Serge Latouche

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Serge Latouche
Serge Latouche
”L’economia è o non è morale? A questa domanda la mia
risposta sarà no. Viene allora la seconda: può diventarlo?
E su questo la mia risposta sarà Sì, ma solo a certe
condizioni. Fare i soldi con i soldi non solo è contrario alla
fertilità delle specie, ma è anche un obiettivo contrario al
bene comune. Noi esigiamo una libertà privata quasi
illimitata, tuttavia l’ideale del bene comune e della
giustizia resta quello definito da Aristotele.
L’etica si trasforma, l’utile diventa il criterio per
eccellenza del buono, perché il misurabile è identificato
con il benessere. Allora, come potrebbe l’economia
divenire morale? La risposta sta in due parole: mettendo
l’etica sull’etichetta. È tempo ormai di cominciare a
decolonizzare il nostro immaginario”.
Docenza di venerdì 26 marzo 2004
L’etica della ragione e della ragionevolezza
Il filosofo Emanuel Levinas dice che l’oggetto principale della giustizia può essere solo l’uguaglianza
economica, soprattutto in un’economia globalizzata, la quale non è altro che l’economicizzazione del mondo.
Perché in un mondo dove tutto è economicizzato se la giustizia non è dentro l’economia, la giustizia non c’è
più. Evidentemente c’è una grande differenza tra una redistribuzione equa delle ricchezze su scala mondiale
e un’operazione di bombardamento a tappeto senza limiti nel tempo, come in Afghanistan.
Cosa significa fare giustizia in un’economia globalizzata? Chi si può dire vittima di un’ingiustizia? E come si
potrebbe porre rimedio all’ingiustizia globale?
I sintomi dell’ingiustizia globale
La mondializzazione tecno-economica, vale a dire quella dei processi compresi di solito in questa
espressione, l’emergere dominante delle imprese transnazionali, la sconfitta della politica e la minaccia di
una tecnoscienza incorporata. La mondializzazione trascina con sé, quasi automaticamente una crisi morale.
Cause e conseguenze della mondializzazione dei mercati, le multinazionali si presentano come i nuovi signori
del mondo.
Si tratta di dirigenti impreparati al loro duro ruolo, appena coordinati da un sistema internazionale incapace,
che non si trovano ancora di fronte né nella società civile mondiale, né significativi contro il potere. Il potere
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finanziario dà i mezzi per comprare e mette al proprio servizio gli stati, i partiti, le chiese, i sindacati, le Ong
(Organizzazioni non governative), i mass media, gli eserciti, le mafie.
Da ciò sorge la necessità di “codici di buona condotta”, codici fondati su una morale universale minima da
definire, si pongono al comportamento di questi giganti nei rapporti tra loro stessi e soprattutto verso gli
altri. Ma come si sa la prima cosa che ha fatto Kofi Annan quando è stato eletto al segretariato delle Nazioni
Unite ha deciso di chiudere la commissione dell’Onu che lavorava su questo problema. Ha detto che questa
commissione non lavorava bene, ma almeno esisteva. Le ingiustizie più evidenti sono le ingiustizie sociali e
ecologiche. La mondializzazione sotto l’apparenza di una constatazione neutra del fenomeno è anche uno
slogan. Uno slogan che incita ed orienta ad agire in vista di una trasformazione considerata come auspicabile
per tutti. Ma il termine, che non è affatto innocente, lascia anzi intendere che ci si trova di fronte ad un
processo anonimo e universale benefico per l’umanità E non invece che si è trascinati in un’impresa
auspicata da alcune persone per i loro interessi, impresa che presenta rischi enormi e pericoli considerevoli
per tutti, particolarmente per i popoli del sud del mondo.
Più che di mondializzazione dei mercati per questa impresa si tratta di “mercatizzazione” o mercificazione del
mondo. Ed è proprio questo che è nuovo e pericoloso. Come il capitale, al quale è intimamente legata la
mondializzazione, è un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento su scala planetaria. Un buon
conoscitore, nel giornale Affluenza, si chiede: “Ma che cos’è la globalizzazione? La globalizzazione non è che
il nuovo nome della politica egemonica degli Stati uniti.”
Le disuguaglianze crescenti tanto tra il nord e il sud, quanto all’interno di ciascun paese, sono sintomi
dell’ingiustizia globale. La polarizzazione della ricchezza tra le regioni e tra gli individui raggiunge livelli insoliti
secondo gli ultimi rapporti del programma della nazioni unite per lo sviluppo. Se la ricchezza del pianeta si è
moltiplicata di 6 volte dopo il 1950, il reddito medio degli abitanti di 100 dei 174 paesi censiti è in piena
regressione, è anche una cosa nuova l’aspettativa di vita, che è salita, è oggi alta in molti paesi.
Le tre persone più ricche del mondo hanno una fortuna superiore al prodotto interno lordo totale dei 48
paesi più poveri. Il patrimonio dei 15 più fortunati supera il prodotto interno lordo di tutta l’Africa
subsahariana con i suoi 6/700.000.000 di abitanti.
Infine i beni delle 84 persone più ricche superano il prodotto interno lordo della Cina con il suo miliardo e
trecentomila abitanti. Lo scarto tra nord e sud come ha stabilito lo svizzero Paul de Roc, ha più o meno
dimostrato che fino al settecento non c’era differenza importante tra i paesi del nord e del sud, il tenore di
vita era più o meno uguale, ma già alla fine del settecento la differenza era più o meno 1 a 2. All’inizio del
novecento 1 a 3. Poi negli anni 50 1 a 30, negli anni 70 1 a 60 e oggi 1 a 80.
Le disuguaglianze non sono meno forti o meno problematiche su scala nazionale anche nel nord o dentro le
imprese. Un giornalista francese del giornale “Le Monde” scriveva: “il lavoro di un uomo padrone o quadro di
valida competenza vale 13000 volte di più che il lavoro di un altro uomo.”
Il denaro rende folli. Ed ecco che il capitalismo di imprese divenuto completamente folle costruisce nella
dismisura, nell’indecenza, nel cinismo la fortezza dei benestanti. Scavando all’interno delle imprese una
società a due velocità. Due universi: gli azionisti, coloro che hanno delle stock option, e gli altri. Gli
speculatori e i salariati di base. Così ci vorrebbero 554 anni di lavoro perché chi riceve un salario minimo
raggiunga il reddito medio del 2001 dei padroni francesi le cui società sono quotate in borsa.
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Più modesto Phil Knight, padrone della Nike si accontenta di 20.000.000 di dollari, cioè più di quanto
guadagnano in una vita i 30000 operai indonesiani che lavorano per la sua ditta.
Dovrebbe essere considerato indecente in qualsivoglia istanza umana sbandierare pretese simili. E tutto
questo è molto recente. Fino agli anni 60 lo scarto era molto più limitato.
Non sono meno gravi le ingiustizie ecologiche.
George W. Bush dichiarava il 14 febbraio 2002 a Sylver Plane davanti ai responsabili della meteorologia, per
giustificare il fatto che gli Stati Uniti non avessero firmato il protocollo di Kyoto, che poiché questa è la chiave
del progresso ambientale, poiché questa fornisce le risorse che permettono di investire sulle energie pulite la
crescita è la soluzione, non il problema. Noi invece affermiamo che lo sviluppo economico costituisce la
sorgente del male, e deve essere analizzato e denunciato come tale.
La nostra sovracrescita economica supera già largamente la capacità di carico della Terra. Se tutti gli abitanti
del mondo consumassero come l’americano medio, ma anche come l’italiano medio, il francese medio, i limiti
fisici del pianeta sarebbero largamente superati.
Se si prende come indice del peso ambientale del nostro stile di vita l’Impronta Ecologica di questo sulla
superficie terrestre necessaria si ottengono risultati insostenibili sia dal punto di vista dell’equità rispetto ai
diritti sulla natura, sia da quello della capacità di rigenerazione della biosfera.
