Recensioni e schede

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Recensioni e schede
Recensioni e schede
Agricoltura e società rurale
lu ig i faccini, Uomini e lavoro in risaia
(Il dibattito sulla risicoltura nel 700 e nelV800), Milano, Angeli, 1976, pp. 225, lire
5.000.
L ’introduzione della coltura risicola rap­
presentò uno degli stimoli più potenti allo
sviluppo capitalistico dell’agricoltura setten­
trionale — padana in particolare — a par­
tire dai secoli X V II e XV III. Essa infatti
innescò tutta una serie di reazioni a ca­
tena sul corpo delle preesistenti strutture
produttive: l’ingente quantità di investi­
menti richiesti evidenziò in primo luogo la
sua incompatibilità con forme di conduzio­
ne quali la mezzadria e la piccola proprie­
tà, sprovviste dei capitali necessari all’im­
pianto e alla gestione delle risaie. N e con­
seguì la disgregazione dei vecchi nuclei co­
lonici e la proletarizzazione di vasti strati
contadini che in un breve arco di tempo
si videro trasformati da produttori autono­
mi o semiautonomi in semplici possessori
di forza lavoro da immettere sul mercato
capitalistico.
Proletarizzazione e pauperizzazione proce­
dettero d’altra parte parallele, suscitando le
preoccupazioni di alcuni settori della bor­
ghesia che vedevano in questo peggioramen­
to oggettivo delle condizioni di vita delle
masse contadine un pericolo per la con­
servazione di « quella graduata ed equa­
bile distribuzione della proprietà, che man­
tiene l’ordine e la soddisfacente conviven­
za » (così scriveva nel 1861 Quirino Bigi).
Componenti organiche dell’economia risi­
cola furono il rapporto diretto con malat­
tie quali malaria, febbri reumatiche, tifo
e scorbuto, l’estrema precarietà delle con­
dizioni igienico-alimentari delle popolazio­
ni interessate e la durezza spesso disumana
delle condizioni di lavoro, il largo impiego
di manodopera minorile e femminile, oltre
che di bracciantato stagionale per la mon­
da, la mietitura e la trebbiatura del riso.
D a parte sua, la borghesia non fu inizial­
mente unanime nel favorire lo sviluppo del­
la nuova produzione: nel periodo della
Restaurazione infatti le sue componenti
più conservatrici fecero marcia indietro
sulla strada intrapresa negli anni napoleo­
nici dai settori più avanzati della borghesia
agraria. M a intorno alla metà dell’800 r a f ­
fermarsi del liberismo abbattè le preesi­
stenti regolamentazioni proibitive o restrit­
tive della coltivazione del riso, che da al­
lora si sviluppò senza più ostacoli, assu­
mendo particolare importanza nell’area pa­
dana del Piemonte orientale e della Lom ­
bardia occidentale.
Luigi Faccini ha il merito non indifferente
di aver fatto luce su uno degli aspetti più
importanti della storia agraria italiana,
peraltro fino ad oggi oggetto di scarsa at­
tenzione da parte degli storici. Il contri­
buto dell’autore è tanto più rilevante se si
pensa all’impianto complessivo della sua
analisi, che non si limita ad una disamina
puramente tecnico-agronomica, ma è insie­
me storia del lavoro, del paesaggio agrario,
delle condizioni di vita delle masse conta­
dine ecc. È questa del resto l’unica strada
da seguire per il rinnovamento degli studi
sull’agricoltura italiana, facendoli uscire
dalle secche di uno specialismo troppo
spesso ristretto, incapace di inserirsi in
quella dinamica pluridisciplinare capace di
articolare la ricerca nella maniera più am ­
pia.
Francesco Bogliari
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Rassegna bibliografica
Alberto DE Bernardi, Questione agraria e
protezionismo nella crisi economica di fine
secolo, Milano, Angeli, 1977, pp. 229, lire
5.500.
L ’autore di questa antologia segue con lu­
cidità il complesso intrecciarsi dei molte­
plici fattori che concorsero a fare della crisi
agraria uno degli spartiacque fondamentali
della storia italiana contemporanea e ci
fornisce di questo fenomeno estremamen­
te articolato un’immagine chiara, sostenuta
da salde basi teoriche. Particolarmente fe­
lice ci sembra la scelta dei brani, tutti in­
terventi « militanti » dell’epoca, che rie­
scono nell’intento di ricostruire la comples­
sità del dibattito sviluppatosi allora in va­
rie sedi e a vari livelli sui problemi inne­
scati dalla crisi agraria.
Infatti, all’atto dell’apertura del dibattito
parlamentare sulla crisi agraria — nel
febbraio 1885 — il prezzo del granturco
era sceso del 42 per cento rispetto al 1880
e quello del frumento del 33 per cento.
Bastano questi dati a dare un’idea della
violenza con la quale la crisi si era ab­
battuta su una struttura produttiva —
come quella italiana — già largamente
inadeguata alle esigenze del mercato in­
ternazionale. L ’inizio della crisi era stato
ritardato di qualche anno rispetto agli altri
paesi europei grazie alla azione protettiva
esercitata dal corso forzoso, che mantenen­
do la lira su livelli più bassi delle altre mo­
nete garantì ai produttori cerealicoli mar­
gini di guadagno ancora rilevanti. M a
quando il corso forzoso venne abolito,
anche in Italia l’afflusso di grano america­
no e orientale provocò un immediato crol­
lo dei prezzi agricoli, che coinvolse ben
presto tutte le più importanti produzioni,
ad eccezione di quella vinicola.
L e conseguenze furono profonde e com­
plesse. Si creò innanzi tutto un antagoni­
smo tra rendita parassitaria e profitto ca­
pitalistico, che si mantenne sempre vivo
anche se in un secondo tempo lasciò pro­
gressivamente il posto al conflitto ben più
drammatico tra queste categorie e il sa­
lario. L a soluzione della crisi anzi si orien­
tò proprio su una linea nettamente clas­
sista, caratterizzata dall’espropriazione ed
espulsione dei contadini dalla terra, dal­
l’emigrazione e dalla disoccupazione, oltre
che dal drastico peggioramento dei livelli
di vita delle masse lavoratrici.
Vi fu però anche un’altra conseguenza di
ordine strutturale: da parte dei settori più
lungimiranti dell’imprenditorialità capitali­
stica, fu colta l’occasione per iniziare un
processo di riconversione e razionalizzazio­
ne produttiva, che portò sia ad una diversa
dislocazione geografica delle colture (pro­
duzioni specializzate al sud, creali, forag­
gi e allevamento al nord), sia ad una più
forte concentrazione della proprietà fondia­
ria e quindi ad una maggiore disponibilità
di capitali d’investimento.
Questi profondi mutamenti delle strutture
produttive furono accompagnati — in un
rapporto di reciproco condizionamento —
da una altrettanto radicale revisione delle
coordinate teoriche all’interno delle quali
si era mossa fino ad allora la politica eco­
nomica italiana. Il dibattito parlamentare
cui si accennava all’inizio fu il primo atto
di un più ampio scontro teorico tra i li­
beristi (inizialmente in maggioranza) e i
fautori dell’intervento statale; questi da una
posizione di inferiorità passarono ben pre­
sto — nel giro di due anni — ad una cla­
morosa vittoria « pratica », che portò con
sé l’abbandono dell’ideologia liberista cui
la borghesia agraria italiana aveva sempre
ispirato le proprie scelte: ci riferiamo alla
svolta protezionistica del 1887-88.
Essa fu la premessa indispensabile del de­
collo industriale italiano e segnò al con­
tempo l’inizio dell’egemonia del capitale
finanziario. M a le sue conseguenze furono
decisive anche in agricoltura: l’aumento
progressivo del dazio sul grano, oltre a di­
fendere la grande proprietà dai pericoli
di una prolungata crisi dei prezzi e ad
incrementare le entrate fiscali dello stato,
fu lo strumento determinante per la crea­
zione di un blocco rurale, comprendente
tanto la grande che la piccola proprietà,
disposto pur di sopravvivere ad accettare
un rapporto di subordinazione nei con­
fronti dell’industria e del capitale finanzia­
rio. L o sviluppo capitalistico dell’agricol­
tura italiana non subì rallentamenti o
interruzioni, ma la salvaguardia della ren­
dita parassitaria ne fece gravare il peso
unicamente sulle classi lavoratrici e colpì
allo stesso tempo le colture specializzate
meridionali, che dalla guerra doganale con
la Francia ricevettero un colpo mortale.
L e conseguenze più immediate furono l’e­
spropriazione in massa dei piccoli proprie­
tari e l’ulteriore peggioramento delle con­
dizioni di vita dei contadini senza terra:
in questo contesto matureranno i Fasci
siciliani e gli altri elementi di crisi che
esploderanno all’interno della società ita­
liana sul finire del secolo.
Francesco Bogliari
Rassegna bibliografica
Giorgio giorgetti, C a p i t a li s m o e a g r i c o lt u ­
r a in I t a l i a , Rom a, Editori Riuniti, 1977,
pp. XXVI-591, lire 8.500.
1968 su A g r i c o l t u r a e s v ilu p p o c a p it a lis t ic o
n e lla T o s c a n a d e l 7 0 0 a un intervento,
sempre occasionato dal convegno cui si ri­
ferisce la comunicazione ora ricordata, su
P r o b le m i
Riproporre gli scritti di uno studioso da
poco scomparso assume per solito un va­
lore di omaggio; non è certo questo il
caso di C a p i t a li s m o e a g r i c o l t u r a in I t a l i a
di Giorgio Giorgetti, che contribuisce util­
mente a fermare l’interesse, al di là della
cerchia ristretta degli addetti ai lavori, su
un’attività di ricerca presumibilmente de­
stinata a crescere di importanza nel tem­
po, a rivelare, insieme alla solidità del­
l’impianto critico e alla ampiezza degli
orizzonti storiografici, una non consueta
capacità di suggestione e di proiezione nel
futuro. Nella prefazione, Giorgio Mori
traccia dell’autore un profilo intellettuale
egualmente attento alla dimensione scien­
tifica e pubblica, cogliendo lucidamente
quei nessi di necessità tra studio e impe­
gno politico che di Giorgetti sono una
delle caratteristiche più proprie. N é si
tratta di un dato generico o del sempli­
ce accostarsi e intersecarsi di livelli di­
versi.
Basterebbe l’ampio riferimento al costante
interesse per il pensiero di M arx, travasato
in una lunga fatica editoriale e in saggi
che il volume ora ospita, al ruolo che que­
sto interesse ha rivestito per la cultura ita­
liana di derivazione marxista per sottoli­
neare una delle più robuste articolazioni di
quei nessi cui prima si accennava. Ciò
che qui più conta è rilevare come, per
usare le parole di Mori, quella « ripresa
di contatto con M arx e con il marxismo ri­
guardasse, in via diretta, solo pochissimi
fra gli storici di mestiere » (p. 15), e come
l’interesse allora manifestato costituirà un
elemento centrale per la impostazione teo­
rica del lavoro di ricerca. Il saggio, che
apre il volume, su L a r e n d it a f o n d i a r i a
c a p i t a l i s t i c a d i M a r x e i p r o b le m i d e ll’e v o ­
lu z io n e a g r a r i a i t a li a n a , del 1972, suffra­
ga meglio di ogni altro contributo questa
evidenza, ad esempio nei riferimenti al­
l’utilizzazione dell’analisi marxista sul per­
manere di forme di transizione, quali la
mezzadria, entro un contesto capitalistico
e il tema della abolizione dei « residui feu­
dali » come motivo conduttore dell’elabo­
razione programmatica da parte dei par­
titi di sinistra e dello sviluppo delle lotte
agrarie nei decenni centrali del novecento
italiano. Sono quesiti che tornano del re­
sto in altri saggi, dalla comunicazione del
119
d e l l ’e v o lu z io n e
d e lla
m e z z a d r ia ,
che approfondisce il discorso sui criteri di
applicazione delle categorie di capitalismo
e mercato, di rendita differenziale e pro­
fitto. Entro questa serie di interventi cor­
re quindi una questione d’ordine generale,
che può essere proficuamente ripresa sul­
la scorta delle ricerche dedicate alla To­
scana e che costituiscono, ove si accetti
l’importante volume del 1974 sui contratti
agrari dal XV I secolo ad oggi (vedi fase.
117 di questa rivista), il nucleo centrale
dell’opera di Giorgetti.
