Stralcio volume

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Capitolo 1
La negazione del mare Sommario: 1. Il mare, il mito. – 2. Uno spazio politico negativo. – 3. Retoriche talassiche. – 4. Talassofobie. – 5. Platone e il mare. – 6. Norme e flutti. – 7. Spazi
anomici. – 8. Il mare del mercante e il mare del pirata. – 9. La respublica christiana
come ordinamento concreto. – 10. Dinamiche telluriche.
Terra mare et contra mare terras terminat omnis.
Lucrezio, De rerum natura 1. 1000
1. Il mare, il mito Ero partito alla volta delle miniere del sovrano, discendendo sul
Verdissimo con una nave lunga centoventi cubiti e larga quaranta. Vi
erano sopra centoventi marinai, dei migliori dell’Egitto. Che guardassero il cielo, che guardassero la terra, i loro cuori erano più coraggiosi
(di quelli) dei leoni. Erano capaci di predire una tempesta prima che
fosse venuta, una burrasca prima che accadesse 1.
1
Il brano è tratto da Il racconto del naufrago, in M.C. BETRÓ (a cura di),
Racconti di viaggio e di avventura dell’antico Egitto, Paideia, Brescia, 1990, p.
33. L’opera, composta tra la XI e la XII dinastia – ovvero intorno al 2000 a.C. –,
è una preziosa testimonianza delle capacità nautiche degli Egizi, dal momento
che narra di un viaggio avventuroso lungo le coste del Mar Rosso. La filologia
dice molto sull’attitudine dell’uomo verso il mare: se per gli Egizi il Verdissimo è
il Mar Rosso, per gli arabi il Mediterraneo è al-bahr-al-abyad, il Mare Bianco.
Questo presso i Sumeri è il Mare Superiore, mentre per il popolo di Israele è iam
ha-ahron, il Mare che sta dietro. In merito si veda P. MATVEJEVIĆ, La Méditerranée et l’Europe – Leçons au Collège de France, Stock, Paris, 1998, trad. it., Il
16
Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt
Le testimonianze della relazione tra l’uomo e il mare sono consistenti già nell’età arcaica. Gli archeologi fanno risalire al neolitico le prime imbarcazioni: esili barchette di papiri precariamente
annodati tra loro, fragili natanti fatti di pelli cucite, malsicure canoe
ricavate dall’incavatura dei tronchi degli alberi. Ma già agli albori
del II millennio a.C. – secondo quanto è raffigurato nella celebre
terracotta di Syros –, solcavano le acque dell’arcipelago cicladico
imbarcazioni non molto diverse da quelle incontrate da Cook nei
mari della Polinesia, quasi tre millenni più tardi. Si trattava di progetti di tutto rispetto: il natante raffigurato in questo celebre reperto,
ipotizzano gli archeologi, misurava non meno di quindici metri ed
era armato con un ordine di sedici pagaie per lato, essendo in grado
di sviluppare una velocità di crociera non inferiore ai sei nodi 2.
Per comprendere la complessità del legame tra l’uomo ed il mare, però, non è sufficiente la razionalità scientifica, occorre adottare
il linguaggio del mito. «Le immagini, i simboli, i miti», ha suggerito Mircea Eliade, «non sono creazioni irresponsabili della psiche;
essi rispondono a una necessità ed adempiono ad una funzione importante: mettere a nudo le modalità più segrete dell’essere» 3. Le
cosmogonie, al di là di specificità e peculiarità innegabili, sono
dunque rivelatrici dei sentimenti contraddittori che turbavano l’animo del pastore minoico o del contadino egizio di fronte alla vista
dello sconfinato orizzonte acqueo. Certo, il mare è fonte di vita: è
Esiodo ad attribuire ad Oceano la paternità di tutti i fiumi. Iside,
dalla natura marina oltre che lunare, – sposa di Osiride, personificazione del fertile Nilo e madre di Horus, il sole – è celebrata come
Mediterraneo e l’Europa. Lezioni al Collège de France, Garzanti, Milano, 1998,
pp. 13-20 e A. VANOLI, Le parole e il mare. Tre considerazioni sull’immaginario
politico mediterraneo, Aragno, Torino, 2005. Per un grandioso affresco del Mediterraneo premoderno si veda P. HORDEN-N. PURCELL, The corrupting Sea: A Study
of Mediterranean History, Blackwell, Oxford, 2000.
2
Cfr. F. MONTEVECCHI, Il potere marittimo e le civiltà del Mediterraneo antico, Olschki, Firenze, 1997, pp. 20-23. Sulle caratteristiche della navigazione nel
mondo antico si veda per tutti S. MEDAS, De rebus nauticis: l’arte della navigazione nel mondo antico, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2004.
3
Cfr. M. ELIADE, Images et symboles. Essais sur le symbolisme magicoreligieux, Gallimard, Paris, 1952, trad. it., Immagini e simboli: saggi sul simbolismo magico-religioso, Jaca, Milano, 2007, p. 16.
