattuti, assegna al re una
funzione ambivalente. Ricordiamo, a questo proposito, che nella commedia romana la
controparte della figura del re, la quale adempie alla funzione di ostacolare gli amanti è
costituita, in genere, da un mezzano, da un soldato, oppure da un senex iratus che rappresenta
la società vecchia e corrotta.231
Nelle tragedie di Giraldi il ruolo dell'eroina non si limita ad essere una pedina nella
partita sociale, poiché a lei si collega il tema sentimentale dell'amore, specificatamente
letterario e filosofico. L'analisi ha rivelato un quadro che, se non si può definire proprio
univoco, sottolinea almeno le qualità private della donna: l'uddidienza e la fedeltà, il ruolo di
vittima dei propri sentimenti e scelte irrazionali e della crudeltà altrui, l'esclusione dalle
funzioni dinamiche dell'azione drammatica. Ho quindi prosposto di interpretare l'eroina anche
come un'incarnazione del desiderio individuale, alcune ricalcano il ruolo descritto dalla
tradizione dialogico-erotica: la posizione di chi è incapace di intendere il vero significato del
sentimento d'amore. La lettura del tema d'amore ci fa dunque riscontrare la presenza di vari
codici culturali, etici e sociali, che sembrano talora escludersi a vicenda.
La figura dell'eroina è stata creata dalla fusione delle eroine tragiche e dai tipi della
novellistica, mentre la sua hamartia è stata plasmata secondo l'etica contemporanea, che
ritroviamo in modo più esplicito nella trattatistica civile. Le connotazioni e le funzioni
assegnate all'amore sono essenzialmente basate sulla tradizione umanistica ripresa in chiave
controriformista, la quale si rivela, fra l'altro, nella condanna dell'amore non istituzionalizzato e
nelle declamazioni sull’indissolubilità del matrimonio. Per quanto concerne l'intreccio e il
messaggio etico delle novelle-fonti, è chiaro che con questa visione controriformista la
parentela spirituale con il Decameron si rompe. Ma, se si leggono i messaggi dei cori ci si
231
Come ricorda Frye, la figura a porre gli ostacoli è un personaggio che Ben Jonson definisce humor: «un
personaggio di notevole prestigio e potere sociale, la cui mania influenza buona parte della società rappresentata
nella commedia. Perciò l'humor è intimamente connesso con il tema della legge assurda o irrazionale che
l'azione della commedia sviluppandosi tende a infrangere» (Frye, 1969:224).
245
rende conto che il motivo e la funzione strutturale dell'amore sono ricchi di implicazioni
semantiche, che introducono altre prospettive. Mentre il piano degli conflitti interpersonali ha
luogo all'interno dell'intreccio, i rapporti dell'amore con il trascendentale vengono espresse dai
cori. Tale scomposizione interno al tema d'amore, che separa le speculazioni filosofiche
proferite dai cori dall'applicazione dell'amore come effetto scatenante e qualità caratteriale
nell'intreccio, può anche rivelare se veramente questi due piani del discorso concordano. Un
confronto e una breve presentazione della trattatistica d'amore, e in particolare il contributo di
Giraldi stesso, può servire a uscire dai limiti della critica sociale per capire in quale modo il
ruolo assegnato all'amore nei drammi si colleghi con le idee filosofiche del tempo.
La trattatistica sull'amore del Cinquecento non può venir compresa indipendentemente
dal contributo di Ficino. Uno degli elementi più significativi dell'interpretazione ficiniana
dell'amore platonico è che questa tende a cancellare il dualismo fra i sensi e il Bene, fra il corpo
e l'anima, proponendo la possibilità per l'uomo di accedere al Bene tramite la materia; per
Ficino, infatti, l'amore non è solo vincolo umano intersoggettivo, bensì un'unità che domina e
genera con armonia tutto l'universo, unendo l'umano al divino.
Gli Asolani (1505) di Bembo furono nel Cinquecento, almeno fino alla pubblicazione
nel 1535 dei Dialoghi d'amore, il testo fondamentale dell'amore platonico. Con Bembo, infatti,
le discussioni sull'amore vengono spostate dai cenacoli chiusi degli accademici all'ambiente
cortigiano. I dialoghi sull'amore liberano la donna dalla posizione subordinata che questa
occupa nell'etica aristotelica, assegnandole una dignità sua propria (ruolo che verrà suggellato
dagli Asolani, nei quali il Bembo estende alle donne la partecipazione al dialogo e applica il
concetto d'amore platonico a quello dell'uomo per la donna). Il modello bembiano fu poi
ripreso dal Castiglione, che nel Cortegiano adotta la stessa ambientazione e conclude il suo
dialogo con un intervento proprio del Bembo, che spiega il vero significato dell'amore agli
interlocutori. E' principalmente attraverso questi due trattati, i quali diventano i pre-testi sul
tema vicini al Giraldi, che la teoria del platonismo ficiniano entra a far parte della cultura delle
corti del Cinquecento.