N el volume che ora segnaliamo questi con­
tributi risaltano in tutta la loro ampiezza
seguendo un filo diretto che va dalle re­
censioni e rassegne storiografiche alle più
puntuali ed estese indagini archivistiche. L e prime sono una chiave preziosa
per intendere l’impostazione e la condotta
delle seconde. Anzitutto, Giorgetti fa i
conti con la tradizione storiografica del
moderatismo toscano, impegnata a pre­
sentare le riforme leopoldine come una
illuminata marcia di avvicinamento allo
stato moderno capace di sottrarre la To­
scana alle lacerazioni rivoluzionarie. T ra­
dizione che senza difficoltà si ambienta nel
fascismo, sollecitando la corda ruralistica
e paternalistica del regime, quella appun­
to che trova uno dei propri simboli più
conclamati nei rapporti di produzione mez­
zadrili. Ripercorrere le tappe delle revi­
sione di tali giudizi — si veda S u lle o r ig in i
d e lla s o c ie t à t o s c a n a c o n t e m p o r a n e a — si­
gnifica per Giorgetti affrontare il modo
stesso delle sue proiezioni interpretative,
porre dialetticamente a confronto il tema
delle sviluppo capitalistico con la partico­
lare impronta che esso riceve dalla presen­
za di un ceto terriero dominante che ha
ben presente il problema del controllo so­
ciale e che, di fronte ai momenti di svol­
ta, mostra tutta la propria disponibilità a
sacrificare obiettivi più remunerativi sul
piano economico a favore della stabilizza­
zione, o, se si vuole, del ristagno dei rap­
porti di classe. Il secondo elemento ri­
guarda l’attenzione sempre viva che Gior­
getti pone alle correlazioni tra l’evoluzione
dell’economia toscana e i contemporanei
rivolgimenti del quadro nazionale ed eu­
ropeo. L a distinzione, riportata alla deci­
siva radice settecentesca, tra sviluppo agri­
colo secondo il modulo inglese o lombardo
120
Rassegna bibliografica
e le soluzioni che si realizzano in Toscana
ha un carattere non artificiosamente pre­
giudiziale, ma illuminante per tutto il cor­
so successivo, così come essenziali sono le
osservazioni in merito al liberismo tosca­
no e alle sue valenze sociali. Queste linee
maestre si trovano sistematicamente svolte
nei saggi sulle aliivellazioni leopoldine e
sul grande affitto in Toscana nel XV III se­
colo, ma la loro impronta non è meno evi­
dente in scritti apparentemente minori, le­
gati ad occasioni più esterne. Valgano di
esempio le L i n e e d i e v o lu z io n e d e lle c a m ­
p a g n e t o s c a n e c o n t e m p o r a n e e , del 1974,
una relazione nella quale il fine espositivo
non impoverisce la problematica, e che
soprattutto offre, nella dimensione del pro­
filo sintetico, quelle proiezioni sui tempi
lunghi che permettono di misurare meglio
le capacità di autoconservazione prima e
il tracollo brusco poi dell’istituto mezza­
drile.
L a spinta combinata dei settori capitali­
stici avanzati e della reazione antipadro­
nale dettata dalle condizioni di progres­
sivo sfruttamento del lavoro contadino nel­
le forme imposte dalla volontà di mante­
nere in vita, per ragioni di dominio so­
ciale, strutture ormai troppo arretrate, di­
venta veramente il momento qualificante
del discorso. Riemerge qui quel problema
centrale cui s’è accennato sopra a pro­
posito del dibattito sui « residui feu­
dali ».
Giorgetti sembra assumere un atteggiamen­
to almeno apparentemente contradditorio.
Da un lato richiama con forza gli effetti
dirompenti delle trasformazioni capitalistiche, dall’altro, nel corso stesso delle sue
analisi, sottolinea le strozzature di questo
processo, lo sforzo di deviarlo, di piegarlo
ad esigenze che, in un disegno astratto di
esso, non si presentano necessariamente
come dettate da un obiettivo strettamente
economico, ma da più complesse e gene­
rali ragioni di rapporti di classe.
Quali sono allora i limiti di quello svilup­
po capitalistico e come si istituzionalizza
il rapporto tra la trasformazione economi­
ca e un assetto sociale di segno largamente
diverso? È probabile che l’indagine con­
giunta sugli agrari toscani e sul movimento
contadino, restituendo al problema tutto
il suo spessore di storia sociale possa se­
gnare ulteriori avanzamenti, rispetto ai
quali le acquisizioni di Giorgetti appaiono,
giova ripeterlo, veramente essenziali.
Massimo Legnani
renato zangheri, A g r i c o l t u r a e c o n t a d in i
n e l la s t o r i a d ’I t a l i a . D is c u s s io n i e r ic e r c h e ,
Torino, Einaudi, 1977, pp. XIII-290, lire
3.400.
È probabile che il recente infittirsi di ti­
toli sulle lotte contadine de! 1945-1950 ab­
bia avuto qualche parte nello spingere
Zangheri a raccogliere in volume alcuni
dei maggiori contributi da lui dedicati, ne­
gli ultimi vent’anni, alle questioni agra­
rie. L o attesta, del resto, il saggio d’aper­
tura sulla storiografia del dopoguerra, sul
quale torneremo più avanti. Ma, al di là
di questa circostanza, v’è una motivazione
più generale di cui il libro offre testimo­
nianza e che si riassume nella diffusa in­
soddisfazione per la lentezza con la quale
procedono le ricerche in questo settore
nevralgico della storia d’Italia. V ’è stata,
è vero, tra la fine degli anni cinquanta e
gli anni sessanta una fiammata di interesse
intorno ai temi del decollo industriale e
del dualismo nord-sud ricca di indicazioni
e di dibattiti appassionati. Gli scritti, fra
gli altri, di Romeo, Cafagna, Gerschenkron
e dello stesso Zangheri costituiscono tutto­
ra un punto di riferimento obbligato della
elaborazione storiografica, anche se l’in­
teresse sembra essersi sensibilmente affievo­
lito nell’ultimo decennio.
Infatti, al confronto sui modelli interpre­
tativi è raramente seguita una adeguata
verifica di ricerche su singoli momenti e
situazioni. Proprio per questo la relazione
su A g r i c o l t u r a e s v ilu p p o c a p it a lis t ic o , pre­
sentata nel 1968 all’omonimo convegno pro­
mosso dall’Istituto Gramsci e ora inclusa
in questa raccolta, conserva un interesse
proporzionale al mancato scioglimento di
molti dei nodi interpretativi che essa pone.
Zangheri vi ribadisce con forza il nesso
strettissimo tra i modi assunti dal proces­
so di industrializzazione e la mancata rea­
lizzazione di una autentica rivoluzione agraria. L e radici lontane di questa peculia­
rità del caso italiano sono individuate nel­
la strozzatura che agli inizi dell’età moder­
na aveva bloccato lo sviluppo delle campa­
gne lombarde, già attrezzate per procedere
ad una radicale trasformazione in senso
capitalistico. «C rescita regionale», «m an ­
canza di uno stato nazionale », « impossibi­
lità di concepire un mercato interno ade­
guato » (p. 50): questi i limiti allora non
superabili e poi non superati attraverso un
processo di unificazione nazionale che avrebbe saltato il passaggio della rivoluzio­
ne agraria. II senso e l’eredità di questo
Rassegna bibliografica
« salto » fanno da filo conduttore del sag­
gio su L a m a n c a t a r iv o lu z io n e a g r a r i a n e l
R is o r g i m e n t o e i p r o b le m i e c o n o m i c i d e l­
l ’u n ità . Redatto nel 1957, esso ci riporta
al primo tempo della stagione di dibattiti
già ricordata, e in particolare agli echi
della tesi di Romeo sul ruolo dell’agricol­
tura nel promuovere l’accumulazione ori­
ginaria e nel contribuire alla formazione
del capitale industriale. Oggi, il rilievo re­
trospettivo di quella disputa non è tanto
nella « contestazione sulle cifre », quanto
nel riferimento — che Zangheri ribadisce
anche a pag. XI dell’introduzione al volu­
me — ad una valutazione più larga e quali­
tativamente diversa del fenomeno, al ruo­
lo che il blocco di potere allora in gesta­
zione giocò come « fattore di riunifica­
zione delle realtà umane », all’alleanza
sancita tra industriali settentrionali e agra­
ri meridionali all’ombra del protezionismo:
« un accordo che può anche apparire, sulla
scorta di un astratto schema di sviluppo,
in c o n g r u o alle esigenze della industrializza­
zione, ma che fu in effetti la forma impo­
sta a quel tipo di industrializzazione, sten­
tato e distorto come esso riuscì » (p. 143).
Occorre aggiungere che questa via di marginalizzazione del settore agricolo trova
prepotenti conferme, salvo limitati settori,
nelle vicende del novecento, dagli anni
trenta alle grandi trasformazioni della me­
tà del secolo? Se si è convinti della cen­
tralità di questo processo per l’evoluzione
non solo del sistema produttivo, ma del­
l’intera società italiana il nesso sottoli­
neato da Zangheri e l’incidenza degli schie­
ramenti di classe sulle scelte economiche
di lungo periodo non possono certo esse­
re rubricati — secondo una suggestione
prevalente negli anni del « miracolo eco­
nomico » — tra gli inevitabili costi umani
dell’avvento di una società industriale, ma,
più correttamente, come l’insieme dei pro­
blemi irrisolti che un dato modello di svi­
luppo porta con sé e che alla fine concor­
rono, in misura rilevante, a determinare la
crisi. Si apre qui uno spazio storiografico
che in tanto appare fecondo in quanto è
consacrato non alle occasioni mancate, ben­
sì all’approfondimento delle scelte compiu­
te, all’analisi delle loro ripercussioni sul­
l’immediato come sui tempi lunghi. Con
questa ottica vanno lette anche le consi­
derazioni dedicate all’intensità delle trasfor­
mazioni capitalistiche conosciute dall’agri­
coltura italiana e che Zangheri tende, ta­
lora in polemica con Sereni, a ridimen­
sionare.
121
Tra gli altri saggi della raccolta — alcuni
dei quali mostrano inevitabilmente, in par­
ticolare quello sul moti del macinato nel
bolognese, i segni del tempo trascorso dal­
la loro redazione — merita qualche rifles­
sione la rassegna della storiografia sul se­
condo dopoguerra. Molte delle considera­
zioni che Zangheri sviluppa sulle singole
opere sono condivisibili. In effetti, ci tro­
viamo di fronte a contributi che, spesso,
sembrano preoccupati più di ribadire a vi­
cenda visuali politiche contrapposte che
non di recare elementi nuovi e consistenti
in appoggio alle rispettive tesi. Purtuttavia, alcuni interrogativi emergono: sulla
distribuzione geografica e nel tempo delle
lotte contadine; sui loro scopi; sul rappor­
to tra queste e il quadro politico. Qui Zan­
gheri compie un’operazione riduttiva gra­
vida di pericoli. Egli, in sostanza, sottolinea
il ritardo di elaborazione, da parte di par­
titi operai, di un’ipotesi generale di rifor­
ma agraria e parallelamente ribadisce il
carattere essenzialmente non anticapitali­
stico delle lotte per la terra sviluppatesi nel
dopoguerra: « portavano indubbiamente —
leggiamo — una carica rivoluzionaria; ma
democratica, non socialista. Puntavano a
trasformazioni dei rapporti di proprietà, e
neppure dappertutto, non nella valle pa­
dana » (p. 32). A me pare che con questo
tipo di valutazioni restiamo pur sempre
all’interno delle impostazioni seguite dai
partiti, dai sindacati e dagli altri organismi
a questi strettamente legati. L a motivazio­
ne delle lotte agrarie, e principalmente di
quelle dell’area meridionale, cade al di
fuori dell’analisi, la impoverisce e la settorializza. Si può essere a ragione perples­
si di fronte a certe troppo semplicistiche
contrapposizioni, ad esempio, tra movimen­
to di lotta e partito comunista, ma il su­
peramento di questa insoddisfazione im­
pone il recupero integrale della realtà so­
ciale di quegli anni e l’analisi in profondità
dei modi e dei contenuti della mediazione
partitica. L a stessa rilevata assenza di
« un’ipotesi generale di riforma agraria »
va addebitata ad un complesso di fattori
che in parte attengono proprio al tipo di
quadro politico operante nei primi anni
del dopoguerra e al modo in cui furono ge­
stite, dalla sinistra, le alleanze di governo.
Prescindere da tale circostanza, significa
precludersi la comprensione del livello al
quale le componenti di sinistra dei gover­
ni di coalizione ritennero di poter stabiliz­
zare i conflitti di classe sprigionati dalla
caduta del fascismo e, in particolare, dai
122
Rassegna bibliografica
sintomi di declino del blocco agrario me­
ridionale. È un tema che, accanto a quel­
lo della genesi interna delle lotte contadi­
ne, andrà indubbiamente ripreso anche at­
traverso una più generale riproposizione
del nesso tra la dinamica del quadro poli­
tico e i suoi referenti sociali.
D a ultimo, un’osservazione sulla presen­
tazione editoriale, che appare singolarmen­
te insufficiente. E infatti difficile capire qua­
le accessibilità presenti per un lettore non
specialista il ristampare, ad esempio, il
saggio su A g r i c o l t u r a e s v ilu p p o d e l c a p i­
t a lis m o senza sciogliere le citazioni che in
essa sono contenute, soprattutto se si tien
conto che il testo risale al 1968 e che in
più di un caso sono riportati giudizi succes­
sivamente rielaborati dai rispettivi autori.
