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PASQUALE MARZANO
DIGLOSSIA, NOMI E SOPRANNOMI
IN UN ROMANZO DI ROSETTA LOY
Il romanzo della Loy Le strade di polvere,1 pubblicato nel 1987 da
Einaudi, ha vinto Super Campiello e Viareggio nel 1988 e il premio
The Independent per la migliore opera di narrativa straniera nel 1990.
Le vicende narrate nel libro sono ambientate in un paesino del Monferrato e abbracciano un periodo che va dalla fine dell’età napoleonica
ai primi anni dell’Unità d’Italia, sviluppando una trama fitta di rapporti familiari e sociali che si mostra in primo piano, avendo sullo sfondo i
grandi e piccoli eventi della Storia, come le guerre e le calamità naturali che colpiscono il Piemonte in quell’epoca. Una struttura narrativa
che ricorda da vicino quella del romanzo storico e per costruire la quale l’autrice dichiara di aver attinto da fonti autentiche, concernenti le
località in cui ha scelto di far muovere i suoi personaggi.2 Il paesino in
cui vivono i protagonisti, e di cui viene sempre omesso il nome, è Mirabello Monferrato (AL) e non viene mai citato esplicitamente solo “per
mantenere un grado più alto di libertà nel raccontare”, come ricorda la
stessa Loy,3 avendo cura di aggiungere che “a parte le guerre […], alcuni eventi, come l’alluvione, si sono verificati realmente”.4 Anche la
casa presentata nel capitolo iniziale, che ha ispirato il romanzo ed in
cui vivono quattro generazioni di personaggi, è esistita realmente e la
1
R. LOY, Le strade di polvere, Torino, Einaudi 1987, d’ora in avanti Lsdp.
Vd. EAD., Intervista, inedita, concessa il 31 maggio del 2001, in occasione dell’incontro dell’autrice con gli studenti dei corsi di Scuola Media per adulti tenuti dal Centro Territoriale Permanente “A. Sogliano” nella Casa Circondariale di Poggioreale (NA), nell’ambito
di un progetto di promozione della lettura narrativa.
3 Ibid.: “Considerando che la casa esisteva veramente, e che il luogo in cui si sviluppa il
romanzo è reale, come mai non ha citato il nome del paese?”. “È chiaro che il romanzo è
ambientato in Piemonte, ma non ho citato il nome del paese per mantenere un grado più alto di libertà nel raccontare. […] Ad ogni modo, il paese reale è Mirabello, nel Monferrato”.
Le due sorelle protagoniste della storia, Maria e Matelda, detta la Fantina, vengono invece
da un paesino chiamato Moncalvo, attualmente in provincia di Asti (AT): “La Maria e la
Fantina ricordano gli anni di fame di quando c’erano i francesi e Moncalvo si chiamava
Montchauve e del Pidrèn e della guerra non si sapeva più nulla […]”, Lsdp, p. 94.
4 LOY, Intervista, cit.
2
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sua descrizione coincide con quella dell’abitazione in cui la Loy, figlia
di madre romana, ma di padre piemontese,5 ha passato lunghi periodi
di vacanza durante la sua infanzia. La stessa autrice ricorda come quella dimora sembrava le parlasse, raccontandole le storie che lei ha poi
pazientemente tessuto nella loro forma narrativa.6 Anonimo è il paese e
anonima è la strada in cui la casa sorge nel romanzo, come sottolinea la
voce narrante,7 essendo entrambi i luoghi posti in una sorta di spazio
fuori dal tempo e toponomasticamente indefinibile, come accade nell’incipit delle favole, che narrano di un mondo magico8 analogo a quello che fa capolino in diversi punti delle Strade di polvere,9 uno spazio
che, in fondo, riproduce un dato antropologico tipico dell’ambiente
contadino di fine Ottocento-inizio Novecento come quello descritto
dalla Loy.10
5 Loy
è il cognome del marito della scrittrice, mentre quello paterno è Provera.
Il tema della casa, abitata da diverse generazioni di personaggi, di cui alcuni posseggono capacità extrasensoriali, che consentono di percepire la presenza degli spiriti che
aleggiano intorno, richiama alla memoria un’opera della scrittrice Isabel Allende, che li evoca già nel titolo (La casa degli spiriti, 1982) e in cui la magia e il mondo contadino e familiare
sono presentati in una maniera analoga, mutatis mutandis, a quella del romanzo della Loy.
La scrittrice italiana però non riconosce specificamente tale modello letterario, anche se,
nell’intervista citata, ne ricorda uno dal quale si sarebbe sentita vagamente ispirata e che si
può ascrivere all’ambito del cosiddetto “realismo magico”, in cui si può inquadrare a pieno
titolo anche l’opera della Allende: “C’è un modello letterario al quale si è rifatta, o almeno,
c’è un autore al quale in qualche modo si è sentita vicina scrivendo il suo romanzo?” “In verità, avevo molto amato un libro di Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine [1967]. Per
quanto riguarda la storia centrale raccontata nel mio libro, invece, ero rimasta molto colpita
dalla storia vera di due sorelle che avevano sposato due fratelli. Poi, le altre storie si sono
aggiunte progressivamente a quella principale” (LOY, Intervista, cit.)
7 “Come si chiamasse quella strada allora è difficile saperlo; la casa era l’ultima del paese […]”, Lsdp, p. 3. Per un breve accenno alla strategia narrativa concernente tale anonimia,
vd. infra, par. Effets de réel onomastici.
8 Per la struttura e le forme tipiche dei racconti di magia, vd. V.J. PROPP, Le radici storiche dei racconti di magia, trad. it. di S. Arcella, Roma, Newton Compton 1977, ora in ID.,
Morfologia della fiaba / Le radici storiche dei racconti di magia, trad. it., Roma, Grandi Tascabili Economici Newton 1992, pp. 127-478.
9 Il romanzo è infatti caratterizzato da numerosi richiami alla presenza del diavolo, o degli
spiriti, di morti che ritornano nel mondo dei vivi, di lupi mannari o di personaggi dotati di capacità extrasensoriali e premonitrici, vd. Lsdp, pp. 17-8, 24-5, 33, 48, 70-1, 90, 109, 107, 1101, 134-5, 156, 182, 219 e passim. Per un ricco repertorio magico-onomastico relativo al mondo
contadino a cui si fa riferimento, vd. G.L. BECCARIA, I nomi del mondo, Torino, Einaudi 1995.
10 Per uno sguardo etno-antropologico al mondo magico in generale, vd. E. DE MARTINO, Il mondo magico, Torino, Einaudi 1948 e M. MAUSS, Teoria generale della magia e altri
saggi, Torino, Einaudi 1965, o anche, con particolare riferimento ad un determinato modello culturale italiano, A.M. DI NOLA, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino, Boringhieri 1976.
6 Ibid.
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La questione dei nomi e dei soprannomi, della loro ricchezza e varietà, è stata posta direttamente all’autrice come curiosità onomastica, trovando riscontro in una intervista11 e nel romanzo stesso, sul
quale è ovviamente opportuno concentrarsi, per evitare il rischio di
farsi fuorviare, come può sempre accadere quando si fa ricorso alle
opinioni espresse direttamente dagli autori sulle proprie opere. Un
pericolo segnalato da diversi studiosi, fra i quali mi piace ricordare
Umberto Eco, che nelle Postille a Il Nome della Rosa afferma provocatoriamente: “L’autore dovrebbe morire dopo aver scritto. Per non
disturbare il cammino del testo”.12 Per fortuna, non è il caso della
Loy, per la quale, ad ogni modo, il testo è lì a confermare che l’autrice non mente a proposito dei nomi adoperati nel suo romanzo.13 Infatti, l’impianto antroponimico dell’opera risulta piuttosto denso e
variegato, essendo composto da numerosi nomi e soprannomi, spesso
interpretati e reinterpretati dai personaggi stessi, o dal narratore,
esterno e abitualmente onnisciente. Inoltre, i nomi sono strettamente
legati all’uso alternato di almeno due lingue nazionali, italiano e francese, e del dialetto piemontese, che rappresentano, in qualche maniera, l’altra faccia della varietà onomastica presente nell’opera. Una varietà che può diventare problematica quando si affronta il testo per
tradurlo in un’altra lingua, come possono dimostrare le due traduzioni in inglese e francese di William Weaver e di Françoise Brun,14 del11 Vd. supra: “Ci può dire qualcosa a proposito dell’uso dei soprannomi nel suo romanzo?” “Li ho utilizzati perché in campagna si usavano. Li ho presi da un dizionario di piemontese che ci avevano regalato [V. DI SANT’ALBINO, Gran dizionario piemontese-italiano,
Torino, Unione Tipografica Editrice 1859, NdR]. Mi ricordo che da bambina veniva a casa
nostra un sarto piccolissimo, che noi chiamavamo «Quatran», perché era così piccolo che
sembrava un bambino di quattro anni. Per noi era «il signor Quatrani»” (LOY, Intervista,
cit.). In un’altra occasione (comunic. personale, lettera del 17/9/2001), la Loy ricorda di
avere usato anche un altro dizionario per “i termini e i nomi monferrini”, senza specificarne
l’autore.
12 U. ECO, Postille a “Il nome della rosa” 1983, in ID., Il nome della rosa, Milano, Bompiani 1986, pp. 507-33, p. 509.
13 Non ci si è comunque sottratti alla tentazione di contattare personalmente l’autrice
per provare a chiarire determinati dubbi concernenti alcuni antroponimi di non facile interpretazione. L’incontro e le conversazioni telefoniche con la Loy confermano l’impressione, a
proposito della struttura onomastica di Le strade di polvere, di un articolato lavoro sui nomi,
che ha comportato l’uso di due dizionari (vd. supra) e il ricorso a diversi soprannomi tratti
dalla realtà (vd. infra).