Anche nel quarto libro del Cortegiano il discorso sull'amore entra in una dimensione più
alta e distaccata dalla semplice normativa sociale; va però messo in rilievo la sostanziale
antitesi speculativa fra le interpretazioni dell'amore dei due trattati, costituita dal fatto che
all'impostazione petrarchesco-cristiana del trattato del Bembo si oppone l'esaltazione
neoplatonica che conclude il Cortegiano (Baldacci, 1974:85-110). Il terzo libro degli Asolani
non è una semplice sintesi dei primi due, ma si articola a sua volta in due discorsi distinti, in
quanto le idee ficiniane esposte da Lavinello vengono giudicate fallaci nell'intervento finale del
saggio Romito, che esclude la possibilità di ascendere gradualmente verso Dio mediante i sensi;
246
si tratta quindi di un adattamento ancora più radicale delle idee neoplatoniche alla religione
cattolica rispetto a quello di Ficino.232
Si giunge così al piccolo dialogo sull'amore di Giraldi, che fa da introduzione alle prime
cinque deche degli Ecatommiti. Leggendolo, non si può non ricordare che Giraldi si dichiarava
un grande ammiratore di Bembo e, di conseguenza, era anche un fedele seguace della lingua e
della poesia di Petrarca, entrambi citati come esempi nel Discorso sul romanzo e presi come
modelli nel suo canzoniere, le Fiamme; questo, oltre allo stile petrarchesco richiama anche il
motivo della passione d'amore narrata con invocazioni di pentimento e di ricovero in Dio,
inserite in uno sfondo aristocratico. La posizione ortodossa di Giraldi lo porta a rifiutare
recisamente la legittimità dell'amor platonico.233 Discorso intorno al comporre dei romanzi
Giraldi ridicolizza i commenti petrarcheschi a carattere platoneggiante dei contemporanei. Ne
riporto un brano perché si tratta di un Giraldi raro, particolarmente ironico:
quelli stessi autori fanno tanti sogni su le composizioni del Petrarca e degli altri autori,
che per ogni sonetto che si pigliano a commentare, compongono un giusto volume,
volendovi tirare sotto nome di filosofia non pure tutta la filosofia platonica e peripatetica,
e tutto quello che contiene l'aureo circolo di tutte le discipline che fu detto studio
d'umanità da' migliori ingegni, ma la cabalistica superstizione, e tutto quello che nelle
leggi divine ed umane si trova, facendo chimere e fantasie tutte lontane dall'opinione, e
delle cose che essi comentano. (DR, 88)234
Il dialogo sull'amore di Giraldi condivide con gli Asolani la partizione fra amore spirituale,
amore umano, e appetito animalesco, dedica infatti ampio spazio a trattare della prostituzione:
«Amore, Cupidine, e Appetito»; qui, tuttavia, quasi tutta la problematica si concentra sul
matrimonio, esaltato come equilibrio di passione e ragione (l'istinto sessuale, infatti, avvicina
l'uomo all'animale, benché il primo possa salvarsi mediante la ragione e la vita coniugale). E'
Fabio, l'interlocutore più maturo e capo della giovane brigata a guidare il discorso, ed egli
indica l'amore spirituale dei religiosi come perfetto, per poi opporlo all'amore falso delle
cortigiane. Questa esaltazione dell'amore spirituale va letta come una critica al Boccaccio e,
naturalmente anche come uno sviluppo delle direttive dell'Indice: nelle 121 novelle degli
232 Negli Asolani, infatti, Romito riprende la distinzione tomistica fra l'amore e il desiderio, condanna le
giovenili voglie, confuta il concetto di grazia, e perfino la donna viene da lui descritta come una «semplice
donnacciuola, che qui empie il numero delle altre», e tutto ciò avviene in base alla verità che «le bellezze
corporali terrene» non sono che ombre con le quali «non pasciamo l'animo, ma lo inganniamo» (III. 13 e 17).
233 Questa reinterpretazione dell'amore appartiene anche al "Cortegiano" del nostro autore, il “Discorso sul
servire”, dove, nota Maestri, l'amore mostra il suo fondamento non nell'esperienza della corte, ma nella natura
umana per cui "viene distinto il discorso dedicato all''officio' del giovane da quello sulla passione d'amore
"naturalmente" altra" (Maestri, 1989:95). Inoltre, lo stacco fra l'esperienza d'amore e la corte segna un'altra
differenza rispetto al Cortegiano, ove l'amore è il compimento di tutte le possibilità della “cortegiania”: virtù
militari, civili, politiche e spiritualità amorosa, essenziale al vero cortegiano; per Giraldi l'amore è invece una
realtà "separata", che raggiunge la sua perfezione nel matrimonio.
234 E continua: «E per non parlare degli altri, si son trovati e si trovano oggidí alcuni che lasciati i sensi veri fanno tali
farnetichi su alcune cose del Petrarca, che paiono spiritati, che dicano le maraviglie; e ovunque trovano la voce di amore,
o di natura, o di Giove, o di Giunone, o di disire, o di bellezza, o di sole o di cielo, o di altre tali cose, vi vogliono tirare
ciò che se ne scrisse mai dal principio del mondo insino alla loro età.»
247
Ecatommiti l'autore non sfiora il topos della corruzione morale dei religiosi. A parte questa
censura, il fondamento in Giraldi è che l'amore fra l'uomo e la donna debba essere considerato
legittimo unicamente nei casi in cui sia destinato «a la conversation non pur delle spezie, ma
delle case e delle città», ed è proprio il significato civile dell'unione coniugale a venire
sottolineato nei suoi drammi. Nonostante questa ottica pragmatica dell'amore Fabio non può
non riprendere il topos platonico delle due Veneri, ma si affretta a dire che Dio ci ha dato la
ragione per frenare la Venere terrestre e la Cupidine. Viene dunque riproposto il netto stacco
fra la passione sensuale e la Venere celeste, del trattato di Bembo:
E quindi avenne che i piú savi posero duo Veneri, e duo Amori, de’ quali la prima Venere
e il primo Amore è intorno alla considerazione della semplice bellezza, gli altri due ci
destano a desiderio a molteplicare quella bellezza ne’ corpi, e ne invitano al dilettevole
congiungimento, onde nascono i figliuoli. (Ec, 65)
L'amore nel matrimonio è l'unico vero amore, «perché in tale amore l'appetito è regolato dalla
ragione, ponendogli ella e il freno e legge a non piú oltre passare che convenga a’ termini del
convenevole e dell'onesto»; e porta quindi ordine e quiete (Ec, 66).235
La lezione sull’amore non può essere dettata dalla filosofia e dalla religione, non può
esaurirsi su un piano puramente teorico. Scrive ‘nell’introduzione agli Ecatommiti:
«L’insofferenza dei giovani nei riguardi delle argomentazioni e delle digressioni filosofiche di
Fabio […] non soltanto riflette il divario tra la pragmatica concezione giovanile dell’amore e la
matura interpretazione filosofica, ma vale come dimostrazione dell’impossibilità di pervenire a
efficaci conclusioni senza l’esperienza derivante dagli esiti di vicende vissute.» (2012: xxxvii).
La soluzione giraldiana alla questione sull’amore dimostra chiaramente come si tratti di una
sintesi propria che, però, filosoficamente rimane povera (Maestri, 1971:311). Giraldi è un bravo
compilatore ma non è un filosofo. Dobbiamo comunque riconoscergli di non aver mai preteso
di esserlo; nei suoi trattati, infatti, egli «mette le mani avanti» se le questioni diventano troppo
complicate e delicate.236 Gli intrecci dei drammi condannano il piacere sessuale immoderato e
senza propositi esteriori. La scelta di Giraldi di conciliare le due forme dell'amore in un elogio
del matrimonio, non costituisce, dal punto di vista speculativo, solo incomprensione. Emerge
infatti nei trattati del ferrarese una superficialità, conseguendo così quel realismo che oltre ad
essere l'anima della letteratura novellistica, in fondo serviva solo, nei cortesi ragionamenti, a
confezionare una morale spicciola e una regola di comportamento. Ma, più che giudicare la
valenza filosofica del testo in relazione al mondo inter- ed extra-testuale, importa, in questo
235La
fortunata condizione della coppia sposata viene descritta nel modo seguente: «passano col pensiero alle virtù
dell'animo, ove hanno propria sede, insieme colla bontà, le vere bellezze, e con discernevole occhio considerandole, vie
più per quelle si amano, e si legano insieme, che per la vaghezza de corpi, e così di via più nobil cibo pascano le menti
loro, che non pascano il senso, colle qualità del corpo, il quale, quanto a se solamente alle cose superiori gli chiama.» (Ec,
20).
