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IL MUTAMENTO CLIMATICO
PROCESSI NATURALI E INTERVENTO UMANO
La distribuzione della flora
Alessandro Pignatti (emerito di Ecologia - Università di Roma “La Sapienza”)
Introduzione
Le piante sono strettamente collegate agli essenziali fattori energetici che regolano l’attività
fotosintetica, come luce e calore. Le piante sono anche strettamente dipendenti dalla disponibilità di
acqua, che entra direttamente in molti processi vegetativi, in primo luogo nella fotosintesi: risulta
dunque chiaro che la vita delle piante dipende dal clima. Lo stesso si può ripetere anche per gli
animali, tuttavia, questi sono in grado di spostarsi autonomamente e quindi, entro certi limiti,
possono ricercare i siti con il clima più favorevole per loro. Le piante invece sono veri e propri
bioindicatori del clima nel quale vivono: le piante perenni (che sono la maggioranza) crescono in
uno stesso luogo per molti anni, e quindi sono adattate al clima generale, e non solamente alle
condizioni climatiche momentanee. Per questo, anche nel linguaggio comune, le zone climatiche
sono spesso caratterizzate mediante una pianta, ad es. da noi con espressioni come “zona dell’ulivo”
oppure “zona della vite”.
La prima intuizione scientifica in questo campo è dovuta a Alexander von Humboldt, il grande
pioniere della biogeografia, che, durante il suo memorabile viaggio nell’America latina (1799-1804),
nel 1802 esplorò le aree montagnose dell’Ecuador fissando la sua attenzione sul Chimborazo, che a
quel tempo era ritenuta la più alta montagna del pianeta; in realtà, la vetta raggiunge 6310 m, ed è
ampiamente superata dalle Ande meridionali (Aconcagua) e dall’Himalaya, però le rimane
comunque il primato di essere il punto più distante dal centro della Terra, per effetto della
conformazione sferoidale del pianeta. L’esplorazione botanica del Chimborazo è sintetizzata in una
famosa tavola (Humboldt, 1814) che rappresenta uno spaccato della montagna, sul quale è inserita
una miriade di nomi di piante, ciascuno al livello nel quale la specie era stata osservata. Ai due lati
di questa tavola, vi sono due schemi interpretativi, nei quali l’assetto della vegetazione viene messo
in diretta relazione con i livelli altimetrici. In questo modo, viene definito un modello astratto, che
rappresenta la seriazione altitudinale della flora, e che potrà essere verificato in altre zone montuose.
Dall’osservazione della realtà, Humboldt arriva alla generalizzazione di un concetto scientifico. Si
sviluppa così la fitogeografia, come studio dei rapporti tra le piante e l’ambiente.
La distribuzione delle piante sulla superficie terrestre già nell’800 viene messa in relazione
con la temperatura e con la disponibilità di acqua; la radiazione luminosa all’inizio non è presa in
considerazione, perchè non si hanno idee precise sui fattori della fotosintesi, ed anche per la
difficoltà (a quel tempo) di ottenere misure fotometriche in campo. Una seriazione rispetto alla
temperatura può essere rilevata mediante un viaggio dall’equatore verso uno dei poli, oppure più
semplicemente con l’ascensione di una montagna: il parallelismo tra la variazione nei due casi
risulta ben presto evidente agli studiosi e permette di arrivare ad una teoria generale per la
distribuzione dei vegetali sia nella dimensione geografica, che in senso topografico.
La seriazione della vegetazione nel senso della latitudine e dell’altitudine è ormai un fatto ben
noto, che viene inquadrato mediante una sequenza di zone (nel senso dei meridiani) mentre si parla
di fasce quando vengono paragonate aree a differente altezza.