14 Per quanto concerne l’inglese, è stata adoperata l’edizione americana, tradotta da
Weaver nel 1990 e pubblicata da Alfred Knopf nell’anno seguente (R. LOY, The Dust Roads
of Monferrato, New York, A. Knopf 1991, d’ora in poi TDRoM), mentre per il francese si è
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le quali si discuterà nei paragrafi conclusivi.15
Diglossia e plurilinguismo: nomi e soprannomi - lingua e dialetto
Tornando al testo originale, bisogna dire che la diglossia, a cui faccio
riferimento nel titolo del mio intervento, concerne principalmente la
contemporanea presenza di due registri linguistici adoperati dagli stessi personaggi, generalmente uno dialettale e locale, l’altro ufficiale e
nazionale, oppure uno italiano e l’altro francese, come nei casi di Monette, di Elisabetta e di Antonia.16 Come già accennato, questa dicotomia linguistica si riflette nel sistema onomastico del romanzo, che si
struttura omologamente sulla base di un doppio registro antroponimico, così che gli stessi personaggi sono di volta in volta identificati con il
nome anagrafico e ufficiale, o vengono citati con il soprannome. Nei
rapporti con le autorità e con le classi sociali più alte viene generalmente usato l’italiano, in quelli amicali o parentali prevale invece il dialetto,
monferrino, o piemontese, con l’eccezione di quello parlato dalla Luison, che è veneto, ma non viene mai citato esplicitamente nel testo.17
La stessa distinzione opera per l’uso dei nomi, dei soprannomi o degli
ipocoristici, che sono abitualmente dialettali.
La diglossia, dialetto/lingua nazionale, diventa talvolta pluralità linguistica, poiché, in diverse circostanze, tende ad inglobare una terza
lingua, cioè il francese,18 come già accennato, che penetra perfino negli
strati meno agiati delle classi sociali presenti nell’opera attraverso i rapporti con le autorità e l’esperienza della guerra, da cui sono reduci alfatto ricorso al volume tradotto dalla Brun, inizialmente per la casa editrice Alinèa, nel
1989, e ristampato poi in edizione economica da Payot & Rivages nel 1995 (R. LOY, Les
Routes de poussière, Paris, Rivages 1995, d’ora in poi LRdp). Weaver è il traduttore di Umberto Eco e di vari altri autori di letteratura italiana moderna e contemporanea, così come la
Brun, che ha tradotto in francese la maggioranza delle opere della Loy.
15 Vd. infra.
16 Il personaggio della “cugina Monette” compare nel VI capitolo, insieme a suo figlio
Tomà, vd. Lsdp, pp. 152-60. Elisabetta è la nipote della signora Bocca e si esprime generalmente in italiano e francese, Lsdp, pp. 43 e 49. Per Antonia vd. infra.
17 Vd. Lsdp, pp. 93 e 95: “Dopo tanti anni era tornata al dialetto veneto e nessuno capiva quello che andava dicendo […]”; “Anche la lingua che parlano ha cadenze sconosciute,
leggere, è una lingua piena di suoni e di trilli”.
18 In un caso anche il tedesco, quando Luison, la “zia veneta” (Lsdp, p. 4) di Maria e
Matelda, canta “alle due bambine le canzoni tedesche imparate dai soldati che si accampavano nei boschi intorno al suo paese”, Lsdp, pp. 14-5.
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cuni personaggi di rilievo,19 o in cui è coinvolta la popolazione locale
attraverso i soldati occupanti.20 Altri veicoli di penetrazione linguistica
sono le canzoni o gli stralci di testimonianze storico-letterarie, con cui
per esempio è stata educata Antonia, la futura seconda moglie di Luìs:
Era ignorante l’Antonia. La Cavaliera non aveva mai voluto mandare a scuola i
suoi figli ma quando era arrivato il momento dell’ultima neanche il Beneficato si
sarebbe accontentato di quello che era disposta a pagare. Così l’Antonia aveva imparato a leggere sui libri salvati dall’alluvione, mémoires francesi del Sei, Settecento, dove si raccontavano le avventure di Madame de Maintenon e della du Barry,
gli intrighi di Mazzarino, di Henriette d’Angleterre, del Duca di Guisa. Ma altro
lei non sapeva […] (Lsdp, 141).
Lo stesso personaggio usa il francese anche in situazioni in cui potrebbe risultare controproducente,21 come durante il primo incontro
con Luìs, che non può rispondere alla ragazza, non possedendo una
competenza linguistica adeguata alla circostanza:
Le braccia di Luìs si chiusero d’istinto per trattenerla e lei si lasciò abbracciare
sorridendo senza ombra di timidezza […] Luìs scese nel fango per farla passare
[…]. Prima di sparire nel cortile l’Antonia si voltò come se volesse dire qualcosa,
ma poi l’unica parola che le uscì dalle labbra fu Merci. Luìs le avrebbe risposto volentieri in francese ma non lo sapeva e così […] prese la strada che costeggiava il
torrente (Lsdp, 139).
Analogamente, quando Luìs parla ad Antonia in italiano è lei a non
capire:
[…] quando Luìs parlava lo ascoltava corrugando le sopracciglia, sforzandosi
di capire sia che si trattasse di legislazione sull’affitto dei fondi o delle battaglie di
Napoleone. Seguiva con la stessa attenzione una poesia pubblicata dal “Gazzettino Letterario” e il trattato di botanica di De Candolle (Lsdp, 141).
Sarà poi l’amore viscerale provato dalla ragazza, e trasmesso quasi
per osmosi all’uomo, a permettere il superamento della barriera linguistica posta fra i due innamorati.
19 Come il Sacarlott, che all’esperienza bellica deve la sua conoscenza del francese, lingua mescolata al dialetto quando “sacramentava” a causa del figlio, Lsdp, p. 47.
20 Vd. p. es. Lsdp, pp. 9, 123-4, 142, 160-74, oppure ivi, pp. 15-6, per il tedesco.
21 Antonia sarà però la sola a capire la “cugina Monette” quando quest’ultima scriverà
di essere “dispiaciuta” usando il francese regrette (LRdp, p. 206, TDRoM, p. 167, Lsdp, p.
159) non solo per la sua competenza linguistica, ma anche per l’allusione non colta dagli altri personaggi all’adulterio consumato da Monette con Luìs, il marito di Antonia, di cui solo
lei si era accorta, senza reagire.
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Tipologie antroponimiche dei personaggi
Ad ogni modo, la bipartizione linguistico-onomastica di base presente nel romanzo si presta ad un’ulteriore suddivisione, poiché rimanda ad almeno tre tipologie distinte di personaggi:
1) Personaggi identificati solamente dal soprannome (quasi sempre
dialettale), come il Mandrognin, di cui nemmeno la voce narrante sa
spiegare esattamente l’origine,22 la Gramissa, così soprannominata
perché dall’aspetto macilento (Lsdp, p. 53) oppure la Limasa, detta
così dai contadini che l’hanno adottata, perché lenta come una lumaca, ovvero come una limasa (Lsdp, p. 118).23
2) Personaggi identificati da nome anagrafico e ufficiale, con l’aggiunta
successiva di uno o più soprannomi, o ipocoristici, come i fratelli
Pietro e Giuseppe, detti rispettivamente Pidrèn, ipocoristico di Pietro, o Sacarlott, e Giai, ossia il ‘giallo’, per i capelli biondi che lo caratterizzano, come spiega la voce narrante.24
22 “Se fosse stata in vita la Luison avrebbe potuto raccontare della sua vita da giovanotto, parlare di quel soprannome che poteva venire dal paese dove era nato (ma neanche
questo si sapeva) o invece dal ricco mantello della canzone Bel Galant u s’è spartí”, Lsdp,
p. 186. Effettivamente, secondo quanto riportato da Giuseppe Ferraro (G. FERRARO, Glossario Monferrino, Torino, Loescher 18892, p. 71), Mandrognin potrebbe derivare dal soprabito detto Mandrogna, o da un toponimo monferrino: “Mandrogna, antica veste maschile
ricordata dall’82 dei Canti popolari dell’Alto Monferrato. Mandrognin: mezzo mercante e
mezzo frodatore, come sono in generale gli uomini di confine, e come erano prima del
1815 gli abitanti di Mandrogna, nella provincia di Alessandria, presso il confine della Repubblica Genovese, oggidì circondario di Novi. Mandrognin dicesi a Carpeneto chi mangia
carne di bestie morte di malattia, come fanno quelli di Mandrogna”. A proposito dell’incertezza del narratore concernente la motivazione di Mandrognin, vd. infra, par. Effets de
réel onomastici.
23 Per quanto riguarda il regno animale come fonte onomastica, vd. M.G. ARCAMONE,
Cognomi italiani da nomi di animali, RION, I (1995), 1, pp. 12-22.
