Se allo stadio arrivasse un elefante
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Se allo stadio arrivasse un elefante
Se allo stadio arrivasse un elefante... - Massimo Fini Dopo quindici anni, e dopo aver conosciuto anche un periodo di boom intorno al 1975, quando vi giocava Pelè, il calcio in America, che là chiamano soccer, ha dichiarato forfait: a disputare il campionato erano rimaste solo due squadre, il Toronto Blizzard (quello di Bettega) e i Minnesota Stickers, ed il torneo è stato perciò sospeso. Sono state indicate varie cause di questo clamoroso fallimento: la concorrenza spietata degli sport che negli Usa van per la maggiore, baseball, basket, football americano; le lotte fra le due federazioni (Nasi e Usa) in cui si era diviso il calcio; la mancata nomination degli Stati Uniti per i prossimi mondiali; ma la ragione vera, per cui il calcio non è riuscito ad attecchire in America, è culturale. Per gli americani, infatti, lo sport è innanzitutto spettacolo, lo spettacolo è business. Così gli americani hanno creduto di poter trapiantare il calcio dalle loro parti, importando alcuni dei più prestigiosi calciatori internazionali (come Pelè, come Beckenbauer, come Crujiff, come Neeskens), ma già alla fine della carriera, e facendogli fare le foche ammaestrate. E così ha perso l'essenza emotiva del calcio, che non sta nel virtuosismo da circo, nello spettacolo fine a se stesso, ma nell'estrema tensione del gesto atletico. Quello che si è giocato in America è stato quindi un calcio del tutto snaturato. Ma è più forte di loro: per gli americani, popolo giovane, è indispensabile mischiare allo sport e al gioco la kermesse, il Barnum, il circo, lo spettacolo nel senso più infantile del termine. Basta osservare il loro gioco più seguito, il football, il calcio americano per rendersene conto. Le squadre si chiamano Predoni o Aquile, le dimensioni, già notevoli, dei giocatori sono accentuate da imbottiture, i caschi e le maschere danno agli uomini l'aspetto di robot di un giocone fantascientifico, per tutta la partita, ai bordi del campo, danzano majorettes in gonnellino e impiumettate, nei quattro intertempi sul campo si vede di tutto: pellerossa chiomati che ballano, cowboy, orsi al guinzaglio, cantanti da quattro soldi, elefanti montati da donnoni scosciati, impaillettati, con ciglia smisurate e finte. Se sui nostri campi da gioco, fra un tempo e l'altro, si presentasse un elefante, la gente si scompiscerebbe dalle risa e non l'accetterebbe. Perche in Europa, culturalmente più antica e smaliziata, il gioco non è solo spettacolo ma rito, o meglio è spettacolo in quanto è anche rito. Rituali erano gli antichi giochi olimpici, i giochi delfici, i giochi romani. I nostri giochi hanno quindi regole precise, un cerimoniale ferreo ed essenziale dal quale viene naturalmente espulso tutto ciò che è estraneo perché, deviando l'attenzione, spezzerebbe l'intensità del rito. Per questo in Europa siamo così restii a cambiare le regole dei nostri giochi e dei nostri sport e quelle del calcio sono, più o meno, le stesse di quando è nato. Gli americani invece cambiano continuamente le regole dei loro giochi in funzione della spettacolarità e così hanno tentato di fare, con scarsa fortuna, anche nel calcio. Inoltre, proprio l'essenzialità del gioco del calcio, il fatto che non possa essere interrotto e spezzettato, a differenza del basket, del football, del baseball, ha impedito l'utilizzazione in maniera massiccia degli spot pubblicitari. E senza pubblicità non c'è business. E senza business, in America, non c'è né gioco né sport. In Europa è diverso. In Europa il calcio è diventato business per l'enorme popolarità che si è saputa conquistare, ma l'ha conquistata proprio perché non è nato come business. E ancor oggi, nel calcio europeo, gli elementi di passionalità, di divertimento puro e anche di irrazionalità prevalgono. Ed infatti, se i calciatori guadagnano a volte miliardi, i presidenti di società sono dei dilettanti che nel calcio spendono una bella fetta del loro tempo senza guadagnarci nulla e spesso perdendoci dei quattrini. Dilettanti sono gli arbitri. E tutta l'enorme galassia del calcio minore, che è poi quella che fa da inesauribile serbatoio a quello professionista, si regge unicamente sulla passione. In America la passione viene ineluttabilmente, scientificamente sacrificata al business. Lo si vede 1/2 Se allo stadio arrivasse un elefante... - Massimo Fini benissimo anche in un altro sport: il trotto. In America i migliori trottatori corrono fino a tre anni,. poi vengono ritirati in razza perché qui son più redditizi. L' ideale del proprietario americano è che un cavallo faccia subito un tempo strepitoso (che gli consente di vendersi al meglio in razza) e che corra il meno possibile. In Europa avviene il contrario: i cavalli italiani, francesi, scandinavi corrono fino a otto, nove, dieci anni perché sull'elemento economico prevale quello emotivo, passionale, sentimentale. Si preferisce far correre un cavallo, misurarlo con gli avversari più forti anche se questo comporta rischi, amarlo nelle vittorie e nelle inevitabili sconfitte di una lunga carriera atletica, piuttosto che considerarlo semplicemente una macchina riproduttrice di soldi. Ed infatti in Europa ci sono dei trottatori che sono diventati mitici, che han fatto parte della nostra vita, come Tornese, come Crevalcore, come Jamin, come Une de Mai, come Hadol du Vivier, come Ideal du Gazeau, mentre negli Stati Uniti ci sono solo dei record, dei freddi numeri, continuamente superati. Un'altra differenza culturale sta nel fatto che in Europa un gioco è bello quante più varianti possiede, e per questo il calcio, armoniosa fusione di geometria, di intelligenza, di atletica e di caso, è il massimo, mentre il gioco tipico «made in Usa» (baseball e football soprattutto) è statico e schematico. Ma l'insuccesso del calcio negli Stati Uniti insegna soprattutto una cosa: che non sempre ragionare in termini di business paga. Infatti in Europa, dove è soprattutto passione, il calcio è diventato un grande business, mentre in America, terra del business, è miseramente fallito proprio come affare. 2/2