La negazione del mare
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“signora delle acque”. A Poseidone conviene sacrificare tori e stalloni, simboli essi stessi di fertilità. L’emersione di Afrodite dalle
acque di Cipro, fonte costante di ispirazione per artisti ed aedi, introduce un elemento perfino erotico nella relazione tra l’uomo ed il
mare. Idilli mediterranei? Non solo: lasciando le sponde assolate
del Mare di Mezzo per giungere alle pianure della Zelanda e della
Germania inferior, si incontrano i templi dedicati a Nehalennia, invocata tanto per assicurare la fertilità quanto per garantire l’incolumità durante i viaggi. La dea, significativamente, è raffigurata ora
con una cornucopia, ora con una barca 4.
Il mare è dunque una categoria fondamentale dell’esperienza
umana. La dimensione pelagica è un richiamo forte, tale da assurgere a vero e proprio archetipo culturale in grado di oltrepassare la
dimensione religiosa, divenendo forma di pensiero. In quest’ottica,
dunque, la filosofia presocratica più che una cesura, è una conferma della centralità dell’elemento acqueo: Talete si era limitato a
razionalizzare categorie preesistenti 5.
Ma il mare non è solo portatore di vita. Con altrettanta frequenza le distese marine alludono alla morte: il mare, indifferentemente,
concede e toglie. I Celti d’Irlanda, grandi navigatori, non avevano
dubbi: era l’oceano la porta dell’aldilà. Sono frequenti i casi in cui
la barca diviene sacello: gli apparati funebri a foggia di natante sono diffusi tanto sulle rive del Nilo quanto su quelle del Reno. I funerali dei capi vichinghi, il drakkar incendiato che prende il largo
nelle brume nordiche portando via con sé la salma, dovevano avere
una rara potenza scenografica. James Frazer, uno dei conclamati
4
DEAE NEHELENIE VEGISONIUS MARTINVS CIVE SEQVANVS NAVTA
V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito) si legge in una lapide di età classica rinvenuta
presso Colonia. Fino ad oggi sono stati ritrovati oltre centosessanta reperti lapidei
riportanti iscrizioni in onore della dea, riprova della diffusione del culto anche
nella Germania romanizzata. D’altra parte è stato ipotizzato che Nehalennia potesse anche essere associata al culto dei morti, cfr. in merito H. WAGENVOORT,
Nehalennia and the Souls of the Dead, in Mnemosyne, 24, 1971, 3, pp. 273-293,
nonché O.J. SCHRIER, Nehalennia ΨΥΧΟΠΟΜΠΟΣ?, in Mnemosyne, 27, 1974, 2,
pp. 152-158. Il dibattito sulla figura della divinità celtica è l’ennesima prova dell’ancestrale ambiguità del mare?
5
Per una panoramica del simbolismo acquatico cfr. M. ELIADE, Immagini e
simboli, cit., pp. 135-143.
18
Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt
founding fathers degli studi antropologici, rileggendo i miti scandinavi ha dato una vivida descrizione delle onoranze concesse a Balder il Bello, figlio di Odino, caduto nel mortale tranello del perfido
Loki:
[gli dèi] presero il corpo di Balder e lo portarono alla riva del mare,
dove era la nave di Balder, chiamata Ringhorn, la più grande di tutte
le navi. Gli dèi volevano mettere in mare e bruciarci sopra il corpo di
Balder, ma la nave non si smuoveva. Chiamarono allora una gigantessa che aveva nome Hyrrockin. Essa arrivò cavalcando un lupo e diede
alla nave un tale spintone che il fuoco sprizzò dai rulli di legno e tutta
la terra tremò. Allora presero il corpo di Balder e lo misero sopra un
rogo funebre sulla sua nave; e quando la sua sposa Nanna lo vide, le si
spezzò il cuore dal dolore e cadde morta: così venne messa anche lei
sopra la pira funebre del marito nella nave e fu acceso il rogo. Anche
il cavallo di Balder con tutti i suoi arredi fu bruciato sul rogo 6.
I miti antichi non sempre conservano questi toni crepuscolari.
Più spesso il mare è associato ad apocalittiche devastazioni: il racconto biblico del Diluvio riecheggia nel ciclo epico dell’eroe sumerico Gilgamesh per poi spargersi in tutta l’area mesopotamica. Sulle rive del Gange, si celebrano nei Purana le gesta di Varaha, avatar antropomorfico – l’iconografia classica lo descrive come un
possente guerriero con la testa di cinghiale – di Vishnu. Dopo una
battaglia durata mille anni, Varaha avrebbe sconfitto il demone Hiranyaksha, liberando il mondo dalle acque che lo avevano sommerso. Più cupe sono le saghe nordiche: il Götterdämmerung è anticipato da una serie di terrificanti cataclismi culminanti con l’emersione
dalla profondità degli abissi marini di Jormungander, il gigantesco
serpente che con le sue spire circonda Midgar, la terra emersa.
Ma anche senza invocare queste apocalittiche visioni, il mare è
un luogo ostile ove si celano oscure minacce. Odisseo, Giasone ed
Enea sono affidabili testimoni della pericolosità dei flutti e dei loro
abitatori. Sirene, arpie e tritoni rendono pericolosa la navigazione.