24 “A Pietro detto Pidrèn venne in seguito dato il soprannome di Sacarlott, Giuseppe invece era così biondo che fin da bambino venne chiamato il Giai, che vuol dire il giallo”,
Lsdp, p. 4. In realtà, “giai”, o “giaj”, non significa ‘giallo’, ma ‘nero’, mentre giaiett significa
‘luccicante’, ma sempre di colore ‘nero’, come hanno rilevato anche Alda Rossebastiano ed
Elena Papa all’VIII Congresso di “Onomastica & Letteratura” nella discussione successiva
alle comunicazioni, con un intervento centrato sui dialetti piemontesi del quale ringrazio entrambe, grato in particolar modo alla Rossebastiano, che mi ha poi fornito diverso materiale
interpretativo ricavato da successive ricerche bibliografiche. Secondo il dizionario di monferrino curato da Ferraro (FERRARO, Glossario…, op. cit., p. 59), “giallo” dovrebbe essere
Giald, mentre “in Acqui, a Nizza M. ed a Casale”, si direbbe giàun, così come “in prov.”;
giàn-n invece sarebbe tipico della “valle dell’Orba”. A tal proposito vd. anche G. DEVOTOG. GIACOMELLI, I dialetti delle regioni d’Italia, Milano, Bompiani 1994 (1ª ed. Firenze
1971), p. 7. La Loy afferma di aver equivocato, scambiando “rosso” con “giallo” (comuni-
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3) Personaggi identificati solo da nome anagrafico e ufficiale, come la
signora Bocca,25 che però mescola “frasi di dialetto a frasi in francese” (Lsdp, pp. 39-40), o sua nipote Elisabetta, che si esprime esclusivamente in italiano o francese, ma anche come Gavriel, Maria, Sofia
ed Evasio, eredi del Sacarlott.
Tale tripartizione parrebbe riflettere quella delle distinte classi sociali
a cui i personaggi appartengono, per censo, o professione. Quelli indicati solo col nome ufficiale (prenome o cognome), con il titolo26 o con
caz. person.), poiché ricorda di aver mutuato il soprannome da quello di “un contadino”,
realmente esistito, “che aveva i capelli rossicci”, diventati “biondi” nella memoria della
scrittrice. Probabilmente, dunque, l’autrice ha confuso le cause con gli effetti, o almeno le
motivazioni alla base del soprannome reale, forse anche per una vaga interferenza dell’italiano “giallo”, che presenta una parziale omofonia col vocabolo piemontese-monferrino giai
(giai/giallo). Il soprannome del contadino reale poteva infatti derivare da tutt'altra circostanza. Per esempio, nel vocabolario piemontese di Camillo Brero (C. BRERO, Vocabolario
piemontese-italiano, Torino, Editrice Piemonte in Bancarella 1976), a giaj viene anche attribuito il significato di ‘neo’, ‘lentiggine’, o ‘striatura’, e non si può escludere la possibilità che
il contadino, “biondo-rossiccio” di capelli, avesse anche delle lentiggini, da bambino, come
accade spesso con le persone che hanno i capelli fulvi, e che per questo fosse chiamato Giai.
Del resto, il romanzo è disseminato di riferimenti a capelli biondi, o fulvi, e i capelli rossi sono mostrati come un segno di devianza, come probabile riflesso mimetico dell’immaginario
collettivo: “Perfino la Gonda e la Marlatteira scuotevano la testa per via dei capelli rossi”
(Lsdp, p. 73) della Rosetta del Fracin, che prima abbandonerà Luìs e successivamente tradirà il marito, il Camurà, facendo poi soffrire il suo amante, Gavriel. Fulvo è p. es. il Dragone Junot, che non ama le donne (Lsdp, pp. 161-2 e p. 171), mentre “bionda” è la cugina
Monette (Lsdp, p. 159), così come la bella figlia della Limasa (Lsdp, p. 177). Per un rapido
sguardo ad una serie di demoni e folletti popolari caratterizzati dalla presenza del colore
rosso, vd. BECCARIA, I nomi…, op. cit., pp. 23, 81, 154-5, 161-5, 192-3, 195, 220, 226, 234,
247, 265. Da rilevare, infine, una predilezione per i capelli biondi confessata dalla Loy nell’intervista citata nell’incipit del presente contributo (vd. supra): “[…] qualcuno di loro [dei
personaggi] è stato immaginato seguendo un po’ i miei miti: capelli biondi e ricci, occhi azzurri, elementi che riaffiorano anche negli altri miei libri”. Per l’interpretazione di Sacarlott
vd. infra.
25 C’è un numero limitato di personaggi citati col solo cognome – vd. p. es. i casi di
Monsieur La Ville (Lsdp, p. 12), sottoprefetto di Casale, della signora Bocca (Lsdp, p. 13 e
passim), del signor Capra, pittore di San Salvatore (Lsdp, p. 37), o del fotografo Bossi di Milano (Lsdp, p. 206). Per tutti gli altri sono adoperati solo il prenome ufficiale, il suo ipocoristico o il soprannome. Per la Teresina dei Maturlin (ossia ‘dei matterelli’) e la Rosetta del
Fracin (figlia del fabbro, ‘del Fracin’ appunto) il soprannome della famiglia, o quello del padre, funge da patronimico.
26 Si pensi al personaggio della madre di Antonia, la Cavaliera, una sorta di nobile decaduta, a cui la voce narrante fa sempre riferimento senza mai citare il suo vero nome. Non
viene mai menzionato nemmeno il motivo dell’attribuzione del titolo di Cavaliera, che si
può presumere assegnatole per analogia con quello di Cavaliere del Santo Sepolcro che il
Papa aveva conferito al marito, vd. Lsdp, p. 140.
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nome e soprannome occupano posizioni medio-alte, mentre quelli distinti solo dal soprannome dialettale si situano sul gradino più basso
della scala sociale, anche se poi alcuni di loro avranno modo di raggiungere un livello socio-economico più elevato, come accade con il
Gran Masten, che riesce a diventare un particulare (vd. infra), o con il
Camurà, venditore di stoffa, diventato ricco rubando “sul metraggio e
sul resto, […] ai ricchi e ai poveri, allo Stato, ai Francesi (Lsdp, p. 77).27
Motivazione affettiva del soprannome
Il soprannome viene sempre assegnato con una motivazione affettiva,28 anche quando sembra connotato negativamente, come abbiamo
visto nel caso della Limasa, che ha bisogno di essere rinominata, potremmo quasi dire “ribattezzata”, affinché i contadini che l’hanno
adottata possano sentirla parte del loro gruppo familiare. La stessa
Limasa è protagonista, insieme al piccolo Pietro Giuseppe, di una
scena emblematica, in cui il valore affettivo dei soprannomi si mostra
in maniera evidente. Luìs, il padre del bambino, vuole che egli sia
chiamato sempre col nome intero, “come quello di un Re” (Lsdp, p.
120),29 imposizione alla quale si sottrae di nascosto la Limasa, che
ama il ragazzino come un figlio e non può esprimere il suo affetto se
non chiamandolo Bel Grisòn, per via dei suoi begli occhi grigi, mentre lo bacia sulla bocca sporca di polenta. Luìs è partito per la guerra
e “forse muore e non torna più” (Lsdp, p. 120), quindi la Limasa è libera di esprimere i suoi sentimenti attraverso il soprannome, con cui
colloca Pietro Giuseppe in un mondo onomasticamente a lei più vicino e familiare.30
27 Vd. anche Lsdp, pp. 125-6, dove una prolessi ricorda la ricchezza del Camurà e della
moglie, alla quale si accenna ancora alle pp. 228-30, in cui si parla della “futura fabbrica del
Camurà”, che sancisce la sua definitiva acquisizione di un elevato rango sociale. Il soprannome deriva probabilmente dall’aspetto fisico del personaggio, poiché camurà vuole dire
‘butterato dal vaiolo’ (vd. FERRARO, Glossario…, op. cit.). Anche lo Zanzia segue un percorso simile, riuscendo a diventare ricco grazie al contrabbando (Lsdp, pp. 189-90).
28 Vd. B. MIGLIORINI, Dal nome proprio al nome comune, Genève, Olschki 1927, p. 46.
Per i soprannomi in ambito fictional vd. J.-L. BACHELLIER, Sur-Nom, «Communications»,
XIX (1972), pp. 69-92.
29 Si pensi, considerando il periodo storico, a Re Carlo Alberto (1798-1849) (vd. Lsdp,
p. 82), o a Francesco Giuseppe (1830-1916), Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria.
30 Solo la Limasa sembra capirlo, ricambiata, fino a quando non fa una figlia con uno
Zuavo e il bambino si sente tradito e abbandonato anche da lei, vd. Lsdp, pp. 174-5. La na-
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Tipologie di soprannomi
Nel romanzo si ritrovano praticamente tutti i tipi di soprannome
classificati da Paul Lebel,31 incluso quello risalente all’origine geografica, se si considera in tale categoria il Mandrognin32 – nonostante l’unico personaggio dichiaratamente furesto presente nella cerchia familiare
dei protagonisti (a parte la cugina Monette) sia la Luison, zia veneta di
Maria e Matelda, indicata con un’ipocoristico che rimanda alla sua corporatura robusta.33 Alcuni dei soprannomi presenti nel romanzo possono essere considerati appartenenti contemporaneamente a più di
uno dei tipi analizzati da Lebel, che sono:
1) provenienti da particolarità fisiche o morali (Zanzia, Giai, Bel Grison,
Gran Masten, Monsieur Catastrophe, Gramissa [I], Suava [I]);34
2) risalenti all’origine geografica (Mandrognin);
scita di Pietro Giuseppe provoca la morte della madre, la Teresina dei Maturlin, amatissima dalla zia suora, la Magna Munja, che per questo non vorrebbe vederlo mai (vd. Lsdp, p.
114). Egli resta sempre estraneo, alieno al gruppo familiare, come si vede chiaramente nel
6° cap.: “tu non appartieni a noi, sei della razza dei Maturlin”, gli dice suo zio Gavriel
(Lsdp, p. 175), nonostante il nome del ragazzo racchiuda quello del nonno paterno e del
fratello di quest’ultimo, che hanno entrambi sposato la Maria, madre di Luìs, in prime nozze (Giuseppe, detto Giai) e seconde (Pietro, detto Pidrèn, poi Sacarlott). Lo zio si pente
subito e tenta di farsi perdonare: lo chiama allora solo Pietro, ma senza successo (Lsdp, p.