La distribuzione in senso geografico (zone)
Sul piano globale sappiamo che la radiazione luminosa e l’andamento delle temperature hanno
una variazione molto precisa in rapporto alla latitudine: per quanto riguarda l’Europa ed il
Mediterraneo, da sud verso nord la temperatura diminuisce continuamente. Invece la differenza è
meno marcata per quanto riguarda la luce, infatti la radiazione luminosa è senz’altro più intensa
nella regione meridionale, però, anche andando verso settentrione l’intensità del flusso luminoso
rimane sufficiente, almeno per il fabbisogno fotosintetico delle piante più comuni; durante l’estate,
anche nelle aree più settentrionali, oltre il Circolo Polare, i vegetali meglio adattati sono in grado di
attivare i normali processi fotosintetici. La piovosità in Europa ha variazioni non molto marcate
rispetto alla latitudine, infatti in questa regione non ci sono né deserti né zone con clima pluviale;
nelle aree più settentrionali le precipitazioni diminuiscono, però diminuisce anche l’evaporazione,
quindi in generale la disponibilità di acqua rimane adeguata a tutte le latitudini e soltanto sulla
sponda del Mediterraneo si hanno condizioni di aridità estiva e conseguente stress idrico per le
piante. In una visione globale, si nota una fascia a clima arido attorno al tropico, con ampi deserti,
sia nell’emisfero settentrionale (Sahara, Sind, Arizona) che nell’emisfero meridionale (Kalahari,
Australia, Chaco), alternati ad aree con piovosità più o meno abbondante.
Queste condizioni, sono valide a livello globale, e ci permettono di definire una serie di zone
nelle quali dividere la superficie terrestre. Dal Polo Nord all’equatore si hanno le zone seguenti:
a - zona artica,
b - zona fredda,
c - zona temperata,
d - zona tropicale umida,
e - zona tropicale con clima arido e deserti,
f - zona equatoriale con clima tropicale umido.
Nell’ emisfero meridionale si può notare un certo parallelismo per quanto riguarda la zona
equatoriale, il tropico arido ed il tropico umido, mentre le altre zone presentano forti anomalie in
quanto gran parte delle latitudini meridionali sono occupate da superfici oceaniche.
In questo contesto, anche la vegetazione in Europa si organizza in una serie di zone che
ritroviamo anche con poche variazioni nell’Asia orientale, arcipelago giapponese e Nord America:
a - zona artica con vegetazione a tundra: arbusti nani (Juniperus, Vaccinium, Empetrum,
Kalmia) con abbondanti muschi e licheni e priva di alberi,
b - zona a clima freddo con vegetazione a taiga: foreste di aghifoglie sempreverdi (Picea,
Larix, Abies e specie di Pinus),
c1 - zona a clima temperato con vegetazione arborea di latifoglie decidue (Quercus, Carpinus,
Fagus, Castanea, Ostrya, Tilia, Acer, Fraxinus), arbusti (Prunus, Sorbus, Crataegus, Corylus) ed
un gran numero di piante erbacee perenni,
c2 - zona a clima temperato caldo con vegetazione arborea di latifoglie sempreverdi (Arbutus,
Erica, specie sclerofille di Quercus, Olea).
La zona c2 corrisponde all’ambiente mediterraneo, a clima temperato caldo, con piogge
concentrate nella stagione fredda ed aridità estiva. Queste sono condizioni climatiche si verificano
anche in altre parti del mondo, in generale a 30-35° di latitudine (settentrionale o meridionale)
quando si abbia un’area continentale situata ad est di un’ampia superficie oceanica: il nostro
Mediterraneo, California, Cile centrale, Sudafrica nella Provincia del Capo ed Australia occidentale,
i cosiddetti “Mediterranean type ecosystems”. In queste cinque zone si hanno condizioni climatiche
molto simili, che permettono la crescita delle stesso piante, introdotte volontariamente o per caso,
ad es. da noi gli eucalipti australiani e le acacie sudafricane.
La distribuzione in senso topografico
Le stesse variazioni delle condizioni climatiche generali si rilevano se il paragone viene
effettuato mediante uno spostamento in senso altitudinale, anziché nel senso della latitudine (Körner,
C. 1999). È un’esperienza comune notare come la salita su una montagna ci porti a trovare
condizioni di clima e paesaggio simili a quelle di uno spostamento verso nord. In realtà, nei due casi
si ha una piena corrispondenza soltanto per quanto riguarda il calore, mentre la disponibilità in
acqua dipende spesso da condizioni locali. Completamente diversa è invece la situazione per quanto
riguarda la luce: infatti uno spostamento in senso settentrionale porta ad una diminuzione della
radiazione luminosa, mentre quando ci si sposta dal livello del mare verso livelli via via superiori si
ha un cospicuo aumento della radiazione per la ridotta densità dell’atmosfera.