Chi non tiene presente questa circostanza,
e nemmeno che — la presentazione non lo
dice — si tratta di una relazione ad un
convegno, ha non poche difficoltà ad orien­
tarsi attraverso la problematica del saggio,
e rischia di restare un lettore passivo.
Massimo Legnani
Vittorio ronchi, G u e r r a e c r i s i a lim e n t a r e
in I t a l i a ( 1 9 4 0 - 1 9 5 0 ) : r ic o r d i e d e s p e r ie n z e ,
Rom a, Scuola arti grafiche Istituto maschi­
le Umberto I, 1977, pp. 447, lire 3.500.
L a storiografia contemporanea ha dedicato
ben poco spazio al ruolo e alla fisionomia
dei « tecnici », ai caratteri e significati del
loro presunto o effettivo potere. Ben ven­
gano quindi le testimonianze degli stessi
tecnici ad illuminare, anche se il più delle
volte inconsapevolmente, questa ambigua
materia, rinsanguando la storiografia me­
morialistica del dopoguerra monopolizzata,
com’era del resto naturale, dai politici. È
il caso di Vittorio Ronchi, personaggio
non secondario dell’agricoltura italiana, le
cui vicende appaiono per molti versi em­
blematiche anche nella loro particolarità.
Interventista democratico, nell’immediato
primo dopoguerra egli visse a stretto con­
tatto con il gruppo veneziano di Democra­
zia sociale raccoltosi attorno a Silvio Trentin. M a ciò che appare come più interes­
sante nella sua militanza non è l’attività
politica in sé, quanto la trasposizione in
campo agronomico ed economico-agrario dei
professati ideali di democrazia laica e
di « mazzinianesimo risorgimentale ». Egli
stesso, in una commemorazione di Silvio
Trentin, ricorda come tra i tecnici agrari
« democratici » la bonifica apparisse non
solo la redenzione dal disordine idraulico,
dall’arretratezza fondiaria ed agraria, dalla
miseria e dalla malaria, ma anche l’unica
risposta praticabile — in una prospettiva di
evoluzionismo pacifico e senza condiscen­
denze alle « facilonerie rivoluzionarie » —
da far seguire alle promesse di terra e di
vita migliore fatte ai contadini durante la
guerra.
Sono già evidenti, mi pare, tutti gli ele­
menti suscettibili di trasformazioni in sen­
so tecnocratico, ossia di un progressivo
spodestamento della funzione politica da
parte di quella tecnica. Durante il fasci­
smo, pur con qualche inconveniente non
lieve, è sempre la competenza tecnica a
ritagliare a Ronchi uno spazio ed un’au­
tonomia non irrilevanti, prima come di­
rettore dell’Ente di rinascita agraria delle
Venezie dal 1921 al 1930, e poi come
ispettore compartimentale del ministero
dell’Agricoltura per le Tre Venezie. Allo
scoppio del secondo conflitto mondiale
Ronchi fu nominato direttore generale del­
l’Alimentazione e rimase a capo di tali
servizi, con sempre maggiori responsabi­
lità, fino al 1950.
Il libro è la trattazione diaristica, onesta­
mente apologetica, della politica alimentare
condotta da Ronchi e dai governi succe­
dutisi nel decennio: ma esso è anche un
esempio concreto e circostanziato, non ge­
nerico e polemico, di come si operò real­
mente la saldatura tra fascismo e dopo­
guerra, quali furono i connotati della si­
lenziosa ma vigorosa continuità realizzata­
si in certi settori dello stato e in certi
elementi del personale dirigente per l’ap­
punto « tecnico ».
Il racconto delle vicende personali e dei
« suoi » servizi si intreccia alla descrizione
dei loro meccanismi interni, del loro svi­
luppo e della loro crisi. Sullo sfondo inol­
tre, nei ricordi di Ronchi ritorna frequen­
temente la Maccarese SpA, la grande azien­
da agricola dell’IR I che egli diresse per
tutto il decennio.
È molto difficile entrare nel merito della
politica alimentare svolta dal Ronchi, di­
stribuire torti e ragioni, o stabilire se si
poteva — o doveva — operare diversamen­
te: qui è preferibile soffermarsi invece su
alcuni altri punti del libro che mi paiono
particolarmente interessanti perché illumi­
nano passaggi emblematici di tutta una
condizione e un’ideologia.
L ’assoluta impreparazione dell’Italia all’en­
Rassegna bibliografica
trata in guerra è efficacemente riassunta
nella descrizione dell’elenfantiasi corpora­
tiva, con il suo complicato sistema di Servi­
zi e di Uffici distribuiti, con poteri sostan­
zialmente analoghi, tra numerosi ministeri
e contornati da Commissioni di coordina­
mento altrettanto impotenti.
Da tanta « confusione » di poteri Ronchi
riesce a trarre un servizio dotato di suffi­
ciente unità organizzativa e funzionalità operativa: a questo proposito sono interes­
santi i pochi accenni che egli dedica ai pro­
pri « spericolati » sistemi di reclutamento
e assunzione del personale dirigente, scar­
tando a priori proprio gli uomini dei mini­
steri e cercando nelle università e negli
organismi locali gli uomini ritenuti adatti
per competenze tecniche, fedeltà, abnega­
zione e disinteresse.
Il contrasto con il committente politico è
ricorrente: se ne ricava l’immagine di un
partito fascista composto di « fanatici » ot­
tusi, privi di ogni senso politico come delle
più elementari cognizioni di politica eco­
nomica, irosamente protesi a spezzar le
reni a bottegai e contadini nel tentativo
di imporre prezzi politici ai generi alimen­
tari e di sconfiggere la speculazione con
l’unico ausilio delle misure repressive.
L ’ortodossia liberista del Ronchi, che co­
munque non gli impedirà di battersi nel
dopoguerra per la sopravvivenza di una
politica alimentare statale e della relativa
organizzazione di controllo delle disponibi­
lità e delle riserve — registra con fastidio,
e direi con disprezzo, questa intrusione po­
litica così rozzamente antieconomica e cie­
camente poliziesca.
I primi anni di guerra sono segnati dal ri­
corrente « incubo » della saldatura grana­
ria, avvenuta spesso in condizioni di peri­
colosa emergenza. Nonostante la congiun­
tura favorevole e i buoni raccolti del qua­
driennio 1940-1943, gravissimi erano i pro­
blemi aperti dalla quasi assoluta mancan­
za di riserve, dall’inarrestabile e progressivo
calo delle disponibilità, dal blocco delle
importazioni, dai difficili rifornimenti che
pure era necessario garantire al sud e alle
terre invase. Una brevissima nota che l’au­
tore dedica a quest’ultimo punto mi pare
degna d’essere ripresa: nella Grecia oc­
cupata l’improvvisa scomparsa dei beni ali­
mentari fondamentali, pur presenti, fu ri­
solta, riferisce il Ronchi, con una manovra
di stretta creditizia « antispeculativa » so­
stanzialmente identica a quella che nel
1947 fu applicata all’Italia da Einaudi e
Menichella. Di ambedue questi provvedi­
123
menti il Ronchi si dimostra fiero sosteni­
tore. A l di là del dato macroscopico ma
approssimativo della continuità di certi in­
dirizzi di politica economica, appare più
suggestiva l’ipotesi — tutta da verificare
— della guerra e della colonizzazione bel­
lica come « terreno sperimentale » per al­
cuni particolari interventi economici.
L ’8 settembre risolse automaticamente mol­
ti dei problemi alimentari, — sganciando il
sud affamato dal più ricco nord, nonostante
tutto ancora in grado di auto approvvigio­
narsi — , ma non li risolve certo al Ronchi,
che nel periodo a cavallo dell’armistizio
subì gli attacchi più duri e corse i rischi
maggiori. Con la Repubblica di Salò il
ministero e la Direzione generale furono
trasferiti a Treviso. Per non compromet­
tersi con il nuovo governo fascista e con
i tedeschi che ne tiravano le fila, il Ronchi,
cercando di « rendersi inutile », mise in
atto una lunga manovra di sganciamento
che comunque lo costrinse a trasferirsi al
nord in condizioni di esilio forzato. Tale
manovra prevedeva la ristrutturazione e il
drastico ridimensionamento del servizio e,
in pratica, il passaggio delle consegne a Pao­
lo Albertario, suo diretto collaboratore, e
anch’egli figura di grande rilievo nel pano­
rama dei tecnici agrari.
I passaggi più interessanti rimangono le
grandi cesure storiche e politiche quali ap­
punto l’8 settembre, il 25 aprile e la se­
guente normalizzazione, il 18 aprile e il
consolidamento del potere democristiano.
II fascismo aveva collocato il tecnico in un
ambito apparentemente neutro, politicamente semplificato e compatto, dove la sua
ideologia poteva divenire proprio la sotto­
valutazione e l’accantonamento nel « par­
ticolare » di ogni ideologia; con la fine del­
la guerra non è più possibile sfuggire ad
una autodefinizione sia in senso politico
che culturale. Qui emergono nitidamente
i veri significati e contorni dell’antifasci­
smo, dell ’indipendenza, del riformismo del
tecnico, in stretta relazione con le sue con­
vinzioni di teoria e politica economica. Si­
gnificativamente è il Pd’A , atraverso una
filiale della Banca commerciale, a mettersi
in contatto con il Ronchi allo scopo di
« assicurare i servizi nel momento del tra­
passo » : a Milano ancora si sparava ed egli
era già reinserito, come tecnico, a capo dei
servizi dell’alimentazione. Collaboratore del­
la Commissione centrale economica del
C LN A I e in breve tempo assumerà le fun­
zioni di responsabile di tutti i servizi agra­
ri e dell’alimentazione del nord oltre che
124
Rassegna bibliografica
di commissario per l’alimentazione della
Lombardia.
Nelle sue mani riesplodono i nuovi dram­
matici problemi alimentari che soprattut­
to rendono ardua e dolorosa la « riunifica­
zione » tra nord e sud ma contemporanea­
mente esplodono le preoccupazioni per il
« prevalere delle forze estremiste » e con­
tinui sono i riferimenti all’incertezza del
quadro politico. Con le elezioni del 1946
e la formazione del nuovo governo la scel­
ta del campo politico si fa più urgente: il
Pd’A, giudicato ormai una «B ab e le », è
uscito distrutto dallo scontro e non offre più
alcuna copertura ai progetti di riforma agraria elaborati dal Ronchi nel 1944-45 e
discussi all’interno del partito. Ma qui
l’autore è particolarmente avaro di noti­
zie, e non sappiamo quali furono gli esiti
di tale dibattito. Il Ronchi si definisce cri­
stiano e come tale gli parrebbe naturale
scegliere la DC, ma la fedeltà ai « principi
democratico-sociali di Giuseppe Mazzini »
lo ha reso ostile ad ogni « inframmittenza
clericale » ; inoltre egli teme di rimanere
prigioniero dei partiti di massa. Tutto ciò
lo condurrà a rinunciare alla candidatura
al Parlamento offertagli dalla DC per le
elezioni del 1948.
I giudizi politici del Ronchi appaiono so­
stanzialmente sommari, frutto di un uni­
verso politico elementare, di « buon sen­
so comune», dove i governi degasperiani
monocolore sono preferibili perché « tec­
nicamente » offrono maggiore spazio di ma­
novra e stabilità nel tempo; dove le oppo­
sizioni sono per definizione demagogiche
strumentali faziose disoneste o, nel mi­
gliore dei casi, disinformate; dove « i co­
munisti » presenti nei ranghi del ministero
sono « attivisti disturbatori »; dove gli aiuti
americani sono necessari insostituibili e di­
sinteressanti; dove De Gasperi è « l’uomo
della provvidenza ». Vi è qui annidato quel­
lo che Maynaud definisce un « punto ca­
pitale della mentalità tecnicistica: la cre­
denza che l’analisi e l’interpretazione ra­
zionale dei fatti siano suscettibili di pro­
vocare posizioni di unanimità almeno negli
uomini di buona volontà ». Mi pare eviden­
te, inoltre, una funzionale subalternità di
tali posizioni alle opinioni « dominanti »,
e il riscontro di maggior rilievo Io si ha
nel 1947 con la formazione del quarto go­
verno De Gasperi. Il Ronchi viene nomi­
nato alto commissiario dell’Alimentazione
(già dal 1946 il ministero dell’Alimentazione
era stato trasformato in alto commissaria­
to) e insieme ad altri uomini « al di sopra
della mischia » quali Einaudi, Merzagora,
Del Vecchio e Grassi, entra nel governo
conscio che il proprio operato da tecnico
diverrà politico. L a politica alimentare in­
fatti viene condizionata e ispirata dalla
strategia complessiva del governo: l’obiet­
tivo è il ritorno alla «n o rm a lità », da rea­
lizzarsi attraverso una politica produttivi­
stica ad oltranza « accantonando per ora
le radicali riforme che venivano solleci­
tate ».