176). Inoltre, il disamore di Luìs per il figlio, che è costato la vita a sua moglie, viene
espresso in chiusura del 4° cap., dal narratore (vd. Lsdp, p. 122). Alla fine Pietro Giuseppe
esce dal gruppo familiare paterno anche fisicamente, andando a vivere con Tante Marianne, a Genova. Egli è poi protagonista di un rapporto che rasenta l’incesto con la Piulott,
nata dal secondo matrimonio di Luìs con Antonia, figlia della Cavaliera. Il ragazzo, da piccolo, ha la stessa facilità musicale della madre, una sorta di segno di premonitrice e diabolica perdizione (vd. la diffidenza iniziale della zia suora di fronte all’amore di Teresina per
Mozart, Lsdp, p. 108).
31 P. LEBEL, Études des surnoms modernes, in ID., Les Noms de personnes en France, Paris, Presses Universitaires de France 1968 (1ª ed. 1946), pp. 12-5.
32 Vd. supra.
33 “La Fantina e la Maria le aveva allevate e con loro era vissuta sempre da quando aveva
lasciato il suo paese disteso fra Udine e Cividale per andare furesta a Moncalvo. […] e si
chiedeva come aveva fatto la sua povera sorella ad essere felice in un posto simile, fra gente
tanto diversa. […] E a guardarla bene si capiva che nonostante le sue forme sode, la schiena
possente, mancava di qualcosa. […] ricordava certe eroine come Genoveffa di Brabante che
avevano passato un tempo della loro vita fra le fiere, più a loro agio con gli animali che con
gli uomini”, Lsdp, pp. 14-5.
34 Per quanto concerne lo Zanzia, ovvero ‘gengiva’, la descrizione fisica del personaggio
ne giustifica il soprannome: “[…] la bocca sdentata che sembrava nuda”; “[…] forse qualche
via di scampo lo Zanzìa l’ha avuta, Dio ne ha avuto pietà così senza denti da quando era ragazzo […]”, Lsdp, pp. 184 e 193. Per l’interpretazione di Giai vd. supra, per le altre vd. infra.
226
PASQUALE MARZANO
3) di mestiere (Catagrata: venditore di formaggi, Fracin: fabbro);35
4) risalenti all’infanzia (Pidrèn, Suava [II]);36
5) provenienti da particolarità del linguaggio o da abitudini diverse
(Sacarlott [I],37 Limasa);
6) dati per analogia (Gramissa [II]);
7) provenienti da un aneddoto (Sacarlott [II], Sireina).38
Plurinominazione e mutamenti onomastici
Diversi personaggi sono dunque citati con più nomi, abitualmente
assegnati durante il corso del tempo. In alcuni casi il mutamento onomastico ricalca un’abitudine tipica del mondo reale,39 come accade alla
Bastianina, che si fa monaca, diventando “Suor Geltrude Rosalia da una
santa che aveva avuto i seni strappati con il ferro rovente” (Lsdp, p.
106) e quindi passando da un agionimo assegnato ad un martire, s. Sebastiano, ad un altro dello stesso genere.40 Poi sarà chiamata solo e semplicemente Magna Munja, ossia la “zia suora”, prima dai familiari (Lsdp,
p. 128) e successivamente da tutti, con un appellativo usato come una
sorta di “titolo che la mette in trono come un re carolingio” (Lsdp, p.
131). Caso diverso è quello della Olanda, così battezzata dalla madre:
Quella bambina la Limasa volle chiamarla Olanda e nessuno riuscì a farle cambiare idea. Al fonte battesimale il prete le diede anche il nome di Maria ma appena uscita dalla chiesa quel Maria fu subito dimenticato (Lsdp, p. 177-8).
35 A tale tipologia si potrebbe assegnare anche Tambiss (Lsdp, p. 8 e passim), attribuito
ad un venditore ambulante, considerando l’antroponimo come un deverbale di tambissee, o
di tabussè, ossia di ‘bussare’, secondo quanto riportato sia nel dizionario di FERRARO (Glossario…, op. cit.), sia in quello del DI SANT’ALBINO (Gran dizionario…, op. cit.).
36 Vd. infra.
37 Vd. infra.
38 “La Sireina si chiamava in realtà Maria Carlotta e aveva sposato uno dei signori di Pomaro ma per raggiungere lo scopo aveva dovuto usare tali arti di seduzione che la voce popolare le aveva dato il soprannome di Sireina. Adesso era vecchia e grassa e quel soprannome le faceva più piacere che non il titolo al quale avrebbe avuto diritto” (Lsdp, p. 221).
39 Vd. E.C. SMITH, Influences in the Change of Name, «Onoma», XIV (1969), pp. 15864, p. 161.
40 Vd. E. DE FELICE, I nomi degli italiani, Milano, Mondadori 1986, pp. 181, 321 e 329.
Per uno sguardo più generale all’imposizione di agionimi in Europa, vd. M. MITTERAURER,
Antenati e santi. L’imposizione del nome nella storia europea, trad. it., Torino, Einaudi 2001
(ed. or. ID., Ahnen und Heiligen: Namengebung in der europäischen Geschichte, Monaco,
C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung 1993).
DIGLOSSIA, NOMI E SOPRANNOMI IN UN ROMANZO DI ROSETTA LOY
227
Il nome le viene imposto seguendo un percorso motivazionale tipico
dei soprannomi,41 poiché deriva da una canzone cantata dal Mandrognin,42 che accudisce prima la Limasa incinta e poi la bambina, fino alla
propria morte, facendole quindi da padre putativo. La Limasa gli riconosce, grazie a quel nome, una sorta di patria potestà onomastica. Lo
stesso Mandrognin, del resto, eserciterà il suo ruolo paterno in maniera
onomaturgicamente più diretta, assegnando alla Olanda il soprannome
con cui il personaggio sarà poi sempre identificato, ossia la Suava, perché mentre lui “lavorava […] la bambina gli si accucciava accanto, suava come lui diceva” (Lsdp, p. 186), quindi per la sua “indole buona e
tranquilla”, come viene ribadito successivamente (Lsdp, p. 193), ma anche probabilmente per la prossimità fonetica di Suava con Zuavo, con
un’allusione al soldato che l’aveva generata (vd. Lsdp, p. 174).
Incanto di nomi e di parole
Nell’ambito di quel mondo magico a cui si accennava all’inizio,43 si
inquadrano anche taluni nomi e appellativi, che mirano a creare o a distruggere incantesimi, secondo un’usanza tipica di modelli culturali
considerati “primitivi”, che però, in qualche maniera, non sono estranei nemmeno alla società occidentale e contemporanea.44 È così che la
Limasa si fa scrivere su di una strisciolina di carta il nome del dragone
che ama, Junot Julien, e quello del paese da cui proviene, Le Puy, strisciolina che poi infila in un sacchettino da appendere al collo, facendo
“voto di non toglierselo più” – ma non riuscendo a mutare l’indole del
soldato, “che non amava le donne” (Lsdp, p. 162). Analogamente, Luìs
scrive il nome della sua amata, la Rosetta del Fracin, sul dorso di un
aquilone che vola alto durante l’incontro dei due amanti, fino a che il
filo si impiglia “fra le spine” (Lsdp, p. 76), lasciando presagire la fine
del loro amore.
Spesso gli incantesimi si rompono, o si creano, con l’uso di termini
dialettali, così come accade con il sostantivo mama, quando le due sorelle Maria e Matelda sono sconvolte di fronte alla scena dell’irricono41
Vd. LEBEL, Études …, op. cit., passim.
“La pôvra Olanda / L’è na fumna d’in tamburín / La va girée taverna pir taverna / A
sirchée lo soi marí…”, Lsdp, cap. 6, p. 174.
43 Vd. supra.
44 Vd. T. TODOROV, Teorie del simbolo, trad. it., Milano, Garzanti 1991 (Garzanti 19841,
ed. orig. ID., Théories du symbole, Paris, Seuil 1977), pp. 285-301.
42
228
PASQUALE MARZANO
scibile zia Luison, che fa loro da madre, ma che adesso balla scompostamente,45 coi capelli sciolti, e parla una lingua a loro ignota:
Anche la lingua che parlano ha cadenze sconosciute. […] Oh terribile quella
allegria, stringe il cuore per quanto scompone i tratti della Luison. […] a un tratto
le vede, lei e la Matelda, e per un attimo i suoi occhi esprimono il rifiuto, quasi l’ostilità per quella immagine quotidiana. […] – Mama. – aveva gridato [Maria], –
mama! – La Luison si era allora alzata, lentamente il suo corpo si era ricomposto
pezzo per pezzo […] (Lsdp, p. 95).
Mama assume il rilievo di una parola magica, capace di ristabilire
l’ordine delle cose, di richiamare indietro nel mondo delle due orfane
quella figura materna che il ballo aveva allontanato, ponendola fuori
dal loro orizzonte affettivo. Un atto linguistico dal carattere magico,
capace di rompere, ma anche di creare incantesimi, come accade nella
scena in cui il piccolo Pietro Giuseppe si rivolge alla futura seconda
moglie del padre, l’Antonia, chiamandola mama46 e attirando così anche su di sé l’odio della Magna Munja (la zia suora), che è invece legata
indissolubilmente al ricordo della Teresina dei Maturlin, la defunta e
vera madre del bambino:
Pietro Giuseppe aveva un sussulto: – Mama, – diceva tirando la mano dell’Antonia, mama … – L’odio della Magna Munja colpì anche lui, come una fucilata
(Lsdp, p. 145).