La suddivisione in zone di vegetazione rilevata in dipendenza della latitudine, si ripete nelle
fasce di vegetazione sulle montagne. Anche in questo caso vale quanto si è prima accennato e cioè
il fatto che la stessa sequenza delle forme di vegetazione osservata con uno spostamento in
latitudine, si presenta anche con una variazione altitudinale: se ad esempio esaminiamo la
vegetazione naturale della Riviera ligure presso Sanremo vediamo (c2) il bosco di una quercia
sempreverde (leccio) oppure colture di olivi, piante arboree sempreverdi. Salendo in quota si trova
(c1) il bosco di rovere o roverella (quercia caducifoglia), più in alto il tiglio oppure faggio, poi gli
abeti (b - aghifoglie) e nelle fasce più elevate una vegetazione frammentaria con molti elementi
della tundra (a). La stessa sequenza di forme si avrebbe se ci spostassimo da Sanremo (c2) a Torino
(c1), poi a Stoccolma (b) ed infine in Lapponia (a).
In questo modo le conoscenze sulla vegetazione sono ben consolidate almeno per quanto
riguarda le zone temperate e fredde dell’emisfero boreale. Nell’Eurasia e Nordamerica il
parallelismo è evidente soprattutto nelle zone più fredde, ad esempio nella fascia a conifere con
abete rosso e larice, alternati con pini del tipo del pino silvestre: quando uno si trova in una foresta
della Scandinavia ha la netta impressione di trovarsi nello stesso ambiente di un bosco di conifere
sulle Alpi, ad esempio la selva di Paneveggio o della Mendola. La stessa struttura e composizione si
può osservare nei boschi dell’Asia orientale, ad esempio in Hokkaido dove la nostra Picea abies è
sostituita da una specie endemica in Giappone Picea jezoensis oppure sulle Montagne Rocciose con
Picea engelmanni.
Ancora più impressionante è il parallelismo nelle foreste di faggio: la specie nostrana è
distribuita su tutta Europa, nell’Asia occidentale viene sostituita da Fagus orientalis, mentre in
Giappone crescono Fagus japonica e F. crenata; però, sia la struttura forestale e l’aspetto
dell’albero dominante come anche le condizioni climatiche sono nei tre casi molto simili. Anche
negli Stati Uniti e Canada c’è un faggio (F. grandifolia), che però non forma foreste compatte:
anche questo faggio americano è legato ad un clima poco differente da quello del faggio europeo e
del faggio giapponese.
Queste conoscenze sono ormai codificate, così da essere usate anche negli atti amministrativi
e di governo del territorio (ad es. a livello europeo, nella Direttiva Habitat), soprattutto per quanto
riguarda gli aspetti agrari, forestali e la conservazione della natura. Zone di vegetazione e fasce
altitudinali sono ormai entrate nel linguaggio comune. Su scala globale è stato calcolato che la
temperatura media cala di 0,55° quando si aumenta di 100 m di altitudine. Abbiamo numerose
misure delle variazioni di temperatura dall’una all’altra fascia di vegetazione ed il risultato è che
ciascuna fascia si estende su circa 4° di temperatura il che significa che essa comprende un ambito
di circa 700 m di altitudine. Questo, almeno in Europa, corrisponde abbastanza bene all’estensione
delle fasce altitudinali osservabile in natura. Una simile misura riguardo alla latitudine non è
possibile a causa delle anomalie indotte dalle differenze climatiche tra le superfici continentali e
oceaniche, soprattutto l’effetto della Corrente del Golfo a causa del quale nell’Europa occidentale le
isoterme hanno un decorso nel senso dei meridiani anzichè dei paralleli.
Questa grande regolarità viene spiegata essenzialmente dallo stretto collegamento che esiste
tra le esigenze della pianta per quanto riguarda luce, calore ed acqua e la disponibilità di queste
risorse essenziali per la vita vegetale nelle varie condizioni climatiche (Walter, H. 1968-1973 ed
ediz. succ.). Di conseguenza è possibile stabilire per questi fattori un ambito di compatibilità per
ciascuna specie ed un valore ottimale per i suoi processi vitali: ad esempio una temperatura media
di 4° come media annua corrisponde al clima che è ottimale per l’abete rosso, 8° per il faggio, 12°
per la farnia ed in generale le querce caducifoglie. Valori poco differenti si ritrovano anche per le
specie vicarianti in altri continenti. Inversamente, la presenza di queste formazioni forestali fornisce
un’informazione molto precisa sulle condizioni climatiche dei territori, anche dove non esiste una
stazione climatica.