236 A dire il vero, più che essere caratteristica del Giraldi, questa limitazione è una premessa dei dialoghi cortigiani in
generale, nei quali, proprio a causa del loro destinatore implicito, vanno evitati i discorsi troppo settoriali e specialistici.
248
luogo, valutarlo rapporto al suo carattere drammatico; allora esso si rivelerà estremamente
adatto a creare lo sfondo etico della tragicommedia.
L’amore è anche parte centrale del dramma pastorale, sul quale Tateo osserva che
mentre gli Asolani riprendono nella loro struttura la retorica del contrario presente nel tema
d'amore, negli altri dialoghi sull'amore del secolo prevale «la forma cortigiana e divulgativa
dell'esposizione di una serie di questioni d'amore, riferite soprattutto al comportamento e alla
vastità dei "casi" che gli amanti devono affrontare» (Tateo, 1990:224). Tateo sostiene poi che
anche i drammi pastorali cinquecenteschi esemplificano il carattere controverso dell'amore,
perché «il dramma pastorale, come la lirica d'amore, non può che interpretare la disputa
sull'amore nei suoi elementi conflittuali, non può puntare cioè alla catarsi tragica o alla
palingenesi epica» (ivi, 225-6). E' dunque tragicomico, e tipico del teatro pastorale del '500, il
tema del codice del doppio eros, presente anche nell'Egle di Giraldi.237 Si potrebbe allora
supporre che il carattere didattico della tragedia di Giraldi esiga un trattamento processuale del
conflitto d'amore, il quale sfoci in una conclusione univoca. Vedremo se questo sia il caso.
Il re, in quanto antagonista dell'eroina, appare come il più acuto critico dell'amore, ma
l'eroina viene pure pressoché univocabilmente condannata dai partecipanti dell'intrigo, che
sottolineano le conseguenze negative dell'influsso vesuviano. Per comprendere le connotazioni
morali dell'amore negli intrecci è utile vedere cosa ci dicono le innumerevoli sentenze sul tema,
in quanto queste svolgono la funzione di un docere apparentemente oggettivo. Difatti, la
maggior parte delle massime apodittiche che accompagnano le sventure esemplari della
protagonista trattano degli effetti negativi del sentimento d'amore, e ciò avviene
indifferentemente dal tipo di protagonista del dramma. L'amore viene spesso legato alla
simulazione e alla falsità dove la vittima in genere è la donna.238 Più ricorrente è l'affermazione
del rapporto fra l'amore e la cecità quale indice di irrazionalità; un motivo che si ritrova anche
negli intermezzi corali, dove però, come vedremo, questo tema viene trattato in un modo più
articolato, mentre le massime si riducono ad affermare le conseguenze terrene della cecità
amorosa.239 Va inoltre osservato che il sentimento d'amore viene personificato e descritto
237
I drammi pastorali cinquecenteschi presentano un'altra questione rispetto alle tragedie di Giraldi: sono
centrati intorno ai punti cardinali dell'innamorato sofferente e della donna casta e inaccessibile, la quale incarna
il dilemma se seguire l'amore, o osservare la verginità.
238 Ne cito alcune: «quanto sovente humilità finta / Inganna un'alma, simplicetta, e pura»; «poco creder deve / A le parole
altrui, chi fuggir vuole / Scandalo, ò infamia, spetialmente s'altri / Tocco è d'Amor»; «Quanto difficil è conoscer chiaro /
Le insidie altrui da finto amor coperte."; "chi à non ferma pianta / S'appoggia tosto cade»; «veggiamo tante, e tante esser
tradite / Per la troppa lor fede, e per l'amore»; «chi in huomo sleal ferma il pensiero / Semina nell'arena, e nel mar fonda";
"che non serva mai fede Amante à Donna»; «più che trista è colei, / Ch'à simolati pianti, à finti preghi, / A fede, à
giuramenti, e à lusinghe /De Giovani piegar si lascia"; "cosi san finger gli amanti, / Quando par lor, che il lor desire il
chiegga». (Did, V. 3; Epi, III. 2; Alt, III. 3, ivi. 3, II. 4 (x4); Ant, II. 1).
239 "fatti da l'amor già ciechi, / Divennimo marito e moglie insieme" (Orb, III. 5); "fà l'Amor troppo sovente errare" (Eup,
I. 1); «Amor fà altri si cieco, / Che non vede nè il suo, nè l'altrui bene»; «Cosa non è, che più l'ingegno levi, / A l'huom in
questa vita, che la doglia, / Che per soverchio amore, afflige altrui»; «cercar prudenza in un amante, / Altro non è, che in
uno istesso tempo/ Cercar, che insieme uno sia sciocco, e saggio»; «ch d'Amor si trova tocco, / In guisa perde il lume de
la mente»; (Did, III. 2, 6, 7; V. 3); «chi ama è in tutto cieco»; «disperazione, e Amore assedio / Le havevan posto al core,
e tolto il lume"; "come appanni / Amor gli occhi ad altrui?» (Alt, II. 3; III. 5, 6); «ben difficilmente / Sopporre à la ragion
249
mediante le stesse metafore usate per la fortuna, e cioè la tempesta, il vento, il vetro.240 Tutto
ciò postula l'instabilità e il pericolo connesso al sentimento d'amore, per cui esso diviene una
sorta di agente soprannaturale con le stesse funzioni negative della Fortuna, essa pure una forza
personificata ed incontrollabile, che apparentemente procede insieme all'amore quale
antagonista dell'ordine e della felicità.241 Le massime – che descrivono l'amore come un
sentimento con connotazioni prevalentemente negative -, sono quasi tutte ricalcate sulla
tradizione umanistica, la quale insegna a diffidarne come di una malattia di giovinezza; una
visione indifferente agli effetti positivi e nobili di questo sentimento e che coincide con le
riflessioni di Giraldi intorno alla "vita civile".
