La violenza del capitale

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MICHAEL HARDT*
La violenza del capitale
(novembre-dicembre 2007)
Naomi Klein possiede un talento particolare che le consente di
afferrare l’essenza dell’attuale situazione politica e di abbozzare
una chiave di interpretazione in grado di riaggregare la Sinistra.
È quello che ha fatto in No Logo, il best-seller apparso nel 2000,
e che ripete in Shock economy. In entrambe le opere, così come
nella sua attività giornalistica, l’autrice insiste sul fatto che la nostra sfida politica verte soprattutto sull’economia. E aggiunge
che non è necessario essere degli esperti per comprendere come
funzionino i meccanismi del capitalismo globale. Il fascino della
sua prosa, d’altra parte, è corroborato dalla capacità di spiegare
i fondamenti dei rapporti economici in termini chiari, e anche
personali, accessibili alle più vaste fasce di lettori.
In No Logo la Klein analizza la logica elementare della globalizzazione neoliberale e il ruolo delle multinazionali, offrendo un utile quadro d’insieme a tutta una generazione di attivisti che potremmo chiamare «la generazione di Seattle». Il libro,
* Michael Hardt (1960) insegna al dipartimento di letteratura della
Duke University di Durham ed è autore con Antonio (Toni) Negri di
Empire, Harvard University Press, Cambridge 2000 (Impero: il nuovo
ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002) e Multitude: War
and Democracy in the Age of Empire, Penguin Press, New York 2004
(Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli,
Milano 2004).
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difatti, ha fornito al movimento no global le ragioni per le quali ci battiamo. Ma, nella nostra epoca, le generazioni si succedono rapidamente e il ciclo che ha indotto i movimenti a riunirsi a Seattle nel 1999 per protestare contro il WTO (l’Organizzazione mondiale del commercio) è precipitato in una fase
di declino dopo che gli Stati Uniti hanno lanciato la «guerra
globale al terrorismo» e si sono apprestati a occupare l’Iraq. Di
fronte ai nuovi orrori causati dalla violenza e dalla distruzione,
i dibattiti economici che avevano tenuto banco in precedenza
(sui regimi commerciali, sul debito, sulla povertà e sui profitti
delle multinazionali) sono apparsi all’improvviso meno urgenti. Le nuove circostanze hanno costretto i movimenti di protesta no global a trasformarsi in movimenti no war.
Stabilendo un legame fra l’analisi della guerra, della violenza e dei disastri, e i dibattiti sulla globalizzazione neoliberale, in
Shock economy la Klein offre alla Sinistra un nuovo punto di riferimento aggregante, adeguato alla situazione odierna. Tuttavia, se il libro riporta al centro dell’attenzione i rapporti economici, l’analisi dei profitti del capitalismo e del controllo che esso opera sono integrati questa volta da un esame degli apparati statali e imprenditoriali che producono e sfruttano diverse
forme di distruzione su vasta scala. A tal proposito, la Klein
propone il concetto di «capitalismo dei disastri» per indicare
un regime di accumulazione che non solo tratta le tragedie collettive come un’opportunità economica (per privatizzare i beni
pubblici, allargare i mercati, ristrutturare i programmi produttivi, e così via) ma ha anche bisogno di tali disastri per continuare a funzionare. Con una certa audacia concettuale, la studiosa colloca sullo stesso piano i disastri provocati dalla violenza militare (quali quelli della «guerra al terrorismo» e dell’occupazione dell’Iraq) e i disastri provocati da cause «naturali»
(come le tragiche conseguenze dell’uragano Katrina o dello
tsunami che ha investito l’Oceano Indiano nel 2004). In un cer406
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to senso, secondo questa ottica, al capitalismo poco importa
cosa provoca il disastro. Gli basta che tali crisi si ripetano periodicamente, consentendogli di sfruttare la devastazione e il
momentaneo disorientamento per realizzare i principali obiettivi del programma neoliberale: privatizzazione della ricchezza
pubblica, deregolamentazione dell’attività economica e riduzione delle spese assistenziali. Nel seguito della riflessione, tuttavia, la relazione esistente fra violenza e capitale viene chiarita
ripercorrendo lo sviluppo del «capitalismo dei disastri» nel
corso degli ultimi tre decenni. Approfondendo tale concetto, la
studiosa attribuisce un nome al nemico e ne collega i numerosi e disparati volti, fornendo un nuovo obiettivo contro il quale combattere.