In fondo, la comunità di individui descritta nel romanzo sembra riconoscere ai nomi e agli appellativi il potere di creare, o annullare,
qualsiasi incantesimo, anche quello che spinge verso una morte imminente, come accade al giovane Gavriel, salvato da una parola fatata
pronunciata dallo spettro di suo nonno, come vedremo nel paragrafo
dedicato al Gran Masten.47
45 Il ballo e un certo tipo di musica sono mostrati nella loro forma quasi dionisiaca in diverse parti del romanzo (vd. Lsdp, passim), come una specie di tentazione peccaminosa alla
quale sarebbe meglio non abbandonarsi, secondo il punto di vista dei personaggi più severi
e rispettosi della religione e delle regole sociali. Un segno di tale considerazione del ballo si
può rintracciare nel profilo biografico dell’autrice, come rivela ella stessa nell’intervista inedita di cui si è detto all’inizio (Interv., cit., vd. supra), rispondendo ad una domanda sul
“senso del peccato”, partendo dalla quale discute poi delle differenze notate nel rapporto
dei suoi genitori con il ballo e il cinema: il padre, piemontese, li considerava con una sorta
di severa distanza, mentre la madre, romana, amava ballare e non mostrava alcuna remora
nei confronti del cinema.
46 Più tardi anche la Fantina la chiamerà mama, nel delirio che ne precede la morte, rivolgendosi a lei come faceva da bambina con la zia Luison (Lsdp, p. 208).
47 Vd. infra.
DIGLOSSIA, NOMI E SOPRANNOMI IN UN ROMANZO DI ROSETTA LOY
229
Effets de réel onomastici
Le incertezze manifestate a proposito degli “informanti”48 (date, età
dei personaggi, nomi, ecc.), così come la dichiarata impossibilità di determinarli, fanno parte delle strategie narrative adottate dagli scrittori
realisti per creare effets de réel tesi ad autenticare la realtà del referente
a cui si rimanda, o a cui si finge di rimandare.49 A tale ambito si possono ascrivere l’omissione del toponimo relativo al luogo in cui si sviluppa l’intreccio e la voce narrante che, nell’incipit, esprime la difficoltà di
determinare un odonimo.50 La stessa tecnica viene adoperata quando il
narratore dichiara: “Nessuno hai mai saputo il vero nome del Gran
Masten perché i registri parrocchiali andarono bruciati durante la prima campagna napoleonica” (Lsdp, p. 3).51
Analogia e antifrasi
Il principio che regola l’attribuzione del nome, del soprannome, o
dell’ipocoristico, sembra essere quasi sempre l’analogia.52 Solo in una
circostanza la voce narrante sottolinea il valore antifrastico di un prenome:
48 Vd. R. BARTHES, Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, in AA.Vv., L’analisi del
racconto, trad. it., Milano, Bompiani 19822 (19691), pp. 7-46, p. 21 (ed. orig. ID., L’analyse
structurale du récit, numero speciale di «Communications», VIII (1966), pp. XXX).
49 Vd. R. BARTHES, L’Effet de réel, «Communications», XI (1968), pp. 84-9. Un altro effet de réel può consistere nella citazione di personaggi storici, come accade con Pia, così
battezzata (ma detta la Piulott) “in onore di Pio IX” (Lsdp, p. 181). Da notare che Pia è uno
degli “altri nomi” che “viene imposto” all’autrice “in onore del Papa sotto cui è nata: Pio
XI” (vd. R. LOY, La parola ebreo, Torino, Einaudi 1997, p. 8).
50 Come già accennato nel paragrafo iniziale, vd. supra.
51 Si tratta di un “effetto” abitualmente presente nel romanzo storico, vd. a tal proposito
A.R. PUPINO, “Il vero solo è bello”. Manzoni tra Retorica e Logica, Bologna, il Mulino 1982,
pp. 72-83 e passim. Per quanto concerne analoghi effets onomastici in un altro scrittore italiano, vd. P. MARZANO, La poetica del nome in Piero Chiara, in B. PORCELLI-D. BREMER (a c.
di), I Nomi da Dante ai contemporanei, Atti del IV Convegno Internazionale di «Onomastica & Letteratura» (Pisa, 27-28 febbraio 1998), Viareggio, M. Baroni ed. 1999, pp. 165-94,
pp. 181-3.
52 I figli di Pidrèn, p. es., vengono tutti battezzati per “allusione” (vd. MIGLIORINI, Dal nome …, op. cit., p. 24), in memoria di individui ammirati, o cari, ossia con un criterio in cui l’analogia è auspicata: “Al primo […] mise nome Gavriel dal compagno d’armi […] e il secondo volle fosse battezzato Louis Charles perché così si era chiamato il generale Desaix […].
L’ultimo figlio infine venne chiamato Gioacchino per amore di Murat […]”, Lsdp, p. 20.
230
PASQUALE MARZANO
Il marito [di Sofia] non volle farsi ritrarre, gli mancava l’occhio sinistro e lo teneva coperto da una benda. Aveva avuto una vita avventurosa anche se si chiamava di nome Tranquillo: a sedici anni era scappato di casa per raggiungere Garibaldi e si era perso nelle paludi di Comacchio (Lsdp, p. 206).
Sarebbe da segnalare anche il caso di Gramissa, che lavorando con
la famiglia di Luìs perde la qualità fisica, ovvero la magrezza, che le
aveva fatto meritare quel soprannome (Lsdp, p. 53), oramai antifrastico, che continua però ad essere usato come se fosse un nome proprio,
arbitrario ed immutabile.
L’avvicendarsi di numerosi personaggi e relativi nomi, nella serie di
analessi e prolessi con cui procede il romanzo, può apparire piuttosto
intricato, tanto da spingere l’autrice a proporre una sorta di albero genealogico a completamento del testo, con l’esemplificazione grafica
della struttura parentale in cui i protagonisti sono inseriti.53
Traduzioni: inglese e francese
Nella versione italiana, così come in quella francese, l’albero genealogico della famiglia è inserito a conclusione del libro, mentre è posto
all’inizio in quella inglese (così come si fa abitualmente per l’indice),
per una diversa convenzione biblio-tipografica. Un dato apparentemente irrilevante, ma che potrebbe invece orientare il lettore, mettendogli sotto gli occhi fin dall’inizio la rappresentazione sinottica della vita e delle relazioni parentali dei personaggi, anticipando la schematizzazione di una rete di rapporti che invece i lettori italianofoni e francofoni sono invitati a riannodare solo alla fine del libro, anche se la traduttrice francese sente l’esigenza di aggiungere inizialmente una nota a
piè di pagina con cui rinvia all’albero genealogico finale.54
Da un primo confronto fra le due traduzioni, si può subito notare
una diversità sostanziale di resa del testo italiano, specialmente per
quanto concerne l’approccio all’onomastica letteraria e ai lacerti in dialetto, sia per motivi legati a differenze di carattere prettamente morfosintattico e lessicale concernenti le lingue d’arrivo, sia perché il testo
originale presenta diverse espressioni in lingua francese, fenomeno che
53
Vd. infra, tavola fuori testo.
La nota accompagna il nome Pidrèn, che viene usato come titolo per il primo capitolo
(vd. LRdp, p. 7).
54
DIGLOSSIA, NOMI E SOPRANNOMI IN UN ROMANZO DI ROSETTA LOY
231
pone un problema accessorio alla traduttrice transalpina.55 In altre circostanze, invece, le differenze sembrano piuttosto prodursi per i diversi criteri metodologici e traduttologici adottati da William Weaver e da
Françoise Brun. Infatti, nonostante fin dal titolo, tradotto con The Dust Roads of Monferrato,56 Weaver sembri assumersi l’onere di scelte
meno rispettose del testo originale, almeno sotto il profilo puramente
letterale, egli tende a preservarne le peculiarità linguistico-espressive e
socio-culturali, osservando una delle regole che Belloc definisce “intenzione per intenzione”, come ci ricorda Susan Bassnett:
Il traduttore deve rendere “intenzione per intenzione”, tenendo presente che
“l’intenzione di una frase in una lingua può avere un’enfasi maggiore o minore rispetto alla forma nella quale viene espressa” […] Nella traduzione delle “intenzioni” è spesso necessario aggiungere parole non presenti nell’originale “per conformarsi all’idioma della propria lingua”.57
Proprio ciò che fa Weaver in più di un’occasione, a partire dal titolo
inglese, a cui aggiunge un toponimo che è invece assente nell’originale
italiano. Per capire come mai, bisogna chiedersi quale sia la “funzione”58 di quel toponimo, che sembra assolvere esclusivamente il compito
di rendere chiaro, fin dall’inizio, che il romanzo è ambientato in Italia.
Il toponimo Monferrato può servire a far scattare nella mente del lettore
americano l’associazione d’idee con l’Italia: una sorta di captatio benevolentiae, di cui il traduttore si assume la responsabilità, anche se per tale
scelta non si può nemmeno escludere completamente un intervento dell’editore.59 Non a caso la quarta di copertina recita, al primo rigo,
“From Italy, a luminous novel”. Si tratta dunque di “strade di polvere”,
ma evidentemente italiane, e il toponimo svolge così una funzione di
“informante” e di “ancoraggio” referenziale, simile a quella analizzata e
descritta da Roland Barthes a proposito dei toponimi francesi inventanti da Proust, che servono a veicolare soprattutto un’idea di “Francia”.60
55
Vd. infra.
Op. cit.