6
Cfr. J. FRAZER, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, Macmillan, London, 1922, trad. it., Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, voll.
I-II, Bollati Boringhieri, Torino, 1973, ed in particolare circa il mito di Balder
vol. II, pp. 939-941. Si tratta dell’edizione ridotta rispetto a quella del 1911-1915
articolata in ben dodici volumi.
La negazione del mare
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E neppure vi è sicurezza una volta raggiunta la costa. Le scogliere,
confine tra terra e mare, nascondono ulteriori insidie: creature mostruose in grado di divorare interi equipaggi o rocce mobili capaci
di stritolare in un attimo le fragili fiancate delle imbarcazioni.
2. Uno spazio politico negativo Il mare, dunque, è al tempo stesso genesi e apocalisse, vita e morte. Quale è il pescatore che al momento di salpare non avverte un attimo di turbamento e non rivolge un rapido sguardo alla riva che si
allontana? Giunge dal mare il mite mercante con la stiva carica di
rare mercanzie: porpora di Tiro, ambra del Baltico, perle e corallo
del Mar Eritreo. Ma la vela che si scorge all’orizzonte può nascondere intenzioni meno pacifiche. Nel Mediterraneo antico, almeno fino
alla campagna navale condotta da Pompeo contro la Cilicia nel 67
a.C., la pirateria era endemica. D’altra parte, a ben vedere, i fasti navali pompeiani furono effimeri: adottando una prospettiva di lungo
periodo, la pax romana risulterà una breve parentesi di serenità nella
lunga storia delle scorrerie che hanno caratterizzato le sponde del
Mare di Mezzo. Con la decadenza dell’Impero romano, le sue coste
tornarono ad essere luoghi malsicuri: la pirateria riaffiorò all’ombra
degli Stati semi-indipendenti che già nella prima metà del III secolo
d.C. si erano formati all’interno dei confini imperiali 7. Ma un impulso determinante alla recrudescenza del fenomeno fu dato dalle incursioni di Goti e Sarmati nel bacino orientale del Mediterraneo, e di
Franchi e Sassoni nella Manica e lungo le coste inglesi, che a tutti gli
effetti si configurarono come una drammatica anticipazione delle
Völkerwanderungen barbariche 8. Per oltre un millennio i litorali ri7
Sul rapporto tra crisi dell’autorità centrale, anarchia militare e recrudescenza
della pirateria si vedano le considerazioni di Michael Ivanovich Rostovtzeff in
M.I. ROSTOVTZEFF, The Social and Economic History of the Roman Empire, Clarendon Press, Oxford, 1926, trad. it., Storia economica e sociale dell’impero romano, Sansoni, Firenze, 2003, pp. 712-713.
8
Secondo la convincente ricostruzione di Philip de Souza, le ondate migratorie delle popolazioni barbariche sarebbero state anticipate da una crescente attività piratesca. Cfr. P. DE SOUZA, Piracy in the Graeco-Roman World, Cambridge
University Press, Cambridge, 1999, pp. 218-240.
20
Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt
masero così in balìa della rapacità dei predoni del mare.
Riflettendo sulla relazione tra l’uomo e l’elemento marino, la rilevanza della pirateria è innegabile. E questo è tanto più vero nel
ristretto bacino del mare tra le montagne, per usare una celebre espressione di Fernand Braudel, dove tale fenomeno risale agli albori dell’antichità 9. Come ci attesta Tucidide, la talassocrazia minoica
fu duramente impegnata a lottare contro i pirati che già alla metà
del III millennio infestavano l’Egeo 10. Le Lettere di Amarna, circa
trecento tavolette di argilla riconducibili alla prima metà del XIV
secolo a.C. e contenenti la corrispondenza ufficiale di Amenhotep
IV, riportano i numerosi appelli che i funzionari provinciali rivolgevano al faraone perché intervenisse a contrastare le incursioni piratesche 11. E sempre dalla fertile valle del Nilo – dall’area di Tebe
per la precisione – proviene un bassorilievo che, databile intorno al
1200 a.C., celebra la vittoria navale ottenuta da Ramses III contro
una flotta dei “Popoli del Mare”, giunta a depredare il fertile Delta.
Il reperto, davvero notevole, riporta la più antica raffigurazione di
una battaglia marittima a disposizione degli archeologi. Ed è senza
dubbio significativo che questo antichissimo manufatto rappresenti
proprio un episodio della millenaria lotta che ha opposto le popolazioni rivierasche e i predoni del mare.
Cretesi, Carii, Illiri: dai loro porti salpavano le flotte che “correvano” le coste delle Mediterraneo, ricche di fiorenti città da saccheggiare non meno che di baie ospitali dove, all’occorrenza, trovare un rifugio sicuro. Questa attività predatoria aveva caratteri9
Cfr. F. BRAUDEL, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de
Philippe II, Colin, Paris, 1976, trad. it., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età
di Filippo II, vol. 1, Einaudi, Torino, 1986, p. 9.
10
Cfr. THUCYDIDES, Historiae, I, 4. In merito alle vicende ed ai caratteri della
talassocrazia cretese si veda poi F. MONTEVECCHI, Il potere marittimo e le civiltà
mediterranee, cit., pp. 34-43.