Se si considerano i bisogni di materiali e di energia necessari per assorbire i rifiuti e gli scarti della
produzione e dei consumi, e se a ciò si aggiunge l’impatto ambientale delle infrastrutture necessarie i
ricercatori che lavorano per il world welfare hanno calcolato che lo spazio bioproduttivo dell’umanità è di 1.8
ettari a testa, mentre un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9.6 ettari, un canadese 7.2, un europeo
medio -e un italiano è un europeo medio-, 4.5. Siamo dunque molto lontani dall’uguaglianza planetaria, e
più ancora da uno stile di civilizzazione sostenibile che dovrebbe limitarsi a 1.4 ettari, ammesso che la
popolazione attuale resti stabile.
Già il nostro sistema non è più globalmente sostenibile. Allora com’è possibile che funzioni ancora? È
possibile per due ragioni.
Primo perché divoriamo il capitale. E poi perché ci sono popoli, come gli africani, che accettano, per amore o
per forza, di accontentarsi soltanto di 1/10 del capitale che sarebbe nel loro diritto. Dovrebbero ancora
restringersi di più affinché noi continuiamo a funzionare. Se continuiamo così fra 20/30 anni ci vorrebbero 30
pianeti. A questo punto non è più possibile, non sarà più possibile. Queste cifre si possono discutere, ma
esse sono sfortunatamente confermate da un numero considerevole di indici sull’energia, sull’acqua,
l’agricoltura. Così, perché l’allevamento intensivo in Europa funzioni bisogna che ci sia un’area per quelle che
si chiamano colture a fasce equivalenti a 7 volte quella di questo continente, che andrebbe impiegata in altri
Paesi per produrre l’alimentazione necessaria per gli animali così allevati su scala industriale.
Insomma, una forma di decrescita non è soltanto un’esigenza per la sopravvivenza del pianeta, è anche
un’esigenza di giustizia.
Il punto è l’immoralità dell’economia. Così l’etica continua ad apparire sempre di attualità, come aspirazione,
nostalgia, o necessità. Per tutte queste ragioni è di moda. Cattedre universitarie e convegni sul tema si
moltiplicano e l’argomento viene trattato in tutte le salse. L’etica dell’impresa, l’etica della vita politica, le
commissioni di etica eccetera. Ci sono nei campus americani più di 500 corsi di business ethics che vengono
proposti, spesso sponsorizzati da grandi imprese. Così la mondializzazione pone in termini nuovi la questione
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dell’etica del capitalismo e l’antichissima questione dell’etica in economia. La mondializzazione dell’economia
è di fatto la forma più spinta dell’economicizzazione del mondo. Si tratta di far entrare nella sfera dello
scoppio mercantile la totalità della vita senza restrizione alcuna di spazi o di ambienti. La questione etica
dell’economia si riduce semplicemente a sapere se l’economia sia una buona cosa. L’economia è vita
economica, divisione del lavoro, scambi nazionali ed internazionali, concorrenza, leggi di mercato, crescita e
sfruttamento illimitato delle risorse naturali e delle capacità umane o sviluppo illimitato delle forze produttive,
dell’accumulazione del capitale eccetera. Tutto ciò fa o non fa parte del bene. Si può riassumere l’enorme
letteratura su questo argomento nella domanda “L’economia è o non è morale?”
A questa domanda la mia risposta sarà no.
Viene allora la seconda: “può diventarlo?” E su questo la mia risposta sarà Sì, ma solo a certe condizioni.
Perché l’economia è immorale? Perché suscita, provoca, o favorisce quella che Hanna Arendt, la filosofa
ebreo-tedesca, chiama “la banalità del male”. Come potrebbe diventare o ridiventare morale? Direi
ritornando ad essere politica, economia politica, cioè reintroducendo il problema della giustizia nello scambio
economico. Lo scambio economico è un elemento centrale del rapporto o del commercio sociale, e va
reintrodotto nell’orizzonte del bene comune.
Gli interrogativi così sollevati sono, come si vede, di grande ampiezza, sono quelli del bene e del male, della
giustizia e dell’ingiustizia. Senza parlare dei problemi terminologici, qui non parleremo delle differenze tra
etica, morale, deontologia, assiologia, equità e giustizia.
Per capire questo giudizio di immoralità dell’economia bisogna ritornare all’antica maledizione formulata
contro di essa da Aristotele e poi esaminare il tentativo di uscirne e analizzare il fallimento di quel tentativo.
Si sa che Aristotele, nonostante alla sua epoca (IV secolo a.C.) l’attività economica fosse ancora allo stadio
embrionale, condanna con il nome di “crematistica economica” [Politica, 1253b 1-23] le ricchezze, l’arte di
arricchirsi, quello che per noi costituisce l’essenza dell’economia, cioè la ricerca del profitto, grazie e
attraverso le relazioni commerciali. Il rapporto di scambio naturale di merce, denaro. Vendere una merce per
comprarne un’altra di cui si ha bisogno, ossia la vendita del surplus per acquistare quello di cui abbiamo
bisogno si corrompe in un rapporto di scambio di denaro-merce-denaro. E naturalmente comprare una
merce al prezzo più basso possibile per rivenderla al prezzo più alto possibile e fare profitto.
Questo capovolgimento gli sembrava condannabile a pieno titolo, non solo come contrario alla natura, ma
ancor più come contrario alla civiltà. Fare i soldi con i soldi non solo è contrario alla fertilità delle specie, ma
è anche un obiettivo contrario al bene comune. Un mondo di persone che guadagnano non è compatibile con
la cittadinanza, e lo è ancora meno con l’isonomia, questa parola greca che significa più o meno
l’uguaglianza cittadina, e beninteso non è compatibile con la giustizia.
Questo è il punto di vista di Aristotele. Non c’è dubbio che il bene, secondo Aristotele, non è più il nostro. Noi
non abbiamo più il senso comune che fondava la sua etica.
L’etica di Aristotele si inserisce dentro la politica. Noi in particolare esigiamo una libertà privata infinitamente
maggiore, tuttavia l’ideale del bene comune e della giustizia resta lo stesso.
L’intero problema della genesi della scienza economica è stato quello di risolvere la quadratura del cerchio.
Come riconciliare la vita morale e la vita degli affari. O per dirla alla francese, come il nostro ex presidente
Mitterand, come riconciliare i francesi con il denaro tre secoli dopo gli anglosassoni. E potremmo anche dirlo
con Berlusconi e la sua idea di impresa italiana: le tre I di impresa, inglese e internet. Che si potrebbe
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tradurre con immoralità, incultura, inciviltà. Si tratta di scongiurare la maledizione che evoca Aristotele e San
Tommaso d’Aquino e pesa in occidente sul mondo economico.
La crisi scoppia nel diciassettesimo secolo nell’ambito del mondo commerciale puritano con un autore
famoso: Bernard de Mendeville, un olandese che viveva in Inghilterra, e la sua celebre favola delle api. La
prosperità e la virtù per quest’autore sono rigorosamente incompatibili. O l’alveare è prospero ma vizioso, o
l’alveare è virtuoso ma povero.
Come riuscire a scollegare il business dalla morale? Questa è la sfida che si pone la nascente economia
politica. Adam Smith vi si dedicherà con successo grazie a due artifici. Primo: separare arbitrariamente una
sfera privata, che sarebbe il terreno della vita morale, e una sfera economica, che sarebbe una sfera senza
morale. Gli affari sono gli affari. E questo è l’oggetto della “teoria dei sentimenti morali” del 1759. E secondo
artificio esonerare la sfera economica dal sospetto di immoralità, mostrando che normalmente il
proseguimento per interesse personale genera il bene comune attraverso la famosa mano comune. E questo
è l’oggetto della ricchezza delle nazioni del 1776.
Il risultato mette capo in qualche modo all’inversione dell’onere della prova e al rovesciamento del peso del
sospetto. Guadagnare denaro mediante il commercio in senso ampio, comprese l’industria e la speculazione,
non ha nulla di immorale, salvo prova del contrario. Distruzione criminale, traffici notoriamente illeciti,
inganno eccetera.