Ma mentre No Logo fu pubblicato in un’epoca in cui i movimenti no global attraversavano una fase di straordinario slancio e venne a sua volta investito dal loro entusiasmo, Shock economy appare in un momento molto diverso, che si riflette nel
tono più tenebroso. Rispetto al precedente, il nuovo libro appare meno interessato a radunare le truppe quanto piuttosto a
gettare le basi di un orientamento intellettuale e ideologico. È
un compito che la Klein persegue su tre distinti livelli, ciascuno dei quali ha un proprio stile. Ne risulta un testo ibrido, una
mescolanza di diversi generi testuali. Anzitutto l’autrice adotta
in maniera magistrale i metodi del giornalismo investigativo per
gettare luce su alcuni dei più nefandi avvenimenti e delle più
inquietanti figure della struttura del potere contemporaneo, e
lo fa intervistando gli sfollati di Baton Rouge, i pescatori dello
Sri Lanka dopo il disastro dello tsunami e i «nuovi schiavi» delle aziende di Manila nel pieno della crisi finanziaria asiatica.
Questo stile genera al contempo una tensione drammatica e un
potente sentimento d’indignazione contro gli odierni detentori
del potere. D’altra parte, nella maggior parte di queste pagine
la Klein scrive in prima persona, collocandosi al centro della
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narrazione. Probabilmente è in tali passaggi che riesce a catturare con maggiore efficacia l’attenzione del lettore medio invitandolo, secondo i canoni del genere, a identificarsi con il narratore. Ma, a un secondo livello, il progetto richiede l’utilizzo
degli strumenti della ricerca storiografica per risalire (in varie
regioni della terra) alle origini delle linee che nel corso dei tre
o quattro decenni passati hanno condotto fino alle strutture del
potere politico-economico oggi dominanti. A differenza degli
storici di professione, la Klein non si dedica allo studio di materiali d’archivio ma, grazie a una serie di minuziose ricerche,
ricostruisce i principali avvenimenti della sua storia con dovizia
di particolari e notevole chiarezza. A un terzo livello, infine, la
studiosa si confronta con gli strumenti della teoria economica e
politica per indagare la natura della produzione e del controllo
del capitalismo contemporaneo.
A guidare la trattazione di Shock economy è l’idea secondo
cui sussisterebbe un collegamento intrinseco fra violenza e capitalismo (o almeno un certo genere di attività capitalistica).
L’esplorazione di tale legame prende avvio dalla metafora della
«terapia d’urto» proposta da Milton Friedman per indicare
una particolare strategia tesa a imporre le riforme economiche
utili a creare un libero mercato in senso capitalistico. D’altro
canto, la Klein sembra prendere la metafora molto più alla lettera dello stesso Friedman. Gli psichiatri che negli anni Cinquanta e Sessanta hanno condotto esperimenti terapeutici mediante elettroshock – spiega – cercavano di disorientare i pazienti e di distruggere le loro strutture psichiche, pensando che
si dovesse far tabula rasa per ricostruire strutture più salutari.
