`Abitare la città` è uno slogan abbastanza generico, quindi cercherò

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`Abitare la città` è uno slogan abbastanza generico, quindi cercherò
UGO LA PIETRA.
ABITARE LA CITTà.
Ugo La Pietra è un artista, architetto, designer e ricercatore.
Protagonista negli anni Sessanta di un’intensa attività
sperimentale intorno alla relazione individuo-ambiente, ha
contribuito a livello internazionale
al delinearsi del fenomeno della contro-architettura e del radical
design. Dagli anni Settanta concentra la propria attenzione
sul territorio urbano, inseguendo a volte il sogno situazionista
di riconquista dello spazio pubblico, educando l’abitante a uno
sguardo nuovo sulla città e utilizzando come strumento
di indagine la fotografia, l’audiovisivo, il disegno e l’architettura.
NOTES
LA CITTà SENZA NOME.
SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO
CONTEMPORANEO.
23 OTTOBRE
IV SESSIONE_ORIZZONTI IMMAGINIFICI
1_ Videocomunicatore, 1971-72.
‘Abitare la città’ è uno slogan abbastanza generico, quindi
cercherò di spiegare il concetto attraverso un mio percorso
con alcune esemplificazioni.
Innanzitutto devo fare una breve premessa storica:
io operavo già all’inizio degli anni Sessanta e ricordo
che tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta il tema del
rapporto ‘individuo-ambiente’ era praticato da pochi
gruppi di artisti-architetti (che furono successivamente
storicizzati come architetti radicali) soprattutto nell’area
europea. Basterebbe pensare agli inglesi Street Farmer, alla
Cooperativa Himmelblau, al Gruppo degli HausRuker a
Vienna.
Insomma, questo discorso sull’abitare la città era
sicuramente marginale rispetto alla cultura ufficiale in
Italia come all’estero, Milano poi in quegli anni era
governata dalla corrente progettuale caratterizzata dal
pensiero di Ernesto N. Rogers e da quella corrente
denominata Neoliberty, corrente che si sviluppò negli anni
anche attraverso il contributo di Vittorio Gregotti, fino ad
Aldo Rossi.
Quindi si possono immaginare le difficoltà per un
giovane architetto che muoveva i propri passi a Milano,
in un contesto culturale che non apprezzava le nuove
teorie riferite al diverso uso dell’architettura in rapporto
all’abitare urbano.
Malgrado ciò, verso la fine degli Settanta, inizio degli anni
Ottanta, accadde qualcosa che in qualche modo modificò
questa attività ‘radicale’ sotterranea rispetto alla cultura
ufficiale.
Molti ricorderanno, soprattutto chi si è occupato di
architettura, che proprio in quegli anni nelle Facoltà
nacque una nuova disciplina che si chiamava ‘arredo
urbano’, l’equivalente di quella disciplina che Gio
Ponti aveva già promosso negli anni Cinquanta quando
aveva introdotto la materia ‘architettura degli interni’,
volgarmente chiamata arredo domestico.
Alcuni di noi cominciarono a pensare che le cose stavano
effettivamente cambiando, che la società (nascevano anche
gli Assessorati all’Arredo Urbano) fosse maturata e che
anche le Università prendevano coscienza dell’importanza
di considerare l’architettura come qualcosa fatta per
migliorare l’abitabilità dell’individuo urbanizzato.
Così anche io fui preso da questa ‘trappola’ e fui chiamato
in diverse Facoltà di Architettura a fare dei corsi appunto
sull’Arredo Urbano. Mi trovai invece all’interno di questi
dipartimenti in cui in effetti, più che corsi sull’arredo
urbano, che pensavo fosse la tematica da sviluppare (e cioè
determinare nell’individuo la capacità di riconquistare un
rapporto e quindi la riappropriazione dell’uso dello spazio
urbano e nel progettista approntare strumenti per questa
pratica) mi ritrovavo sempre all’interno di corsi che si
occupavano di fatto di ‘arredo stradale’ (‘street furniture’,
in inglese), vale a dire progettazione di panchine,
dissuasori di sosta, portarifiuti, lampioni, …
Quindi una tematica che, introdotta nelle Facoltà
di Architettura, creò una certa attenzione e un certo
‘disturbo’, disturbo di cui le Facoltà hanno spesso avuto
bisogno per nascondere il loro disimpegno nei confronti di
ciò che accadeva sul territorio.