11
Cfr. M. LIVERANI (a cura di), Le Lettere di el-Amarna, voll. I-II, Paideia,
Brescia, 1998. Sulla rilevanza delle Lettere di Amarna nella genesi delle relazioni
internazionali, cfr. R. COHEN-R. WESTBROOK (eds), Amarna Diplomacy. The Beginnings of International Relations, The John Hopkins University Press, Baltimore, 2000. Una vivace ricostruzione della politica navale egiziana al tempo delle
Lettere di Amarna è contenuta in L. CASSON, The Ancient Mariners. Seafarers
and Sea Fighters of the Mediterranean in Ancient Times, Princeton University
Press, Princeton (N.J.), 1991, pp. 30-35.
La negazione del mare
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stiche peculiari, profondamente differenti, ad esempio, dalla pirateria che si sarebbe sviluppata nell’area caraibica all’indomani
della scoperta delle Americhe. Occorre accantonare, avverte Lionel Casson, l’iconografia dei Frères de la Côte: il pirata che preda
le popolose coste del Mediterraneo esprime un animus furandi
che non ammette facili comparazioni 12.
Sull’Atlantico la Filibusta si saldava ai giochi di potere delle potenze europee. È vero che ancora nel Seicento il pirata rappresentava una figura fondamentalmente anomica, eccentrica rispetto alle
categorie del diritto e della morale, tanto che Pufendorf – epigono di
una consolidata tradizione di pensiero – non esitava a collocarlo al
di fuori del consorzio umano 13. Questa alterità, però, tendeva a sfumare sui tavoli della politique politicienne: filibustieri, bucanieri e
Fratelli della Costa erano pedine importanti dello scacchiere strategico, contribuendo a strozzare il flusso di risorse che dai Virreinatos delle Americhe scorreva verso i forzieri dell’impero. La politica, evidentemente informata al realismo machiavelliano, aveva superato ogni preclusione di ordine giuridico e morale e aveva finito
con l’includere anche la pirateria nella panoplia a disposizione dei
principi.
Leistai, katapontistai, latrones e piratae raccontano invece una
vicenda completamente diversa 14. Sulle coste del Mediterraneo le
razzie dei predoni del mare sono un fenomeno antropologico, culturale, in ogni caso prepolitico. Tucidide ne è un testimone affidabile:
Anticamente i Greci, e tra i barbari quelli che occupavano la costa
del continente e le isole, appena cominciarono con maggior intensità a
viaggiare con le navi l’uno verso il territorio dell’altro, si diedero alla
pirateria sotto la guida degli uomini più potenti, che avevano lo scopo
di procurare guadagno per sé stessi e sostentamento per i deboli. At12
Cfr. L. CASSON, The Ancient Mariners, cit., p. 45.
In merito alla qualificazione in termini etici e giuridici della pirateria ed alle
diverse soluzioni elaborate da giuristi e filosofi si veda la ricostruzione contenuta
in W.G. GREWE, Epochen der Völkerrechtsgeschichte, Nomos, Baden-Baden,
1984, engl. trans., The Epochs of International Law, de Gruyter, Berlin-New
York, 2000, pp. 304-312 e più diffusamente D. HELLER-ROAZEN, Il nemico di
tutti, cit.
14
Nelle fonti non è sempre evidente la distinzione semantica tra pirateria e
banditismo, cfr. P. DE SOUZA, Piracy in the Graeco-Roman World, cit., pp. 1-14.
13
22
Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt
taccavano città prive di mura e che consistevano di villaggi, le saccheggiavano, e da questo traevano la maggior parte dei loro mezzi di
sussistenza: questa attività non aveva ancora niente di vergognoso, ma
anzi recava una certa gloria. Lo dimostrano ancora oggi alcuni degli abitanti del continente, presso i quali è un onore praticarla con successo 15.
Nel Mediterraneo, dunque, la pirateria si poneva al di là di ogni
categoria politica o fattispecie giuridica 16. Se la terra, come ci ricorda Schmitt, apparteneva al contadino ed al pastore ed era lo spazio entro cui si articolava il nomos, il luogo dove Ordnung e Ortung si saldavano, il mare era soggetto ad un “ordine negativo” 17. I
flutti, prima ancora che ai mercanti ed ai pescatori, appartenevano
ai pirati, sempre ammesso che nell’antichità fosse davvero possibile distinguere tra queste categorie 18. L’animus furandi governava
le condotta degli uomini del mare. E la fame di bottino doveva essere davvero inesauribile, se il lungo viaggio di Ulisse verso casa
fu inaugurato da razzie e saccheggi. Il re di Itaca, infatti, una volta
abbandonata Ilio in fiamme, benché carico di bottino non esitò a
sbarcare in Tracia per saccheggiare Ismaro, la capitale dei Ciconi,
facendo strage dei suoi abitanti 19.