Allo stesso modo, Friedman sognava di distruggere le strutture
economico-sociali esistenti per azzerare la società e farla ripartire sulla base delle riforme economiche che egli auspicava. Il
controverso economista statunitense sapeva del resto che le sue
riforme non sarebbero mai state accettate senza un evento trau408
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matico che destabilizzasse le abitudini sociali e le istituzioni, disorientando la popolazione. La Klein allarga la sfera semantica
di questa analogia mostrando come certi eventi traumatici, che
hanno sul corpo sociale effetti simili a quelli della terapia mediante elettroshock sull’individuo, sono stati utilizzati a più riprese in molti contesti nazionali proprio per imporre la concezione friedmaniana di libero mercato e, più in generale, un certo numero di politiche economiche neoliberali.
La Klein concepisce come terapie shock in senso più letterale anche le riforme economiche neoliberali. Non a caso nella
riflessione di questo libro si inserisce una breve e peraltro notevole storia dello sviluppo degli strumenti di tortura nel corso
degli ultimi cinquant’anni. Il punto di svolta, secondo la Klein,
si situa nei laboratori della McGill University, dove negli anni
Cinquanta conducevano sui pazienti esperimenti terapeutici
mediante elettroshock. Le ricerche di questo genere erano finanziate dalla CIA che ne fece propri i risultati riconoscendo
l’utilità che queste e altre tecniche simili, tese a disorientare gli
individui e ad abbatterne le strutture psichiche, potevano avere negli interrogatori. La Klein sostiene che esiste un collegamento diretto, da una parte, fra questi esperimenti e i manuali
per gli interrogatori della CIA, e dall’altra fra le tecniche impiegate dalle dittature latinoamericane e quelle utilizzate oggi dagli Stati Uniti e dai loro alleati nella «guerra al terrorismo». Il
ricorso alla tortura, nella sua ricostruzione, è parte integrante
della strategia d’urto necessaria in molti casi alla trasformazione economica in senso neoliberale. In sostanza, la tortura servirebbe a prolungare lo shock iniziale e a ripulire il terreno sociale in modo da impiantarvi una nuova struttura economica.
Tutti questi elementi si trovano riuniti nel Cile di Pinochet,
che la Klein considera il paradigma della dottrina dello shock
alla quale si conformano più o meno coerentemente tutti gli altri esempi. Naturalmente le tesi di Milton Friedman sul libero
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mercato erano già ampiamente penetrate in Cile prima del colpo di stato del 1973, in parte grazie al programma destinato
agli studenti cileni di economia presso il dipartimento dell’Università di Chicago dove egli insegnava (poi ribattezzati Chicago Boys). D’altra parte, lo stesso Friedman (sia pure in via
informale) fu consigliere di Pinochet nei primi anni del regime,
quando il generale inaugurò un radicale piano di privatizzazioni e di riforme economiche, facendo in poco tempo del Cile
l’alfiere del neoliberalismo in America Latina e nel mondo. I
settori della società cilena che più ostinatamente resistevano alla trasformazione politico-economica – comunisti, sindacati e
altri gruppi – furono sottoposti alla tortura e ad altre forme di
violenza. Il Cile di Pinochet mette in gioco insomma tutti e tre
gli elementi peculiari della dottrina dello shock: quello militare
(il colpo di stato), quello economico (le riforme economiche di
Friedman) e quello fisico-sociale (tortura, arresti, assassinii,
ecc.). Possiamo dunque pensare alla dottrina dello shock come
a un modo per sollecitare e rendere operante il «capitalismo
dei disastri».