Illuminante a questo proposito l’uso aper­
tamente elettorale della politica alimentare
concretizzatosi nei primi mesi del 1948.
« Per dare maggiore tranquillità al paese in
piena battaglia elettorale », il Ronchi con­
siderava necessario — e fruttuoso — offri­
re la dimostrazione « che il governo ha
mantenuto le sue promesse migliorando la
qualità del pane e assicurando dovunque
i generi da minestra. Soffrire gennaio e
febbraio per dare poi respiro all’inizio del­
la primavera [...] ». Più in generale, co­
munque, l’obiettivo perseguito negli ulti­
mi anni quaranta è la saturazione del fab­
bisogno alimentare e in primo luogo del
mercato granario attraverso massicce im­
portazioni dagli Stati Uniti e dall’Argen­
tina. Oltre ad effettuare quindi numerose
missioni nelle due Americhe, in questo
periodo il Ronchi torna ad occuparsi del­
la riforma agraria su invito dello stesso
De Gasperi. Su questo terreno avverrà,
invece, lo scontro diretto tra le istanze
tecnocratiche del Ronchi e la complessa
politica del gruppo di potere democristia­
no, rappresentato in questo frangente da
Antonio Segni. Il disaccordo è profondo:
difendendo la propria autonomia il Ronchi
denuncia addirittura, in una lettera a De
Gasperi dell’aprile 1949, « l’incredibile pre­
tesa dell’entourage del ministro Segni » di
ridurre al silenzio il « Giornale di agricol­
tura » da lui diretto, che spesso aveva ospitato voci di critica sistematica agli « er­
rori ed alle inattività nella politica agra­
ria ».
Purtroppo il Ronchi non dedica molto spa­
zio alla questione della riforma agraria e
soprattutto alle forze che si muovevano die­
tro ad essa nel composito fronte agrario:
il suo progetto, che allora fu giudicato
conservatore e « di fronda » all’interno del
governo, mi pare comunque riassumibile
in un disegno « serpieriano » di ristruttu­
razione agricola di lungo periodo in chiave
produttivistica, di necessità legata ad un
grande rilancio della bonifica e soprattutto
all’introduzione di nuove tecnologie. In al­
Rassegna bigliografica
tre parole il progresso tecnologico, per il
Ronchi unico reale « motore » per lo svi­
luppo delle condizioni di vita e di lavoro
delle popolazioni agricole, viene contrap­
posto alle forme di redistribuzione della pro­
prietà e di trasformazione « politica » de­
gli equilibri economici e di classe nelle
campagne.
Carlo Fumian
muto revelli ,
Il mondo dei vinti. Testimo­
nianze di vita contadina, 2 voli., Torino, E i­
naudi, 1977, pp. CXVII-167; 252, lire 7.000.
Non si contano più i testi che hanno a f­
frontato in diverse prospettive disciplinari
il problema degli effetti dell’industrializza­
zione nelle campagne. Su di esso esiste or­
mai un’ampia letteratura che ha prodotto
ipotesi, elaborato modelli, raccolto dati nei
differenti contesti nazionali al fine di chia­
rire la dinamica di un processo dalle cui
modalità di attuazione dipende, in larga
misura, l’assetto socio-economico, politico
e culturale della società urbano-industriale
nelle sue concrete specificazioni.
Di tale processo, il mondo contadino è
stato sovente considerato — in maniera
più o meno esplicita — come il soggetto
passivo e questa passività spiegata mediante
il ricorso alla nozione di « cultura » con­
tadina, intesa genericamente come insieme
di valori e di comportamenti non congruen­
ti con quelli della società industriale e, in
quanto tali, valutati negativamente ai fini
dello sviluppo e di una più razionale uti­
lizzazione delle risorse.
Tra le ricerche che contribuiscono a sve­
lare la natura ideologica — in quanto ra­
zionalizzazione e non spiegazione della sto­
ria accaduta — di simile approccio ci pare
vada collocata quella di Nuto Revelli sui
contadini delle zone depresse del cuneese,
su quella parte dei contadini che il cosid­
detto sviluppo ha immiserito, emarginato,
condannato ad una lenta inesorabile estin­
zione.
Revelli conosce bene i contadini del cu­
neese: è nato tra loro, ha fatto con loro
la campagna di Russia, ha vissuto con loro
l’esperienza determinante della Resisten­
za. Eppure ciò che colpisce innanzi tutto
nella sua faticosa quanto paziente opera di
documenazione è la straordinaria umiltà,
propria soltanto di chi vuole realmente ca­
pire, con cui si avvicina al loro mondo.
Capire che cosa? In primo luogo le ragioni
di quella passività, di quella rassegnazione
125
che, imputate al contadino povero come una
colpa, sono invece il risultato di meccanismi
sociali che ne hanno fatto l’oggetto di una
storia scritta non per lui ma contro di lui.
Di questi meccanismi Revelli non si occupa
che marginalmente. Altri li hanno analiz­
zati fornendo gli strumenti teorici per co­
noscerne il modo di funzionamento. Ciò che
10 interessa soprattutto è ascoltare dalla vo­
ce dei <vinti > come tali meccanismi sono
stati percepiti e vissuti, con quale grado
di consapevolezza, e quali le forme di resi­
stenza adottate. Di qui il metodo seguito,
che è quello della registrazione di testimo­
nianze dirette (270 della durata media di
tre ore, di cui 85 pubblicate) raccolte tra
individui prevalentemente vecchi (« i miei
interlocutori più validi [...] perché san­
no »), sui temi di fondo del « lavoro, l’emi­
grazione, la < grande guerra >, l’avvento del
fascismo nelle campagne, il <ventennio),
la seconda guerra mondiale, la pagina partigiana, il dopo liberazione, il mondo con­
tadino di ieri e di oggi ».
11 materiale che ne esce è talmente ampio
che non è possibile neppure tentarne un
resoconto: lo stesso Revelli, del resto non
ne ha dato una sistemazione. D a quei temi
di fondo, infatti, il discorso esce sovente
e si allarga in modo tale da fornirci dati
di notevole interesse etnologico su usanze,
credenze, pratiche magiche, giochi, espres­
sioni dialettali ormai dimenticati e di cui
i vecchi — come quelli intervistati da R e­
velli — sono gli ultimi depositari.
Per accennare ad alcuni filoni, di impor­
tanza decisiva per comprendere l’atteg­
giamento della maggioranza dei contadini
poveri rispetto ad eventi importanti della
storia nazionale ci paiono le testimonianze
sulla grande guerra, non voluta, non sen­
tita, rifuggita mediante il ricorso a pra­
tiche autolesionistiche o alla diserzione, ep­
pure pagata in prima persona con centinaia
di migliaia di morti. È verosimile che,
laddove non è maturata una coscienza del
proprio ruolo di sfruttati, questa esperien­
za abbia segnato per più di una genera­
zione di contadini poveri il definitivo allon­
tanamento dalla politica, vissuta come un
mondo estraneo ostile, tradottosi in defi­
nitiva nel sostegno alle forze della con­
servazione attraverso la mediazione del cle­
ro. È il clero, infatti, che emerge come
l’unica forza in grado di controllare le mas­
se contadine e di impedire ogni processo di
emancipazione politica e culturale.
Sui temi del fascismo, della seconda guerra
mondiale, della Resistenza e della guerra
126
Rassegna bibliografica
di liberazione, sulle vicende dell’immediato dopoguerra l’attenzione di Revelli si fa
sofferta. L ’esito del referedum istituzionale
favorevole alla monarchia e l’instaurarsi
dell’egemonia incontrastata della DC nelle
campagne del cuneese, che pure avevano
assistito in modo non ostile e in molti casi
attivamente partecipe alla lotta partigiana,
bruciano ancora come una sconfìtta di cui
occorre rimuovere le cause. M a per rimuo­
verle occorre conoscerle e attraverso i
lunghi colloqui si rivelano essere quelle di
sempre: la miseria, l’isolamento, l’ignoran­
za, lo sfruttamento, l’inganno di promesse
mai mantenute che generano sfiducia nel­
la possibilità di poter mai giungere a mu­
tare il corso delle cose.
L e conclusioni, dunque, non aggiungono
molto a ciò che già si conosce circa le
cause strutturali del fenomeno analizza­
to. Il contributo di Revelli ci pare vada
ricercato in due altre direzioni: la prima,
di natura più immediatamente politica ed
esplicitata nell’Introduzione consiste nell’aver voluto far parlare « gli emarginati di
sempre, i «sordom uti), i sopravvissuti al
grande genocidio, come parlerebbero in una
vera democrazia », nella speranza che ciò
contribuisca a far prendere coscienza del­
le dimensioni catastrofiche, per le popola­
zioni coinvolte a breve termine e per
l’intera collettività a lungo termine, del­
l’abbandono delle campagne. L a seconda,
di carattere scientifico-metodologico, è quel­
la di riproporre il problema dell’utilizza­
zione del materiale autobiografico nelle
scienze sociali, al fine di indagare le com­
plesse relazioni che intercorrono tra strut­
ture sociali, cultura e personalità. Il mate­
riale raccolto, tanto dal punto di vista quan­
titativo che da quello qualitativo, offre
un’occasione per farlo che è sperabile non
vada perduta.
Edda Saccomani
Emigrazione
angelo f ilipp u z z i , 11 dibattito sull’emigra­
zione. Polemiche nazionali e stampa veneta
(1861-1914), Firenze, L e Monnier, 1976,
pp. XXXVII 421, lire 9.500.
Il volume del Filippuzzi non vuole essere
una puntuale ricostruzione di un momento
non secondario del dibattito politico ed
economico nell’Italia unita sino alla pri­
ma guerra mondiale: è piuttosto, come
egli stesso tiene a sottolineare nella intro­
duzione, una raccolta di testimonianze,
una raccolta di materiali che compongono
una traccia di storia dei primi cinquant’anni
postunitari sviluppata intorno al tema del­
l’emigrazione. È pertanto entro il quadro
che il lavoro del Filippuzzi si è proposto
e non muovendo da altre premesse che
ne vanno apprezzate e valutate l’utilità
e la rispondenza al compito propostosi. L a
traccia proposta dal Filippuzzi segue lo svi­
luppo del dibattito sull’emigrazione sotto
un profilo molto particolare: l’attenzione
alla tutela dell’emigrante, attraverso l’iter
legislativo culminante nella legge del 1901
e nei miglioramenti apportati nell’età giolittiana. L ’avere accostato ai materiali del
dibattito a livello nazionale (brani dal di­
battito parlamentare, da inchieste ufficiali,
dalla stampa e da opere di studiosi del pro­
blema) larghi stralci dalla stampa veneta,
ossia di una delle regioni più direttamente
coinvolte nel processo migratorio, non è
certo un fatto arbitrario ma l’apertura su
un campione di verifica della problema­
tica generale singolarmente significativo.
E tuttavia, detto questo, il libro suscita più
di una osservazione critica.
L a più importante ci pare questa: nel com­
plesso, nonostante non manchino i testi
che stanno a significare come all’origine
dell’emigrazione non vi sia stata soltanto
una generica arretratezza o insufficienza
della struttura economica italiana ad as­
sorbire un’eccedenza demografica ma che
inducono piuttosto a porsi il proble­
ma dell’emigrazione come scelta politi­
ca delle classi dirigenti postunitarie —
esemplari mi paiono in questo senso i due
testi di Sidney Sonnino, il primo del 1879
sui benefici dell’emigrazione (pp. 98 sgg.),
il secondo del 1883, al quale lo stesso F i­
lippuzzi ha premesso il titolo « L ’emigra­
zione: valvola di sicurezza per la pace so­
ciale » (p. 131) — , il libro privilegia i testi
che si pongono essenzialmente la tematica
della tutela dell’emigrazione. Si tratta di
una tematica certamente importante, se
si tiene presente anche la qualità della for­
za-lavoro espulsa dall’Italia, a differenza
di quella più qualificata trasferitasi oltre
oceano per esempio dalla Germania e
forse, anche dalla stessa Polonia nel mede­
simo periodo. M a è una tematica che dà
praticamente per scontata la fatalità del­
l’emigrazione, che non si sofferma sulle ra­
gioni dell’emigrazione, come parte di un
dibattito sullo sviluppo economico del pae­
Rassegna bibliografica
se. Non si tratta evidentemente di conte­
stare la legittimità dell’angolatura scelta
dall’A. ma di segnalarne i limiti. Più che
le cause di fondo il libro approfondisce
quindi talune delle conseguenze dell’emi­
grazione, con particolare sensibilità per la
realtà culturale rappresentata dall’emigran­
te italiano, che come ben dice il Filippuzzi in talune situazioni del continente ame­
ricano finiva per prendere il posto dello
schiavo appena liberato (p. XVI). Ed è
sempre la condizione di « miserabile » del­
l’emigrante italiano che induce l’A . a
sottolineare la piaga dei sensali, degli agen­
ti e dei subagenti sfruttatori della forzalavoro cacciata dalle campagne e dallo
sviluppo economico in patria.