E’ possibile allargare progressivamente il significato di queste corrispondenze, dalla specie
singola ad esempio dal faggio, al bosco di faggio, cioè la faggeta ed infine all’insieme di piante che
accompagnano il faggio (la comunità vegetale): Viola reichenbachiana, Cyclamen repandum,
Mercurialis perennis, Sanicula europaea, Dentaria sp. div., e cosi via. Tuttavia la copertura
vegetale rappresenta soltanto un aspetto, anche se il più evidente, di questa realtà: infatti, le piante
crescono su un terreno ed anche questo ha una composizione strettamente correlata al clima.
Correlazione diretta perché il bilancio idrico e la temperatura regolano la distribuzione delle
sostanze solubili nel suolo, il dilavamento di ioni solubili ed i processi di produzione e successiva
demolizione della materia organica. Importanza particolare va data all’humus, componente
essenziale del suolo. Questo si forma dalla materia organica prodotta dalle piante ed anche qui si ha
una correlazione con il clima. Dunque anche la composizione chimica dell’humus dipende
direttamente o indirettamente dal clima tanto che alle singole fasce o zone di vegetazione
corrispondono singoli tipi di humus:
a - zona artica, tundra, humus di tipo Mor
b - zona fredda, foresta di conifere (taiga), humus di tipo Moder
c - zona temperata, foresta di latifoglie, humus di tipo Mull
In conclusione, i fattori climatici regolano sia la distribuzione delle specie vegetali sulla
superficie della Terra, sia la loro aggregazione in forme di vegetazione come i tipi forestali; essi
regolano anche la composizione e struttura del terreno sul quale le specie vegetali crescono.
Arriviamo alla visione di un ecosistema complesso nel quale le condizioni di suolo e vegetazione
vengono determinate dal clima. In questo senso il clima è concepito come una sorta di involucro per
la fito- e zoocenosi: the climatic envelope.
Relazioni tra clima e pianta
A questo punto si potrebbe arrivare anche ad una prima conclusione: la distribuzione dei
vegetali sulla superficie della terra dipende dal clima. Questa sarebbe tuttavia una conclusione
affrettata, e vediamo perché. Anzitutto, abbiamo discusso solamente le relazioni con la radiazione
luminosa, calore ed acqua, invece il clima implica numerose altre componenti ad esempio
nebulosità, precipitazioni nevose, gelate, periodi aridi, ecc. Dunque il clima è un concetto
complesso, che noi abbiamo drasticamente ridotto alle tre componenti facilmente linearizzabili. Ed,
oltre al clima, si hanno anche altre cause che intervengono a regolare la distribuzione dei vegetali:
tra queste, almeno nel nostro paese, le principali sono l’orientamento del substrato e l’effetto
climatico delle correnti atmosferiche provenienti dal mare. Il substrato entra in gioco quando si ha
un pendio in esposizione particolare ad esempio verso sud ed in tal caso la temperatura media può
elevarsi di parecchi gradi. Vicino alle coste, regolari brezze marine producono un cospicuo apporto
di aria umida che si condensa quando raggiunge un sistema montuoso retrostante. Per questi motivi
pur conoscendo i parametri climatici di un punto qualsiasi della superficie terrestre non è possibile
prevedere con certezza quale tipo di vegetazione sia presente in quel punto, ma solamente fare
un’ipotesi che abbia una certa probabilità di avvicinarsi al vero.