Potrebbe sembrare che il concetto di «capitalismo dei disastri» proposto dalla Klein e i diversi shock attraverso i quali esso funziona poggino su una elaborata teoria del complotto. Tale impressione è in gran parte dovuta al fatto che l’autrice concentra l’interesse sugli atti di una ristretta casta di individui e
sui rapporti personali che essi intrattengono fra loro, come
quello che lega Friedman e Pinochet. Il libro trabocca infatti di
pagine e dettagli storici deliziosamente scandalosi su quello che
costoro hanno detto e fatto. Bisogna riconoscere, tuttavia, che
l’argomentazione della Klein non si fonda sulla logica del complotto né dal punto di vista storico né da quello teorico. Uno
dei presupposti centrali (e più affascinanti) della riflessione storica della Klein è che il «capitalismo dei disastri» necessita di
un gigantesco lavoro preparatorio in campo economico e poli410
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tico prima che si possa somministrare lo shock. Una dettagliata combinazione di strategia economia e di strategia politica deve essere approntata in modo tale da poterla mettere in atto rapidamente e in blocco non appena esplode il disastro. Non si
tratta dunque di complotto, bensì di programmazione. La questione appare un po’ più complessa sul piano teorico. L’impressione di complotto è dovuta in gran parte alla strategia narrativa del libro: e qui il suo carattere ibrido si scontra con l’inevitabile spartiacque che separa giornalismo e argomentazione
teorica. L’attenzione riservata alle grandi figure individuali e ai
legami interpersonali consente ai lettori di entrare agilmente
nella storia, ma i processi analizzati non dipendono realmente
dagli individui. In altri termini, quello che conta a livello teorico non è che Pinochet e Friedman si siano incontrati di persona ma che le loro idee e i loro progetti siano complementari e
si rinforzino a vicenda nel più ampio quadro di una violenta
trasformazione capitalistica. Per comprendere più chiaramente
la riflessione teorica della Klein, si dovrebbe vedere tali individui come apostoli o, meglio, personificazioni delle idee e delle
categorie politico-economiche.
Dopo aver posto le basi concettuali della dottrina dello
shock e della sua realizzazione paradigmatica – affiancando il
pensiero economico di Friedman alla dittatura militare di Pinochet –, la Klein consacra i capitoli centrali a una dettagliata analisi storica dei modi in cui questo modello si è reiterato e sviluppato nel tempo. E segue, dall’inizio degli anni Settanta a oggi, la simultanea applicazione di atti destabilizzanti e di politiche neoliberali nei Paesi di tutto il mondo, presentati come tanti anelli in una medesima catena o, meglio, come una serie di
esplosioni vulcaniche a cascata, ciascuna delle quali scatena la
successiva e così via. Dopo il Cile è la volta dell’Argentina,
quindi della Gran Bretagna dell’età della Thatcher, della Bolivia, della Polonia di Solidarnos´ć, della Cina, del Sudafrica po411
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st-apartheid, della Russia di Eltsin e delle economie del SudEst asiatico colpite dalla crisi del 1997-98. Di qui si passa agli
Stati Uniti dopo l’11 settembre, all’Iraq, alla «ricostruzione»
dello Sri Lanka e infine a New Orleans.
Lo scopo principale della Klein consiste nello smascherare
la favola «idilliaca» delle origini del neoliberalismo e mostrare
che le politiche economiche da esso professate non vengono
mai adottate in modo democratico o pacifico. Non solo. L’autrice afferma che, a dispetto delle pretese di successo ampiamente proclamate e accettate, le politiche neoliberali appaiono
regolarmente fallimentari, persino se considerate dal punto di
vista dei loro stessi criteri economici. In pratica, l’elemento destabilizzante passa progressivamente dalla violenza militare e
dalla tortura ad altre forme di disastro, alcune auspicate e altre
no. Il momento storico fondamentale qui è lo shock economico imposto in Bolivia nel 1985 dal neoeletto governo di Víctor
Paz Estenssoro. Il presidente era consigliato da Jeffrey Sachs
che, dopo l’uscita di scena di Friedman, diventa nel racconto
della Klein il principale sostenitore della teoria dello shock. In
Bolivia, nonostante la repressione dei settori sociali recalcitranti abbia certamente raggiunto livelli relativamente alti, il trauma non fu provocato da un colpo di stato, bensì dal pacchetto
economico predisposto in segreto che l’amministrazione impose ex abrupto senza alcun confronto pubblico. «La Bolivia ha
fornito l’esempio di un nuovo genere di autoritarismo più accettabile», sostiene la Klein, «un colpo di stato civile compiuto
dai governanti e dagli economisti in giacca e cravatta anziché
dai soldati in uniforme». In questo caso è la violenza politica
non quella militare a perseguire i compiti che il modello reclama: terrorizzare la popolazione, destabilizzare o distruggere le
istituzioni e i rapporti socio-economici consolidati e spianare la
strada a una trasformazione neoliberale. In tutti i successivi
esempi di terapia d’urto in senso neoliberale citati dalla Klein
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(dalla Cina alla Polonia del 1989, dal Sud Africa alla Russia dei
primi anni Novanta), una certa dose di violenza militare e di
violenza politica si combinano per assolvere tali compiti.