Così la giustizia dello scambio e del commercio è allo stesso tempo affermata e messa fuori causa. Questa
doppia conclusione contraddittoria perché eccessiva forma il problema. Non di meno sarà ulteriormente
rafforzata con l’ultimo dei neoclassici. Purtroppo i due artifici del dispositivo di Adam Smith non reggono, o
non reggono più oggi. La mondializzazione attuale rivelando e insegnando in pieno la “mercatizzazione” del
mondo manda in pezzi la prima barriera. La sfera mercantile conquista la vita intima dell’uomo: tutto ciò che
è oggetto del desiderio umano fa di diritto parte dell’economia. L’economia del credere, l’economia del
matrimonio, l’economia del divorzio, l’economia dell’avvento dei bambini ecc. Per altro verso l’affievolirsi
naturale dell’interesse, che regge la mano invisibile, è un’evenienza felice che si produce solo in contesti
molto particolari, ma non è generalizzabile. Comunque l’intenzionalità, elemento essenziale della vita morale
ma anche già nella concezione aristotelica, è messa fuori causa nel gioco economico.
Il paradosso della doppia affermazione della neutralità e della moralità nello scambio e nella vita economica
è rivelatore di questo fallimento. Da un lato l’attività economica normale è detta neutra quanto ai valori,
poiché si tratta di un’azione razionale. In perfetta colleganza con questa visione un altro Premio Nobel,
Friedman, dichiara che l’unica responsabilità dell’impresa consiste nell’utilizzare le sue risorse e
nell’impegnarsi in attività destinate ad aumentare i profitti, purché rispetti le regole del gioco. Cioè quelle di
una competizione aperta e libera, senza imbrogli e frodi. Massimizzando la propria ricchezza l’impresa
massimizza il benessere sociale di tutti.
Se l’economia esce così dalla morale lo fa per mero adempiere ai suoi imperativi. In effetti l’attività
economica è ritenuta allo stesso tempo essere buona, perché si afferma come efficiente, (ciò si può molto
discutere), e perché nella società moderna l’efficienza è identificata col bene, o almeno come condizione del
bene, cioè il più grande benessere per il maggior numero, la massima felicità divisa tra il massimo numero.
Ma come può essere insieme neutra e buona? C’è in questo una strana confusione tra giudizio di fatto e
giudizio di valore. Si può verificare questo problema concretamente con questo aneddoto: alcuni anni fa
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un’impresa francese di assicurazione, Axa, ha deciso di raddoppiare il prezzo delle polizze di assicurazione
per gli handicappati, perché gli handicappati costano troppo, e allora c’è una grande contestazione. Non sono
un benefattore dell’umanità, faccio degli affari, dei profitti, ma al medesimo tempo cos’è alla fine la
responsabilità dell’impresa, la responsabilità sociale? Tant’è che ha dovuto innestare la retromarcia perché
doveva fare al medesimo tempo profitto ma anche rispettare il bene comune. Insomma il pericolo della
relazione economica fondamentale, denaro-merce-denaro, non viene tanto nel guadagno illecito, nella giusta
o ingiusta misura degli uomini denunciati da Aristotele, quanto nell’ineluttabile inclusione dentro la logica
della mercificazione. In questa situazione si trovano gli uomini, l’uomo, l’uomo come salariato, e si trova la
natura… tutto il mondo si incorpora in questo. Specialmente con l’economicizzazione del mondo e la
mondializzazione.
Si tratta della strumentalizzazione dell’essere umano nel mondo come merce, dipendente, utente,
consumatore, materia prima. L’uomo e il mondo sono legati come rotelle e ingranaggi della mega macchina
tecnoeconomica. Ma ciò significa per l’uomo che la sua condizione di cittadino e la sua umanità sono messe
fra parentesi, e per la natura la negazione del suo insondabile mistero e l’oblìo della solidarietà cosmica.
Dietro lo scambio di merci vi sono sempre degli uomini che si incontrano e si misurano. Man mano che il
denaro penetra i bordi della società è l’etica e la questione della giustizia nello scambio -e quindi nei rapporti
tra gli uomini- che viene eliminata, esclusa.
Allora di sicuro la nostra società non è la prima e la sola a strumentalizzare l’uomo e la natura. Le società del
mondo antico con la schiavitù spingevano la questione ancora più lontano. Ma in ogni caso avevano il buon
gusto, diciamo, di classificare lo schiavo al di fuori dell’umanità, precisamente tra gli strumenti. Nel vecchio
Catone i lavoratori sono instrumento vocali, strumento che parla. Arisotele precisa che gli animali e gli schiavi
non partecipano alla filia parola che significa più o meno amicizia. Che unisce i cittadini. Anche se
raccomanda di trattarli bene.
La mega macchina moderna, grazie alla mediazione monetaria e mercantile, generalizza sistematicamente la
trasformazione dell’uomo in rotella o in materia prima. Si può dire che abbiamo generalizzato una schiavitù a
una schiavitù soft, che non è ---. Diventando una tecnica pura l’economia partecipa all’universo tecnico. La
tecnoeconomia è la forma nella qual e si incarna al meglio l’immaginario del progresso, oppure se
quest’ultimo gioca un ruolo strutturante della modernità questo contribuisce pienamente all’impostura
dell’efficienza.
L’etica, allora, si trasforma impercettibilmente. L’utile diventa il criterio per eccellenza del buono, in quanto il
misurabile è identificato con il benessere, forma sensibile della fortuna. Ma l’utile è precisamente ciò che le
tecniche consentono di fabbricare o di archiviare e che l’economia permette di vendere? E si assiste a uno
slittamento dei valori. Emergono come priorità i valori che la tecnoscienza può servire, questi vanno a
prendere il posto dei vecchi valori o sovvertire il loro contenuto da dentro.
Il dato finale della strumentalizzazione monetaria e mercantile altro non è che rimettere in questione lo
stesso umano e precisamente in questo momento con le tante tecnologie è un progetto che si mette in
moto. La possibilità di migliorare la specie umana spettacolarmente aperta dalle più recenti scoperte
dell’ingegneria genetica è la necessità di far fronte alle minacce che la stessa mega macchina tecnoscientifica
fa gravare sull’ecosistema del pianeta, hanno come esito finale le mutazioni che toccano sempre più da
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vicino l’integrità biologica e l’identità della specie umana. Già adesso l’uomo è un animale manipolato
tecnologicizzato che vive con un numero sempre maggiore di protesi artificiali, estranee al proprio corpo
biologico. Il più grande crimine contro la specie umana non è forse quello di distruggerla, annientarla, con il
pretesto di farla evolvere, progredire?
L’universalismo dei valori sparisce davanti alla logica amorale del pensiero unico, centrata sull’estorsione a
livello mondiale dell’economia di mercato, autoregolantesi, che caratterizza l’attuale mondializzazione.
Il dominio della natura, compagno e complice della ricerca del profitto è l’elemento centrale della modernità
ed è sicuramente all’origine di questo tipo di strumentalizzazione degli altri. Si comincia separando la natura
dal regno umano, e successivamente si scivola verso una naturalizzazione dell’uomo. Una recente
dichiarazione del barone del Presidente del Medef, che è la confindustria francese illustra bene questa
strumentalizzazione. Lui dice che ci sono paesi senza sindacati, come gli Stati Uniti, o la Nuova Zelanda, dove
si è riusciti a trasformare il lavoro in merce. Non è una stupidaggine visti i risultati ottenuti in materia di
impiego e di crescita. Da ciò la quasi impossibilità di distinguere ciò che appartiene all’economia normale e
all’economia criminale. Le frontiere tra il lobbying e la corruzione, tra il fiuto dell’abile speculatore e il delitto
dell’indiziato, sono sempre più esigue, come sono sempre più esigue le frontiere tra salariato nel sud e
schiavitù, o tra turismo di piacere e turismo sessuale.
Come scrive un magistrato francese che fa parte di una commissione sui paradisi fiscali “la finanza moderna
e la criminalità organizzata si rafforzano a vicenda. Entrambe hanno bisogno per svilupparsi delle
regolamentazioni e dei controlli statali. Se non stiamo attenti passeremo da un’economia con una
componente criminale a una economia criminale. I paradisi fiscali, tollerati da tutti i governi sono gli
strumenti di questo passaggio. Verificato con gli scandali recenti di Enron, Parmalat e molti altri”.