Anche in questo quadro riteniamo comun­
que che sarebbe stato possibile offrire una
maggiore problematicità e un maggiore
ventaglio di posizioni. Proprio la stampa
veneta, e in particolare quella friuliana, è
ricca di testimonianze di parte clericale
ispirate da preoccupazioni di ordine pub­
blico, anche al di là di quanto prodotto
in questa raccolta: forse la distinzione tra
emigrazione permanente ed emigrazione
temporanea avrebbe contribuito a dare
un’idea più adeguata delle preoccupazioni
che la circolazione degli emigranti suscitò
nella chiesa cattolica, preoccupazioni che
andavano dall’invettiva contro il decadi­
mento dei costumi alla paura dell’importa­
zione di idee sovversive dall’esterno. E d’al­
tra parte scarsamente presente ci sembra
nello stesso dibattito nazionale la voce del
movimento operaio e inesplicabile appare
una frase come questa posta in nota a un
testo di Cavallotti: « [...] d ’altra parte
democratici, socialisti e radicali non erano
allora nello stato d’animo più propizio per
valutare serenamente il problema dell’emi­
grazione » (p. 227 nota). M a perché mai?
Almeno una spiegazione sarebbe stata neces­
saria. E ra forse più sereno Ruggero Bon­
ghi che quale presidente della Società Dan­
te Alighieri non poteva lanciare agli emi­
granti altro messaggio che quello retorico
contenuto in una promessa notoriamente
poco onorata nei fatti: « [...] noi dob­
biamo difendere nel cuor loro la civiltà
e il carattere italiano, e ostinarli a rima­
nerne i rappresentanti dinanzi a tutti e
contro tutti » (p. 221). Tra le testimo­
nianze sulla condizione dell’emigrante sor­
prende di non trovare alcuna citazione da
uno dei maggiori organizzatore dei lavora­
tori italiani all’estero, Giacinto Menotti
Serrati. Ebbene, i suoi scritti sulla stampa
127
operaia furono tra le denunce più sferzan­
ti dell’inefficienza o del disinteresse delle
autorità italiane all’estero dei confronti de­
gli emigranti. Proprio in uno scritto del
1908 intitolato U m a n it a r ia , D a n t e A lig h ie ­
r i e e m ig r a z io n e , in polemica con fi suo
compagno di partito Angiolo Cabrini, nel
trarre un bilancio dei mezzi di tutela del­
l’emigrante, Serrati arrivava a questa si­
gnificativa conclusione: « Con buona tua
pace, e nonostante i tuoi amichevoli con­
sigli, noi continueremo a sostenere che solo
nella organizzazione di classe è la prote­
zione dell’emigrante italiano e che solo
il sindacato di mestiere e la sezione socia­
lista possono offrirgli il mezzo del suo
elevamento materiale, morale e intellettua­
le ». Abbiamo citato null’altro che un esem­
pio di un tipo di voci che a nostro avviso
avrebbero offerto un’immagine più ricca
del dibattito sull’emigrazione e suscitato
l’approfondimento in direzioni qui soltan­
to marginalmente indicate.
Enzo Collotti
EMILIO franzina , L a g r a n d e e m ig r a z io n e .
L ’e s o d o d e i r u r a l i d a l V e n e t o d u r a n t e il
s e c o lo
X IX ,
Venezia-Padova, Marsilio,
1976, pp. 314, lire 7.800.
Il numero molto limitato di studi storici
pubblicati nel dopoguerra sul tema della emigrazione italiana, si spiega in parte con
la difficoltà di definire con precisione l’og­
getto e i criteri metodologici della ricerca.
Il volume di Franzina non vuole essere una
« storia degli italiani all’estero ». Si pone
piuttosto l’obiettivo di analizzare il feno­
meno migratorio « nel contesto di un di­
scorso che riguarda i modi e i tempi della
transizione del nostro paese da uno stadio
agricolo e preindustriale a uno stadio di
relativa e del tutto specifica maturità ca­
pitalistica » (p. 16). Contemporaneamente
l’autore vuole tentare una ricostruzione del­
l’esodo di massa come « capitolo di storia
delle classi subalterne ».
L ’ambito della ricerca è circoscritto ad
un’area, la regione veneta, da cui negli
anni tra il 1876 e il 1901 (al centro del la­
voro di Franzina) proviene circa un terzo
della emigrazione italiana.
Nella prima parte del libro (E c o n o m i a e
s o c i e t à r u r a le n e l l ’a r e a d i p a r t e n z a ) la scel­
ta di studiare in primo luogo i meccani­
smi di «esp u lsion e», che danno origine ed
alimentano i flussi migratori, induce l’au­
tore ad esaminare le caratteristiche del­
128
Rassegna bibliografica
l’economia agraria veneta tra otto e no­
vecento.
Nonostante la ricca bibliografìa citata nel­
le note e la consultazione di archivi locali,
Franzina non riesce a fornire un quadro
sufficientemente esauriente delle dimensio­
ni quantitative e qualitative dell’esodo a
livello delle singole province. M anca un’a­
nalisi dettagliata (corredata da una docu­
mentazione statistica più ampia di quella
utilizzata dall’autore) delle ripercussioni sul­
l’economia locale dell’annessione al regno
d ’Italia (eliminazione delie proprietà col­
lettive e degli usi civici, aggravi fiscali,
ecc.), della crisi agraria (indebitamenti e
confische), delle trasformazioni dell’assetto
territoriale e produttivo (bonifiche, mecca­
nizzazione, ecc.). Sono questi i nodi cen­
trali da approfondire (insieme ad una ve­
rifica dell’andamento dei redditi agricoli, in
relazione alla distribuzione della proprietà
fondiaria e ai modi di conduzione) per po­
ter individuare, area per area, i fattori che
determinano l’espulsione dei contadini dal­
le campagne e li costringono ad espatriare.
In assenza di una indagine in questa dire­
zione e di una documentazione dell’inci­
piente sviluppo industriale, che vada al di
là dell’illustrazione dell’ideologia di uomi­
ni come Alessandro Rossi, il nucleo teo­
rico del libro (l’emigrazione come elemen­
to strutturale del « modello veneto di svi­
luppo »), finisce per rimanere ancora una
ipotesi di lavoro. Del vastissimo materiale
consultato (la stampa locale veneta, le car­
te di numerosi archivi comunali, di stato
e privati, opuscoli, riviste, ecc.) Franzina
offre una lettura tesa sostanzialmente a ri­
costruire minuziosamente l’ideologia dei
« possidenti » veneti (i grandi proprietari
fondiari). Interessanti sono le sue notazioni
sulla « rifondazione della società rurale ve­
neta », sul « catonismo » (l’esaltazione del­
la piccola proprietà e della mezzadria). Si
tratta di quelle componenti del mondo agra­
rio, che si esprimono attraverso gli inter­
venti di « addetti ai lavori » e di organismi
come i Comizi agrari e che finiranno per
convertirsi al protezionismo.
L a capacità dell’autore di ricostruire e de­
scrivere l’ambiente culturale e politico del­
l’epoca si avverte in particolare nella se­
conda parte del libro (« l’esodo dei rurali
e i dibattiti sull’emigrazione e le colonie »).
Condotta sulla traccia del precedente la­
voro di F. Manzotti { L a p o le m ic a s u l l ’e m i­
g r a z io n e d e ll’I t a l i a u n it a , Milano, 1969) lo
arricchisce in una prospettiva locale. Pro­
tagonisti del dibattito sono i «p o ssid en ti»,
i cattolici, i socialisti, i teorici dell’espan­
sione demografica. A l tentativo di inserire
nella « polemica sull’emigrazione » una voce
finora inascoltata è dedicato il capitolo
« l’autonomia contadina e l’emigrazione »
(tra le fonti utilizzate vi sono lettere di
emigrati in America Latina, raccolte dal­
l’autore).
Antiemigrazionista, anche se beneficiario
insieme agli industriali della esigenza di una
sovrappopolazione agricola, si dichiara il
settore dei proprietari terrieri. L ’emigra­
zione è l’effetto « più appariscente e cla­
moroso » di uno sviluppo economico incen­
trato sulla difesa della piccola proprietà
coltivatrice e sulla localizzazione degli im­
pianti industriali nelle campagne. Si sceglie
di « condannarla e combatterla a parole »
fino al momento in cui risulterà più utile ed
efficace cercare di controllarla ed organiz­
zarla. In questa fase il compito dell’« assi­
stenza » verrà affidato ai cattolici, che ab­
bandoneranno anch’essi le pregiudiziali antiemigrazioniste.
L'atteggiamento dei socialisti è incerto e
spesso subalterno rispetto alle posizioni del­
la borghesia. L e loro difficoltà, insieme alla
nascita di « utopie sociali contadine », di
speranze di un « nuovo mondo » al di là
dell'Oceano, ripropongono il problema del
rapporto tra emigrazione e lotta di classe.
Completano l’arco delle posizioni esami­
nate dall’autore, l’inventario della produ­
zione di scrittori e letterati (G. Zanella, E.
Fuà Fusinato), di un teorico dell’espansio­
ne demografica (Pacifico Valussi) e di un
propugnatore di una « nuova Italia platense » (Attilio Brunialiti). Questi ultimi
due concentrano sull’America Latina le pri­
me aspirazioni coloniali Italiane. N ei ro­
manzi del veronese Emilio Salgari Franzi­
na vede un riflesso delle « velleità e fru­
strazioni dell’Italia umbertina [...] arriva­
ta per ultima sulla scena internazionale »
(p. 278) ed esclusa dalla spartizione colo­
niale del mondo.
Meritava di essere maggiormente appro­
fondito un tema cruciale come il flusso an­
nuale di rimesse e i risparmi degli emigrati
stagionali in Sudamerica (« golondrinas »).
Esso mi pare un terreno decisivo di ricer­
ca (su cui a livello nazionale e per il pe­
riodo successivo esiste il lavoro di F . Bal­
letta, I l B a n c o d i N a p o l i e le r im e s s e d e g li
e m ig r a n t i 1 9 1 4 -1 9 2 5 , Napoli, 1972) se si
vuole capire cosa si nasconde dietro i miti
di una « p iù grande Italia al P ia ta ».
Eugenia Scarzanella
Rassegna bibliografica
DELIA CASTELNUOVO FRIGESSI, Elvezia, il tU O
governo. Operai italiani emigrati in Sviz­
zera, Torino, Einaudi, 1977, pp. CIX-473,
lire 7.000.
L ’immagine di una Svizzera « al di sopra
di ogni sospetto » è oggi aspramente conte­
stata da intellettuali che, come Jean Ziegler, hanno mostrato l’intrecciarsi, dietro
la facciata di paese democratico e « pu­
lito », di potenti interessi del mondo ban­
cario e finanziario.
li processo della Nestlé ha riacceso il di­
battito sul ruolo e il potere delle multi­
nazionali svizzere.
Questo bel libro di Delia Castelnuovo Frigessi ci ripropone, attraverso le voci degli
operai italiani immigrati nella confedera­
zione, una nuova denuncia del mito sviz­
zero. L e discussioni tra i lavoratori e le
interviste a militanti politici e sindacali de­
finiscono i contorni precisi di una dram­
matica condizione di sfruttamento.
Questi interventi sono preceduti da un
lungo e documentato saggio introduttivo
dell’autrice.
A partire dagli anni precedenti il primo
conflitto mondiale, quando la Svizzera si
afferma come paese di immigrazione (nel
1914, il 15,4 per cento della popolazione
complessiva della confederazione è com­
posto di stranieri; percentuale che sarà
di nuovo toccata alla fine degli anni ses­
santa) vengono adottate una serie di mi­
sure legislative, per regolare l’afflusso del­
la manodopera straniera. Attraverso di es­
se la classe dominante alimenta, con il
principio della « lotta contro la sovrapopolazione » (di cui si inizia a parlare nei pri­
mi anni venti) quella xenofobia che oggi
ha in Schwarzenbach e nell’Azione nazio­
nale i suoi paladini. M a queste leggi, come
osserva Delia Castelnuovo costruiscono so­
prattutto una rigida gabbia normativa fun­
zionale alla divisione della classe operaia
immigrata (speciali « s t a t u t i» , permessi di
tipo A , B, C), al mantenimento della ela­
sticità del mercato del lavoro (autorizzazio­
ni di soggiorno revocabili, possibilità di
espulsione), alla « prevenzione » delle lotte
(divieto per gli stranieri di esprimere pub­
blicamente le proprie opinioni politiche).
A partire dal 1963-64 la Svizzera imbocca
la via della «stabilizzazione», cioè della
riduzione dei nuovi flussi migratori e dell’effettivo dei lavoratori stranieri già pre­
senti nel paese. Negli anni seguenti si mo­
difica la composizione della manodopera
straniera, il governo favorisce un aumen­
129
to proporzionale delle categorie degli sta­
gionali e dei frontalieri, cioè delle cate­
gorie più deboli e senza diritti, rispetto a
quelle dei lavoratori annuali e domiciliati.
