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Il linguaggio non è solo una libera opzione
della ragione e della volontà. Possiamo immaginare che una critica della realtà possa
muovere da una critica del linguaggio, ma in
positivo l’affermazione di una parola è anche
questione di egemonia culturale. Il collasso del
linguaggio democratico e la possibilità di un lessico del razzismo democratico non sono, da
questo punto di vista, segnali confortanti.
Ilaria Possenti
Emergenza razzismo, Immigrazione clandestina, Deportazione dei neri sono le titolazioni di guerra di alcuni
quotidiani italiani in occasione dei fatti di Rosarno del
gennaio 2010. Il linguaggio si fa truce, grigio, minaccioso e l’unico terreno è quello dello scontro. Un linguaggio «allarmistico e bellico, simile a quello usato
nei conflitti, nelle contrapposizioni tra entità ostili»
commenterà in un comunicato l’Alto Commissariato
delle Nazioni unite per i rifugiati. Le coste siciliane sono
prese d’assalto, Lampedusa è assediata, L’ondata dei disperati
travolge Lampedusa alludono a scenari di privazione dei
nostri spazi di vita, alla perdita del lavoro, della sicurezza familiare e di quella dei nostri cari, alla invivibilità delle città e dei quartieri, alla dispersione dell’identità nazionale. Ma gli sbarchi dei primi mesi del 2011
di migliaia di migranti, prima tunisini e poi libici, in
seguito alla crisi dei paesi dell’area del Maghreb e alla
successiva guerra condotta anche dall’Italia contro il
regime di Gheddafi, nonostante i titoli sparati dai
media, non delineano alcuna emergenza, visto che il
minimo che si potesse prevedere, in seguito all’instabilità dei paesi nordafricani nostri dirimpettai, era
proprio una fase di migrazioni. Travolti dall’orda e l’Ue
dorme, titolava in quei giorni il quotidiano della Lega
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Nord «La Padania» e «La Gazzetta del Mezzogiorno»
del 9 marzo 2011 rincarava la dose: Migranti, l’Italia
non ce la fa più. In realtà l’Unione Europea non riconosceva alcun rischio di invasione per l’Italia, invitando viceversa a non seminare allarmismi tra l’opinione pubblica interna e la comunità internazionale,
col tentativo di costruire lo spettro dell’arrivo di centinaia di migliaia di migranti. Lo stesso Presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano, intervenuto sul
tema, auspicava prese di posizioni e dichiarazioni responsabili fuori da vittimismi e allarmismi. E tuttavia
i media hanno perseverato su questa linea, affilando i
coltelli: I profughi invadono l’Italia a migliaia annunciava
alle ore 8,00 del 1° aprile 2011 il Tg5 con la consueta
enfasi. Il 31 maggio 2011 così titolava la stessa testata
alle ore 13,00 per raccontare la fuga di profughi libici
dalla guerra: 900 clandestini dalla Libia, e nel servizio si
parlava disinvoltamente di una massa umana impressionante. L’ossessiva sottolineatura del messaggio di
paura è la cornice interpretative, il frame della notizia:
Sbarco di immigrati sventato nel Salento ci ricordava una
titolo di apertura del Tgr Puglia dell’8 luglio 2011,
quasi si trattasse di una rapina! Insomma la grancassa
mediatica si è associata al coro di allarme sul numero
degli arrivi, ignorando che si trattava, ha sottolineato
l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, di migranti e lavoratori con bisogni umanitari e
non invasori, anche se la maggior parte di carta stampata e testate televisive ha continuato ossessivamente
a chiamarli «clandestini», piegandosi in tal modo alle
interpretazioni di una parte consistente della classe
politica. Ma una domanda è d’obbligo. Chi ha speculato sulla presenza nella piccola isola di una media di
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5.000 migranti a fronte dello stesso numero di residenti? Inchieste e cronache quotidiane di fine marzo
2011 hanno mostrato il vero volto dell’accoglienza,
giovani tunisini in cerca di libertà rintanati in tuguri e
tende improvvisate nel porto di Lampedusa, lerci e
infreddoliti, nottate trascorse sotto camion o in camerate invivibili, bagni indecenti, giovani che dichiaravano di continuare il loro percorso migratorio ben
oltre i confini del Belpaese. Ma non è bastato! Autorevoli esponenti del governo giungevano ad auspicare
che simili immagini potessero dissuaderne altri dall’idea di far rotta sulle coste siciliane. Il quotidiano della
Lega Nord «La Padania» l’11 febbraio 2011 titolava in
prima pagina Maroni, stop all’invasione. L’opzione ideologica e propagandistica aveva preso il sopravvento
sulle politiche di accoglienza in favore di migranti
provenienti da paesi in situazioni di caos e instabilità
politica, guerra e conflitti interni. Ma soprattutto aveva preso il sopravvento sul buon senso. A chi ha giovato cavalcare il copione dell’invasione di Lampedusa? La musica cambia, infatti, se i 5.000 migranti vengono rapportati – non già alla piccola isola – bensì ai
60 milioni di italiani e a un paese tra i più industrializzati ed economicamente avanzati del mondo, a cui
sarebbe spettato approntare un serio piano di sostegno. Ma lo sfondo mediatico ha continuato a propinare, soprattutto sul piccolo schermo, i profili e le figure asciutte e smagrite dei nuovi arrivati sul porto
dell’isola siciliana e su una comunità schiantata dalla
pressione dei tunisini, lasciata sola a rappresentare il
copione «dell’invasione».