Come scrive Bauman, che so che domani sarà qui da voi, nel suo libro “Il costo umano della
mondializzazione”, rubare le risorse di nazioni intere per fare della promozione della libera impresa, rubare
per il guadagno il pane di famiglie e di comunità intere, questo si chiama regresso. O razionalizzare questi
due furti che non si trovano evidentemente registrati nell’elenco degli atti criminali per cui si prevede
sanzione. Il clima di concorrenza esagerata che si sviluppa nella tarda società moderna genera, d’altro canto,
un’automutilazione, che acuisce la strumentalizzazione, la sofferenza muta o inespressa dei guerrieri puritani,
secondo la parola del sociologo francese Lejune . La paura della vergogna di non corrispondere all’immagine
del combattente. Questa sofferenza rende insensibili alla sofferenza degli altri in particolare, agli esclusi dalla
riconoscenza collegata al lavoro. La strumentalizzazione di se stessi rende complici e insensibili alla
strumentalizzazione del mondo e degli altri. E questo sociologo ha scritto un bel libro che si chiama “La
sofferenza in Francia” e sottotitolo “la banalità dell’ingiustizia sociale”. E lui fa anche il confronto con il
periodo nazista e la banalità del male.
Come scriveva Hannah Arendt nel suo libro, il cui sottotitolo è “rapporto sulla banalità del male”, non
bisogna escludere che se Adolf Heichman avesse potuto dire che non era lui a organizzare i convogli che
portavano gli ebrei ai forni crematori ma un plotone di computers obbediente agli ordini non gli si sarebbe
mai potuto chiedere di rispondere delle sue azioni.
La tecnoeconomia attuale contribuisce massicciamente alla banalità del male in epoca moderna.
Naturalmente non sono gli strumenti stessi, o il denaro in sé ad essere colpevoli. Un coltello può tagliare il
pane o può uccidere. Un raggio laser può guidare un missile ma può anche salvare un occhio. Il denaro
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permette molte azioni utilissime, tuttavia non sono lo strumento o il denaro che costituiscono la categoria
pertinente. Le invenzioni fanno la loro comparsa in seno a una organizzazione sociale, un laboratorio, una
fabbrica, una società, e infine una mega macchina universo dominata dal mercato. La mega macchina
moderna è davvero particolare. Sarebbe dunque eccessivo affermare che ignora l’etica, che l’etica è
scomparsa. In essa regna un’etica anche molto pregnante, ma un’etica di seconda categoria, un’etica
tecnica, che è un po’ un ossimoro. Si tratta di un’etica che insiste sui mezzi e non sui fini. Si tratta del
perfezionismo, della ricerca dell’efficienza per l’efficienza. Lo sviluppo dell’ingegneria genetica, con i semi
transgenici costituisce un esempio calzante di perfezionismo e di oblio dei fini. Indipendentemente
dall’innegabile fascino della prodezza tecnoscientifica, è difficile trovare in essa un obiettivo diverso dal
guadagno attraverso quest’impresa.
Ancora su questo punto Jacques Venu ha scritto delle tragedie bellissime. La morale della tecnica, la morale
dei comportamenti, escludendo la problematica morale. La morale immorale si può dire.
Non esiste alcuna differenza di fondo tra la criminalità della scienza hitleriana o staliniana e quella della
ricerca dei laboratori di …. Ma questa ricerca gestita da quei bravi padri di famiglia che Hannah Arendt
definisce filistei.
Ricordiamo che più di 6000 studiosi nazisti che lavoravano nei laboratori nazisti per fabbricare V2, in
particolare utilizzando gli schiavi del Reich sono stati recuperati dagli americani, dai sovietici, dagli inglesi e
dai francesi. Ne sono usciti a mani pulite, senza palesare emozione alcuna. Ma il loro unico crimine non era
forse quello di aver svolto coscienziosamente il loro compito?
Quando ho letto questo libro ero scandalizzato, ma dopo ho trovato la corrispondenza tra Bayer, l’impresa
tedesca chimica e l’organizzazione dei campi di concentramento e i campi di sterminio. E allora due passaggi
sono rivelatori.: “ In vista di sperimentare un nuovo sonnifero ci piacerebbe che voi forniste un certo numero
di donne, abbiamo ricevuto la vostra offerta ma noi stimiamo che 200 marchi a donna è un prezzo eccessivo.
Non abbiamo intenzione di pagare più di 170 marchi a testa, se questo va bene a voi siamo pronti a
prendere possesso di queste donne. Ce ne servono più o meno 150.” E la lettera successiva: “i test sono
stati fatti, tutti i soggetti sono morti. Ci metteremo in rapporto con voi per un nuovo ordine.”
Come scrive un filosofo Jean Pascal Gotthard nel suo libro sulla società postmoderna il principio che rende
gli uomini superflui come persone giuridiche, morali e particolari risiede negli atti stessi della vita
regolamentata e fa il vuoto negli spiriti che essa amministra. Questo principio si chiama SVILUPPO. Si tratta
di un’entità non meno astratta della natura o della storia, che massimizza l’effetto scritto dalla Arendt, la
messa in movimento, la totale mobilitazione delle energie. Non sono indispensabili nell’organizzazione politica
strutturata a livelli, né l’uso del terrore per infrangere la legalità e il diritto della nascita. Al contrario come
già Hersung sapeva dal 1930 la legge dello sviluppo trova nella forma democratica e nella gestione
incessante della legalità ai fini del benessere al tempo stesso è un mezzo, una maschera molto più potente e
accettabile dai filistei rispetto all’organizzazione totalitaria. La propaganda brutale è ristretta e lascia spazio
all’inoffensiva retorica dei media. E la mondializzazione non si fa con la guerra, ma con la competizione
tecnologica, scientifica ed economica.
I nomi storici di questo totalitarismo bravo ragazzo non sono più la Normandia e meno ancora Auschwitz, ma
piuttosto l’indice Dow Jones a Wall Street e l’indice Nikkei a Tokio.
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Allora, arrivo alla terza parte, come potrebbe l’economia divenire morale?
La risposta sta in due parole: mettendo l’etica sull’etichetta. Cioè riponendo il problema dell’etica nello
scambio mercantile nelle finalità del bene comune. Si può dire che si tratta di ritornare dalla triangolazione
denaro-merce-denaro a quella merce-denaro- merce o ancora di ritornare all’ oikonomia, la gestione del
denaro, la gestione familiare, casa nel senso di patrimonio.
C’è un paradosso per la giustizia dello scambio nell’economia normale. Lo scambio e i prezzi sono quel che
sono, ma perciò spesso sono detti giusti, allo stesso tempo la giustizia viene affermata ed eliminata. Ciò
appare chiaramente dalle dichiarazioni di alcuni economisti, che rappresentano bene l’unità della professione.
Viene matematicamente dimostrato come l’equilibrio generale dei prezzi nella pura teoria corrisponda alla
condizione ottimale. Allora il valore così desunto non soltanto sarà il giusto prezzo, ma non può neppure
esserci altro giusto prezzo che quello. Ma immediatamente dopo aver scritto questo cambia la nozione stessa
di giusto prezzo. Siamo convinti che l’opinione pubblica e il pensiero economico segnerebbero un progresso
reale se finalmente si decidessero a escludere dal novero delle nozioni economiche il concetto plurisecolare
del giusto prezzo. Concetto morale dai contorni necessariamente imprecisi. Tale nozione non ha alcun
significato scientifico. Di conseguenza una volta smantellati i monopoli e abolite le rendite di posizioni
acquisite se lo scambio mercantile genera miseria e povertà la causa sarà necessariamente da ricercarsi
nell’insufficiente produttività delle vittime. Sicchè non rimarrebbe che ricorrere alla carità privata, se
possibile, per correggere quanto può apparire come una debolezza del mercato. Market failure si dice. Nei
riguardi delle aspirazioni umanitarie a una migliore suddivisione della ricchezza.
Ed è così che Rodan William e Margaret Thatcher hanno ampiamente fatto appello alla generosità dei loro
cittadini per contribuire alla sovvenzione del welfare. E il “capitalismo compassionale” di George W. Bush?