Le norme dello « statuto » degli stagionali
sono la spia impressionante di uno dei « se­
greti » dello sviluppo economico svizzero:
la possibilità di disporre di un esercito in­
dustriale di riserva, di una forza-lavoro a
basso costo (esclusa dal sistema assicurativo
e dai servizi sociali) da poter facilmente
inserire ed espellere, secondo l’andamento
congiunturale, dal processo produttivo (nel­
l’edilizia il padrone può licenziare l’ope­
raio stagionale con ventiquattro ore di
preavviso).
Un altro pilastro della stabilità del capi­
talismo svizzero è « l’istituzionalizzazione
della pace sociale tra capitale e lavoro ». R i­
sale al 1937 la convenzione tra la FOM O,
principale federazione sindacale, e il go­
verno con cui il movimento operaio rinun­
cia allo sciopero.
Il rapporto tra sindacati svizzeri e classe
operaia immigrata è, per questa ragione,
molto difficile: nelle interviste ai lavora­
tori italiani emerge costantemente la sfi­
ducia e la diffidenza verso le organizzazio­
ni operaie. L a crisi economica e l’attacco
all’accupazione sembrano però spingere ora
il sindacato a tener conto delle rivendica­
zioni della base.
Alla ripresa del movimento operaio multi­
nazionale è dedicata l’ultima parte del li­
bro. Attraverso le testimonianze dei prota­
gonisti ne sono ripercorse le tappe: dallo
sciopero della Murer (un’impresa di co­
struzioni, che impiegava 200 operai spa­
gnoli) nel 1970 a quello della M atisa (im­
presa metallurgica) nel 1976. Attraverso
queste lotte si sta faticosamente (« Siamo
quattro lingue. Io non posso lottare », dice
uno stagionale calabrese) cementando l’uni­
tà tra operai svizzeri, italiani, spagnoli,
portoghesi, jugoslavi, turchi e greci.
Il saggio introduttivo di Delia Castelnuovo
affronta efficacemente, insieme a questi
ora accennati, altri temi: il significato e
le contraddizioni delle iniziative xenofobe;
l’esportazione della disoccupazione nei mo­
menti di crisi e l’atteggiamento subalterno
e complice del governo italiano; i problemi
dell’integrazione forzata; l’attività dei par­
titi e dei sindacati italiani e delle organiz­
zazioni dell’emigrazione.
Sono gli stessi problemi discussi nelle inter­
viste agli operai. In esse si misura tutto lo
spessore delle difficoltà di ricomposizione
di una classe divisa, ricattata e discrimi­
130
Rassegna bibliografica
nata. Contemporaneamente emerge l ’impor­
tanza delle sue lotte (che non sono lotte
di marginali o sottoproletari) in un paese,
che, non diversamente dalla Germania, ve­
de accanto alla repressione dell’iniziativa
operaia lo svuotamento delle istituzioni de­
mocratiche.
Eugenia Scarzanella
Movimento contadino
e questione meridionale
g . fisso re , g . meinardi, L a questione meri­
dionale, Torino, Loescher, 1976, pp. 288,
lire 2.850.
L ’antologia L a questione meridionale di
Fissore c Meinardi tenta di porsi in manie­
ra nuova rispetto alla prevalente produzione
bibliografica del settore; l’analisi, infatti, è
condotta fino ai nostri giorni, agli anni
settanta, alle rivolte di Reggio Calabria e
di Eboli superando un atteggiamento, pre­
valente nel filone meridionalista, che in­
duce a « storicizzare » tale problematica
giungendo, nel migliore dei casi, alla poli­
tica dei « poli di sviluppo » degli anni ses­
santa.
Interessanti sono i criteri con cui sono
stati scelti i brani da riportare; accanto alle
fonti ufficiali (statistiche, atti parlamenta­
ri, ecc.) ampio rilievo viene dato alle po­
sizioni dei partiti di sinistra, con un atten­
to sforzo, però, a ripercorrere il cammino
difficile e non sempre lineare della elabo­
razione di una strategia per il mezzogiorno
da parte delle forze di sinistra. Di volta in
volta quindi si riporta il dibattito sulla que­
stione meridionale sviluppatosi nel PSI agli
inizi del ’900, si dà ampio spazio all’elabo­
razione gramsciana, si analizzano le tesi
comuniste sulla riforma agraria nel secondo
dopoguerra, si propone il giudizio di G.
Amendola sul ruolo del mezzogiorno nel
ciclo di lotte operaie del 1968-69 contempo­
raneamente all’analisi formulata dalla «nuo­
va sinistra » sulle rivolte di Reggio Calabria
e di Eboli.
Oltre a questo tipo di documentazione si
utilizzano fonti giornalistiche ed una cer­
ta attenzione è rivolta agli atteggiamenti
culturali determinatisi verso il mezzogior­
no, siano essi pregiudizi e luoghi comuni
oppure schemi ideologici con una pretesa
base «scien tifica». A ssai incisivo, in tal
senso, è il brano Una razza inferiore di
Niceforo che offre agli autori lo spunto per
una puntuale analisi sulle tesi positivistiche antropologiche:
« Irrimediabilmente
prive di qualsiasi base scientifica, pur nella
loro pretesa scientificità queste teorie svol­
sero di fatto la funzione di deviare il di­
battito sul problema meridionale
In­
fatti i concetti di sfruttamento e squilibrio
svaniscono; la natura dei rapporti sociali
viene trascurata, il sottosviluppo ridotto a
fenomeno naturale (l’inferiorità razziale)
non modificabile, e solo lentamente grazie
all’intervento « civilizzatore » del progre­
dito settentrione » (p. 278).
Per le caratteristiche accennate l’antologia
appare fruibile non soltanto da un ristret­
to pubblico di specialisti, ma suscettibile
di un’utilizzazione molto più ampia, in par­
ticolare di tipo didattico.
L ’analisi della questione meridionale viene
condotta sulla base di una periodizzazione
temporale (1860-1887; 1887-1915; 1915-1945;
1945-1975) che trova la sua ragione d ’esse­
re nelle differenti articolazioni con cui si
determina il rapporto tra sottosviluppo me­
ridionale, sviluppo economico nazionale ed
equilibri politici del paese.
Precisa è la definizione della fase storica
in cui si viene a costituire la « questione
m eridionale»; essa si fa risalire all’unifi­
cazione del 1860 chiudendo rapidamente
con una vivace polemica storiografica aper­
tasi tra coloro che attribuiscono al perio­
do borbonico la matrice dell’arretratezza
del sud dopo l’Unità e quanti invece, al
contrario, pensano che il mezzogiorno giun­
se al 1860 in floride condizioni produttive
deterioratesi successivamente. « Anche se
un certo divario di sviluppo preesisteva al­
l’unificazione, e soltanto dopo di essa che
nasce « la questione meridionale » nel sen­
so che da allora il sud giocò un ruolo su­
bordinato nel processo di sviluppo capita­
listico » (p. 28).
In quest’ottica vengono proposti numerosi
brani sul brigantaggio meridionale, di cui
si evidenzia il carattere sociale, coordinati
a quelli sulle condizioni economiche dei
contadini tratti dalle inchieste di Franchetti e Sonnino. Circa il periodo successivo
se è vero che si analizzano le conseguenze
delia politica protezionistica governativa
sull’economia, l’accento viene posto prin­
cipalmente sugli aspetti sociali e politici.
Si evidenziano gli elementi di continuità
della condotta governativa verso il mezzo­
giorno « L ’epoca giolittiana si espresse nel
mezzogiorno in linea con l’età precedente
con la repressione dei moti di classe, con
l’emarginazione della partecipazione alla vi­
Rassegna bibliografica
ta politica del paese [...] » (p. 67).
M a si evidenziano anche gli aspetti nuovi,
propri di questa fase della questione meri­
dionale; in particolare gli autori si soffer­
mano sul ruolo dell’emigrazione, quale
« scelta obbligata » contro la miseria e la
degradazione sociale, e sottolineano l’im­
portanza dei primi tentativi di organizza­
zione di classe delle popolazioni meridionali.
In rapporto a quest’ultimo elemento si svi­
luppa l’analisi del Partito socialista che
pone in rilievo come la politica riformista
da esso condotta fosse in contraddizione
con le istanze espresse dai moti contadini
meridionali che si esprimevano attraverso
forme di lotta spontanee e violente, ri­
manendo di fatto prive di direzione poli­
tica. Numerosi brani, che riportano sia le
analisi del PSI che la polemica salveminiana, confermano tale giudizio storico.
Il rapporto tra mezzogiorno e storia d’Ita­
lia assume caratteristiche parzialmente di­
verse in un momento di crisi dell’intero si­
stema capitalistico e di apertura verso
differenti soluzioni capitalistiche come fu
quello del primo dopoguerra. Il movimen­
to di classe si espresse nel sud attraverso
le occupazioni di terra dei contadini e le
agitazioni popolari contro il carovita.
Viene rilevato come non si verificasse un
processo di saldatura tra lotte operaie del
nord e moti contadini e popolari del sud;
bisognerà attendere l’elaborazione gram­
sciana per avere un’adeguata analisi poli­
tica. Inoltre chiara appare l’incapacità del
Partito socialista massimalista di saper co­
gliere « quanto di rivoluzionario vi era nel
nuovo rapporto che le classi oppresse ve­
nivano ad impostare per la soddisfazione
dei loro bisogni» (p. 131).
Rispetto al ventennio fascista l’analisi si
fa più sommaria e risente della carenza di
una sistematizzazione storiografica del rap­
porto fascismo-mezzogiorno. D a approfon­
dire sembra infatti il giudizio che viene
dato: « la stagnazione economica in agri­
coltura per la conservazione sociale ad un
livello arretrato fu il compromesso poli­
tico sostanziale del fascismo » (p. 137),
anche in rapporto ad alcune conseguenze
che da esso scaturiscono « L a scelta del
regime privilegiò la classe più vincolata
all’immobilismo della struttura sociale. L a
lotta contro la mafia fu infatti dura ed in­
transigente e portò in carcere centinaia
di gabellotti, cioè gli agenti economici più
dinamici ed eterogenei del capitalismo in­
sulare » (p 137).
Circa l’ultimo trentennio, significativa­
131
mente intitolato 1945-1975: i nuovi ter­
mini della questione meridionale, l’antolo­
gia illustra un insieme di aspetti e proble­
matiche acquisite dalla storiografia di que­
sto periodo (caratteristiche delle lotte con­
tadine nel secondo dopoguerra, ruolo del­
la Cassa per il mezzogiorno, politica dei
poli di sviluppo, ecc.) evidenziando, quale
giudizio conclusivo, che il sottosviluppo
del sud non soltanto è ben lontano dall’es­
sere risolto, ma, anzi, viene aggravato dall’acutizzarsi delle contraddizioni capitali­
stiche degli anni settanta. Il processo di
organizzazione e ricomposizione di classe
dei ceti popolari meridionali può avanzare
soltanto nella misura in cui esso si salda
con le istanze operaie espresse su scala
nazionale, in particolare con i contenuti
emersi dal ciclo di lotte operaie del 196869 e con i nuovi equilibri politico-istitu­
zionali di questi anni settanta. L e conclu­
sioni a cui pervengono gli autori sono sor­
rette da alcune considerazioni: la fine del­
le « velleità riformatrici » in seguito alla
ripresa sia della lotta di classe nel paese
che della crisi economica del 1973 che ha
comportato nel sud un drastico ridimen­
sionamento dell’intervento statale; la pos­
sibilità di rivolte popolari strumentalizza­
bili da forze reazionarie (v. Reggio Cala­
bria) anche in conseguenza dell’incapacità
di direzione politica delle forze di sinistra;
il ruolo significativo della classe operaia
meridionale « È quello di una giovane clas­
se operaia che si va rafforzando e può di­
ventare momento di aggregazione fra tan­
te forze sociali oppresse » (p. 197).
Gloria Chianese
pasquale coppola, Geografia e mezzo­
giorno, Firenze, L a Nuova Italia, 1977,
pp. 192, lire 2.500; c. caldo - F santalu cia , L a città meridionale, Firenze, L a
Nuova Italia 1977, pp. 141, lire 2.500.
Il rapporto tra indagine geografica e mez­
zogiorno viene analizzato dall’A. in base
ad una metodologia che si richiama espli­
citamente alla geografia del sottosviluppo.
L a tematica della funzionalità del sottosviluppo allo sviluppo capitalistico in un
quadro che si estende su scala internazio­
nale costituisce la premessa per un ribal­
tamento della tradizionale impostazione
dei problemi geografici « un termine, cioè,
di geografia del sottosviluppo che richiede
prospettive e strumenti interpretativi col­
legati ad una concezione e ad una stra­
132
Rassegna bibliografica
tegia sovranazionali del recupero delle di­
verse porzioni di spazio — e dei diversi
gruppi umani — a vario titolo emargi­
nati » (p. 3).