57 S. BASSNETT, La traduzione. Teorie e pratica, trad. it., Milano, Bompiani 1999, pp.
144-5.
58 Vd. ivi, p. 146.
59 Come confermato dalla Loy (comunicaz. personale).
60 Indipendentemente dalla loro reale esistenza, vd. R. BARTHES, Proust e i nomi, in ID.,
Il grado zero della scrittura, seguito da Nuovi saggi critici, trad. it., Torino, Einaudi 1982, p.
128 (ed. orig., ID., Le degré zéro de l’écriture suivi de Nouveaux essais critiques, Paris, Seuil
1953 e 1972). Per la funzione di “ancoraggio” referenziale, attraverso il testo che accompagna le immagini, vd. R. BARTHES, Rhétorique de l’image, «Communications», IV (1964),
56
232
PASQUALE MARZANO
Gran Masten
Weaver segue un principio analogo a quello adottato per il titolo
quando trasforma Gran Masten, il primo antroponimo presente nel testo, in Great Masten (TDRoM, p. 7). Il personaggio a cui si riferisce il
soprannome è il capostipite della famiglia e compare al vertice dell’albero genealogico allegato al romanzo.61 In tal caso la trasformazione
può avere un senso nella lettura semantica che il traduttore anglofono
opera nei confronti del soprannome, non trattandolo come una semplice etichetta priva di significato. La descrizione del personaggio può
rendere chiari i motivi alla base della soluzione adottata da Weaver:
La casa la fece costruire il Gran Masten alla fine del Settecento quando divenne un particulare, qualcuno che aveva terra di suo, buoi, mucche, galline e conigli,
e tanta moggia da avere bisogno di altre braccia. […]. Certo era uno che si era arricchito con l’andare e venire dei soldati, con il foraggio per i cavalli e il grano nascosto e rivenduto tre volte tanto (Lsdp, p. 3).
Un personaggio dalla tenacia leggendaria, di cui “si sa solo che lavorando dall’alba al tramonto, senza soste mai, in pochi anni raddoppiò
le moggia di terra” (Lsdp, p. 3). Un uomo tanto tenace e grande da non
arrendersi completamente nemmeno alla morte, poiché ritorna, diversi
anni dopo la sua scomparsa, per salvare suo nipote Gavriel dal probabile decesso per annegamento, durante l’alluvione del 1839. Lo fa incitandolo con la parola Angirmà, un appellativo significativo, con cui la
tata chiamava Gavriel da bambino e che in tale contesto esercita il potere di una formula magica, poiché significa ‘ragazzo che si incanta con
le parole fatate’, come ricorda il narratore (Lsdp, p. 90).62
pp. 40-51, pp. 44-5. Per il suo uso nell’ambito dell’onomastica letteraria, vd. MARZANO, La
poetica…, op. cit., pp. 183-4.
61 Vd. tavola fuori testo.
62 “Fu quella parola, ripetuta vicinissima al suo orecchio, a salvarlo. – Angirmà, – diceva, – Angirmà curàgi… – e a Gavriel le lacrime avevano chiuso la gola perché quello era stato il nome con cui lo aveva chiamato bambino la Gonda. E improvvisamente aveva capito
che il traghettatore ormai lontano era il Gran Masten come la Gonda lo aveva sempre descritto. Il Gran Masten venuto perché lui, Gavriel, non doveva morire” (Lsdp, p. 90). In tal
caso la Brun non traduce Angirmà, ma il dialettale curàgi, che diventa courage nella versione
francese (LRdp, p. 116). Weaver invece non traduce il dialetto, fidando probabilmente nella
capacità del lettore anglofono di percepire il senso dell’inglese courage nell’omologo sostantivo piemontese curàgi (TDRoM, p. 96). Alda Rossebastiano (comunicaz. pers.) conferma
l’esistenza della “forma ngërmà, di cui angirmà rappresenta sicuramente una variante. È nota nel Canavese e significa ‘ingarbugliato’, ‘impedito nei movimenti’. Si dice, ad esempio, di
chi è infagottato in vestiti spessi e scomodi”.
DIGLOSSIA, NOMI E SOPRANNOMI IN UN ROMANZO DI ROSETTA LOY
233
Non ci viene detto esplicitamente perché il nonno di Gavriel fosse
soprannominato Gran Masten,63 ma la sua descrizione trasmette al lettore l’idea di un essere dotato di grande forza e tenacia, di una volontà
ferrea e invincibile. Tutte qualità probabilmente già racchiuse nella seconda sezione del soprannome, Masten, che ricorda molto da vicino il
piemontese Mastin,64 ossia una persona ostinata, caparbia, dotata di
grande forza d’animo. Del resto, anche in italiano il sostantivo “mastino” può essere adoperato con lo stesso significato.65 Inoltre, il Gran
Masten è dipinto anche fisicamente come una sorta di gigante, considerando che “aveva gambe così lunghe da oltrepassare i fossi senza saltare” (Lsdp, p. 3). Per l’interpretazione di Masten in tal senso ci sarebbe bisogno però di una competenza dialettale di cui è presumibilmente
privo qualsiasi lettore non piemontese di media cultura, sia quello italiano, sia quello inglese o francese. Il compito di orientare il lettore può
allora essere svolto dall’aggettivo Gran che lo precede, che sta ad indicare una grandezza fisica, o figurata, e che in inglese viene adeguatamente reso con Great. La Brun, invece, ha modo di intervenire solo
parzialmente, grazie alla quasi totale omografia che contraddistingue
l’omologo grand, che si differenzia solo per una -d finale, aggiunta infatti nella versione francese (LRdp, p. 8: Grand Masten).
63
A tal proposito, vd. supra, par. Effets de réel onomastici.
In effetti, pare non si possa completamente escludere, nemmeno per il Piemonte, un
fenomeno ampiamente diffuso nei dialetti settentrionali, ossia il passaggio da /i/ tonica ad
/e/ davanti a nasale, come nell’ipotesi avanzata per Mastin/Masten, nonostante il limite
del lombardo occidentale posto da Rohlfs (G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, trad. it., I, Torino, Einaudi 1966, pp. 52-3). Ringrazio a tal proposito Giorgio Marrapodi (Università di Saarbrücken) per le ricerche bibliografiche condotte in tal senso, a parziale conferma della mia ipotesi. Inoltre, Alda Rossebastiano mi fa notare che Masten e Pidrèn potrebbero essere considerate due varianti, determinate socialmente o cronologicamente, rispetto alla tipologia degli altri ipocoristici presenti nel romanzo che terminano con -in (Manin, Maturlin, Duardin). Per un panorama degli influssi
linguistici caratterizzanti l’italiano nel medesimo periodo in cui la Loy ambienta la sua
storia, vd. B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Milano, Bompiani 1994, cap. XI, Il
primo Ottocento. Dall’invasione francese alla proclamazione del Regno d’Italia (1796-1861),
pp. 527-99.
65 Si veda p. es., con un’accezione negativa del termine, il celebre “mastin” dantesco: “'l
mastin vecchio e 'l nuovo da Verrucchio”, Inf. XXVII, 46 (“tiranno fello” Malatestino), Inf.
XXVIII, 81. I due “mastini” sono Malatesta il Vecchio e suo figlio Malatestino da Verrucchio, tiranni di Rimini dal 1295, i quali si distinsero per la loro crudeltà, soliti a fare “d’i
denti succhio” (Inf. XXVII, 48), cioè aggredire e dilaniare gli avversari politici.
64
234
PASQUALE MARZANO
Presenza-assenza di note esplicative
Sembra però che la Brun opti scientemente per una traduzione in
cui l’intervento del traduttore direttamente sul testo sia limitato al minimo indispensabile, preferendo rinviare il lettore ad una lunga serie di
note esplicative a piè di pagina, in cui si mira a chiarire il senso di alcuni appellativi e si forniscono indicazioni relative ad aspetti della storia,
della cultura e del folklore locali.66
È così che la traduttrice spiega come Magna in dialetto voglia dire
tante, ‘zia’ (LRdp, cap. III, p. 105),67 o come Barba sia l’equivalente
dialettale di oncle, ‘zio’ (LRdp, cap. VI, p. 226), seguendo un metodo
che talvolta produce risultati discutibili, come sta a dimostrare proprio
la nota relativa al significato di Magna, che pone dei dubbi sulla sua effettiva utilità. Infatti, a ben guardare la fonte, è la stessa voce narrante
a lasciar intendere cosa significhi Magna, citando il corrispettivo italiano zia immediatamente prima che sia adoperato il termine piemontese:
“[…] da lì [Bastianina] chiama la zia [cors. aggiunto]: – Vieni Magna,
– le dice, – vieni anche tu!” (Lsdp, cap. III, p. 81). Se non bastasse, dopo aver chiarito, nella pagina seguente, che “la Munja […] vuol dire la
Suora” (Lsdp, cap. III, p. 82), sarà ancora la voce narrante, due capitoli
dopo, a spiegare che “Magna Munja […] vuol dire la zia suora [cors.
aggiunto]” (Lsdp, cap. V, p. 128), come riporta letteralmente anche la
versione francese (LRdp, p. 165). A tal punto, considerata retrospettivamente, la nota relativa a Magna diventa ridondante.