Voleva fare la medesima cosa, ma si è verificato che negli Stati Uniti il capitalismo compassionale non
funzionava bene, perché se ci sono delle fondazioni, degli sponsor, queste fondazioni sono più orientate a
comprare quadri di pittori per le collezioni dei musei americani, che per aiutare i poveri negri del ghetto.
E le ong caritatevoli sono invitate a fare la stessa cosa a livello internazionale. Secondo Frederich Hayek,
famoso teorico del liberalismo, ogni mediazione politica dell’economia sarebbe fondamentalmente immorale
e ingiusta.
Il pensiero unico è riuscito a imporre l’idea che l’efficienza ha il primato sulla giustizia e in ogni caso la
condiziona. Da questo punto di vista questa teoria ma è anche famosa fra gli economisti quella di Colmar
Multiasset non sfugge del tutto allo spirito del tempo, non più della filosofia che ispira i vari governi socialisti
europei. Dal momento che si suppone che la questione della giustizia nell’economia sia stata regolata una
volta per tutte nessuno osa più sollevare il problema. Bisogna affermare contro questo positivismo amorale
che il prezzo più giusto non è necessariamente il giusto prezzo.
Ricordiamo che i teologici scolastici definivano il giusto prezzo come quello che permetterebbe a ciascuno di
mantenere il proprio rango grazie a un profitto ragionevole. Se ne trova ancora l’eco all’articolo 23 comma 3
della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948 :
“ogni individuo che lavora ha diritto a una remunerazione buona e soddisfacente, che assicuri a egli stesso e
alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana, ed integrata se necessario, da altri mezzi di
protezione sociale.”
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Si tratta di smascherare il feticismo della merce, cioè di ritrovare i rapporti fra gli uomini, mascherati dai
rapporti fra le cose.
Il commercio equo e solidale con i suoi tre termini (commercio-equo-solidale) evidenzia tutta una serie di
problemi teorici e pratici, di cui alcuni hanno antichi e profondi legami con la storia della filosofia.
L’aggettivo “solidale” rimanda al concetto di carità e a tutta una tradizione cristiana, anche se in seguito
laicizzata con il solidarismo.
L’”equo” rimanda alla giustizia, e il termine “commercio” naturalmente all’economia.
Il successo per giustificare la spilorceria degli ufficiali americani e al contempo opporre alla pratica europea
del dono e dell’assistenza un approccio più realistico in un’economia mondializzata. E’ vero che il rapporto
mercantile sembra riconoscere nell’altro un partner commerciale a pieno titolo, costituendo così, in un certo
qual modo, il versante economico del faccia a faccia democratico, mentre invece l’aiuto, e particolarmente
l’aiuto al terzo mondo, non è esente da paternalismo e da corruzione.
Lo slogan di Clinton ne riecheggia un altro “giustizia, non carità”.
Secondo il pensiero unico l’economia di mercato sarebbe di per sé portatrice di giustizia. E’ risaputo come i
filosofi anglosassoni siano inesauribili sulla questione della giustizia.
Ma si può veramente considerare conforme alla giustizia il fatto che le disuguaglianze diventino sempre più
vistose, al punto che secondo le statistiche, che ho detto all’inizio, del programma delle nazioni unite per lo
sviluppo, il prodotto interno lordo di tutta l’africa pesa meno di quello di questo paese.
E’ incontestabile che esigere un “fair trade”, cioè un commercio veramente equo e leale è molto meglio di
tutto l’aiuto e di tutta l’assistenza con le loro conseguenze perverse. Ma quando il dipartimento di stato degli
Stati Uniti riprende l’iniziativa si capisce bene che justice significa soprattutto “just us”, soltanto noi….
Il recente dibattito a Cancun sul prezzo del cotone, e il mercantaggio nei paesi africani, ne è illustrazione
perfetta, hanno anche messo un paese come il Mali in una situazione terribile per alcuni dollari in più o in
meno per il prezzo del cotone, che è sovvenzionato.
Dietro lo scambio di merci vi sono sempre degli uomini che si incontrano e si misurano. Non è
necessariamente uno scontro se i protagonisti hanno degli statuti fissati e riconosciuti. In queste condizioni lo
scambio equo sarà quello che assicura a ciascuno la persistenza e la riproduzione del proprio statuto.
In altre parole, per riprendere un esempio celebre di Aristotele allorchè l’architetto si misura col falegname
nello scambio, il rapporto tra un prezzo di un preventivo che rappresenta un’ora di lavoro, e quello di un
mobile, che rappresenta un tempo uguale, dev’essere tale da permettere al falegname di continuare a vivere
come falegname, e all’architetto di vivere come architetto.
Se gli statuti non sono garantiti e riconosciuti lo scambio può trasformarsi in scontro e in tal caso viene
richiesto l’intervento deliberativo del gruppo. Allora il feticismo della merce è smascherato, la trasparenza del
rapporto sociale è mediata dalla società. Riaffiora così l’intuizione, purtroppo con molto seguito
dall’economicismo, dei primi socialisti. Uno di questi, Pierre Loru, scriveva: “non è possibile dissociare la
politica e la scienza sociale nella sua totalità, così come non si può fondare una scienza economica al di fuori
di ogni problematica politica. Ciascuno ha diritto alla sua parte di dignità che il mercato gli rifiuta”
Evidentemente la trasposizione a livello di rapporti e di scambi economici mondiali non è semplice. Come ho
preso questa parola “commercio equo e solidale”, possiamo prolungare questo esempio. Comprare del caffè
etichettato Maxafl o Transfer che sono le due più conosciute imprese di certificazione, piuttosto che una
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marca del grande commercio ordinario, come Lavazza, forse è un atto civico. Scegliere un acquisto equo
piuttosto che lasciarsi vendere un prodotto non equo al prezzo di mercato, equivale ad affermare la
mediazione politica dello scambio commerciale, equivale dunque ad affermare la solidarietà con partner
lontani e sconosciuti, senza negarne l’esistenza e essere indifferenti alla loro sorte.
Purtroppo non è facile per il consumatore comportarsi da cittadino, e questo sia soggettivamente che
oggettivamente.
Soggettivamente perché attraverso la pubblicità e l’eccessificazione della grande distribuzione quasi totale
c’è la manipolazione dei gusti e dei disegni dei suddetti consumatori.
Oggettivamente perché anche se fosse deciso ad adottare un comportamento civico ed etico il nostro
consumatore non avrebbe scelta. Comprare ecologicamente, politicamente, ed eticamente corretto, rientra
per lo più nel campo della militanza e dell’egocentrismo, senza una vera garanzia di risultato. Per la maggior
parte dei prodotti non esiste una possibilità di scelta. Dove trovare l’automobile equa? Probabilmente non
esiste e non esisterà mai, perché la macchina equa è un ossimoro. Dove trovare il frigorifero etico, la
lavatrice solidale? Già ci consideriamo fortunati se la tracciabilità è spinta abbastanza lontano da permettere
di procurarci un abito che non sia confezionato in una sorta di penitenziario per donne o bambini del sud est
asiatico.
Diamo davvero il nostro voto per la schiavitù dei bambini pakistani quando compriamo un paio di scarpe di
una grande marca transnazionale: è davvero difficile pensare di poter fare società con il piantatore di canna
da zucchero o di caffè venezualano, con il senegalese che coltiva le arachidi, con il contadino camerunense
produttore di banane oppure con l’artigiano keshua.
Non esiste una società mondiale, non è sicuro che ce ne sia mai stata una e neppure che ciò sia augurabile.
E’ possibile misurarsi soltanto con i propri vicini e lo scambio sociale è necessariamente locale. Anche se il
sito può entro certi limiti essere virtuale. I principali problemi vengono dal fatto che non ci sono più delle
vere e proprie società locali, e non esistono più molto semplicemente perché le abbiamo distrutte e
continuiamo a farlo. La questione non si risolve automaticamente, anche se per miracolo i nostri fornitori del
sud vendessero la loro produzione all’ufficio acquisti di ----. In che modo fare società con i nostri partner?