Al contrario dei suoi epigoni secenteschi, dunque, il pirata del
Mediterraneo era profondamente unpolitisch. Non gli interessavano
i giochi di potere, i minuetti delle cancellerie, le sottili strategie degli ammiragliati. Al pirata importava solo la razzia, il bottino: per
15
Cfr. THUCYDIDES, Historiae, I, 5, 1, faccio riferimento all’edizione curata
da Guido Donini, TUCIDIDE, Le storie, Utet, Torino, 1982, pp. 99-100. In merito
alla talassocrazia tucididea infra, § 5.
16
Questo non significa che le popolazioni che praticavano la pirateria promuovessero un’anarchia caotica totalmente priva di razionalità politica. Le monarchie ellenistiche, ad esempio, non esitavano ad impiegare i pirati come mercenari. Cfr. in tal senso J.J. GABBERT, Piracy in Early Hellenistic Period: A Career
Open to Talents, in Greece & Rome, 33 1986, 2, pp. 156-163.
17
In relazione alla nozione di schmittiana di “radicamento territoriale”, cfr. G.
PRETEROSSI, Carl Schmitt e la tradizione moderna, cit., p. 167.
18
In merito al mare come “ordine negativo” mi permetto di rinviare al mio F.
RUSCHI, Leviathan e Behemoth. Modelli egemonici e spazi coloniali in Carl
Schmitt, in Quaderni Fiorentini per storia del pensiero giuridico moderno,
XXXIII-XXXIV, 2004-2005, pp. 379-462.
19
HOMERUS, Odyssea, 9.39-52.
La negazione del mare
23
dirla con Schmitt, egli era figlio del mare ed era partecipe della natura profondamente anarchica dei flutti 20.
La contrapposizione tra terra e mare assume toni ancor più drammatici se, alla luce delle parole di Tucidide, si esamina quali fossero – ancora fino all’epoca dei Vichinghi e poi dei Barbareschi – gli
obbiettivi privilegiati delle razzie piratesche. I predoni del mare
non erano interessati alle barche dei pescatori, ben misero bottino!
Anche le imbarcazioni dei mercanti non sempre erano un obiettivo
pagante: in primo luogo costringevano a lunghi e faticosi inseguimenti affidati alle braccia dei rematori. Era poi difficile coglierle di
sorpresa e sovente erano ben difese. Infine, non vi era alcuna certezza sull’entità del carico.
Almeno fino alla vittoriosa campagna navale di Pompeo, gli obbiettivi privilegiati delle razzie, in realtà, furono gli insediamenti costieri 21. Ancora in età tardo-repubblicana Caieta, Misenum, Brindisium furono vittime di scorrerie piratesche. Particolarmente clamoroso fu il sacco di Ostia, che spinse il Senato ad attribuire a Pompeo poteri del tutto eccezionali per debellare una volta per tutte la
pirateria 22.
Nelle città e nei villaggi del litorale si potevano trovare gioielli e
monili, spezie e tessuti ma, soprattutto, schiavi. In merito al rapporto tra schiavismo e pirateria William Woodthorpe Tarn, uno dei
grandi innovatori degli studi ellenistici, non aveva dubbi: «the pirate had a most useful place in the economy of the old world; he was
the general slave merchant» 23. Il gran mercato di schiavi di Delo si
20
Cfr. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., pp. 42-46.
Sul punto si veda J.J. GABBERT, Piracy in Early Hellenistic Period, cit. Dal
momento che l’attività predatoria si svolgeva prevalentemente sulla terra, ha suggerito Janice Gabbert, si dovrebbe evitare di parlare in senso proprio di pirateria.
22
Le fonti, dalla Pro Lege Manilia di Cicerone al Mithridateios di Appiano,
concordano sull’ampiezza e la gravità del fenomeno, cfr. CICERO, Leg. Man., 3133 nonché APPIANUS, Mithridaticus, 92-94. Per un esauriente inquadramento storico cfr. P. DE SOUZA, Piracy in the Graeco-Roman World, cit., pp. 161-167. Sugli aspetti giuridici connessi alla repressione della pirateria nella Roma repubblicana cfr. L. MONACO, ‘Persecutio Piratarum’. I. Battaglie ambigue e svolte costituzionali nella Roma repubblicana, Jovene, Napoli, 1996, ove ampia bibliografia.
Sul rapporto tra archetipi culturali e pratiche repressive si veda anche D. HELLERROAZEN, Il nemico di tutti, cit., pp. 23-81. In merito anche infra, § 6.
23
Cfr. W.W. TARN, Antigonos Gonatas, Clarendon Press, Oxford, 1913, p. 88.
21
24
Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt
alimentava solo grazie al costante approvvigionamento di “materia
prima” assicurato dai predoni del mare 24. Il pirata, più che le ricchezze della polis, bramava la polis medesima. Proprio in questo
aspetto la pirateria rivela tutta la sua natura disgregante, profondamente antipolitica. All’esercito assediante era possibile indirizzare
ambascerie, che preludevano ad una soluzione pacifica del conflitto
e, magari, ad una possibile alleanza. Il pirata, invece, non concedeva quartiere. Era mosso da un istinto puramente predatorio, finalizzato in ultima istanza al disfacimento della comunità dal momento
che ne spezzava i legami più profondi: quelli familiari.