Vorrei ricordare un esempio: da anni sto sviluppando un programma di ricerca, in
collaborazione con il prof. Hukusima (Univ. di Tokyo) sulle foreste di faggio. Questo genere di
piante arboree dal portamento maestoso, è composto da dodici specie, distribuite dall’Asia orientale
al Medio Oriente, Europa ed America settentrionale. La meno conosciuta tra queste è Fagus
mexicana, indicata vagamente per alcuni sistemi montuosi del Messico settentrionale. Così, per
renderci conto direttamente della morfologia ed ecologia del faggio messicano, ci siamo recati in
una zona molto remota dello Stato Tamaulipas (Messico settentrionale), alla ricerca di questo albero
(Pignatti et al., 2006). Con un fuori-strada è stato possibile inerpicarci lungo la scarpata della Sierra
Madre Oriental: sopra i 1000 m di livello si sviluppa una fitta selva tropicale montana nella quale
appariva impossibile che potesse vivere un faggio. Il veicolo procedeva con difficoltà lungo un
itinerario a mala pena riconoscibile nel folto del bosco: il caldo umido era soffocante. D’improvviso,
una svolta ci fa cambiare di versante e ci troviamo sul lato esposto al Nord: qui abbiamo un
subitaneo abbassamento della temperatura mentre entriamo in una fitta nebbia e dopo poche
centinaia di metri la composizione del bosco cambia completamente con la comparsa di conifere
come abeti e pini, alberi caducifogli (Carpinus) e poi finalmente una serie di cinque maestosi faggi.
Con un tragitto brevissimo e senza cambiare di livello altimetrico eravamo passati dalla selva
subtropicale al bosco di clima temperato-freddo e nebbioso.
Da questa esperienza ci si può render conto di come il rapporto tra clima e vegetazione abbia
un carattere altamente complesso, anche perché riguarda due realtà che a loro volta sono esse stesse
altamente complesse. Il discorso si fa ancora più difficile tenendo presente che finora abbiamo
considerato la situazione in un’ottica sincronica, però tutti gli eventi implicano anche una freccia
del tempo. In conseguenza di questo, bisogna sempre porsi il problema del rapporto tra clima e
vegetazione anche in un’ottica diacronica (temporale). Abbiamo già detto che il faggio cresce in
ambienti con circa 8° di temperatura media annua, piovosità elevata, e clima nebbioso. Questi
ambienti sono diffusi sulle Alpi, lungo tutto l’arco appenninico e nei monti della Sicilia. La Corsica
e la Sardegna costituiscono una zolla che originariamente aderiva alla Provenza, ambiente
mediterraneo dove il faggio non cresce. Durante le ultime ere geologiche questa zolla si è
progressivamente spostata fino ad avvicinarsi all’Appennino e durante i periodi freddi il faggio ha
potuto espandersi dalla penisola lungo l’arcipelago toscano fino alla Corsica. Tuttavia, in quel
periodo, in Sardegna si aveva un clima caldo sfavorevole per il faggio, ed in conseguenza oggi in
Sardegna il faggio non esiste allo stato spontaneo, anche se il clima attuale lo permetterebbe, come
è dimostrato da alcune parcelle sperimentali di rimboschimento. Questo è uno dei tanti esempi, nei
quali, la distribuzione non dipende soltanto dalle condizioni attuali, ma dalla storia geologica e dalle
vicende climatiche dal Pliocene ad oggi.
Variazioni climatiche e vegetazione
Il clima ha sempre avuto variazioni con cicli durati secoli, millenni oppure periodi anche
molto più lunghi nelle passate ere geologiche, tuttavia, i cambiamenti attuali sono molto più rapidi,
e quindi le esperienze del passato, studiate in base a tracce paleontologiche oppure allo studio di
ghiacciai, pollini, morene, ci aiutano ben poco a capire quello che sta succedendo adesso.
Cerchiamo ora di prendere in considerazione la prospettiva del cambio climatico attuale. Le
registrazioni dei dati termometrici dimostrano, per le terre emerse dell’emisfero settentrionale, un
aumento di temperatura di circa 1° negli ultimi 30 anni (dati NCDC). Un cambiamento così
cospicuo e rapido di temperatura non era stato osservato in precedenza, da quando si usano le
misure meteorologiche, e la comunità scientifica lancia l’allarme che ben presto si diffonde ai livelli
governativi e dei mass media. Si apre allora il problema di tentare delle previsioni. Secondo il
rapporto prima citato per la variazione della temperatura con le variazioni del livello altimetrico
(0.55° / 100 m), dovremmo concludere che le fasce altimetriche in Europa stiano espandendosi di
200 m verso l’alto, però di questa espansione finora non si hanno esempi convincenti.