Insomma il nostro paese dispensa a piene mani il
germe della paura con l’aiuto di una parte dei media
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più propensa ad agitare le acque dell’opinione pubblica in un paese che a fine 2009 ospitava 55.000 rifugiati rispetto ai 600.000 della Germania, solo per fare
un esempio. I concetti di invasione e aggressione diventano copioni narrativi di facile presa sulla maggior
parte dell’opinione pubblica, quella più vulnerabile
per non essere mai entrata in rapporto diretto o indiretto col variegato mondo dei migranti e dunque
sprovvista di un retroterra di esperienze sul tema. Ne
scaturiscono idee ed analisi proprie di un pensiero
forte, poco propenso alla tolleranza, una filosofia di
chiusura, che chiede risposte di ordine pubblico ed
erige muri e palizzate. Insomma, molta ideologia ma
nessuna ricerca scientifica sul campo. Assistiamo ad
una sorta di militarizzazione del linguaggio. L’immigrato è sempre clandestino o extracomunitario mai irregolare – termine sconosciuto alla maggior parte dei
media – come sarebbe più giusto dire o scrivere, in
linea con la vulgata giornalistica, che non riconosce
loro altro status. Che si tratti di rifugiato politico o richiedente asilo o migrante con bisogni umanitari o in
cerca di occupazione o semplicemente di chi attende
il rinnovo del permesso di soggiorno o ne ha perso il
diritto al rinnovo, il protagonista della narrativa dominante resta il clandestino. Il termine viene ripetuto
più volte nello stesso pezzo o servizio radiotelevisivo
senza alcun tentativo di variatio, dimostrando una
chiara intenzione comunicativa pregiudizialmente
connotata.
Le forme di intolleranza passano anche attraverso
il linguaggio e le mille forme dispregiative di connotazione. Il termine extracomunitario, per esempio, oggi
sostituito col più tenebroso clandestino, viene coniato
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sull’onda delle prime regolarizzazioni sul finire degli
anni ottanta ad opera dello stesso legislatore. Si tratta
di una caratterizzazione semantica non di poco conto
e non indifferente sul piano della mappa concettuale
di ciascuno di noi, perché ha l’indubbio merito di evidenziare centro e periferia, un etnocentrismo linguistico di chiara carica simbolica che distingue il
«noi» da «loro». È soprattutto il piccolo schermo ad
introdurre stigmi sulla base delle presenze territoriali
dei migranti, per poi estenderle a livello nazionale. In
quegli anni nasceranno i vu cumprà a Roma o Torino o
i tapì nel Salento, visto che il prodotto più venduto
dei primi ambulanti marocchini è proprio il tappeto.
Sono espressioni che marcano il territorio egemone,
ma non criminalizzano ancora i nuovi arrivati. Il linguaggio giornalistico non disdegna espressioni cardine dell’ideologia razzista. «Razza più violenta, pericolosa, prepotente capace di uccidere per una manciata di spiccioli», recitava un pezzo di cronaca nera
de «Il Tempo» del 3 ottobre 2006 intitolato: Un’etnia
sempre in cronaca nera.
I termini pesano e fanno paura, creano inferenze
con le pulsioni istintuali di conservazione più profonde. Cosa evoca il termine clandestinità se non una
sensazione di rifiuto, di sospetto per l’altro?
È l’ossatura, lo scheletro portante dell’informazione di gran parte della stampa e del diffuso circuito
televisivo, che poi condiziona le cronache provinciali,
centrate su avvenimenti marginali che divengono notizia centrale, semmai sbattendo il «mostro» in prima
pagina. Un’indagine dell’Icismi (International Center
of Interdisciplinary Studies on Migration – ex Osservatorio provinciale sull’immigrazione di Lecce) rileva
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che la «cattura» del potenziale lettore avviene attraverso la presentazione del menu, dei titoli di prima
pagina, semmai smentiti dal corpo del servizio interno. Si tratta di notizie confezionate in redazione –
come in una catena di montaggio – spesso cercate dal
giovane collaboratore cronista all’oscuro dell’uso che
poi la redazione farà del suo lavoro, allineandosi al
clima che si respira nel paese. Non è una novità. Basta pensare ai migranti meridionali nelle grandi fabbriche del Nord, a Milano o Torino negli anni cinquanta e sessanta, quando si trovavano sbattuti in
prima pagina da il «Corriere della Sera» o da «La
Stampa» o da qualche giornale locale come calabresi,
siciliani o pugliesi. Come in quegli anni anche oggi l’immigrato di turno perde identità, divenendo semplicemente un extracomunitario, un clandestino. E per
estensione tutti gli immigrati, privati di identità, diventano spacciatori o criminali e le donne prostitute.
Una semplificazione che ritroviamo oggi nella carta
stampata – in particolare chi utilizza il linguaggio come una pistola puntata alla tempia di ciascun immigrato – ma soprattutto nei servizi televisivi, sempre
decontestualizzati da storie e motivazioni, che stanno
dietro le migrazioni e i suoi aspetti economici, storici,
politici. Un immigrato dell’Est europeo morto investito da un’auto sul ciglio della strada nel foggiano
alle prime ore dell’alba, mentre si reca sui campi per
la raccolta del pomodoro? Lo percepiamo come un
incidente qualunque, un effetto della pirateria stradale
ai danni di un immigrato senza identità. Uno dei tanti!
Diventa senso comune e non ci facciamo più caso.
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