Come è stato rilevato, il compito del coro è quello di chiarire il contenuto filosofico che
fa da sfondo ai drammi, per evitare che il pubblico interpreti la tragedia troppo liberamente, in
modo non conforme agli intenti dell'autore implicito. Il coro si presenta con la sua superiorità
intellettiva e si distanzia dalle concezioni limitate dell'amore del dialogo drammatico per dare
una visione più generale, come uno spettatore ideale del teatro del mondo che osservi le piccole
vicende di una problematica molto più ampia. Lo sviluppo degli intrecci e il coro possiedono
ambedue la capacità di proferire concezioni universali le quali si riferiscono però, a due diverse
realtà: mentre gli intrecci, e le massime trattano della realtà mondana, infelice, vana e fugace, i
cori si rivolgono spesso al concetto d'amore come tramite di spiritualità, ad una realtà assoluta.
Non si tratta necessariamente di un'opposizione fra due istanze, quanto di un distacco ironico
del coro nei confronti di tutto ciò che appartiene al piano dell'intreccio.
E' fuori dubbio che Giraldi concepiva il coro come strumento chiarificatore della fabula
drammatica. Ciò non toglie che interpretando gli intermezzi corali bisogna stare attenti e tenere
presente che accanto alla trattatistica contemporanea sull'amore di stampo neoplatonico si
aggiungono altre influenze intertestuali, anche prettamente liriche, innografiche.242 I cori
diventano quindi un'occasione per il tragediografo di dimostrare le sue capacità liriche, di
elaborare canzoni secondo la sua dichiarata filiazione petrarchesco-bembiana.243 Ma va
puote il desio / Giovane ch'habbia lungo tempo amato»; «amore Uranio / È cieco, e divien cieco chi si lascia / Appanar da
lui gli occhi» (Ant, III. 4; IV. 1).
240 «non è tanto / La tempesta del Mar, quanto più freme,/ Terribil, quanto è terribil Donna, / Che si vegga privar de
l'amor suo"; "le fallaci gioie de gli amanti / Sono di vetro» (Did, III. 3, 6); «legno, che stia sempre in Mare / In forza a i
venti, à lungo andar non puote / Non sentir il furor di l'onde irate» (Ant, II. 6); «Ma che accusar si deve Amor, ò Sorte?.....
ambedue a i saggi / intelletti stan sotto, e restan venti»; «O' Amor, del Mondo pestilenza certa» (Alt, III. 6; II. 4). Nelle
sentenze appare anche il tropo della Fiamma, metafora-chiave di tutta la lirica petrarchesca, come anche della raccolta
poetica del Giraldi, intitolata appunto Le Fiamme.
241 Tra i drammi di Giraldi, solo in quello comico degli Antivalomeni l'amore si differenzia da questo schema, e presenta
la Fortuna come antagonista dell'Amore; in questo, però, l'amore dei quattro giovani coincide in modo scoperto anche
con la giustizia divina che opera per riconsegnare il regno agli eredi legittimi.
242 Mi riferisco qui all’articolo di Antonio Stäuble: ”Strutture innografiche in alcuni cori tragici cinquecenteschi”
(2007).
243 Da Fedi apprendiamo che Giraldi scrisse al suo maestro per avere un giudizio su alcuni sonetti che gli aveva inviato
(Fedi, 1982:308, in nota). Le lettere si possono leggere nella stampa anastatica a cura di D. Perocco, Forni, 1985, per la
collana "Libri di Lettere del Cinquecento", dell'Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara.
I cori che tematizzano l'amore rimandano inoltre inevitabilmente al celeberrimo stasimo dell'Antigone che si rivolge
all'"Eros invincibile", ripresa da Alamanni nella sua riscrittura della tragedia greca e parafrasata in chiave petrarchesca
250
ricordato che Giraldi prendeva le distanze dal coro della tragedia greca, rivolgendosi invece ai
modelli di Seneca «i quali giudico io (come già fe' Erasmo, e giudiciosamente) molto più degni
di loda che quelli di tutti i Greci; perché, ove questi molte volte si stendano in novelluccie,
quelli di Seneca con discorsi morali e naturali, tutti tolti dall'universale, ritornano
maravigliosamente alle cose della favola. La qual cosa (il miglior che ci è stato conceduto)
abbiamo ancor noi cercato di fare nei nostri cori» (DCT, 205, c.n.).
Non vanno quindi ignorati gli elementi degli intermezzi corali di derivazione idealistica,
sebbene questi spesso vengano inseriti come puri topoi retorici di arricchimento, e l'ispirazione
sia letteraria, più che filosofica.244 Conta anche rilevare come, in base alla funzione morale
dell'arte, egli riconosca lo stretto legame fra filosofia e letteratura e sottolinei come senza gli
«studi di filosofia [...] riescano vani tutti i componimenti» (DR, 136). Le allegorie presenti
nella sua drammaturgia non sono allora puro ornamento e arricchimento, ma servono anzi al
docere del pubblico di corte.
Gli intermezzi corali della Didone sono particolarmente adatti ad illustrare le modalità
con le quali l'autore applichi nei drammi le idee della trattatistica dell’amore. Nella tragedia,
infatti, l'amore viene introdotto all'interno del manualetto filosofico contenuto nel terzo
intermezzo corale. Dapprima il coro spiega la concezione cattolica del libero arbitrio, e espone
il topos aristotelico sulle diverse specie di anime:
Poi che il tutto è 'n suo arbitrio, altri di sassi
Prende la forma, e stassi
Come insensata pietra,
Altri, come huom, che dorma,
In pianta si trasforma,
Altri, che più di questi pur penetra
A perfettion maggior, si face uguale
A mobile, e sensibile animale (Did, III)
Perciò che sono alcune, che altro che l'essere semplice non hanno, sù come sono le pietre
e questo morto legno, che noi ora sedendo premiamo. Altre hanno l'essere e il vivere, sì
come sono tutte le erbe, tutte le piante. Altre hanno l'essere e la vita e il senso, sì come
hanno le fiere. Altre poi sono, che hanno l'essere e la vita e il senso e la ragione, e questi
siam noi. (Asolani III. 14)
Nella terza strofa il coro arriva poi a parlare degli altri di miglior alma, e miglior mente che
poco stimano quel, che il Mondo apprezza. Le strofe seguenti del coro sono una riscrittura in
anche dal Trissino nel terzo stasimo della Sofonisba. Un altro parallelo intertestuale si potrebbe reperire nei dialoghi
cinquecenteschi, dove si intersecano poesie dedicate all'amore; ma è un'analogia infruttuosa, perché i cori delle nostre
tragedie non sono puramente celebrativi, mirando, invece, ad un docere etico sull'amore. Come nota Baldacci in Il
petrarchismo italiano nel Cinquecento, gli Asolani sono l'unico dialogo cinquecentesco sull'amore con poesie
tematicamente collegate al discorso dell'interlocutore.