Come non essere partecipi del movimento di distruzione dei vincoli sociali, fonte ultima dell’impoverimento
economico? Come non essere complici di fatto dell’immane bazar mondiale? E’ questa la grande sfida del
commercio equo. In un certo qual modo esso dovrebbe avere come obiettivo la propria distruzione, nel
senso che il suo compito sarebbe quello di contribuire alla ricostruzione delle società del sud ormai andate in
frantumi, e per esempio incoraggiare la riconversione delle colture speculative consegnate al commercio
mondiale, nelle colture alimentari necessarie al sostentamento delle popolazioni locali affamate.
La sfida dovrebbe convincere l’artigiano a rispondere ai bisogni di una clientela a lui prossima, invece di
esportare paccottiglia per occidentali in vena di esotismo.
La questione è evidentemente delicata e non può essere risolta in modo pragmatico dall’oggi al domani. Ma
questa non è una ragione per non affrontarla.
Qui la giustizia è indissociabile dalla solidarietà, va al di là del problema del prezzo e non cerca il bene
comune. Il giusto rapporto di scambio va ricercato pensando che noi facciamo società con i nostri partner, e
che i loro problemi sono anche i nostri e viceversa. Non di meno la deliberazione del popolo, in questo caso
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virtuale per forza di cose, deve per questo mediare la determinazione del prezzo. La riflessione sulla giustizia
dello scambio, se non offre una soluzione immediata, deve tuttavia costituire una guida per l’azione.
Allora per concludere devo dire che non si rifarà il mondo dall’oggi al domani, e neppure si cancellerà con un
tratto di penna la manipolazione delle potenze economiche di cui è impossibile disconoscere il peso, e
bisogna ben guardarsi dal sottovalutare. Non di meno l’obiettivo è quello di rifare il mondo. E il mezzo è
proprio quello di contrastare la manipolazione e il lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti. E’ tempo ormai
di cominciare a decolonizzare il nostro immaginario. Per questo è necessario avere questo come orizzonte,
unitamente all’ideale di un giusto scambio, vale a dire di economie e di mercati liberati dal sociale e dal
politico.
DOMANDE
1) HA PARLATO DEI GRANDI GRUPPI NAZIONALI E INTERNAZIONALI. SEMPRE Più SI STA SVILUPPANDO IL
CONCETTO DELLO SVILUPPO SOSTENIBILE COLLEGATO ANCHE A DELLE AZIONI DI MARKETING ETC.
COME GIUDICA QUESTO ATTEGGIAMENTO?
2) MI AVEVA COLPITO LEGGENDO IL SUO LIBRO LA SUA OPINIONE NEL SENSO DI “LIBERIAMO
L’IMMAGINARIO”. L’IMMAGINARIO COLLETTIVO. HO UN MIO PESSIMISMO. SECONDO ME IN QUESTO
PERIODO LA FORBICE SOCIALE SI STA ALLARGANDO. TRA I GIOVANISSIMI SPESSO è FACILE TROVARE
QUESTI RAGAZZI STRAORDINARI, PARLANO DIVERSE LINGUE, HANNO VIAGGIATO SU TUTTO IL PIANETA
E HANNO UNA CULTURA NOTEVOLISSIMA, ACCANTO A QUESTI ELEMENTI C’E’ GENTE DI 18/20 ANNI, Età
IN CUI DOVRESTI ESSERE ESPRESSIONE DELLA POTENZA E INVECE DEVI SFRUTTARE IL MONDO. COME
PENSIAMO DI POTER DECOLONIZZARE L’IMMAGINARIO CON QUESTA FORBICE CHE SI FA SEMPRE Più
GRANDE, CON QUESTA MINORANZA SEMPRE Più EMANCIPATA E QUEST’ASSENZA TOTALE? COME
CONCRETAMENTE SI PUO’ FARE?
3) DI FRONTE A QUESTA GLOBALIZZAZIONE MODERNA, CHIAMIAMOLA COSì, MI VIENE FACILE PENSARE
CHE CORRISPONDE IOGNI NAZIONE LA RISCOPERTA DI QUEL RANGO SOCIALE SEMPRE Più NETTO E Più
DISTINTO CHE CORRISPONDE UN POCHINO ALLA CLASSIFICAZIONE ALLA CATEGORIA DELLE NAZIONI.
SECONDO IL PENSIERO FORTE QUESTO CORRISPONDEREBBE ALLE DIVERSE ATTITUDINI, ALLE DIVERSE
CAPACITA’ DEGLI UOMINI DI PRODURRE, DI ESSERE ESSERI ECONOMICI. NOI RISPONDIAMO GLI UOMINI
SONO TUTTI UGUALI PERò IMPARIAMO CHE NON è COSì. QUINDI SIAMO DEBOLI NOI NEL DIRE GLI
UOMINI SONO TUTTI UGUALI, COME SONO DEBOLI QUELLI DEL PENSIERO FORTE NEL DIRE L’UOMO
CALVINISTA, L’UOMO RICCO è L’UOMO ABILE E L’UOMO POVERO è L’UOMO INETTO.
COME SI POSSONO CONCILIARE QUESTE DUE COSE? COME LA DIFFERENZA DEGLI UOMINI Può ESSERE
COERENTE CON LA GIUSTIZIA SOCIALE?
Cominciamo dalla domanda sullo sviluppo sostenibile. Lei sa che ho fatto una critica allo sviluppo sostenibile.
Perché è un ossimoro, lo sviluppo non è sostenibile. Naturalmente si può parlare di uno sviluppo ideale, ma
lo sviluppo realmente esistente non è sostenibile, e le cifre che vi ho dato sull’impatto ecologico ne sono una
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dimostrazione. Allora si deve parlare, come fanno alcuni, di FUTURO SOSTENIBILE. Il futuro sostenibile ha
senso nella parola sostenibile, che è una parola bella e che non si può trascurare. Dobbiamo costruire una
società sostenibile, ma per questo bisogna cambiare molte cose, perché naturalmente sarebbe
un’inclinazione naturale che tutti vorrebbero avere, come si dice in francese il burro e il denaro del burro. E
questo non è possibile. Allora lo sviluppo sostenibile serve ad avere il burro, lo sviluppo è il denaro del burro,
e la rivoluzione della persona. Dobbiamo scegliere, non possiamo al medesimo tempo avere la macchina e
l’aria pulita.
Naturalmente pone un grosso problema agli industriali, perché sicuramente essere a capo dell’industria e
avere un gusto per la natura e per l’aria pulita….allora hanno fatto questo gruppo che è il world business
council, già da molto tempo, già da quando la parola sviluppo sostenibile è diventata popolare negli anni 80.
All’inzio era un gruppo di 200 industriali, oggi sono più di 3000.
Allora il loro discorso è che è possibile allungare, continuare a fare dell’economia, della crescita, e preservare
l’ambiente, grazie a due o tre cose. Sono le coefficienze che è la riduzione del consumo delle materie prime,
del consumo dell’inquinamento, e l’esempio più conosciuto è la macchina. Le macchine oggi consumano
meno petrolio, ma anche incorporano meno acciaio, meno tutto. Solo che c’è il climatizzatore che fa che il
consumo di petrolio aumenti del 30%. Allora tutto è inutile. Ci sono sempre più macchine e le macchine
fanno ancora di più.
Allora se c’è una riduzione effettivamente dell’inquinamento delle risorse naturali per unità il risultato globale
è un aumento terrificante delle unità.
La prima volta che i problemi sono stati identificati bene è la conferenza di Stoccolma del 1972. Non se ne
parla molto, perché se se ne parla si dovrebbe dire che non solo abbiamo fatto poco, ma il risultato è
terribilmente negativo, le cose sono peggiorate.