L’analisi culmina con il riconoscimento che la medesima logica d’urto è in atto all’indomani dello tsunami del 2004 e dell’uragano Katrina del 2005. Ma, qui, ciò che qualifica un disastro rendendolo adeguato al compito è molto più ampio. Le calamità «naturali» infatti non sono direttamente pianificate o
messe in atto dai detentori del potere, anche se certe politiche
governative (come è stato ben dimostrato) hanno una grossa responsabilità in proposito, in quanto contribuiscono a creare
condizioni propizie agli sconvolgimenti e a rendere talune popolazioni più vulnerabili di altre. Nondimeno, i disastri naturali giungono in maniera inattesa e quindi i protagonisti della privatizzazione e della trasformazione neoliberale devono tenersi
pronti per quando l’opportunità si presenta.
Di qui arriviamo all’Iraq, punto centrale dell’argomentazione della Klein. Per molti aspetti, l’autrice approfondisce le tesi
che aveva già sostenuto in un ottimo saggio pubblicato nel
2004 con il titolo Baghdad anno zero su «Harper’s Magazine»,
e qui raccolto in forma ampliata. Nella sua prospettiva, l’invasione e l’occupazione dell’Iraq sono interpretate come un fenomeno guidato dagli interessi economici, che tuttavia gli Stati
Uniti non hanno concepito semplicemente per acquisire il controllo del petrolio o per assicurare un temporaneo guadagno alle élite industriali. Piuttosto, il piano statunitense in Iraq rappresenta il più risoluto tentativo di applicazione della dottrina
d’urto compiuto fino a oggi per fare tabula rasa del tessuto sociale e costruire ex novo un’economia neoliberale. Qui il principio «shock and awe» (colpisci e terrorizza), che ha ispirato
l’invasione militare, si congiunge ai diversi apparati repressivi
della «guerra al terrorismo» e alle politiche di difesa della sicurezza interna in un programma di globalizzazione neoliberale.
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Questo è il più coerente esempio in atto di «capitalismo dei disastri» che la Klein rintraccia alla fine del suo sviluppo storico
e con il quale si chiude il capitolo aperto dal Cile di Pinochet.
L’insuccesso del progetto americano in Iraq ci riconduce
inoltre alla metafora originale della Klein che collega shock
economico e terapia mediante elettroshock. Le speranze dei
medici che compivano esperimenti per mezzo dell’elettroshock
venivano ripetutamente frustrate, in quanto essi non riuscivano
mai a concretizzare il sogno di una tabula rasa. Nonostante il
trattamento d’urto, le precedenti strutture psichiche, le memorie dei pazienti e le loro abitudini mentali finivano sempre con
il riapparire. Allo stesso modo anche gli amministratori americani, sotto la direzione di Paul Bremer, hanno visto frustrati gli
sforzi per costruire da zero un’economia neoliberale nell’Iraq
occupato. Nonostante abbiano privatizzato le industrie di stato, licenziato i lavoratori di ampi settori economici, riscritto le
norme giuridiche che regolamentano la competizione economica e gli investimenti, non sono riusciti a fare piazza pulita del
passato. Le strutture sociali preesistenti, le aspettative d’impiego e di reddito, le paure collettive di fronte al nuovo regime
economico sono ostinatamente riapparse. La Klein dimostra
con una convincente molteplicità di documenti che la perdita
del posto di lavoro e lo sfruttamento economico in Iraq sono
fonti essenziali per lo sviluppo della resistenza armata all’occupazione. Insomma, l’autrice giunge alla conclusione che non
solo i metodi della dottrina d’urto sono crudeli e barbarici, ma
neppure funzionano. I fautori della rivoluzione liberoscambista
e delle trasformazioni neoliberali predicano tutti che lo shock
produrrà una tela bianca sulla quale si potranno costruire ex
novo aggiornate strutture economiche, e poi inevitabilmente
spiegano l’insuccesso dei tentativi compiuti affermando che lo
shock non era completo, la pagina non abbastanza bianca. In
realtà, questa tabula rasa sociale è irrealizzabile e i procedimen414
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ti usati per realizzarla lasciano dietro di sé unicamente una società in rovina.