Vi è quindi un tentativo di esaminare la
problematica dell’arretratezza del sud su­
perando il divario che viene di solito trac­
ciato tra problemi specificamente geogra­
fici — ed in quanto tali considerati « na­
turali » — e quelli economico-sociali at­
traverso una ricomposizione dei due pia­
ni di indagine sulla base di una metodolo­
gia che tenta di essere marxista; l’accen­
tuazione della matrice internazionale del­
le cause del sottosviluppo meridionale im­
plica accenti polemici verso l’elaborazio­
ne gramsciana « Il recupero di un’inter­
pretazione della problematica delle regio­
ni meridionali che si fondi sul metodo
marxista, superando per necessità storica,
la stessa posizione gramsciana, s’impone
come un fatto irrinunziabile » (p. 15). Il
tentativo viene condotto su due piani:
— attraverso una rapida carrellata su
come si sono andati evolvendo gli studi
di geografia sul mezzogiorno, funzionale
a dimostrare la correlazione — e la fre­
quente subalternità — dei diversi indiriz­
zi culturali verso la politica governativa,
l’insistenza sulle cau se. « naturali » della
miseria del sud, la prolungata influenza
del positivismo, il rapporto tra geografia
e politica colonialistica, la mancanza as­
soluta di impegno meridionalista da parte
dei geografi durante il fascismo sono tutti
elementi che risultano utili per una collo­
cazione storica di tali filoni di ricerca;
— attraverso un’analisi puntuale, svilup­
pata sul piano economico — politico, di
alcuni grossi problemi che hanno sempre
fatto sentire la loro incidenza sul sud, qua­
li, ad esempio, l’assetto della rete idrica
e la carenza di energia. L ’insufficiente azio­
ne per attuare l’imbrigliamento delle ac­
que, l’accaparramento da parte delle in­
dustrie create nel sud dell’acqua disponi­
bile (10.000 litri di acqua per raffinare
una tonnellata di petrolio!), le conseguen­
ze della scelta governativa di privilegiare
le termocentrali a nafta sono tutti ele­
menti che l’A . esamina per evidenziare
i limiti storici della cosiddetta politica di
sviluppo del mezzogiorno.
Un tema particolarmente approfondito è
il ruolo del tessuto urbano nella storia del
mezzogiorno. Intanto l’istanza di un sud
cittadino viene vista come il perno di più
recenti
indirizzi
meridionali,
sensibili
agli orientamenti della scuola francese di
geografia volontaria; è il caso della rivi­
sta napoletana «N o rd e su d » , che è stata
convinta sostenitrice della politica gover­
nativa dei poli di sviluppo e delle conse­
guenti necessità di potenziamento dei centri
urbani. Il rapporto tra strutture economi­
che e l’assetto delle città viene successi­
vamente ripreso nella rassegna antologi­
ca dai saggi di R . Manheim e di E. M an­
zi.
L ’analisi della città meridionale costitui­
sce il tema di fondo del libro L a città
meridionale di C. Caldo - F. Santalucia.
Qui l’attenzione degli studiosi si indiriz­
za verso il tessuto urbano in quanto espressione più significativa della struttu­
ra economico-sociale del mezzogiorno a
partire dagli anni sessanta, dopo il dra­
stico ridimensionamento dell’agricoltura e
gli effetti delle ondate migratorie ed in
quanto luogo privilegiato delle tensioni
politiche delle popolazioni meridionali;
non a caso le lotte nel sud hanno sempre
più frequentemente un carattere cittadi­
no anche quando assumono l ’aspetto di
rivolte « incontrollate ».
Delle città nel mezzogiorno gli A. met­
tono in luce due elementi salienti: il
carattere complesso e contraddittorio del
rapporto centri urbani/provincia ed il ruo­
lo clientelare che esse svolgono nell’am­
bito del sistema politico tipicamente me­
ridionale. Il ruolo parassitario viene ana­
lizzato in tutte le sue implicazioni, sia
rispetto all’abnorme sviluppo del terzia­
rio nei centri urbani meridionali sia in
merito al rapporto città-campagna « le
città non come centri di propulsione per
la campagna [...] ma come centri paras­
siti del territorio circostante, ossia come
centri che consumano ed attraggono mer­
ci, reddito e persone senza ricambiare »
(p. 48), sia nell’individuazione della fun­
zione di centri di consumo che le città
del sud svolgono in misura sempre cre­
scente rispetto alla produzione settentrio­
nale.
Se attenta è l’indagine sul carattere pa­
rassitario della rete urbana meridionale,
alcune imprecisioni e semplificazioni si
possono notare nell’analisi della stratifi­
cazione sociale; lascia infatti perplessi il
giudizio espresso sulla classe operaia del
sud « I nuclei operai vengono costituiti su
basi clientelari e spesso agiscono in una
realtà degradata sia dal punto di vista
materiale che da quello ideologico in as­
senza, cioè, di una qualsiasi forza allea­
ta » (p. 22).
Rassegna bibliografica
L a rassegna antologica presenta nume­
rosi brani assai agili e incisivi. Due tema­
tiche sembrano affrontate in maniera più
dettagliata. In primo luogo i problemi ur­
banistici dei centri storici; la loro degra­
dazione nelle principali città del sud, da
Bari a Palermo a Napoli, il conseguente
processo di sfaldamento delle attività eco­
nomiche ivi esistenti (artigianto, lavoro a
domicilio), la continua espulsione degli
strati popolari che vi risiedono, l’avvio di
processi di ristrutturazione con finalità
speculativo-residenziali sono tutti temi am­
piamente trattati. In secondo luogo note­
vole spazio è dato alle lotte per la casa
sviluppatesi nelle città, sia nelle realtà
dove sono maggioritari gli strati sociali
sottoproletari che in quelle dove più con­
sistente è la presenza di settori operai.
Entrambi i saggi infine sono corredati da
un’accurata bibliografia attenta anche alla
produzione di riviste specifiche e con un
ampio rilievo dei contributi stranieri, spe­
cialmente francesi.
Gloria Chianese
nino calice , P a r t i t i e r ic o s t r u z io n e n e l
m e z z o g io r n o . L a B a s i l i c a t a n e l d o p o g u e r ­
r a , Bari, De Donato, 1976, pp. 176, lire
2.000.
Un primo grosso merito del volume è
quello di uscire dai termini sterili del di­
battito tra impostazioni recriminatorie e
giustificazioniste della storia del movimen­
to contadino meridionale del secondo do­
poguerra, attraverso l’intreccio tra anali­
si sociale e politica e l’indagine sulla que­
stione centrale e finora trascurata della
formazione del nuovo blocco dominante
nel mezzogiorno. Calice sottolinea anzi­
tutto un elemento in genere dimenticato:
la continuità con la tradizione pre-fascista,
da lui stesso studiata nel volume di due
anni precedente a questo, L o t t e p o lit ic h e
e s o c i a li in B a s il ic a t a . 1 8 9 8 -1 9 2 2 . Tale
continuità è indicata sia per le classi su­
balterne, nelle rivolte del 1943 nelle zone
del materano di forte organizzazione so­
cialista fin dagli inizi del secolo, sia per
le classi dominanti, nel predominio ini­
ziale del personale politico nittiano. Que­
st’ultimo, che ha la sua figura più rap­
presentativa in Vito Reale, nominato da­
gli alleati sindaco di Potenza, garantisce
la continuità dello stato nella misura in
cui questa era strutturalmente legata al
133
consolidamento avvenuto in Basilicata du­
rante il fascismo della grande azienda la­
tifondista. Se già alla fine del 1944 il
gruppo di Reale, che aveva attaccato vio­
lentemente il decreto Gullo proprio men­
tre si sviluppavano in Basilicata vaste oc­
cupazioni di terre, non è più adeguato a
mediare il nuovo rapporto tra rendita
fondiaria e stato che lo scontro di classe
esige e che si tradurrà in un «uso diver­
so e contrattato in maniera più ravvici­
nata dell’intervento del capitale pubblico
in agricoltura » (p. 48), il fatto importan­
te che si deduce è che la ricomposizione
del blocco dominante al sud si avvia im­
mediatamente, mentre è in atto la disgre­
gazione di quello tradizionale, anche se i
due processi potranno dirsi compiuti solo
col congresso democristiano di Napoli del
1954. Calice non accenna a questi futuri
sviluppi, ma evidenzia il passaggio della
rappresentanza politica del blocco egemo­
ne lucano, dopo la breve fase liberale e
demo-laburista, alla DC, che tra il 1946 e
il 1948 si concentra sull’« occupazione »
di tutti i gangli decisivi del potere, dai
Consorzi agrari alle banche alla Camere di
commercio. Si pone qui un grosso pro­
blema, che Calice non affronta: se e
come l’assenteismo delle sinistre in que­
sto campo come in quello della « ridu­
zione amministrativa dei C LN » (p. 90),
che sono al sud meri organi consultivi dei
prefetti, si leghi al fenomeno (mai prima
definito da uno storico comunista con
tanta nettezza) di « vera e propria divari­
cazione fra movimento e aspettative del­
le masse e politica del partito » (p. 55).
Ci sembra cioè che Calice non tragga le
conclusioni implicite nella sua analisi, che
da un lato coglie gli spunti di una dina­
mica di classe anziché appiattirli, come
ad esempio aveva fatto Ragionieri nella
S t o r i a d ’I t a l i a Einaudi, nella generica ed
equivoca categoria di « disgregazione so­
ciale » del mezzogiorno, dall’altro ha il
merito di sottolineare la valenza politica
sia delle iscrizioni in massa dei conta­
dini alle Camere del lavoro, sia delle ri­
volte lucane della primavera-estate 1945.
Questo tema della richiesta di p o t e r e da
parte delle masse contadine è centrale
— e non a caso Chiaromonte, nella pre­
fazione al volume, rimprovera Calice di
averlo sottolineato —, ma non nel sen­
so frainteso per diversi motivi da Tarrow
anni fa e oggi da Chiaromonte e Amen­
dola di abbattimento rivoluzionario del­
lo stato, ma di trasformazione di tutti gli
134
Rassegna bibliografica
equilibri — contrattuali, fondiari, sala­
riali e amministrativi — su cui si basa­
va la tremenda oppressione dei contadini
meridionali; la loro richiesta di rottura
di quegli equilibri poneva un problema
di potere politico. Ci sembra che in que­
sto tipo di analisi Calice si fermi in qual­
che modo a metà strada, anche se por­
tarla fino in fondo è un compito difficilis­
simo, che esigerebbe, tra l ’altro, un chia­
rimento e approfondimento, anche me­
diante l’uso di altre scienze sociali e di
altri tipi di approccio, del termine « aspettative delle masse », affrontando an­
che la dimensione soggettiva del comples­
so intreccio che nelle lotte contadine si
manifesta tra elementi tradizionali (il mes­
sianismo, ora magari applicato all’U nio­
ne Sovietica, l’antico diritto all’uso delle
terre demaniali) e la nuova presa di co­
scienza.
Un altro grosso merito del volume è quel­
lo di sottolineare, oltre alla radicalità del­
lo scontro di classe, anche la sua com­
plessità; per due fondamentali ordini di
ragioni; 1) la struttura sociale del capi­
talismo rurale monoculturale fa sì che,
grazie all’acquisto di terra da parte del
ceto medio dei paesi, il latifondo trovi
« un baluardo ideologico e politico di no­
tevole resistenza nella estesa fascia di una
miriade di coltivatori diretti» (p. 110); 2)
nel mezzogiorno gli effetti dell’inflazione
continuano a manifestarsi, e anzi si ag­
gravano, dopo la stretta deflazionistica del
1947, con il contemporaneo aumento della
disoccupazione e della circolazione mone­
taria, che si triplica in Basilicata tra il
1948 e il 1949; questo fa sì che si creino
« innaturali alleanze tra contadini anche
poveri, grossi proprietari, affittuari, spe­
culatori » (p. 118) prima contro il decre­
to Gullo e gli ammassi poi con il voto alla
DC del 18 aprile. In questa situazione,
dopo il 1947, mentre le sinistre devono
« registrare e gestire la sconfìtta sul ter­
reno delle riforme, dei rapporti di classe
e di potere » (p. 123) — e anche un’affer­
mazione di questo tipo è del tutto inso­
lita nella storiografìa del PCI — , la DC
di Emilio Colombo crea il suo dominio
in Basilicata sostituendo all’eversione del
latifondo la ripresa della politica di boni­
fica con l’Ente per lo sviluppo dell’irriga­
zione in Puglia e Lucania e creando così
una salda alleanza sociale con la specula­
zione nei settori dei lavori pubblici e del­
le industrie boschive: esempio emblema­
tico di un sistema di potere che, servendo­
si delle leve dello stato per stabilire le­
gami di masse, « aderiva in maniera pro­
fonda all’immutato tessuto sociale ed eco­
nomico della regione » (p. 134). Con que­
sta articolazione di analisi Calice fornisce
un contributo di grosso rilievo non solo
alla storia delle origini del potere democristiano, ma anche a quella delle dinami­
che sociali e politiche che attutirono pre­
ventivamente le reazioni alla rottura del­
la tradizionale alleanza tra stato e grossi
agrari, che si avrà con le leggi di riforma
e consentirono in generale un passaggio
graduale e in certa misura indolore dal
vecchio al nuovo tipo di blocco dominan­
te nel mezzogiorno.