244 È questa infatti l'opinione di Horne, uno dei pochi che hanno commentato la tematica neoplatonica nei cori,
rifiutandosi però di darne peso a causa della personalità dell'autore, sostenendo che «any form of mysticism was quite
alien to Giraldi's literal mind» (Horne, 1962:77).
251
chiave dantesca del mito dell'eros nel Fedro, che si conclude con l'applicazione delle
considerazioni generali svolte nelle stanze precedenti al caso particolare della favola, dunque
con il solito riferimento all'eroina come exemplum del desir vano. Si tratta di un rifiuto del desir
van del mondo cieco, poiché il santo, alto salire non inizia qui, come nel Ficino, con l'amore
sensuale: l'uomo ricovra le piume, «poco stimando quel, che il Mondo apprezza», mediante la
catarsi cristiana, e grazie «a quelle acque [...]/ Ch'etere corrono dal celeste fiume» (Did, III).
Nell'ultimo coro della Didone l'amore, definito con l'ossimoro petrarchesco dolce-amaro viene
denotato, insieme alla ria fortuna, come l'artefice della catastrofe tragica:
Lassa à noi non tien fede,
Né ria fortuna, nè fallace Amore,
E chi si fida in lor misero more.
Mentre l'assimilazione dell'amore alla morte, «Egli è la morte nostra», si traduce in un
avvertimento esplicito: bisogna volgere «al verace ben subito il core».
La critica è stata unanime nel constatare come a Giraldi interessi veramente poco il
desiderio individuale, in realtà, però, assistiamo al trionfo dell'amore, e questa riconciliazione
utopica dei desideri oltrepassa le barriere morali della tragedia didattica; l'amore coincide con
la normativa sociale dell'universo fittizio e con un lieto fine garantito dalla Giustizia Divina il
drammaturgo ha deviato dal percorso tragico, per cui il sacrificio estremo degli eroi non è più
necessario.
I drammi a lieto fine seguono in tal modo la retorica "comica" del Fedro, che inizia con
lo sviluppo del tema sugli effetti distruttivi dell'amore, per trasformarsi in una lode di esso; e la
figura dell'eroina si rivela come una prosopopea del desiderio irrazionale, graziata dalla forza
divina ed imprescindibile dell'amore. Attraverso lo spirito filosofico dei cori, ci si rende conto
allora, che la fonte novellistica degli intrecci non ricrea il carattere d'insieme dei drammi; infatti,
sia il moralismo controriformistico che l'amore spirituale bembesco dei cori sono inconciliabili
con il concetto dell'amore nella novellistica e con la sua funzione nella commedia. La
paradossalità sta nel fatto che l'esplicita condanna dell'amore dell'eroina nei drammi, nonché le
massime sull'amore contrastano con la funzione del sentimento nella struttura profonda
dell'intreccio: nella lotta fra l'influsso del Boccaccio e la rigidità etica, l'allegra presenza della
novellistica rifiuta di lasciarsi vincere, e ottiene, in realtà, l'ultima parola mediante l'intreccio.
L'opposizione alla netta condanna dell'amore sensuale viene dunque svolta dall'intreccio
stesso. In sintesi, possiamo vedere come questa bivalenza dell'amore funzioni nei drammi a
lieto fine. L'amore di Altile scatena l'ira del re, ma gli amanti vengono salvati, dopo la
penitenza e la sofferenza, grazie all'intervento di Venere; l'amore di Selene ostacola l'ambizioso
e malvagio Gripo, e l'eroina si salva per la costanza del suo amore; nell'Euphimia l'amore cieco
252
unisce l'eroina ad un uomo ingrato e malvagio però, in virtù della sua tenacia "meravigliosa"
sopraggiunge Giunone, la quale, con l'aiuto del cavaliere Philone, salva la vita alla fanciulla; il
sentimento amoroso di Arrenopia, che nell'antefatto si era scontrato con la lussuria del giovane
marito e con la volontà del padre porta, proprio per la sua costanza e forza, alla risoluzione di
tutti i conflitti. L'Epizia costituisce invece un discorso a parte ma anche qui il conflitto, creato
dal desiderio violento, si scioglie con l'accettazione del matrimonio da parte dell'eroina.
E’ illustrativo per la funzione dell'amore nei drammi il coro degli Antivalomeni dove
ricorre la dicotomia etica fra la passione e la ragione. L'amore divino si oppone, quale agente
trascendentale nell'universo drammatico, all'amore sensuale che il volgo ardera, al quale è
dedicato il quarto intermezzo corale di Antivalomeni; dove esso viene descritto come un
«Tiranno empio, e crudele con minaccioso viso» che nei poveri amanti suscita sospiri, aspri
martiri, smania, affani, e pazzia. Il secondo coro individua nel desiderio e nelle passioni ogni
male, mentre il terzo si rivolge all'amore; «de gli Dei Re», accusandolo di essere la molla
scatenante della catastrofe a corte:
Ahi quante doglie forte
Son quasi in uno istante,
Per amoroso ardore
In questa corte?
L'amore viene poi identificato con la Divina Provvidenza, perché conduce all'unica soluzione:
Tu sol, col tuo favore,
Poi trar fuor d'affanno,
Dopo tormenti tanti
Questi cortesi Amanti
e far la vita loro
Tutta queta, e tranquilla.
Ma, per giungere alla pace, è necessario il riconoscimento del vero significato dell'amore da
parte dei protagonisti:
S'appare una favilla
Del tuo vivo splendore
Nel lor turbido stato
In gioia fia mutato
Il loro aspro dolore.
Nel dialogo fra i cori e gli intrecci ha dunque luogo una contrapposizione fra le condanne etiche
dell'amore sensuale, proprie del genere tragico e di buona parte della trattatistica
cinquecentesca, e la struttura della commedia. Il paradigma del coro filosofico era, in fin dei
conti, destinato a perdere contro le regole del genere melodrammatico. Comunque, nella
253
maggior parte dei drammi rimane aperta l'interpretazione sulla funzione dell'amore sensuale:
quando la condanna degli intermezzi corali è esplicita, le conclusioni liete degli intrecci danno
ironicamente credito proprio alla cieca scelta degli amanti, sebbene questa avviene sempre
grazie alla consacrazione nuziale dei rapporti. Più importante, per quanto concerne la
progettazione da parte dell'autore dell'universo tragico, resta però l'impiego dell'amore quale
forza apparentemente autonoma e sconvolgente; detto amore assume le stesse funzioni della
fortuna, giungendo così a sostituire il destino della tragedia antica e a cooperare con i disegni
imprescindibili della giustizia divina, per cui chi ne rimane soggetto non può opporvisi.