Shock economy solleva un gran numero di domande importanti. Alcuni lettori, per esempio, potrebbero chiedersi qual è
la percentuale degli Stati in cui una ristrutturazione neoliberale di vaste dimensioni è stata preceduta o accompagnata da una
tragedia naturale, e quale invece quella degli Stati in cui le autorità hanno proceduto in modo nascosto o, seguendo una
«terza via», per mezzo del consenso. Altri si domanderanno
com’è possibile correlare analiticamente le forze climatiche e
marittime che producono un uragano o uno tsunami alla pianificazione umana a lungo termine che ha condotto all’invasione
dell’Iraq. Per quel che mi riguarda, il mio interesse si concentra sulle forme contemporanee della dominazione e del controllo del capitale. La teoria della Klein in effetti calza bene con
una lunga tradizione teorica che stabilisce un collegamento intimo fra capitale e violenza. E, per consolidare le basi su cui
poggiano alcuni suoi argomenti e sottolinearne l’originalità,
può essere utile collocare i propositi dell’autrice all’interno di
tale tradizione.
Prima di tutto, l’esplorazione della dipendenza dello sviluppo capitalistico dalla violenza proposta dalla Klein corrisponde
alla nozione marxiana di accumulazione primitiva e sotto taluni aspetti la amplia. La creazione della classe capitalistica e di
quella proletaria non è infatti la risultante di processi pacifici o
seminaturali, scaturiti dalla parsimonia e dalla prudenza dei futuri capitalisti o dalla dissolutezza dei futuri proletari. Al contrario, la nascita del capitalismo ha richiesto uno straordinario
ricorso alla violenza, teso in due direzioni: verso l’estero, alla
conquista, al genocidio e alla riduzione in schiavitù delle popolazioni straniere (fatti che hanno permesso di riportare in patria
enormi ricchezze e di aprire nuovi mercati per le merci) e, verso l’interno, all’esproprio delle terre un tempo comuni, all’e415
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spulsione dei contadini dalle proprietà feudali e alla creazione
di nuove leggi che per effetto hanno avuto quello di raggruppare i poveri nelle città, fornendo manodopera all’industria.
Tuttavia, mentre le riflessioni di Marx possono indurre a pensare che la violenza «extraeconomica» dell’accumulazione primitiva sia necessaria soltanto per mettere in moto la macchina
del capitale, in grado poi di conservarne il controllo mediante
la disciplina e le forme economiche della violenza, la Klein ci
ricorda che l’accumulazione primitiva non si conclude mai (è
un’osservazione già fatta da molti altri autori, ma per la sua importanza merita di essere ripetuta); anzi, si perpetua come
complemento e sostegno costante al funzionamento del capitalismo.