Un secondo argomento è che non viviamo più nel capitalismo di una volta. Oggi viviamo un “capitalismo
cognitivo”, che impone sulla produzione di beni materiali -----. Questo non è falso, è vero che c’è uno
sviluppo dei beni materiali, ma la produzione di questi beni in mezzo a noi non fa diminuire la produzione di
altri beni. C’è un rallentamento della crescita, ma continua a crescere e il funzionamento dei beni materiali, e
il risultato finale è ancora mediato, da tutto questo si vede che lo sviluppo non è sostenibile, dobbiamo
riorganizzare completamente il sistema. In modo provocatorio in Francia abbiamo fatto un gruppo che ha
preso come parola nobile la DECRESCITA, e abbiamo fatto un giornale “La decrescita, il giornale della gioia
di vivere” Perché il temine che abbiamo preso in prestito. Vivremo molto bene se viviamo altrimenti.
Cambiare modo di vivere non soltanto perché è una necessità ecologica, ma perché è una condizione per
vivere meglio e sviluppare idee razionali eccetera.
La seconda domanda. Pessimismo, come decolonizzare?
Se vedete non sembra un personaggio troppo pessimista, e anche abbiamo fatto questo giornale che è
sottotitolato il giornale della gioia di vivere. Allora naturalmente sono un po’ come Gramsci, c’è il pessimismo
della ragione, perché tutte le analisi dimostrano che andiamo direttamente contro il muro.
Ma possiamo conservare un ottimismo nel cuore e nella volontà, e forse il peggiore non è necessario, si può
sempre avere una speranza. Io ho preso anche come orientamento la parola di Guglielmo Il taciturno, che ha
fatto l’indipendenza dei paesi bassi, che dice: “non bisogna sperare per intraprendere, né riuscire per
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perseverare.” E a lui è riuscito bene, si poteva credere che un piccolo paese come l’Olanda riuscisse a
liberarsi.
Allora ciò che possiamo fare è che l’ottimismo si trova dentro di sé. La tua mente, quando si legge il giornale
tutti i giorni, è disperata. Ma è sempre così, forse è sempre stato così. Allora meglio tentare di vivere con
ottimismo, fare quello che si pensa. E precisamente l’etica è la cosa che si dice che si deve fare quel che si
pensa che è giusto.
E allora come decolonizzare?
La decolonizzazione dell’immaginario non è una cosa che si può fare completamente e coscientemente e con
decisione. E in più non possiamo pensare che è una cosa che si può imporre agli altri. È un processo con cui
dobbiamo prendere coscienza delle cose, tentare di cambiare, di dare un esempio, ma penso che è un
processo storico, che dobbiamo aiutare. Il minare con il pensiero la riflessione filosofica, quello che stiamo
facendo con Firenze, ma prima di tutto, come la conclusione, come alcuni di voi hanno letto sul Manifesto, la
traduzione del mio articolo, “per una società di decrescita”, dice che alla fine tutti gli argomenti fanno meno
che il fatto della canicola dell’estate scorsa. E questo è chiamata la pedagogia delle catastrofi. E ho scoperto
che un ecologista svizzero: Tonino Buscheron, che è abbastanza famoso e ha scritto un libro “la morte
dell’occidente”, aveva scritto un po’ di anni fa che il venire delle catastrofi organizzate dalle nostre cure
vacillanti, che facciamo di tutto per produrre catastrofi. Se queste catastrofi non sono troppo gravi, al punto
di distruggere la specie umana, ma abbastanza gravi per far riflettere la gente e cambiare di rotta, allora
potrei chiamare queste catastrofi pedagogiche, e penso che le cose molto spesso cambiano. Se gli uomini
sono così determinati a rifiutare gli organismi geneticamente modificati, perché abbiamo vissuto il dramma
della mucca pazza. Se gli italiani hanno rifiutato le centrali nucleari è per quella cosa di Chernobyl. E allora il
mio ottimismo proviene dal pessimismo della situazione, e sono convinto che le catastrofi che abbiamo
davanti, le catastrofi sempre più terribili degli anni prossimi, queste catastrofi sono occasioni per rimettere in
discussione, di cambiare coscientemente o incoscientemente il nostro immaginario. E questo vale anche per
la nuova generazione.
ANCHE PER IL TERRORISMO ISLAMICO RISPETTO ALLA GUERRA?
Sì. Naturalmente di fronte alla catastrofe ci sono due possibilità. Una possibilità di modificare. O una
possibilità di ripiegarsi, e allora di sicuro ci saranno delle esperienze verificate nei tenori di vita e nei modi di
vivere. Ma anche, si vede bene, tentativi di totalitarismo, di ripiegamento, si può avere un totalitarismo
ecologico eccetera.
Dobbiamo fare di tutto perché le cose vadano per il meglio, non per il peggio.
La terza domanda. Nella mia opinione non c’è una teoria astratta, transistorica, della giustizia. La giustizia è
una cosa contro cui si deve sbattere in ogni contesto. E di sicuro la giustizia non è di questo mondo, il
problema non è di realizzare la giustizia, il problema è di diminuire l’ingiustizia. Perché ad un certo punto
l’ingiustizia è enorme e problematica, e allora oggi viviamo un momento dove, come abbiamo cacciato la
giustizia dell’economia, e che l’economia diventa più o meno la cosa più importante della vita, abbiamo
finalmente cacciato la giustizia del nostro mondo. Ma l’ingiustizia che si sviluppa diventa talmente forte che
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pone problemi. Il terrorismo islamico in fondo è il ritorno del cacciato, e ci sono problemi sociali di ogni sorta.
E ci obbliga a riporre il problema della giustizia e a riporlo dove si deve riporlo oggi.
Due anni fa ero stato invitato Francoforte da un gruppo filosofico, e il collega diceva “Francoforte capitale
intellettuale della scuola di Francoforte”, e c’erano due torri, la Banca Europea e la Deutsche Bank, no non è
la Deutsche Bank, ma una torre ancora più grande. Ma Francoforte oggi è prima di tutto la città delle
banche, e visitando ciò che rimaneva della vecchia città c’è ancora una parte del palazzo imperiale, davanti
c’è una piazza e al centro della piazza c’è una statua, la statua della Giustizia. E va detto che nelle città
vecchie mettevano nel centro della città mettevano la statua della giustizia. Vedete questo a Venezia, in
piazza San Marco c’è la Giustizia veneziana. Allora non va detto che queste città erano giuste, si sa che c’era
molta ingiustizia, ma era la giustizia come orizzonte, non si poteva immaginare che la città potesse
sopravvivere senza avere questo ideale. E’ l’ideale che fa tenere insieme tutti questi cittadini, che
naturalmente sono nelle situazioni diverse, alcuni molto ricchi, altri poveri. E il fatto che la città deve rendere
giustizia a tutti. Naturalmente non lo fa, ma si sa che c’è un limite all’ingiustizia. Non c’è un limite di quello
che si può fare alla borsa, ma c’è un limite, se la città diventa troppo ingiusta, allora a un certo punto
esplode.
4) L’APPROCCIO TRADIZIONALE è QUELLO DI OCNSIDERARE IL PROFITTO PRODOTTO COME UN
MISURATORE DELLA RICCHEZZA DELLE IMPRESE E INVECE UN’IMPRESA PRODUCE Più DI QUELLO CHE
VIENE MISURATO DAL PUNTO DI VISTA MONETARIO. HA EFFETTI DI ALTRO TIPO CHE NON VENGONO
MISURATI, GLI EFFETTI SOCIALI. ESISTONO DEI TENTATIVI DI AFFRONTARE QUESTO PROBLEMA, DI
MISURARE IN MODO UN PO’ Più COMPLETO GLI EFFETTI SOCIALI DELLE IMPRESE?
Sì, esistono. Recentemente è uscito in Francia un rapporto, che è diventato anche un libro, che si chiama
“Riconsiderare la ricchezza”, di Patrick Viveret.
Ma c’è una contraddizione del fatto che il discorso gira su un punto che dobbiamo introdurre dentro la
ricchezza, statisticamente le cose che non sono valutate. C’è un po’ di contraddizione perché le cose che non
sono valutate non sono valutate perché non sono valutabili, è molto interessante fare le statistiche delle
valutazioni, per dimostrare che il PIL per esempio non ha un grande -----, ma se pensiamo che dobbiamo
uscire dall’ossessione quantitativa del contare il PIL, allora la questione non è misurare ciò che non è
misurabile, è di decolonizzare il nostro immaginario, e ripensare a una realtà che non è più necessario
quantificare, anche se dobbiamo separare l’uso etico della quantificazione alternativa, di un uso che sarebbe
positivo, mi sembrava un po’ contraddittorio. Non so se vi fa capire bene, è un po’ difficile spiegare queste
cose.