Le razzie erano condotte secondo logiche precise, legate alla
domanda del mercato schiavistico. E le prede più ambite non erano
i cittadini adulti: quale prezzo si poteva ottenere con un vecchio pescatore? E del pastore, si poteva forse fare un contadino? Neppure i
remi si addicevano agli schiavi. Era senza dubbio vero che tanto
nella Roma imperiale quanto nella prima modernità i banchi delle
galee hanno costituito una pena massacrante per delinquenti, marginali, malati di mente ma anche prigionieri di guerra e vittime di
scorrerie 25. Ma, assai più frequentemente, i ranghi dei rematori sono stati appannaggio delle classi meno abbienti che, talora, lo hanno
perfino rivendicato con orgoglio. Nella Atene classica, ad esempio, i
banchi delle triremi normalmente erano affidati a uomini liberi: le
“mura di legno” che trionfarono a Salamina erano state volute da
Devo la citazione a Philip De Souza, cui rinvio per una approfondita discussione
delle tesi di Tarn. In tal senso cfr. P. DE SOUZA, Piracy in the Graeco-Roman
World, cit., pp. 60-65.
24
Si veda la testimonianza di Strabone in STRABO, Geographica, XIV, 5, 2,
nonché V. GABRIELSEN, Piracy and the Slave-Trade, in A. ERSKINE (ed.), A
Companion to the Hellenistic World, Blackwell, Oxford, 2005, pp. 389-404.
25
Rimane aperta la discussione relativa allo statuto giuridico dei marinai della
flotta imperiale, e segnatamente dei rematori. In merito ad un dibattito già vivace
all’epoca di Theodor Mommsen, cfr. l’accurata ricostruzione critica di Michel
Reddé in M. REDDÉ, Mare Nostrum. Les infrastructures, le dispositif et l’histoire de
la marine militaire sous l’empire romain, École française de Rome, Roma, 1986,
pp. 474-486. Per altro, anche nel Cinquecento – l’età dell’oro per la marineria a
remi – il ricorso a manodopera forzata fu tutt’altro che generalizzato. Ottomani e
Veneziani, in particolare, preferivano solitamente servirsi di rematori volontari, in
tal senso cfr. N. CAPPONI, Victory of the West. The Story of the Battle of Lepanto,
Macmillan, London, 2006, pp. 194-205.
La negazione del mare
25
Temistocle che, lo ricorda Plutarco, aveva costretto i perplessi ateniesi a divenire marinai. Nei Bioi Paralleloi era giustamente celebrata la lungimiranza del condottiero ateniese, che «sospinse gradatamente la città a volgersi verso il mare» 26. E dunque Atene non fu
salvata dalla flotta ma, come ha suggerito Pierre Vidal-Naquet, dalla cittadinanza, dalla polis stessa trasferitasi sul mare 27.
Le prede migliori, quelle che garantivano il miglior prezzo sul
mercato, erano i giovani, gli adolescenti, i bambini. Adeguando la
sua attività predatoria a questa logica commerciale, il pirata finiva
per svellere la comunità stessa, ne spezzava la continuità. Enea che
fugge da Ilio in fiamme, trascinando con sé il padre Anchise e il figlioletto Ascanio, rappresenta la disperata volontà di una comunità
politica di preservare la propria sopravvivenza e la propria identità.
Terra e mare, ordine ed anarchia, forse si può aggiungere un’ulteriore antitesi: cittadini e pirati.
3. Retoriche talassiche «Diceva anche di essersi guadagnato straordinario favore per aver
insegnato loro l’uso della bussola, che prima ignoravano del tutto,
sicché avevano poca confidenza con il mare, sul quale si avventuravano alla cieca e soltanto d’estate» 28. Prima della determinante ve26
Cfr. PLUTARCHUS, Themistocles, 4,4. Faccio riferimento all’edizione curata
da Antonio Traglia e Adelmo Barigazzi, PLUTARCO, Vite, Utet, Torino, 1992, p.
379. In merito a questa svolta ‘talassica’ infra, § 4.
27
Cfr. P. VIDAL-NAQUET, La tradition de l’hoplite athénien, in J.P. VERNANT
(s.d.), Problèmes de la guerre en Grèce ancienne, Mouton, Paris, 1968, pp. 161181, poi in ID., Le Chasseur noir. Formes de pensée et formes de société dans le
monde grec, La Découverte, Paris, 1991, trad. it., Il cacciatore nero. Forme di
pensiero e forme di articolazione sociale nel mondo greco antico, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 103-124 e in particolare p. 104. In merito agli aspetti sociali e giuridici della marineria ellenica si veda poi L. CASSON, The Ancient Mariners, cit.,
pp. 81-96. Si veda anche infra, § 4.
28
«Sed miram se narrabat inisse gratiam, tradito magnetis usu, cuius antea
penitus erant ignari. Ideoque timide pelago consuevisse sese, neque alias temere,
quam aestate credere». Cfr. T. MORUS, De optimo statu reipublicae deque nova
insula Utopia, Lovanii, 1516, I, 7, faccio riferimento all’edizione italiana curata
2.