Da in punto di vista generale ci si può chiedere: se rimane invariata la tendenza attuale, cosa
cambierà nella copertura vegetale della Terra o più propriamente del nostro territorio ? Un grado in
30 anni: continuando con lo stesso trend, significa che in 150 anni la temperatura sarà aumentata di
5 gradi. Una ipotesi drammatica, perché in questo caso la maggior parte del pianeta diventerebbe
inabitabile. Nella comunità scientifica si sta diffondendo la consapevolezza di essere di fronte ad un
problema vitale, tuttavia, in questi termini la questione è mal posta. Infatti, non ci sono serie ragioni
per ipotizzare che la tendenza attuale sia estrapolabile: l’aumento di temperatura potrebbe
continuare oppure arrestarsi oppure anche - ipotesi catastrofica - accelerare. Inoltre, tenendo conto
del fattore tempo nella formazione del manto vegetale non si può prevedere con certezza se, e come,
questo sia in grado di adeguarsi ai cambiamenti del clima. Si può cercare di trarre qualche
prospettiva dalla discussione di due eventi di cambio climatico avvenuti in epoca relativamente
recente.
I - La de-glaciazione - Il periodo di circa 20.000 anni, dall’ultima culminazione glaciale al
momento attuale, è stato studiato intensamente mediante l’analisi dei ghiacciai antartici e della
Groenlandia per quanto riguarda il clima, e mediante le analisi polliniche per quanto riguarda la
vegetazione. Durante un primo periodo di circa 8000 anni la vegetazione si è completamente
trasformata e la calotta glaciale che copriva le Alpi si è in gran parte disciolta (de-glaciazione), e
questo fa ritenere che la temperatura abbia avuto un regolare aumento fino a valori prossimi a
quelli attuali. Una delle variazioni meglio documentate dai profili pollinici è il passaggio dalla
foresta boreale di conifere al bosco caducifoglio di querce. È interessante seguire questa
trasformazione, rilevabile in tutta l’Europa media e da noi nell’Italia Settentrionale. Inizialmente,
durante il periodo freddo, le pianure erano occupate da un bosco rado di Pinus sylvestris e betulla:
con il riscaldarsi del clima, non c’è stato un passaggio immediato dal bosco di pini al bosco di
quercia ma si può notare come in un primo momento il pino sia andato in crisi, ed a questo punto
compare il nocciolo (arbusto caducifoglio) che si espande rapidamente e quindi si mantiene come
specie prevalente durante oltre un millennio. Intanto il pino scompare e poi comincia ad espandersi
la quercia che ben presto prende il sopravvento e la trasformazione è completata; però anche nella
fase finale il nocciolo continua a mantenersi nel sottobosco, così da essere tuttora presente fino ai
giorni nostri. Quando si discende un versante montano, si passa dalla fascia delle aghifoglie, più
fredda, a quella delle latifoglie, e l’aumento di temperatura è immediatamente percepito. Nel caso
della de-glaciazione, il processo è stato più lento: si passa dalla visione sincronica alla visione
diacronica. Il nocciolo che è una specie arbustiva, ha avuto una funzione di pioniere del bosco di
latifoglie; si può anzi pensare che abbia avuto anche una funzione nel trasformare l’humus acido
prodotto dalle conifere in materia organica neutra o subacida, adatta alla germinazione ed alla
crescita delle specie caducifoglie. Dunque, di fronte ad una variazione continua della temperatura,
la trasformazione della vegetazione si attua mediate fasi successive ben distinte. Sulle variazioni
nella composizione dell’humus e nella micorriza mancano informazioni, però è probabile che esse
abbiano avuto un ruolo importante per la vegetazione.
II - La Piccola Età Glaciale - Sono relativamente ben note le condizioni di vita in Europa
durante “piccola glaciazione” del periodo 1400-1840. Il clima in quel periodo era nettamente più
freddo di oggi, però non risulta che le fasce di vegetazione sulle Alpi fossero a livelli molto
differenti da quelli attuali. Su questo argomento possiamo portare una limitata esperienza
personale, ancora inedita. Abbiamo avuto la possibilità di studiare le condizioni di un pendio a
2600 m circa, che ai primi dell’800 era libero dai ghiacci (come attestato da un disegno dell’epoca),
ma circondato dal ghiacciaio del Grossvenediger, che ha la struttura di una piccola calotta ad
estensione regionale. Le morene terminali della piccola glaciazione sono facilmente identificabili
più sotto, a 2200 m di quota. Al di fuori dell’area coperta dal ghiacciaio, fino alle morene la
vegetazione è costituita dal comune arbusteto a rododendri, molto diffuso in tutte le Alpi al di
sopra dei limiti del bosco; oltre la morena il quadro cambia completamente e si ha vegetazione
pioniera; dunque, più di 150 anni non sono stati sufficienti perchè la comunità a rododendri
potesse espandersi sulle aree lasciate libere dopo la fusione delle lingue di ghiacciaio. Da questo si
può concludere che le modificazioni della vegetazione spontanea sono possibili, però
estremamente lente.