Dal dopoguerra ad oggi, le Facoltà di Architettura
distribuite su tutto il territorio italiano non hanno, di
fatto, mai alzato un dito di fronte al grande scempio che
si è fatto sul nostro territorio (di cui tutti noi siamo stati
spettatori), denunciando un’edilizia e un’architettura
responsabile di tutto ciò!
Da parte di queste istituzioni, che potrebbero avere in
qualche modo un ruolo di verifica e di denuncia, in
quanto libere da condizionamenti politici ed economici,
non è mai cresciuto un movimento interno alle stesse
capace di intervenire in qualche modo per porre freno a
ciò che si stava facendo.
Dicevo, quindi, arredo urbano come elemento di
distrazione e anche di grande euforia per molti designer
che vedevano aprirsi, con l’arrivo dei ‘grandi numeri’
(forniture per intere città) finalmente una nuova stagione
per il disegno industriale.
Furono invece decenni di decadenza: purtroppo gli anni
Ottanta e Novanta furono anni in cui questo problema
dell’ambiente urbano fu trattato solo a livelli, nelle
migliori delle ipotesi, di ‘fornitura stradale’.
Negli ultimi anni c’è stata una certa diversa attenzione
all’ambiente, attenzione che è si è soprattutto espressa
a livello dei nuovi ‘graffitari’, artisti che ad ogni modo
sembrano aver esaurito la loro funzione in quanto ormai
celebrati dai musei di arte contemporanea.
Così il discorso dell’abitare la città rimane estremamente
scoperto, almeno per quanto mi riguarda, rispetto ai
metodi e agli strumenti che ho utilizzato per molti anni.
Vi porto solo qualche piccolo esempio di come si dovrebbe
affrontare questa tematica.
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23 OTTOBRE
IV SESSIONE_ORIZZONTI IMMAGINIFICI
4_ Il commutatore, 1970.
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SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO
CONTEMPORANEO.
4_ Il segnale, 1970.
3_ Mappe.
fin dal 1966/67) che portavano alla ‘decodificazione’ di
situazioni e luoghi.
Cioè la lettura, e quindi il disvelamento, di una realtà che
non sappiamo percepire perché ormai acquisita e molte
volte imposta.
Rompere gli schemi imposti e decodificare l’ambiente:
nacquero così strumenti che ritenevo utili per questa
operazione.
Ad esempio lo strumento del Commutatore (Fig. 4) :
un piano inclinato su cui collocarsi e, modificandone
l’angolazione, poter guardare in modo diverso la realtà
circostante; è stato per i primi tempi l’oggetto manifesto
di queste operazioni di decodificazione che teorizzai con il
manifesto Sistema disequilibrante.
Una delle prime operazioni disequilibranti fu l’opera
Elemento Segnale.
Alla periferia di Milano, tra Bresso e Cinisello Balsamo,
si estendeva una grandissima area tutta recintata e
assolutamente inutilizzata e priva anche di un minimo di
verde o di coltivazione. Io passavo quotidianamente da
quella zona, fiancheggiando la recinzione, per andare ad
insegnare a Monza e notavo che progressivamente cresceva
tutt’intorno una architettura residenziale ‘in attesa’ che
questo grande spazio venisse utilizzato, si trasformasse. Ma
non succedeva nulla e tutti aspettavano e costruivano nella
speranza di …
Alla fine pensai di scaricare tutta questa tensione
accumulata negli anni collocando in quest’area un ‘segnale’
(Fig. 5) (Intervento per nuove strutture ambientali): un
cartello che invece di scaricare le tensioni ne acculava
provocatoriamente delle altre!
Vi ho descritto alcuni interventi a carattere psicologico
e mentale, ma ci sono tante operazioni di carattere più
progettuale che attendono di essere affrontate.
Tutti sanno che la città, per quanto riguarda i rapporti
individuo-ambiente, è fatta di tanti sistemi: il sistema
dei flussi, il sistema ludico, il sistema culturale, il sistema
informativo, quello commerciale, ecc. Ma per tutti questi
caratteri urbani manca la progettualità.