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Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt
nuta dell’esperto Raffaele Itlodeo, non era certo facile la vita dei marinai di Utopia. Dal canto suo Tommaso Moro, che più volte aveva
attraversato le acque della Manica, aveva ben presenti le difficoltà
tecniche dell’andar per mare, il senso di smarrimento che coglie il
navigante di fronte alla liquida omogeneità talassica, l’importanza di
cogliere il momento più opportuno per prendere il largo.
La diffidenza per il mare, il timore per le sconfinate ed irrequiete distese acquee, sono sentimenti tanto diffusi, tanto consolidati
nell’animo umano, da aver generato veri e propri archetipi culturali. Si tratta di tòpoi che, costantemente rafforzati dalla natura “altra” del mare, dalla sua eccentricità ad ogni regola e costume, non
erano diffusi solo tra pescatori e mercanti. Né il metus generato dal
fragore delle onde che squassavano il ponte della nave riecheggiava solo in cronache, poemi e saghe. Piuttosto quest’ansia, questo
senso di intenso smarrimento assumeva una valenza concettuale ulteriore: il mare assurgeva a principio formale, a categoria del pensiero, venendo declinato secondo retoriche differenti eppure accomunate da una diffusa talassofobia.
In questa prospettiva, può sorprendere quanto questa drammatica percezione degli spazi marini sia stata ricorrente nell’evoluzione
del pensiero occidentale: e questo già nell’Atene classica la cui vocazione talassica, secondo una communis opinio, sarebbe stata indiscussa. Il mito, d’altra parte, ha recato la memoria della serrata
contesa tra Atena e Poseidone, che ambivano entrambi a divenire i
protettori della città attica. Ed erano dovuti intervenire gli altri abitatori dell’Olimpo, addirittura gli stessi dodekatheoi nel racconto di
Apollodoro, a dirimere la controversia. Il verdetto aveva riconosciuto i diritti della savia figlia di Zeus. Eppure il dio del mare aveva offerto alla città doni inestimabili: un cavallo ed una sorgente di
acqua salata, pegni del dominio ateniese sulle distese marine. Ma
da Luigi Firpo, cfr. T. MORE, Utopia, Guida, Napoli, 1979, p. 115. Occorre sottolineare i numerosi riferimenti presenti nell’opera di Moro alla Lettera delle isole
nuovamente trovate in quattro suoi viaggi, indirizzata da Amerigo Vespucci a
Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze. Sul punto cfr. A.M. LAZZARINO DEL
GROSSO, Amerigo Vespucci e le Società del Nuovo Mondo tra universalismo e
suggestioni di utopia, in Roma e America. Diritto Romano Comune, 18, 2004, pp.
87-102 e in particolare pp. 89-91. Sul rapporto tra esplorazioni, Conquista ed utopia, infra, cap. 3, § 3.
La negazione del mare
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aveva trionfato la saggia Atena, che per prima aveva piantato un
ulivo sull’Acropoli, là dove oggi sorge l’Eretteo 29.
Al solito, il mito è rivelatore: Atene ha dovuto scegliere tra il
mare e la terra, tra la sorgente salata, il cavallo e l’ulivo. Ha dovuto
optare tra un’esistenza tellurica e una talassica: se il cavallo e
l’acqua salata alludevano incontestabilmente al liquido regno di Poseidone, aver preferito l’ulivo di Atena Polia significava optare per
un’esistenza terrestre, ripudiare il mare, la sua irrequietezza e le sue
tentazioni. E quando il mito scolora, rimane il tabù: Plutarco, pur
scrivendo la sua vivace biografia di Temistocle mezzo millennio
dopo la vittoria di Salamina, aveva modo di sottolineare come, una
volta cessata la minaccia persiana, l’apertura del Pireo fosse avvenuta tra mille polemiche rappresentando una netta frattura con la
tradizione:
Poi allestì il Pireo, perché aveva osservato la favorevole conformazione naturale dei suoi punti di approdo e tutta la vita della città orientò verso il mare, facendo una politica in certo modo opposta a quella
degli antichi re degli Ateniesi. Quelli, infatti, come dicono, ponevano i
loro sforzi nel distogliere i cittadini dal mare e nell’avvezzarli a vivere
non già navigando, ma coltivando la terra 30.
Questa “apertura al mare”, aveva avuto pesanti ripercussioni sul
nomos della città, sui fondamenti dell’ordinamento giuridico e politico ateniese. Secondo Plutarco tali conseguenze si misuravano nella prevalenza della componente popolare a discapito dell’aristocrazia e nel rafforzamento delle istituzioni democratiche contro ogni deriva oligarchica. D’altra parte il mare – Plutarco non mancava di rimarcarlo – generava una propria antropologia: marinai, nostromi e piloti, educati all’infinita libertà che solo le distese marine
29
Cfr. APOLLODORUS ATHENIENSIS, Bibliotheca, 3. 14. 1. Sul rapporto tra mito e diritto si veda per tutti F. D’AGOSTINO, Per un’archeologia del diritto. Miti
giuridici greci, Giuffrè, Milano, 1979.