Un secondo punto di riferimento è rappresentato evidentemente dall’analisi della violenza inerente all’accumulazione del
capitale compiuta da Rosa Luxemburg. La grande rivoluzionaria socialista spiega che il capitale per sopravvivere ha bisogno
di espandersi costantemente, aprire nuovi mercati, reperire
maggiori risorse, più manodopera e più larghi circuiti produttivi. L’espansione dei circuiti capitalisti di riproduzione, tuttavia, non può essere compiuta usando unicamente i mezzi economici. È necessaria una forza extraeconomica. In particolare,
la Luxemburg stabilisce una relazione intrinseca fra i grandi
imperialismi europei della sua epoca (ossia degli inizi del XX
secolo) e l’estesa riproduzione del capitale: in quest’ottica, opporsi all’imperialismo vuol dire sfidare il capitale. Analogamente, la Klein dimostra che esiste una relazione necessaria e intima fra capitale e violenza, ma estende la categoria dei disastri
che possono assolvere tale ruolo ben oltre la sfera degli apparati imperialistici su cui si era soffermata la Luxemburg.
Il terzo punto di riferimento teorico (e forse il più importante) nell’argomentazione della Klein è la lunga tradizione
economica della «teoria delle crisi», altrettanto ben radicata nel
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pensiero marxista quanto in quello capitalista. In particolare,
qui risuona fortemente la nozione di «distruzione creativa» di
Joseph Schumpeter, un’economista tutt’altro che marxista. È
un luogo comune sostenere che i cicli e le crisi economiche offrono un insieme di opportunità alla concentrazione e allo sviluppo del capitale; Schumpeter insiste soprattutto sulla necessità del capitalismo di rivoluzionare incessantemente le proprie
strutture economiche e istituzionali dall’interno. Indipendentemente dal fatto che siano riconducibili a cause economiche o
no, le crisi rinforzano lo sviluppo capitalistico svuotando le
vecchie strutture delle istituzioni sociali e delle pratiche economiche. Tale distruzione è «creativa» soltanto nella misura in cui
assicura spazio all’innovazione e alla formazione di nuovi processi e istituzioni. La nozione di dottrina d’urto proposta dalla
Klein condivide molti aspetti di questa idea, ma l’autrice spinge lo sguardo ben oltre l’ambito economico, identificando le
sorgenti potenzialmente extraeconomiche dei disastri e mettendo in evidenza la profondità delle loro conseguenze sociali.
Marx, Rosa Luxemburg e Schumpeter compongono un’eccellente compagnia, e il libro della Klein può essere legittimamente discusso in relazione a questi pensatori. Come la giornalista canadese, tutti e tre sostengono che lo sviluppo del capitalismo esige il supporto della violenza. Nondimeno, c’è una differenza fondamentale che contribuisce a sollevare un’ulteriore
domanda riguardo alla riflessione della Klein. I teorici ricordati iscrivono infatti la violenza nella logica del capitalismo in generale, la Klein invece la isola presentandola come un modo o
una variante «fondamentalista» del governo del capitale, sottintendendo che possono esistere altri modi meno violenti o
persino non violenti. Il «capitalismo dei disastri» è dunque soltanto un’aberrazione (un momento di eccessi che distorce una
forma più virtuosa di capitalismo) o viceversa rappresenta il
nucleo centrale del capitalismo contemporaneo? A più riprese
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nel libro, la Klein afferma di propendere per la prima ipotesi.
Ma la sua riflessione teorica sembra piuttosto spingere nella seconda direzione. La questione è cruciale e condiziona la risposta a un’altra più ampia domanda, che di fronte a questo libro
bisogna porsi: quale alternativa abbiamo al «capitalismo dei disastri»? Possiamo immaginare un ritorno a una più equa e pacifica regolamentazione dei rapporti socioeconomici capitalisti? Oppure dobbiamo necessariamente volgere lo sguardo al
di là del capitalismo e inventare nuove forme sociali? Il libro
della Klein non si propone di rispondere a queste domande e
non è tenuto a farlo. L’averle sollevate è già un importante contributo a un dibattito che deve costituire il punto di partenza
della riaggregazione di una nuova Sinistra.
(Recensione del libro di Naomi Klein,
Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri,
Milano, Rizzoli 2007)
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