Prendiamo ad esempio l’antico tema dell’isola pedonale
(uno dei tanti argomenti che riguarda il sistema dei flussi):
ebbene è un argomento che in Italia non è mai stato
affrontato dal punto di vista progettuale.
Quando nel ’68 ci furono le prime isole pedonali,
feci un intervento disequilibrante (in qualche modo
metaprogettuale), che intitolai Campo urbano (Fig. 6 e 7)
proprio su questo argomento, in una delle prime mostre
che si fecero sull’arte nella città (artisti che uscivano dal
sistema dell’arte e delle gallerie per andare verso la città e i
suoi abitanti) a Como.
Invitato dal curatore (Luciano Caramel) come tanti altri
artisti (tra cui il Gruppo T, Munari, Bay, Chiari, Fabro,
…) intervenni proprio sull’isola pedonale di Como: con
la mia installazione effimera (durata solo una giornata)
volevo evidenziare che l’isola pedonale, una volta liberata
dal traffico, viene subito parassitata e occupata dal sistema
commerciale (i negozianti si apprestavano a moquettare la
via, a collocare vasi e invadere con le loro merci lo spazio
reso disponibile).
Così, lo spazio liberato dal traffico, non veniva
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ABITARE LA CITTà.
2_ Mappe.
Abitare la città può avere due tipi di approcci. Un
approccio fatto di strumenti in grado di far capire la
differenza che esiste tra ‘abitare’ e ‘usare’ lo spazio urbano:
si ‘abita’ lo spazio della propria abitazione domestica, si
‘usa’ lo spazio della camera d’albergo.
Le due differenze sono facilmente comprensibili.
Abitare, di fatto, vuol dire espandere la propria
personalità, appropriarsi dei luoghi e in qualche modo
trovare un rapporto soprattutto di tipo mentale; proprio
come facevano i pellerossa che abitavano il loro territorio
senza trasformarlo. Non lo modificavano e davano valore
e significato ad ogni cosa: montagne, fiumi, alberi… Per
esempio, facevano dei fori sotto i mocassini dei propri
figli dicendo loro che così avrebbero potuto toccare con
le palme dei piedi la terra: la polvere delle ossa dei loro
antenati.
Per avvicinare le persone a questo modo di vivere lo
spazio urbano si possono attivare diversi esercizi. Io ne
proposi alcuni negli anni Sessanta e Settanta, cercherò di
descriverli brevemente.
Un esercizio era costruire la ‘mappa della propria città’
(Fig. 1 e 2) che avveniva secondo le seguenti modalità:
“Prendete la pianta della vostra città (la mappa codificata
che potete comprare dal giornalaio), sovrapponete
a questa un foglio di carta da lucido delle stesse
dimensioni e disegnate sopra i luoghi dove avete ricevuto
delle informazioni, otterrete la mappa delle ‘vostre
informazioni’; nello stesso modo potete realizzare (con altri
fogli di carta trasparente sovrapposti alla mappa codificata)
la mappa dei ‘vostri monumenti’ (oggetti e segni che avete
utilizzato per orientarvi), la mappa dei ‘vostri itinerari’,
la mappa dei ‘vostri eventi emozionali’, e così via…
Tutte queste mappe da voi elaborate raccolgono le varie
letture del vostro rapporto con la città”. Alla fine, avendo
richiesto a circa 500 persone di realizzare questo esercizio,
ne realizzai una mostra alla Triennale di Milano nel 1979
dove era ben visibile, esponendo a confronto queste
mappe, che ‘esistevano tante città per le tante persone che
abitavano la città stessa’.E così, un altro esercizio (citato
nel precedente intervento da Nicolini) era le chemin du
dérive cioè proporre un percorso (a piedi) dal centro della
città alla periferia senza un particolare tipo di destinazione
e senza un percorso prestabilito.
Durante questo itinerario il protagonista di questo
esercizio percepiva una quantità di informazioni che
non avrebbe mai potuto avere in altre situazioni di
comportamento urbano.Ad esempio, dopo una giornata
in cui il protagonista percorreva il proprio itinerario,
si accorgeva che la città non offriva minimamente la
possibilità di sopravvivenza perché per sopravvivere in
uno spazio per dodici ore ci sono tre cose che bisogna
assolutamente fare: bere, evacuare, riposare. Bene,
nelle nostre città, queste tre necessità non sono assolte
da nessuna struttura a disposizione dell’individuo
urbanizzato.