Weaver, come già accennato, adotta un approccio diverso, pur aggiungendo qualcosa di suo, ma nel testo stesso, ossia includendovi l’equivalente inglese di ‘zia’, aunt: “‘Come in, Magna!’ she says to her,
‘Aunt! [cors. aggiunto] You come in, too!’” (TDRoM, p. 86).68
66 Vd. LRdp, note delle pp. 58, 66, 81, 103, 152, 155, 159, 162, 175, 181, 214, 218, 224,
232-3, 272, 303. A proposito di possibili effetti stilistici limitati da un eccesso di spiegazioni il
critico Wayne C. Booth afferma: “After all, we say, it is only the enemies of literature who ask
that its effects be handed to the reader on a platter” (W.C. BOOTH, The Rhetoric of Fiction,
Chicago and London, University of Chicago Press 1961, p. 372. Vd. anche ivi, pp. 89-116).
67 Ci si riferisce alla zia Matelda, detta la Fantina probabilmente perché rimasta nubile:
“Non si è sposata la Matelda e non si sposerà più, ormai tutti la chiamano la Fantina e a lei
quel soprannome piace, le sembra dia un suono molto più dolce” (Lsdp, p. 10).
68 In fondo, entrambi i traduttori, in maniera diversa, non considerano l’eventualità che
l’autrice possa aver inizialmente taciuto il significato esplicito di Magna, anche per il lettore
italiano, creando volontariamente un vuoto semantico, da colmare solo successivamente
(Lsdp, p. 128). Insomma, si potrebbe trattare di un “effetto di stile”, con cui creare un’aspettativa nel lettore, almeno in quello non piemontese, spingendolo ad assumere un ruolo
DIGLOSSIA, NOMI E SOPRANNOMI IN UN ROMANZO DI ROSETTA LOY
235
Per quanto concerne i soprannomi, la traduttrice francese interviene
solo una volta in nota,69 nel II capitolo, spiegando che Gramissa, “en
dialecte” sta per “maladive, souffreteuse” (LRdp, p. 71), ossia ‘malaticcia’, ‘sofferente’, nonostante nel testo originale il soprannome risulti
inequivocabilmente interpretato dalla voce narrante, che recita: “si
chiama la Gramissa per via del suo aspetto macilento anche se da
quando lavora nella casa ha fatto una faccia tonda e piena da luna”
(Lsdp, cap. II, p. 53 ). Si tratta di un probabile eccesso di zelo,70 con
cui la traduttrice intende trasmettere al lettore francofono il senso ulteriore che può essere veicolato dall’aggettivo italiano “macilento”, ossia
il riferimento alle possibili cause dell’originaria magrezza del personaggio: una connotazione presente nel termine italiano,71 ma non percettibile nel francese émacié con cui la Brun lo traduce.72
Anche in questo caso, Weaver non sente l’esigenza di ulteriori spiegazioni e traduce semplicemente: “she is called Gramissa because of her
attivo nella costruzione del testo (vd. U. ECO, Lector in fabula, Milano, Bompiani 1993; 1ª
ed. Bompiani 1979): un possibile percorso ermeneutico annullato dagli interventi dei due
traduttori. Weaver, inoltre, traduce “Barba Gavriel” (Lsdp, p. 176) con l’equivalente inglese
“Uncle Gavriel” senza aggiungere alcuna nota (TDRoM, p. 184).
69 Traduce però il soprannome Sireina con Sirène, nonostante la prossimità del termine tradotto con quello francese (LRdp, p. 283), mentre Weaver sceglie di non trasformarlo nell’equivalente inglese Siren (TDRoM, p. 231), lasciando al lettore anglofono il compito di decodificarne il senso, peraltro comunque già interpretato nel testo originale (Lsdp,
p. 221).
70 Uno zelo di cui la Brun fornisce una testimonianza diretta (F. BRUN, Le poisson mort
de madame Della Seta, «TransLittérature», XXII (inverno 2001), pp. 35-42), per quanto
concerne la traduzione di un ittionimo presente in un'altra opera della Loy (R. LOY, Madame Della Seta aussi est juive, Paris, Rivages 1999; ed. it. EAD., La parola ebreo, cit.). La Brun
narra degli scrupoli che l’hanno colta nell’atto di tradurre il sostantivo spigola, per evitare
tutte le possibili connotazioni fuorvianti che secondo lei avrebbero potuto condizionare il
lettore francofono, posto di fronte agli equivalenti termini francesi bar o loup (ringrazio Isabel Violante che ha attirato la mia attenzione sull’articolo della Brun, fornendomene poi le
fotocopie). Il testo rappresenta un’interessante descrizione del punto di vista della traduttrice, conclusa dall’incontro con la Loy, che taglia corto, spiegando che non si poteva cambiare il nome di quel pesce perché in realtà: “C’ÉTAIT un bar” (BRUN, Le poisson …, op. cit., p.
42). Lo stesso scrupolo però non si rileva a proposito del cognome della piccola Rosetta e
della sua famiglia. Infatti, la traduttrice rievoca le scene narrate nel libro di cui discute (vd.
supra) facendo riferimento ai “Loy, une famille de la bourgeoisie romaine” e agli “enfants
Loy” nell’anno 1942 (ivi, pp. 36-8 e 41), e non prestando attenzione al fatto che il ramo paterno della famiglia della Loy è piemontese e che, in quell’epoca, la futura scrittrice si chiamava ancora Rosetta Provera.
71 “Macilento: Magrissimo in conseguenza di una vita stentata o per una malattia”, Disc
Compact - Dizionario italiano Sabatini Coletti, Firenze, Giunti Gruppo Editoriale 1997.
72 Vd. Dictionnaire de la Langue Française: Lexis, Paris, Larousse 1989, p. 618.
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PASQUALE MARZANO
emaciated look even though since she has been working in the house
she has developed a full, round face like the moon’s” (TDRoM, p. 59).73
Francese e inglese nel testo italiano
Almeno un tipo di nota esplicativa usato dalla Brun sembra invece
essere dettato da una scelta obbligata, ed è quello che serve a spiegare
come determinate parole o locuzioni siano presenti in francese già nella
versione italiana, come accade per il nomignolo Monsieur Catastrophe
con cui Luìs chiama suo fratello Gavriel, perché “sempre incline ai
«no» della vita” (Lsdp, cap. III, p. 78).74 Un’esigenza che però la traduttrice non mostra di sentire costantemente, poiché rompe la regola che
sembra essersi autoimposta proprio quando si tratta di tradurre il brano
nel quale la voce narrante rievoca la motivazione all’origine del soprannome Sacarlott, adoperato per il Pidrèn (primogenito del Gran Masten):
Presque tout de suite on lui donna le nom de Sacarlott (le Sacredioux des
Français) parce qu’il s’irritait facilement, ou plus probablement parce que tous
étaient intimidés par lui et étaient saisis d’un haut-le-corps quand ils se le retrouvaient derrière eux. C’est la Luison qui l’appela ainsi la première quand un matin
Pidrèn entra dans la cuisine alors qu’elle endormait un poulet en lui mettant la tête
sous l’aile […]. Se retournant, elle le vit derrière elle, elle eut peur, le poulet lui tomba des mains et alla se briser l’os du cou. “Sacredioux!” cria Pidrèn (LRdp, p. 30).75
I due Sacredioux, presenti come parole straniere nell’edizione italiana,
73
Il lettore nordamericano, o anglofono, ha però modo di scorgere la stessa connotazione dell’italiano “macilento” nell’inglese emaciated, vd. Webster’s New World College Dictionary, Cleveland, Ohio, Macmillan 19973, p. 442.
74 Vd. versione francese, LRdp, p. 102, con la relativa nota “En français dans le texte”.
75 “Quasi subito gli venne dato il soprannome di Sacarlott (il Sacrediux [sic] dei francesi) perché si irritava con facilità, o più probabilmente perché tutti ne avevano soggezione e
quando se lo trovavano alle spalle erano colti da un sussulto. Fu la Luison la prima a chiamarlo così quando una mattina il Pidrèn entrò in cucina mentre lei stava addormentando un
pollo con la testa sotto l’ala […]. Girandosi se lo vide di spalle, si spaventò, e il pollo le cadde di mano andandosi a spezzare l’osso del collo. - Sacrediux! [sic] gridò il Pidrèn” (Lsdp,
cap. I, p. 21). Curiosamente, né la Loy, né la Brun adottano la variante ortografica francese
(Dictionnaire…, op. cit., p. 1676), ossia Sacredieu!, sinonimo di Sacrebleu!, indicato come
“Juron familier”, ‘imprecazione, bestemmia familiare’. Weaver invece adotta la grafia standard, Sacredieu (TDRoM, pp. 25-6). Alda Rossebastiano (nella discussione successiva alle
comunicazioni, vd. supra) fa osservare che “Sancarlott in piemontese diventa il juron Sacarlott”, ma Ferraro (FERRARO, Glossario…, op. cit., p. 96) riporta quasi letteralmente la motivazione presente nel romanzo: “Sacarlott, sacardiore, sacardisma, eufemismo, invece di sacro
Dio, il sacredieu dei Francesi, che anch’essi dicono Saperlotte […]”.
DIGLOSSIA, NOMI E SOPRANNOMI IN UN ROMANZO DI ROSETTA LOY
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non sono segnalati col solito avvertimento (“en français dans le texte”)
nella versione francese. Uno scarto rispetto alla norma abitualmente seguita, da considerare però nel contesto più ampio di un problema traduttologico di non facile soluzione, che diversi altri traduttori si sono
trovati ad affrontare, ben prima della Brun, come ci ricorda ancora una
volta Umberto Eco:
Uno dei problemi che mi ha sempre affascinato è come il lettore francese possa
gustare il primo capitolo di Guerra e pace tradotto in francese. Il lettore legge un
libro francese dove alcuni personaggi parlano francese e non vi trova nulla di strano. E anche se il traduttore mette in nota a quel dialogo “en français dans le texte”, questo serve pochissimo: l’effetto è perduto in ogni caso.76
Eco non suggerisce soluzioni, né forse si propone di farlo, ma si limita a sollevare la questione, presente anche nel volume Les Routes de
poussière, come abbiamo appena visto, anche se con lacerti in lingua
straniera sempre abbastanza contenuti, spesso composti da singoli vocaboli, o da brevi locuzioni.