30
PLUTARCO, Vite, 19, 2-3, p. 407. Per un inquadramento storiografico di
questo delicato sviluppo della politica ateniese si veda M. MOGGI, La superiorità
navale degli Ateniesi e l’evoluzione tattica della ‘naumachia’: opliti e marinai a
confronto, in Civiltà Classica e Cristiana, 5, 1984, 3, pp. 239-269. Sul punto anche infra, § 5.
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Questioni di spazio. La terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt
possono offrire. Si trattava di uomini dotati di una particolare forma di audacia, che era misura di perizia. Non era l’ardimento dell’oplita che, votato ad Ares, si gettava furioso nella mischia. Piuttosto era il coraggio della responsabilità, proprio di colui che cosciente delle proprie capacità non temeva di affrontare i turbamenti
di Poseidone. Ed è così che, secondo Plutarco, una volta presa la
via del mare, ai tradizionali aristòi latifondisti si sostituiva una virtuosa aristocrazia “del remo e del timone”. Con la costruzione del
Pireo, insomma, il discrimine sociale non era più il sangue né
l’estensione della proprietà terriera, ma la capacità di affrontare il
mare. E si trattava di un’aristocrazia senza dubbio “democratica”,
basata sul merito, sulla competenza, sull’abilità di governare la nave, metafora della capacità di reggere la polis. Audacia e responsabilità, uguaglianza e merito, il mare plutarcheo non temeva le dicotomie.
Questa commistione tra vocazione talassica e democrazia, questa insistenza sulla funzione pedagogica del mare, capace di distillare le migliori qualità dell’uomo, è successivamente divenuto un
topos ricorrente nella storia del pensiero giuridico-politico. Venezia, Amsterdam, Londra, sono state salutate come culle di società
rigeneratesi nel mare. «Tutto ciò che tra il XVIII ed il XX secolo i
fanatici filobritannici hanno ammirato nell’Inghilterra» ha polemizzato Schmitt «era stato in precedenza ammirato in Venezia» 31.
Si trattava, insomma, di una retorica destinata a replicarsi ciclicamente, che interpretava la ricchezza mercantile, l’abilità diplomatica, la coesione del corpo sociale, la tolleranza dimostrata verso le opinioni filosofiche e religiose, l’ospitalità offerta a coloro che sfuggivano alla tirannia, come le più genuine espressioni di un’esistenza marittima.
Il mare, dunque, come strumento di perfezionamento, di rigenerazione: per tornare a Tommaso Moro, questi, orgoglioso figlio dell’island race britannica, non esitava a collocare la societas perfecta
su di un’isola, quella di Utopia, ove erano sconosciute avidità e in-
31
Cfr. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 22. Circa questo topos si veda F.
CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari, 2007, pp. 21-48.
La negazione del mare
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tolleranza 32. Era vero che inizialmente i suoi abitanti avevano provato disagio alla vista del mare, vittime anch’essi di una diffidenza
primigenia. L’incontro con il valente marinaio Raffaele, in grado di
fornire loro la techne indispensabile, aveva però permesso di superare ogni apprensione. D’altra parte proprio nella capacità di dominare i flutti si misurava la superiorità della razionalità umana. Questo umanesimo proteso verso l’infinito del mare era senza dubbio il
frutto di una coscienza spaziale matura: non si deve dimenticare
che Moro scriveva nel 1516, quando già le acque atlantiche erano
solcate con una discreta regolarità.
Il mare era dunque occasione di progresso della società e di miglioramento dell’individuo. Montesquieu, due secoli dopo la pubblicazione del racconto del viaggio di Raffaele Itlodeo, elogiava
Marsiglia come archetipo della città vocata al commercio e, nel testo era implicito, al mare. Dal momento che la sterilità del terreno
aveva spinto gli abitanti a darsi al «commerce d’économie» si legge in De l’esprit des lois:
il fallut qu’ils fussent laborieux, pour suppléer à la nature qui se refusait; qu’ils fussent justes, pour vivre parmi les nations barbares qui
devaient faire leur prospérité; qu’ils fussent modérés, pour que leur
gouvernement fût toujours tranquille; enfin qu’ils eussent des mœurs
frugales, pour qu’ils pussent toujours vivre d’un commerce qu’ils conserveraient plus sûrement lorsqu’il serait moins avantageux 33.
Laboriosità, misura, frugalità, amore per la giustizia, tali erano le
virtù praticate sulle banchine del Vieux Port: il mare era stato senza
dubbio generoso con i marsigliesi. Plutarco nell’esaltare i grandiosi
fasti dell’Atene di Temistocle era stato più cauto. Ma il presunto circolo virtuoso tra mare, commercio, democrazia e valori civici, destinato a riaffiorare in molta della letteratura illuministica, evidentemente legittimava gli eccessi retorici. Che dire di tutti quei philosophes che andavano magnificando i destini dell’Inghilterra, beneficata
da una duplice eccezionalità, istituzionale e geografica?
32
In merito alla portata dell’opera di Tommaso Moro e al valore fondante
del termine Utopia, cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., pp. 215-216.
33
Cfr. C. DE MONTESQUIEU, De l’esprit des lois, Paris, 1758, XX, chap. V.