Per esempio è molto interessante ciò che hanno fatto due ricercatori, un ex economista della banca
mondiale, Armand Deli e Robert Putnam.
Deli ha fabbricato un indice che si chiama indice del Genuine Progress a partire da 10 indici su indicatori
ecologici, e il PIL. Si sa che il metro è l’inquinamento, che fa salire il prodotto e la distruzione ambientale.
Allora l’hanno calcolato per gli Stati Uniti e molti altri paesi. La cosa interessante è che fino agli anni ‘70 il PIL
tendeva sempre a salire e l’indice genuine progress era più o meno alla medesima posizione, e a partire dagli
anni ‘60 comincia a salire, e ha fatto la medesima cosa con l’indice del social benessere; allora non le cose
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economiche, ma le cose sociali, come il grado di disoccupazione, la copertura sociale, la medicina… I risultati
sono identici.
Allora a questo punto interessante è concludere che la cosa che dobbiamo fare è fare salire il benessere e
forse rovesciare la forbice, dobbiamo per molte ragioni far decrescere il prodotto interno lordo e aumentare il
benessere. E naturalmente questo è impossibile. Allora è molto interessante fare un calcolo così, fare la
critica del prodotto interno lordo e della logica del sistema. Invece non penso che in questo indice non c’è
una valutazione di un altro problema, in realtà è fatto con indici che sono falsi indicatori. In un mondo
mercantile non si può far funzionare un’altra ricchezza che non è la ricchezza mercantile.
A questo punto usciamo dalla logica del pensiero.
5) NEL SUO MODELLO E’ IN PRIMO PIANO LA MERCE RISPETTO AL DENARO. MI RISULTA ABBASTANZA
SEMPLICE PENSARLA TRA DUE SOGGETTI, DUE PERSONE, COME SI RIESCE AD APPLICARE LO STESSO
MODELLO A UN’INDUSTRIA, UN’IMPRESA? COME APPLICO QUESTO MODELLO DI SCAMBIO DI MERCE
GIUSTO SE SONO UN’IMPRESA, UN’INDUSTRIA?
Non si può farlo immediatamente, ma si deve pensare a questo come guida. Si deve sognare a pensare che
dietro lo scambio mercantile ci sono delle persone che esistono e che si deve fare un po’ di più.
Ci sono già alcune esperienze. Ci sono le esperienze delle cooperative di produzione su scala abbastanza
grande.
Al di là di un certo punto un’impresa non può diventare, necessariamente non può funzionare
eccessivamente in modo ingiusto.
Dobbiamo anche, come ho fatto nella conclusione di questo libro, uno studio su l’opposizione fra mercato con
la M maiuscola, che è il mercato astratto e i mercati. I mercati sono dei luoghi concreti di sociabilità, dove
naturalmente coloro che vengono voglio avere benefici, ma c’è un rapporto umano.
Non esiste ancora un mercato totalmente astratto come il mercato della teoria, ma tutto il movimento
attuale dell’economia va in questa direzione, sbagliata. Impedire l’interdipendenza, invece di accrescere
l’interdipendenza dei mercati, invece dobbiamo impedire quest’interdipendenza.
Precisamente il processo di globalizzazione è stato un passo molto grande per l’interdipendenza dei mercati,
a questo punto non è più possibile porre il problema dello smascherare il feticismo dello scambio, perché
diventa totalmente anonimo, totalmente impersonale, siamo tutti presi in una mega macchina infernale di
ingranaggi. Allora a questo punto questa mega macchina dobbiamo romperla.
6) [Bonsignore] SAI CHE QUESTO CORSO HA L’OBIETTIVO DI CONTRIBUIRE A FORMARE UNA FIGURA
PROFESSIONALE CHE DOVRA’ CONFRONTARSI E MISURARSI CON L’ETICA NELLE AZIENDE E NEGLI
AFFARI. QUINDI UNA SITUAZIONE DI GRANDE DIFFICOLTA’ E DUBBI.
A ME SMEBRA DI AVER CAPITO CHE IL LAVORO CHE CI ASPETTA HA ANCHE DEI CONTENUTI POLITICI.
HAI DETTO CHE C’E’ DA FARE UN LAVORO DI ECONOMIA LEGATO ALLA POLITICA. PUOI SINTETIZZARE IN
UN’ULTIMA VALUTAZIONE COME VEDI I RESPONSABILI DELL’ETICA AZIENDALE, UNA SINTESI CHE CI PUOI
DARE ALLA FINE DELL’INTERVENTO. C’E’ UN FUTURO? LE AZIENDE SONO PRONTE A CAPIRE
QUEST’ESIGENZA E QUINDI A DARE SPAZIO A UN MANAGER ETICO?
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A questo punto l’etica è una questione personale, ciascuno ha il suo senso della giustizia, il suo vissuto,
naturalmente ho presentato una teoria un po’ schematica, ma si deve usarla in un contesto concreto,in
funzione di un contesto concreto.
Dico sempre che siamo al centro di un triangolo. I tre vertici sono la sopravvivenza, la resistenza e la
dissidenza. Dobbiamo fare un arbitraggio tra questi tre, e ciascuno lo fa in modo diverso.
SOPRAVVIVENZA, RESISTENZA, DISSIDENZA. Ciascuno può essere in un punto diverso. Dipende dalla loro
etica.
Ma dobbiamo tutti fare questo arbitraggio.
La sopravvivenza che cosa significa? Significa che il mondo va male, la banalità del mondo è insopportabile.
Allora di sicuro non si può cambiare il mondo, dobbiamo fare i conti con il mondo. Non si può vivere senza
fare compromessi. Senza compromessi non è possibile sopravvivere, allora bisogna trovare qualcosa, una
scelta personale.
Ma dobbiamo fare compromessi pratici, ma dobbiamo anche decolonizzare l’immaginario. Significa anche non
fare compromessi col pensiero, allo stesso tempo si può fare qualcosa. Di giorno lavoro in un’impresa e di
notte lavoro in una Ong che fa la critica di ciò che faccio di girono.
La resistenza si può farla a Seattle, a Cancun, si può farla ovunque. Più o meno. Ci sono quelli che fanno
molta resistenza, che sacrificano la sopravvivenza alla resistenza.
Ma se pensiamo che domani sarà un altro giorno, ci sarà un altro modo di funzionare, ci sono già quelli che
pensano alle alternative, e questa è la dissidenza.
Questi giovani sono delle cose alternative, un mondo alternativo.
Ma la dissidenza non può sopravvivere se non c’è una resistenza. La resistenza serve a proteggere le
esperienze. Tutto questo per dire che dobbiamo situarci dentro queste tre dimensioni, più o meno.
Al momento ci sono dei punti nella storia, e nella storia personale, dove non si può più accettare si deve
entrare in resistenza o entrare in dissidenza.
Non c’è una soluzione, non è un diritto di dire “fate così”, “non fate così”, se questa è una questione di etica.
Come non c’è il senso della differenza fra morale ed etica. Perché la morale è l’aspetto oggettivo. Si parla di
regole morali. L’etica è il modo in cui è vissuta la morale. C’è interdipendenza, ma sono due cose diverse.
7) MA UN CONFORMISTA DOVE SI POSIZIONA Lì NEL TRIANGOLO? ALL’APICE DELLA RESISTENZA?
Questa è una cosa interessante. Anche nell’uomo più conformista c’è un che di sovversivo, che appare.
Perché l’uomo non è tutto di un pezzo, ci sono delle cose che ogni tanto possono emergere. Non siamo
sempre così. C’era un uomo che sembrava preso solo dal suo lavoro, in realtà era un fanatico dell’operà. E
come diceva Adorno, anche l’arte più conformista ha una funzione critica. E direi anche una funzione etica.
Allora siamo pieni di contraddizioni, fortunatamente.
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