Posto di fronte ad un problema analogo, nell’ultimo capitolo, Weaver risolve la questione agendo ancora una volta direttamente sul testo
e senza ricorrere a note esplicative. In tale circostanza il problema è
posto dal sostantivo inglese boy, che sta per ‘maggiordomo’, ‘domestico’, adoperato da Pietro Giuseppe mentre racconta la sua vita presso la
Tante Marianne ai fratelli e alle sorelle, stimolandone la curiosità, perché non capiscono cosa significhi: “Un … che? Chiede il Duardin. –
Boy, ripete Pietro Giuseppe laconico” (Lsdp, p. 195).
È l’unica occasione in cui il traduttore americano potrebbe essere
spinto ad aggiungere una nota dello stesso tipo di quelle ricordate da
Eco, ma Weaver risolve interpolando una locuzione nel testo originale:
“‘A what …?’ Duardin asks. ‘Boy ,‘ Pietro Giuseppe repeats the English word, laconic [cors. aggiunto]” (TDRoM, p. 204).77
In tal modo, pur ritrovandosi di fronte ad un testo completamente
in inglese, il lettore anglofono è indotto a percepire l’estraneità e inintelligibilità della parola boy per i personaggi italiani, o meglio, piemontesi, di cui sta leggendo.
76 U. ECO, Sulla traduzione, in AA.Vv., Teorie contemporanee sulla traduzione, trad. it.,
Milano, Bompiani 1995, pp. 121-46, p. 132.
77 Con un intervento dello stesso genere, operato direttamente sul testo originale, il traduttore de Il nome della rosa (cit.) affronta brillantemente il problema di uno scambio di
battute particolarmente difficile da rendere in inglese, come lo stesso Eco ricorda (ECO, Sulla traduzione, cit., p. 131).
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PASQUALE MARZANO
Traduzione del dialetto
Weaver fa mostra di grande cautela nell’affrontare le espressioni dialettali disseminate nel romanzo della Loy, che egli non traduce praticamente mai,78 provvedendo però ad aggiungere ogni volta una sorta di
spiegazione in inglese, assimilandola al testo, mentre la Brun le traduce
quasi tutte in francese, senza aggiungere la nota esplicativa “en dialecte
dans le texte”, che ci si potrebbe aspettare coerentemente con lo stile
traduttologico adottato. L’effetto mimetico del parlato contadino, che
l’autrice probabilmente intendeva ottenere,79 viene così ad essere enormemente ridotto. Eppure, l’importanza del dialetto è evidente, come la
stessa Brun riconosce quando traduce il seguente passaggio:
[…] una voce esile e roca dove l’italiano più puro vibra come una di quelle
corde metalliche delle chitarre giocattolo. Nessuno capisce, eppure è costretto a
capire. Gli occhi inflessibili [della Bastianina] […] mettono i cervelli in movimento obbligandoli a decifrare quello che sembra impossibile. […] Non di rado con
gli sbagli più clamorosi (Lsdp, p. 79).
Infatti, ella aggiunge una nota a piè di pagina con cui spiega il motivo per cui “nessuno capisce”: “Seuls les intellectuels et les classes urbaines possédantes parlaient alors aussi l’italien, le reste de la population ne s’exprimant que dans les dialectes régionaux” (LRdp, p. 103),
ma quello che il testo della Loy tende a “mostrare”, nella sua versione
originale e nella traduzione inglese, risulta invece essere “riferito” in
quella francese.80
Concludo con un solo un esempio di tale rilevante differenza, ossia
con la scena dell’imposizione del nome al primo figlio del Sacarlott, citando prima dall’edizione italiana:81
78
Tranne nel caso di Barba → Uncle Gavriel, vd. supra.
Come risulta evidente dalla lettura dell’opera e come la stessa Loy conferma nell’intervista più volte citata, in cui ricorda di aver fatto uso del piemontese: “Per il suono, come
per gli odori […], perché risvegliano la memoria di un tempo e di un luogo. […] cercando
di spiegare prima o dopo quello che veniva detto. Non era importante capire esattamente
cosa dicessero i personaggi quando parlavano in dialetto, quanto piuttosto far risuonare
quel dialetto nella mente del lettore, per evocare quell’ambiente”.
80 Per la differenza fra telling e showing, vd. BOOTH, The Rhetoric …, op. cit., pp. 93,
154, 196-7, 202-3, 211-40.
81 Tra l’altro, la Brun modifica anche il nome di Luìs scrivendolo senza accento, così come corregge una svista onomastica presente nell’originale, ossia la doppia forma Geltrudetesto vs Gertrude-albero geneaologico, intervenendo sulla variante che ricorre una sola volta, ossia Gertrude, quella “più antica del nome italiano”, che non presenta la dissimulazione
della -r- in -l- (DE FELICE, I nomi …, op. cit., p. 181). Lo stesso fa Weaver, che riporta la forma Geltrude già nello schema posto all’inizio del testo (TDRoM, p. 6).
79
DIGLOSSIA, NOMI E SOPRANNOMI IN UN ROMANZO DI ROSETTA LOY
239
Il Pidrèn non disse né che era contento che fosse maschio né che era bellissimo
come tutti affermavano, disse solo: – As ciamerà Gavriel, – e tornò fuori a sorvegliare la mungitura delle mucche (Lsdp, p. 23).
La Loy non ha bisogno di tradurre il piemontese per il suo “lettore
modello”,82 perché tre pagine prima lo ha preparato a comprendere la
sequenza, anticipando l’atto onomaturgico compiuto poi in dialetto:
Al primo dei suoi figli mise nome Gavriel dal compagno d’armi che gli aveva
salvato la vita a Wagram […] (Lsdp, p. 20).
La traduttrice francese non ne tiene conto e cancella il dialetto dal
testo, traducendo: “Il s’appellera Gavriel” (LRdp, p. 33). Weaver, invece, lo conserva e scrive: “As ciamerà Gavriel”, aggiungendo subito dopo la traduzione in inglese, “he’ll be called Gavriel” (TDRoM, p. 27).83
Se è lecito proporre un parallelo con il cinema, è come se Weaver
sottotitolasse l’originale, preservandolo, mentre la Brun procedesse ad
un doppiaggio, magari accuratissimo, che però copre inevitabilmente
le “voci” dell’edizione italiana.84
Non saprei dire quale delle due traduzioni sia più efficace, né di
quale la Loy possa dirsi maggiormente soddisfatta,85 tenendo conto so82
Vd. ECO, Lector…, op. cit., pp. 50-62.
Lo stesso accade con la sequenza dell’Epilogo (Lsdp, p. 240), quella che vede i due fratelli (Gavriel e Luìs) ormai vecchi, seduti completamente in silenzio davanti al fuoco, prima
di andare a dormire, ossia prima di concludere metaforicamente la loro “giornata terrena”
[vd. R. LOY, La bicicletta, Torino, Einaudi 1997 (19741), p. 39] ed il libro, con uno scambio
di battute in dialetto. Weaver integra il testo dialettale con quello inglese: “Andumma a
drommi, he would say, ‘Let’s go and sleep’. Andumma, Luìs would answer […]” (TDRoM,
p. 251), mentre la Brun lo traduce: “«Allons dormir», disait-il «Allons-y», repondait Luis”
(LRdp, p. 307). Si tratta di una sequenza lungamente meditata dall’autrice (vd. intervista,
cit.): “[la storia] dei due fratelli taciturni davanti al camino, con cui si conclude il romanzo,
me la raccontava mio padre e c’era già quando ho iniziato a scrivere il libro”. Una storia che
ritorna anche in un’altra opera, con lo stesso scambio di battute in dialetto tra i due fratelli,
che si chiamano però Pipen e Angiolino (LOY, La bicicletta, cit., p. 39).
84 Per quanto concerne doppiaggio e sottotitolatura, vd. brevemente G. MOUNIN, La
traduzione per il cinema, in ID., Teoria e storia della traduzione, trad. it., Torino, Einaudi
19655, pp. 159-65. Vd. anche S. RAFFAELLI, La parola e la lingua, in AA.VV., Storia del cinema mondiale, 5 voll., V, Torino, Einaudi 2001, pp. 855-907, spec. pp. 890-901.
85 Mi sovvengono a questo proposito le parole di Kundera: “Lo scrittore che si sforza di
sorvegliare le traduzioni dei suoi romanzi corre dietro alle innumerevoli parole come un pastore dietro a un gregge di pecore brade”, M. KUNDERA, L’arte del romanzo, trad. it., Milano,
Adelphi 1988, p. 172. Del resto, la Loy ha un’esperienza diretta delle difficoltà con cui un traduttore è costretto a confrontarsi, essendosi personalmente cimentata con le opere francesi Dominique (E. FROMENTIN, Dominique, trad. it. di R. Loy, Torino, Einaudi 1972) e La Princesse de
Clèves (MME. DE LAFAYETTE, La Princesse de Clèves, trad. it. di R. Loy, Torino, Einaudi 1990).
83
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prattutto delle differenze strutturali fra le due lingue d’arrivo, ma la
versione di Weaver pare mostrare una maggiore attenzione per quel
microcosmo contadino e piemontese che l’autrice si sforza di ricostruire in maniera convincente nel suo romanzo, anche attraverso la diglossia e grazie al ricco impianto antroponimico presente nell’opera.