E stiamo parlando di ‘usare’ la città, siamo ancora molto
lontani quindi dall’‘abitare’ la città.
Ma per abitare la città, direi più a livello psicologico e
comportamentale, mi è parso indispensabile sviluppare un
insieme di operazioni (che iniziai a realizzare e a proporre
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CONTEMPORANEO.
23 OTTOBRE
IV SESSIONE_ORIZZONTI IMMAGINIFICI
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6_ Campo urbano, 1968.
7_ Campo urbano, 1968.
8_ Cicerone elettronico, 1971-72.
9_ Videocomunicatore, 1971-72.
10_ Verso il centro, 1972.
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ABITARE LA CITTà.
12_ Attrezzature urbane per la collettività, 1979.
soltanto al quartiere dove vivo io a Milano dove nel giro di
cinque anni trentacinquemila cinesi sono entrati ed hanno
trasformato questo quartiere in un centro commerciale
all’ingrosso - come si potrebbe fare sul porto di Amburgo
- dove praticamente tutti gli ambulanti di Europa vengono
a rifornirsi, in un territorio come quello del centro di
Milano, che si trova in una situazione di gestione - sempre
per parlare più che di progetto di gestione politica veramente disastrosa; questo per dire quanto possono fare
le trasformazioni e le mutazioni di carattere commerciale e
quanto sono riuscite a fare in passato, quando il centro di
Milano era un centro estremamente vivace, e come hanno
trasformato la città ora, con una concentrazione di esercizi
costituiti in prevalenza da banche, lasciando il turista
perso in una città che di notte non possiede più attrattive
e vitalità.
Quindi il problema degli esercizi commerciali è un
problema che andrebbe affrontato con impegno e
attenzione.
Fin ora ho richiamato la vostra attenzione attorno al
sistema dei flussi del sistema ludico e commerciale, ma
esiste un altro sistema poco indagato che io chiamo
‘sistema di decompressione’.
Quest’ultimo è costruito da una serie di elementi e
spazi attrezzati che servono per creare momenti di
decongestione rispetto all’inquinamento acustico,
atmosferico, all’eccesso di folle, di strutture di mezzi
di percorrenza… insomma, luoghi e attrezzature per
‘riprendere fiato’.
Le ‘vedovelle’, fontanelle che in ogni quartiere un tempo
servivano per dissetare il passante, oggi sono tutte
scomparse!
Un esempio di come anche le più elementari strutture di
servizio per la ‘decompressione’ (pensiamo alle zone di
riposo e alle strutture per l’evacuazione) sono totalmente
assenti nelle nostre città.
Come non esistono momenti di sospensione rispetto
all’efficienza esasperata delle città: momenti che sarebbe
giusto chiamare ‘smagliature’ quelle situazioni alternative
alle strutture imposte dagli urbanisti che si trovano ancora
spesso nelle periferie della città.
Sono queste smagliature che mi hanno fatto riflettere e mi
hanno spinto verso la fine degli anni Sessanta a guardare
alle periferie urbane con maggiore attenzione.
Le periferie con le loro smagliature (‘itinerari preferenziali’
rispetto alle maglie tracciate dall’urbanista, ‘strutture
autogestite e autocostruite’ come gli orti urani, il ‘recupero
dei materiali’ da ciò che la civiltà dei consumi scartava per
poi essere reinventato), mi insegnarono molte cose al di là
dei luoghi comuni che descrivevano, e descrivono spesso
ancora, le periferie come luoghi del non progetto.
Per concludere, un argomento su cui mi sono impegnato
per tanti anni e su cui continuo ad avere una certa
attenzione è la definizione di strumenti per la rottura
della barriera che esiste tra lo spazio pubblico e lo spazio
privato.
Un’attenzione che mi ha portato fin dagli anni Sessanta
a sviluppare una serie di teorie, progetti e azioni
motivandole attraverso un sintetico slogan: ‘Abitare è
essere ovunque a casa propria’, vale a dire la pratica di
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IV SESSIONE_ORIZZONTI IMMAGINIFICI
11_ Vetrine.
riconvertito, ripensato, riprogettato, ma lasciato a sé stesso.