Si può in questo modo sintetizzare la risoluzione cristiana di Giraldi sulla fatalità tragica
antica: una rappresentazione della forza dell'amore in virtù della quale tutti possono essere
vittime, che tuttavia non esclude né la responsabilità individuale, sottolineata con la
tematizzazione del libero arbitrio, e neanche i significati nascosti e positivi del suo accadere. E
bisogna accreditare all'autore di aver trovato una soluzione conforme sia alla sensibilità del
pubblico cortigiano, anche femminile, sia ai custodi più severi della morale controriformistica.
254
6.
CONCLUSIONI
Dopo aver analizzato le basi poetiche e la tragedia di Giraldi, mi accingo, in conclusione, a
riassumerne le caratteristiche più rilevanti.
Di fronte al lavoro di rinnovamento del genere che questa tragedia rappresenta, mi ero
proposta di concentrare l'indagine su due campi principali: il primo, costituito da un esame
della strategia retorica, nel senso di persuasione ideologica; il secondo, riguardante il problema
del mescolamento dei generi del suo nuovo dramma. La fusione di questi due campi, infine,
conduceva ad un terzo problema, quello dell'incontro difficile tra la poetica esplicita e quella
implicita, vale a dire fra la retorica didattica, le intenzioni moralizzatrici e quel miscuglio di
generi che costituiscono il dramma: la tragedia classica, la commedia, la novella, l’epica, e la
trattatistica.
Una delle premesse storiche del mio approccio alla tragedia di Giraldi era il fatto che il
pieno Cinquecento fu per molti versi un periodo confuso di transizione, in cui si cercò di
trovare un equilibrio tra richieste e correnti spesso contraddittorie. Un'incertezza, questa, che
non si riscontra unicamente al livello politico e sociale, ma che si riversa anche nelle scienze
umanistiche e nell'arte. Nel Cinquecento l'ottimismo manistico svanisce nella controriforma,
che si esprime in un più rigido moralismo, frutto di un pessimismo culturale generale,. Da
questa situazione assai caotica, nasceva il desiderio, per il nostro poeta-demiurgo, di creare una
nuovo modello adatto alle esigenze del suo tempo.
Mi ero inizialmente proposta di mostrare come il dramma di Giraldi nell’ambito della
corte rispecchiasse un bisogno di avvicinarsi al gusto e alle tematiche note al pubblico
contemporaneo. Indubbiamente Giraldi riteneva che la tragedia potesse trovare un significato
proprio nella riflessione e nella denuncia dell'actio sociale. La rappresentazione drammatica è
quindi un modo per scoprire la realtà e il teatro può venir adoperato come modello di analisi e
di indagine dei fenomeni sociali e politici.
Ho voluto sottolineare il fatto che la nuova tragedia di Giraldi si fonda su tre diverse
tematiche fondamentali, nel senso che le direttrici costanti della sua giustizia poetica sono tese
a colpire alcuni degli elementi eversiv ritenuti i più pericolosi del suo tempo: la natura
corruttrice delle corti, gli amori illeciti e il pericolo della tirannia.
Quasi tutti i drammi presentano quindi una discussione riguardante la tirannia,
l'esercizio politico, e l'impiego della legge. Tale discussione crea il dilemma drammatico
principale e si riferisce intertestualmente ai temi più in voga nella letteratura trattatistica del
‘500. Inoltre, ricorre in quasi tutti i drammi la motivazione centrale dell'errore d'amore. Con la
255
presente tesi ho rilevato che il tema del doppio eros si mostra particolarmente adatto alle
esigenze del pubblico cortigiano e “ingenuo”, nonchè alla struttura della nuova tragedia di
Giraldi. L’amore si svela sia come artefice del conflitto, sia come strumento della giustizia,
costituendo il nucleo dell’hamartia e della catarsi della tragedia a lieto fine.
Queste tematiche, caratteristiche anche della tragicommedia inglese del '600, richiedono
nuovi eroi. Caratteristica della tragedia di Giraldi è l'importanza del contesto sociale, e il
mescolamento dei caratteri drammatici. Il ferrarese sviluppa una poetica esemplare e didattica
che pone il personaggio al centro del dramma come una personificazione di determinate qualità
morali. Ho notato che le tragedie di Giraldi risultano una specie di gioco combinatorio a scopo
didattico-esemplare, ove un numero limitato di tipi letterari investe i ruoli principali, creando,
con le qualità etiche che stanno a rappresentare, una varietà di scontri. Ho quindi anche
proposto di adottare la struttura del racconto esemplare come strumendo d’analisi.
A mio avviso la tragedia di Giraldi è influenzata dal fatto che nella prima metà del
Cinquecento la novella perse la sua giocosità boccacciana a favore delle strutture del racconto
esemplare, mentre la trattatistica si stava sempre più divulgando e alleggerendo. La novellistica
fornisce a Giraldi un serbatoio tematico moderno, in alternativa ai miti della letteratura classica.
Traspare ovunque nella sua opera un bisogno di interpretare l'arete aristotelica in base alle virtù
più apprezzate nella sua epoca: l'etica cristiana impone un'eroicità diversa da quella classica. Il
tipico eroe "controriformistico" che, come in Giraldi, spesso è femminile, risulta quindi essere
una negazione dell'agire eroico a favore della cattolica e paziente sopportazione delle proprie
disgrazie. Sostituiscono così l'arete classica, le virtù private dell'onore e della fede,
rappresentate da figure femminili con una nobiltà nuova. Nel dramma cortegiano la donna
assume il ruolo di protagonista. Salgono sulla scena protagonisti positivi come la Griselda, che
contrappone alla ribellione di Ghismonda la pazienza e la rassegnazione alla volontà della
Provvidenza, e l'imperatore equo e prudente, che nell'ultimo dramma prende il posto del tiranno
senecano nell'Orbecche. In ambedue i casi si tratta di un eroismo che preserva e che, per le sue
qualità, risulta tipicamente tragicomico. In realtà, la nuvoa tragedia del ferrarese passa via via
da protagonisti passionali, ad eroi atti a muovere a la compassione. In linea alle idee del
Guarini sulla tragicommedia, la tragedia di Giraldi vuole dare «l'umanità che è in noi [...] ampia
materia di aver compassione alle miserie degli afflitti» (DCT, 224).
Accanto alla coppia di protagonisti, sono presenti due tipologie del cortegiano: da un
lato quello falso, emblema della corruzione del principe e delle ambizioni machiavelliche, che
incorpora l’hybris sociale, dall'altro, il consigliere prudente e onesto idealizzato dal Castiglione.