Anna Rossi-Doria
Francesco renda, I l m o v im e n t o c o n t a d in o
in S ic ilia e l a fin e d e l b l o c c o a g r a r i o n e l
m e z z o g io r n o , Bari, De Donato, 1976, pp.
120, lire 1.800.
Renda, studioso delle lotte agrarie sicilia­
ne ottocentesche, dai moti del 1821 ai
Fasci siciliani, affronta in questo volume
l’esame di quelle del secondo dopoguerra,
di cui egli fu anche protagonista, cer­
cando anzitutto di definire il nesso tra
il movimento contadino meridionale nel
suo complesso e quello siciliano. Quest’ul­
timo deriverebbe i suoi caratteri specifici
dalle modalità particolari della caduta del
fascismo, dal separatismo e dall’autono­
mismo; Renda interpreta quest’ultimo co­
me risposta tardiva delle forze antifasciste
alle esigenze poste dal separatismo, in cui
una forte spinta democratica sarebbe sta­
ta egemonizzata dai grandi proprietari e
dal vecchio personale politico liberale di­
retto da Finocchiaro Aprile. Tale interpre­
tazione non è però ancora documentata:
dopo il saggio di Giarrizzo nell’« Archivio
storico per la Sicilia orientale » del 1970,
mancano studi adeguati sul separatismo
per cui non sono stati ancora chiariti, ad
esempio, né il passaggio dei grandi agrari
da quello alla DC tra il 1945 e il 1946, né
la consistenza della sinistra separatista di
Varvaro e Canepa. Allo stato attuale del­
le conoscenze, pertanto, si può legittimamente dubitare dell’ipotesi non di una ade­
sione degli strati popolari al separatismo,
che indubbiamente vi fu, ma del fatto che
non si trattasse di una loro strumentaliz­
zazione da parte delle vecchie classi do­
minanti. È anche discutibile l’altra affer­
mazione di Renda relativa ai caratteri di
Rassegna bibliografica
specifica tradizione siciliana del fenome­
no, comune invece a tutto il movimento
contadino meridionale, che vede impegna­
ti nelle lotte solo i contadini poveri, sepa­
rati sia dai ceti urbani che dai coltivatori
diretti e dalle altre classi rurali interme­
die. Nella spiegazione, a livello sia strut­
turale che politico, di questo fenomeno
consiste anzi uno dei nodi centrali che la
storia del movimento contadino meridio­
nale nel secondo dopoguerra dovrà affron­
tare.
Ci sembra invece del tutto condivisibile la
periodizzazione adottata da Renda, che, co­
me Rosario Villari al convegno su T o g li a t ­
ti e il m e z z o g io r n o , proprio perché ripren­
de il tema della crisi del blocco agrario,
non pone più l’acme delle lotte agrarie
meridionali nel 1949, come da molti anni
facevano politici e storici del PCI, ma an­
zi sottolinea come dopo il 1947 il movi­
mento contadino sia « in posizione di di­
fesa » (p. 21). Il fatto che questa impo­
stazione, connessa alla ricerca delle ori­
gini della crisi del blocco agrario già in
epoca fascista, resti nel dibattito degli sto­
rici del PCI isolata e contestata ha, ci
sembra, una chiara motivazione politica
ancora apologetica, malgrado il processo
autocritico avviato da tempo su quegli av­
venimenti, perché implica un oggettivo ri­
dimensionamento del ruolo di iniziativa po­
litica svolto dal PCI tra i contadini meri­
dionali nel periodo cruciale 1944-1949. Va
detto peraltro che la retrodatazione del­
la crisi del blocco agrario, proposta da
Villari sulla traccia di considerazioni svol­
te da Guido Dorso nel 1944, e ripresa qui
da Renda, che pone la rottura tra stato e
agrari siciliani nel fallimento della boni­
fica integrale fascista e nell’opposizione al­
la legge di colonizzazione del latifondo si­
ciliano del 1940, resta per ora allo stadio
di ipotesi di ricerca.
Giustamente Renda articola un giudizio
positivo sui decreti Gullo come fattore di
organizzazione contadina, e pone l’accen­
to anche su quelli meno noti del giugno
e luglio 1944 e sui loro effetti sociali, ma,
malgrado l’ammissione del carattere offen­
sivo del ciclo di lotte contadine che va
dalla fine del fascismo alla svolta del 1947,
esclude rigidamente ogni forma di spon­
taneismo del movimento contadino, e ri­
vendica esclusivamente il valore dell’orga­
nizzazione ribaltando, ma mantenendo in­
tatta una contrapposizione ideologica che
ha finora impedito una interpretazione cor­
retta delle lotte contadine meridionali. Oc-
135
corre infatti, secondo noi, sforzarsi di co­
gliere l’intreccio complesso tra spontanei­
tà e organizzazione nell’ambito di una analisi sociale che veda le classi rurali non
come mera espressione dei rapporti di pro­
duzione, ma anche dal punto di vista an­
tropologico e soggettivo. L a generale ca­
renza della storiografia di sinistra italiana
in questo campo, acutamente sottolineata
da Romanelli in S t o r i a p o lit ic a e s t o r ia
s o c i a le d e llT t a lia c o n t e m p o r a n e a : p r o b le ­
m i a p e r t i (« Quaderni storici », 1977, n.
34), ha pesato particolarmente nello stu­
dio delle lotte contadine. È anche per que­
sto che il dibattito su di esse non è riusci­
to finora ad uscire dalla sterile diatriba
tra recriminazione e giustificazionismo:
peccato in cui cade anche Renda quando
afferma, ad esempio, che l’obiettivo della
riforma agraria nel 1944-45 sarebbe ap­
parso massimalistico agli stessi contadini.
Molto utili sono gli accenni all’Unione
siciliana delle cooperative agricole (USCA),
che fu l’unico tentativo di integrare il de­
creto Gullo sulle terre con l’assistenza fi­
nanziaria, tecnica e legale che alle coope­
rative meridionali sorte in base a quel de­
creto mancò completamente: non a caso
quando a partire dal 1947 « alle canne
mozze della lupara fu sostituita o aggiun­
ta la carta bollata » (p. 70), con la revo­
ca delle concessioni di terra alle coopera­
tive, anche l’U SCA fu, con una monta­
tura scandalistica, smantellata. Tuttavia,
alle conclusioni del volume va mosso un
rilievo di fondo: Renda descrive esatta­
mente come il disegno democristiano di
divisione dei contadini riuscì a passare
attraverso la legge sulla formazione della
piccola proprietà contadina e la legge si­
ciliana di riforma agraria tra loro legate
nel senso che, posponendo l’esproprio al­
la vendita, si rastrellarono ai contadini si­
ciliani circa 100 miliardi, investiti dagli
agrari nell’edilizia urbana, si fecero anda­
re alle stelle i prezzi della terra e alla fine
si fecero selezionare dagli agrari le terre
da espropriare, per cui del 40-45 per cento
di proprietà latifondistica che in comples­
so fu tolto ai vecchi proprietari, le terre
buone andarono ai contadini medi e ric­
chi e alla borghesia professionale di paese
e le terre peggiori ai contadini poveri e
braccianti.
Eppure, dopo aver descritte questo pro­
cesso, Renda dichiara che non si deve par­
lare di sconfitta del movimento contadino
meridionale e quando poco più avanti è
costretto ad ammetterla, definendola « ri­
136
Rassegna bibliografica
flusso », la motiva con il disinteresse per i
problemi dell’agricoltura dovuto al passag­
gio, descritto come oggettivo e neutrale,
dell’Italia da paese agricolo-industriale a
paese industriale-agricolo. Ci sembra in­
vece vada ribadito che quella sconfitta ci
fu e che soprattutto fu uno dei prezzi che,
confermando ancora una volta la funzio­
nalità dell’intreccio tra sviluppo e arretra­
tezza, la ricomposizione capitalistica ri­
chiedeva, puntando a un modello i cui
costi saranno pagati dall’agricoltura, dal
sud e dai disoccupati, le tre componenti
appunto delle lotte contadine.
Anna Rossi-Doria
A A.V V ., L a R e p u b b l ic a r o s s a d i C a u lo n ia .
U n a r iv o lu z io n e t r a d i t a ? , Reggio Calabria,
Casa del libro, 1977, pp. 151, lire 2.500.
Questo volume riesaminerà in un vivace
dibattito la storia di un paese che fu, dal
5 al 9 marzo 1945, centro di una « spon­
tanea » lotta contadina contro il principe
ed i feudatari locali.
Gli studiosi sembrano così aver scoperto
nella comprensione dei motivi che porta­
rono alla «rivolu zione» del marzo 1945
e nella nascita di una tradizione di lotte
sociali e politiche in Caulonia una chiave
di volta per una analisi socio-politica del­
la realtà calabrese del secondo dopoguerra,
dei modi attraverso i quali la Democrazia
cristiana avrebbe ereditato e fatto propria
la tradizione del regime fascista soffocan­
do le speranze, le rivendicazioni, le lotte
contadine iniziate fin dal 1943. Dopo gli
studi di Ilario Ammendolia e Nicola Frammartino { L a r e p u b b lic a r o s s a d i C a u lo n ia ,
Reggio Calabria, 1975), Mario Alcaro e
Amelia Paparazzo { L o t t e c o n t a d in e in C a ­
la b r i a , 1 9 4 3 -1 9 5 0 , Cosenza, 1976) ed E u ­
genio Musolino ( Q u a r a n t ’a n n i d i lo t t e in
C a l a b r i a , Milano, 1977), di particolare in­
teresse compare ora questo libretto in cui,
a fianco di uno scritto ad effetto — pur
con alcune stimolanti osservazioni — di
Pasquino Crupi ( L ’e le g a n t e d o p p ie z z a d e l
P C I , pp. 141-151), compaiono le testimo­
nianze dei tre principali protagonisti: E u ­
genio Musolino, già segretario della fede­
razione del PCI ( U n a r iv o lt a e s c a m is a d a ,
pp. 121-140), Vincenzo Misèfari, già se­
gretario della C G IL provinciale ( N o n m o ­
b ilit a m m o le m a s s e p o p o la r i, pp. 95-119),
ma, soprattutto, quella del « capo della
rivoluzione » (Sharo Gambino, I n t e r v is t a
a C a v a l l a r o , pp. 7-93), polemica, vivacissi­
ma, ancora pervasa dall’immagine utopi­
ca del poeta che diventa capopopolo e gui­
da le « masse diseredate » alla rivolta.
L a situazione di latente ed endemica ri­
volta nella zona circostante Caulonia
(si pensi alle occupazioni di terre del 191921; al fatto che gli agrari locali avevano
usurpato i tre quarti delle terre demania­
li; ai rigurgiti emersi già nel 1943 della
violenza squadrista mascherata sotto nuo­
ve candide vesti, nel tentativo di affer­
mare la tradizionale corruzione e la dila­
tazione del vecchio paternalismo) trovò in
Pasquale Cavallaro e nei suoi figli dei ca­
pi, politici « militari », innati e, con la
«on orata so cietà», un collegamento che
lo stesso Cavallaro ammette come legit­
timo e «n o rm a le », senza, purtroppo, ap­
profondire i termini.
Diverse le interpretazioni e le valutazioni
dei tre protagonisti, sia per quanto con­
cerne l’atteggiamento del PC I (più preoc­
cupato della diffìcile situazione nazionale
ed internazionale in quella primavera 1945
che non della isolata « rivoluzione » di
Caulonia), che in relazione al comporta­
mento del prefetto, il socialista Priolo, che
sembrò volutamente « gonfiare » gli avve­
nimenti e provocare l’intervento di un co­
spicuo contingente di forze armate. Se la
sconfittta militare non poteva mancare (ma
i ponti stradali e ferroviari erano minati,
mentre « alcune migliaia di contadini ar­
mati erano pronti a difendere la repub­
blica [...] »), e lo stesso Cavallaro riuscì
ad evitare lo scontro consegnandosi alla
tenenza dei regi carabinieri di Roccella Io­
nica, quella politica fu solo temporanea.
Poco dopo ricominciavano le lotte per la
terra che, tuttavia, innestandosi in una si­
tuazione politica che aveva saputo raffor­
zare, sotto bandiere solo apparentemente
nuove, lo strapotere economico dei vecchi
proprietari, non riuscirono a raggiungere
i loro obiettivi.
Luciano Casali