Ecco, questo mio intervento ‘allora copro una strada e ne
faccio un’altra’ (fotografato mirabilmente da Ugo Mulas),
consisteva nel creare uno spazio autonomo rispetto allo
spazio (marciapiede) utile all’uso del sistema commerciale,
tutto ciò per dimostrare la possibilità di intervenire negli
spazi liberati dal traffico.
A questo intervento se ne aggiunsero altri più mirati a
dimostrare la disponibilità di spazi non usati, dimenticati,
emarginati… da una cattiva gestione degli spazi.
Un altro progetto (sempre della serie disequilibrante),
ancora tutto da attuare e che portai nel 1972 al MoMA
di New York nella mostra, che tutti ricorderanno,
dal titolo Italy: the new domestic landscape, riguardava
l’informazione. Erano tempi in cui si cercava di liberarsi
dall’informazione ‘imposta’ così pensai al cicerone
elettronico (Fig. 7) che, attraverso un programma
audiovisivo, attuava un’informazione tra spazio privato e
spazio privato e tra spazio privato e spazio pubblico senza
particolari filtri, quindi in modo diretto e autogestito.
Un apparecchio che poteva contenere e rimandare
messaggi lasciati da ognuno di noi nella città e poterli
recepire dallo spazio privato e viceversa. Così pure il
Videocomunicatore (Fig. 8) una sorta di box che poteva
essere collocato nella città e collegato agli spazi privati:
contenitori di messaggi che venivano accumulati e poi
anche proiettati su grandi schermi della città.
È un progetto del 1972, e sarebbe bello vederlo realizzato,
prima o poi!
Un altro esempio di progetto disequilibrante è quello che
nel 1974/75 chiamai Verso il centro (Fig. 9).
In quell’anno il Comune di Milano incaricò alcuni
architetti e artisti ad intervenire durante le feste natalizie
nel centro città con opere di abbellimento.
Così osservai che, siccome in quel periodo dell’anno le
persone si muovono dalla periferia verso il centro (pieno
di luci e merci!) proposi di portare nel centro tutto ciò
che produceva la periferia. Vorrei ricordare che in quegli
anni la periferia di Milano era estremamente ricca e vivace
di movimenti, circoli giovanili, case occupate, centri
culturali… Quindi l’intento della mia proposta era di
trasformare un’azione centripeta in un’azione centrifuga,
portando dunque alla gente che dalla periferia veniva verso
il centro città un’attenzione verso la periferia.
Questi sono alcuni progetti che esemplificano il mio
atteggiamento nei confronti dello spazio urbano e che
dimostrano che il sistema urbano è ancora troppo poco
guardato con l’attenzione che ci vorrebbe per sviluppare
un più giusto rapporto individuo-ambiente.
Altro argomento che mi ha appassionato per tanti anni era
rivolto all’immagine della città.
Di fatto, a ben guardare, l’immagine della città è
realizzata quasi esclusivamente dalle vetrine dei negozi
e dall’esposizione delle merci: tutti noi lo sappiamo, ma
pochi si rendono conto di questa realtà che, di fatto,
modifica continuamente l’immagine che abbiamo della
città (Fig. 11).
Non sono certo gli urbanisti, ma sono più che altro i
negozianti, con i loro vetrinisti, quelli che in qualche
modo modificano continuamente questa immagine; penso
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IV SESSIONE_ORIZZONTI IMMAGINIFICI
12_ Attrezzature urbane per la collettività, 1979.
qualificato per lo spazio urbano.
Alla fine della manifestazione (che dura pochi giorni)
- proprio come accade in tutte le fiere di paese quando
finisce la festa (fatta di giostre, luminarie, musica della
banda, premi e allestimenti) - non rimane traccia di questa
grande espressione della cultura del progetto.
Queste riflessioni sicuramente denotano una certa dose di
pessimismo, quasi disperazione, condizioni psicologiche
che la città di Milano mi ha sempre provocato creando
però in qualche modo una posizione stimolante di critica e
potrei anche dire di ottimismo operativo.