In entrambi i casi il cortegiano svolge, nel dramma di Giraldi, la funzione di mediatore,
256
attenuando il conflitto o come capo espiatorio, o con prudente diplomazia. Viene ripetutamente
messo in scena l'exemplum della dialettica tra re e consigliere, articolata sulle suggestioni della
letteratura trattatistica, in particolare del Castiglione e del Machiavelli. Abbiamo visto come la
figura del cortigiano-mediatore si trovi al centro, tra i due protagonisti. Ciò nonostante, la
figura del mediatore rimane fondamentale poiché è attraverso essa che vengono evitati conflitti
diretti tra parenti e amici, che, per Aristotele, sono invece alla base della tragedia. Mentre la
tragedia antica è dominata dall’antitesi, la tragedia giraldiana sviluppa la figura del triangolo.
Le tematiche del dramma giraldiano mirano innegabilmente ad un'esaltazione dello
status quo sociale, e il carattere conservatore contraddistingue non solo i nuovi eroi, ma anche
la retorica, che ripete lezioni e caratteri, e utilizza la figura della massima, per attribuire ai
singoli episodi drammatici un valore universale.
E’ stato spesso osservato come una delle caratteristiche della tragicommedia consista
nel presentare delle dicotomie che danno al dramma un carattere politico. Ciò avviene anche
nel dramma giraldiano, dove vengono costantemente introdotte delle coppie antitetiche da un
punto di vista psicologico, etico e politico. Sia la retorica che le tematiche collaborano quindi
alla creazione di un dramma politico-ideologio che può essere definito conservatore, e che si
delinea pertanto secondo schemi consueti e precisi, dove il coro funge da interprete e mediatore
per il pubblico. Nei drammi di Giraldi è in primo luogo lo stratagemma pedagogico, dichiarato
sia nei prologhi dei drammi che nelle poetiche del nostro autore, ad escludere a priori una vera
dialettica tragica. Lo scopo è quello di persuadere, o meglio, di sedurre il pubblico, e non di
convincerlo; e in quella dolce persuasione, le posizioni contrapposte devono essere ben distinte.
Nonostante questa ripetizione di caratteri e intrecci esemplari, è possibile osservare nella
produzione drammatica di Giraldi una certa evoluzione.
Anzitutto va notato che è nelle strutture e nei caratteri contrastanti della Selene e
dell'Euphimia, che Giraldi si avvicina di più alla tragedia controriformistica caratterizzata da
una peripezia provvidenziale. Ad esempio, la figura del cortigiano ambizioso e furbo nella
Selene ci fa capire come nei drammi degli anni Cinquanta si sviluppi un manicheismo sempre
più accentuato per quanto riguarda le qualità etiche dei personaggi. Il cortegiano invidioso
nell'Altile non arriva ai livelli di Gripo nella Selene. Con l'Euphimia, poi, questa figura è portata
all'estremo, fonendo un cortigiano malvagio sul trono. Stesso percorso vale anche per l'eroina
che dalla Ghismonda nell'Orbecche e nell'Altile, passa alle "Griselde" nella Selene e
nell'Euphimia. Il manicheismo e i caratteri estremi di questi due drammi verranno poi in parte
abbandonati nell'ultimo periodo della drammaturgia del ferrarese, quando sperimenterà nuove e
più libere forme drammatiche dove par emergere, accanto alla presenza sempre più
257
ingombrante ed insistente dei mediatori, una modernità dei personaggi rappresentata
dall'incongruenza tra ethos e azione, diminuendo così l'importanza della figura dell’antitesi
nella tragedia. Con le ultime due tragedie, l'Arrenopia e l'Epizia, la retorica dell’opposizione
viene abbandonata, a favore di un’introduzione di triangoli di figure e di una presentazione di
diversi casi umani e giuridici. Giraldi si allontana dal genere della tragedia verso la retorica
esemplare, il dramma ideologico, processuale e tragicomico, dove la struttura della lezione
lineare prende il posto del conflitto tragico, svelando nuovamente la parentela tra il dramma
giraldiano e il racconto esemplare.
Nel presente studio è stato evidenziato che i conflitti della tragedia di Giraldi sono gli
stessi indicati da Hegel per la tragedia romantica, ma nel drammaturgo ferrarese è caratteristica
l’attenuazione di questi. Quell'eliminazione degli eccessi che prescriverà alla fine del secolo
Guarini per la tragicommedia, risulta fondamentale anche per la nuova tragedia di Giraldi.
Tra gli obiettivi di questa ricerca c'era quello di trattare il problema del genere della
nuova tragedia giraldiana, volevo rivolgere l’attenzione all’influenza che gli altri generi
letterari hanno avuto sul progetto di Giraldi di creare una tragedia moderna. Accettare la
volontà dell'autore di definire anche i suoi drammi a lieto fine 'tragedie', non significa affatto
non riconoscere che il dramma giraldiano abbia molti tratti in comune con il genere della
tragicommedia sviluppatasi nel '600.
Ho però voluto sottolineare la serietà poetica con la quale Giraldi concepisce i propri
drammi come tragedie, serietà che si riscontra anche nella gravità dei soggetti, nella ricerca di
una poetica tragica nuova e nello scopo didattico. Il dramma a lieto fine di Giraldi è ben diverso
dalla tragicommedia evatrice di Guarini.
Abbiamo visto che l'impegno morale della tragedia di Giraldi è stata giudicato in modo
diverso dai critici. Mentre per Mercuri e per Lucas la tragedia giraldiana inaugura il dramma
controriformistico, nel quale il mondo politico, la Ragion di Stato, si identifica con la sfera
morale (Mercuri, 1973; Lucas, 1984), Ariani sottolinea invece, per le stesse caratteristiche, le
qualità edonistiche della tragedia a lieto fine. Si è già detto come Ariani critichi molto
positivamente la prima tragedia di Giraldi, l'Orbecche, sottolineando in essa il realismo
pessimistico ed aggressivo. Secondo il critico con la sua prima tragedia Giraldi proietti la forza
distruttrice del dubbio, dell’irrazionalità e anche la distruzione dell'unità umanistica del
personaggio. Le tragedie che seguono all'Orbecche, e in particolar modo quelle a lieto fine,
vengono invece dall'Ariani condannate come reazionarie e «paurosamente impoverite di ogni
scatto polemico, di ogni senso della contraddizione» (Ariani, 1974:138). Con il presente studio
spero di aver dimostrato che in Giraldi la concezione del dramma come strumento edificante
258
non si traduce in un pacato ottimismo umanista, ma in una inquietudine che inevitabilmente
nasce dalla copresenza di vari generi letterari e dall'incontro della cultura cortigiana con la
tragedia, sebbene quest’ultima sia a lieto fine.
E’ chiaro che la condanna di Ariani nei confronti della tragedia a lieto fine sia
ideologica. Pare che Ariani avrebbe preferito trovare, nei drammi di Giraldi, uno sviluppo verso
il manierismo, nel senso di denuncia della crisi nel campo del sapere e della politica, come
avviene in molti dei drammaturghi contemporanei, e che il critico marxista, quindi, rimanga
deluso di fronte alla tendenza della tragedia a lieto fine del ferrarese ad conformismo che
giudica reazionario. Il manierismo di cui parla Ariani pare essere quel termine vago e
includente, con cui si definisce la corrente che portò al superamento della tensione tra ragione e
non-ragione, caratterizzata da una fusione di finzione e realtà, da un erotismo denso, da
equivoci, inganni fisici e metafisici, giochi di parole, insomma: un gusto per il disusato, per il
meraviglioso. L'operare di Giraldi drammatico si situa tra la pienezza del Rinascimento e il
primo manifestarsi del barocco. Si tratta di un periodo di transizione, caratterizzato nell’arte
dalla copresenza di stili anche molto diversi, e tendente a nuovi modi di rappresentazione ed
espressione. Come sostiene Ariani, eccezione fatta per l'Orbecche, Giraldi può difficilmente
venir definito manierista nel senso spiegato sopra: egli non arriva mai ai giochi con diverse
realtà dello Shakespeare, ritenuto da Hauser come il più grande esponente del manierismo
letterario (Hauser, 1968).
Nel periodo in cui opera Giraldi, il tezo genere significa anzitutto dramma pastorale
(Pieri, 1989:156-78). In un’analisi che tiene conto dei generi letterari può essere utile notare
che la nuova tragedia di Giraldi condivide con le versioni inglesi della tragicommedia del '600
il fatto di basarsi su novelle. Con il presente studio ho però anche mostrato come la forma
drammatica di Giraldi possa venir analizzata in luce del racconto esemplare, che possiede una
struttura molto più rigida di quella della novella boccaccesca. Con il vasto impiego di massime
e exempla, il discorso drammatico corre il rischio di chiudersi su sé stesso, di divenire una
rappresentazione di codici. La presente tesi ha mostrato che al mescolamento di generi presente
nel dramma di Giraldi consegue una manifesta metateatralità che crea quella distanza critica tra
pubblico e dramma, ovvero quell’effetto emozionale misto che sarà caratteristico della
tragicommedia del '600.
In Giraldi ha luogo una revisione dello statuto dei generi letterari in nome di una
finalizzazione edificante; quindi, come aveva trasformato la novella da esercizio giocoso in
racconto esemplare, così rende anche la tragedia un genere esemplare e dimostrativo. Ho anche
rilevato che l'influsso della trattatistica è notevole, e che questo riguarda in particolare le
259
tematiche principali dei drammi, verso le quali i personaggi drammatici svolgono la funzione di
rappresentarne varie idee in contrasto; ciò vale in particolare per i dibattiti politici presenti nei
drammi, le cui conclusioni vengono confermate negli exempla degli intrighi.
La tragedia nuova di Giraldi condivide con la tragicommedia anche il fatto che il
conflitto non nasce dall'intervento del destino, come nel caso della tragedia classica, ma dalla
mancanza di giudizio morale da parte dei protagonisti. Come genere letterario la
tragicommedia, come anche la tragedia a lieto fine di Giraldi, va collegata per tematiche e per
una struttura specifica, ad un'ideologia reazionaria. Questa forma di dramma è anzitutto uno
strumento per politicizzare e attualizzare la tragedia, per includere una varietà di tematiche
sociali e storiche, per prendere le distanze dalla tragedia antica dove i delitti vengono spiegati
come imposti dalla divinità.
Con la sua tragedia Giraldi ha certamente esplorato le possibili evoluzioni della
tragicommedia. Il contributo del tragediografo ferrarese meriterebbe senz’altro più attenzione
da chi si occupi della storia dei generi drammatici nel Rinascimento, per essere studiato in
relazione allo sviluppo del terzo genere drammatico. OM KOMEDIEN HER, VAZZELOER
Nei drammi del ferrarese vari generi letterari sono attualizzati; il risultato è un genere
tutt'altro che puro (nel caso si pensasse questo potesse esistere realmente), e un intersecarsi di
diversi mondi fantastici. La visione tradizionale del dramma, che risale ad Aristotele e che è
mantenuta pure dall'Hegel, si basa sull'idea che il dramma ammetterebbe solo una visione del
mondo, vale a dire un unico mondo dove gli eroi possono scontrarsi. Ma una grande parte del
teatro rinascimentale si distanzia di questa concezione. A mio avviso, l'ıncontro dei diversi
generi letterari e le incongruenze retoriche e tematiche che tale mescolamento può creare, è
fondamentale per capire lo sviluppo della nuova tragedia di Giraldi e di buona parte del teatro
rinascimentale. Si tratta di un'intertestualità in senso lato e, di una mescolanza di generi letterari
che portano con sé codici e intenzioni precisi e che dialogano tra di loro.
Il presente studio ha supposto che la varietà di generi che intervengono nella tragedia di
Giraldi non collabori sempre alla costruzione tendenziosa dell'autore, non riesca a creare un
insieme ideologico, una lingua unitaria. La commedia e la novella certamente non possiedono
le strutture e le finalità della tragedia, e la trattatistica presenta e focalizza su diverse
rappresentazioni del mondo che si scontrano nel dramma. La struttura gerarchica e l'istanza
ideologica autoritaria nel dramma presuppongono una congruenza logica tra l'azione e le verità
universali pronunciate dal coro. Tale coerenza non è sempre presente in Giraldi poiché il coro e
i vari personaggi si riferiscono a diversi generi e codici letterari. Si tratta quindi di una rottura
con la poetica aristotelica e con i suoi ideali di coerenza, casualità logica e unità. La letteratura
260
trattatistica, la novella e la commedia si incontrano e si scontrano nella tragedia di Giraldi, e
l'incontro tra questi diversi sistemi semantici crea nuovi significati e incoerenze. Ma allo stesso
tempo, però, è proprio grazie a questa combinazione di generi che la tragedia giraldiana riesce a
cogliere le contraddizioni insite nella cultura del Cinquecento, introducendo così un dramma
più sciolto dalla poetica normativa e autoritaria, e perciò più moderno.
261
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