Ottimismo creativo che mi ha stimolato a condurre
piccole e grandi battaglie nella convinzione di poter
riuscire anche in minima parte e modificare il rapporto tra
l’individuo e l’ambiente.
Lo testimonia un film che realizzai nel 1975 per il
Centre George Pompidou di Parigi, film che intitolai
La riappropriazione della città, che dura quasi un’ora,
impossibile quindi da proiettare in questa occasione.
Potrò invece farvi vedere un più breve filmato di quegli
anni, ‘Interventi pubblici per la città di Milano’ divertente
e illuminante.
Il film tratta proprio della ‘riconversione’ degli oggetti
d’arredo urbano (strumenti che segnano soprattutto
violenza e separatezza) che vengono trasformati in oggetti
sofisticati di arredo domestico (Fig. 12).
Si vedranno all’inizio una serie di sequenze in cui i vincoli
(paletti e catene) vengono descritti come ‘strumenti
provvisori per la riqualificazione di molte zone di Milano’.
Oggi quei paletti e catene non ci sono più a Milano, il
sindaco di allora (dopo aver visto il film alla Triennale di
Milano nel 1979) li fece cambiare e riprogettare da Enzo
Mari, pensando che ne avessi criticato l’aspetto estetico:
nacquero così i ‘panettoni’, la modernizzazione dei paletti
e catene, ma come avete capito la mia critica era sul
significato di ‘false promesse di riqualificazione urbana’ che
di fatto questi strumenti portavano con sé (in aggiunta alla
loro immagine di violenza).
Vi auguro buona visione e spero di avervi comunicato un
po' del mio pessimismo ma che soprattutto nei giovani
possa trasformarsi in ottimismo pensando alle tante cose
che ancora si potranno fare in futuro per ‘abitare la città’.
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ABITARE LA CITTà.
abitare va al di là dello spazio privato per invadere anche lo
spazio pubblico.
Per esprimere in modo evidente e provocatorio questo
modello di comportamento ho realizzato negli anni
Settanta un percorso progettuale rilevando tutte le
attrezzature che incontravo nella città (oggetti di fornitura
stradale e i così detti - sic! - arredi urbani, i vincoli della
strada - barriere, dissuasori, … ecc) per poi riprogettarli in
oggetti di arredo domestico (Fig. 12).
Così, ad esempio, ho rilevato i dissuasori ‘paletti e catene’
estremamente diffusi a Milano e li ho trasformati in
eleganti oggetti d’arredo domestico (letto, sedia, tavolino,
cassettiera) e ancora ho rilevato le ‘paline stradali’ (che
servono per sostenere la segnaletica stradale) e le ho
trasformate in oggetti luminosi estremamente affascinanti
con il neon e il metacrilato dipinto a mano, per poi
collocarli in una stazione della metropolitana a Milano,
per esprimere come il progetto della nostra metropolitana
fosse assolutamente anonimo e alienante, lontano dal
concetto dell’abitabilità!
Così, mediante un’azione provocatoria, tutti gli oggetti che
ho incontrato nello spazio urbano di Milano li ho rilevati,
fotografati e trasformati in oggetti di arredo domestico che
ho chiamato ironicamente ‘attrezzature per la collettività’
per alludere al fatto che, al contrario di ciò che viene fatto
per l’arredo domestico, l’arredo urbano esprime sono
violenza e separatezza.
Invece anche l’arredo urbano, affinché si possa avviare il
processo di abitabilità urbana, dovrebbe avere le stesse
caratteristiche dell’arredo domestico, esprimendo ed
espandendo i caratteri dei cittadini nell’ambiente.
Per esempio l’arredo urbano di una città come Milano
‘la capitale del design internazionale’ dovrebbe essere
‘disegnato’ ed assolvere, come il nostro design migliore,
non solo alle funzioni primarie ma anche capace di
esprimere e comunicare caratteri e contenuti: ‘oggetti
significanti’!
Mentre invece la cosa più deprimente, per tutti coloro che
da diversi decenni assistono alle mostre Fuori Salone del
Mobile che invadono tutti gli angoli possibili di Milano,
è assistere a questa grande kermesse (grande impegno di
creatività, installazioni, allestimento, collezioni di oggetti)
che coinvolge tutta la città e che non lascia nessun ‘segno’