Notiamo come in entrambi i casi discussi, nella vegetazione non si abbiano variazioni
progressive con andamento lineare, e più o meno contemporanee al cambio del clima, ma ci
troviamo di fronte alla reazione imprevedibile di un sistema complesso. Pertanto, si può pensare
che sia tuttora impossibile fare delle previsioni basate su esempi precedenti: cercheremo soltanto di
analizzare alcuni dati di fatto senza aver la pretesa di trarne conclusioni di carattere generale.
Evidenze di modificazioni indotte nella vegetazione dal cambio climatico
Come ipotesi di partenza si può assumere che l’aumento della temperatura provochi sul piano
geografico uno spostamento verso nord delle zone di vegetazione e nell’ambiente uno spostamento
verso l’alto delle fasce di vegetazione (Klanderud, K. and Birks, H. J. B. 2003). In base ai dati
attuali in nostro possesso sembra di poter dire che per questi due effetti, finora, nella nostra zona
(Alpi, Appennini, coste) si hanno solo evidenze scarse e spesso discutibili. Per quanto riguarda lo
spostamento verso l’alto della vegetazione, un indicatore sensibile è dato dalla flora delle cime
(flora cacuminale), spesso ricca di specie rare o endemiche. In questo caso, il problema si può
formulare nel modo seguente: se in una montagna alta, poniamo, 3300 m, alcune specie adattate
alle basse temperature vivono soltanto sulla cima, ad es. negli ultimi 50 m, un innalzamento dei
limiti altitudinali di 100 m eliminerà il loro habitat, e queste specie saranno condannate
all’estinzione. Un dato molto interessante viene dallo studio della flora del Piz Languard (3261 m)
nei Grigioni, che è stata rilevata in successive ascensioni da vari botanici, durante un periodo di
quasi un secolo, ed il numero delle specie presenti durante tutto questo periodo ha continuato ad
aumentare. Niente estinzioni, dunque.
Secondo i dati correnti la temperatura media delle terre emerse nell’emisfero nord negli
ultimi 30 anni è aumentata di circa 1°, e non si notano grosse variazioni nella vegetazione. In un
libro ben documentato di M. Lynas si afferma che un aumento di 6° provocherebbe il crollo della
biosfera. Le due visioni appaiono incompatibili, almeno in un ragionamento deterministico,
secondo il quale i fenomeni sono collegati da semplici relazioni di causa-effetto.
Questi risultati contraddittori portano alla convinzione che sia ancora necessario molto lavoro
sperimentale, per comprendere gli effetti di un cambio climatico sulla vegetazione. Una particolare
opportunità si offre quando un anziano studioso ritorna in un posto studiato in un periodo
precedente ed ha la possibilità di ripetere lo studio con lo stesso metodo, avendo occasione di
effettuare un controllo a distanza di decenni. Poco si è fatto finora in questo campo. Riportiamo
alcuni risultati, in parte dalla nostra esperienza personale:
1. La tropicalizzazione della flora nel distretto insubrico - negli ultimi decenni un’espansione
di specie subtropicali introdotte come piante ornamentali (es. Trachycarpus) attorno ai laghi
insubrici (Walther G.-R., 2003); esempi analoghi sono descritti per il Triestino ed altri ambienti
della fascia prealpina.
2. Comparsa di specie mediterranee in varie aree dell’Italia settentrionale: da osservazioni
originali (ined.) si hanno numerosi casi di specie in generale scarsamente significative, ma tutte
provenienti dall’area mediterranea, in diversi distretti a clima temperato-umido del Veneto e della
Lombardia, dove la flora era già stata ben studiata e queste specie non risultavano presenti. Non si
può invece documentare un’espansione nel senso opposto, cioè l’arrivo di specie dalla fascia più
fredda.
3 - Un ampio parco ai margini della città di Lienz è stato studiato alla fine degli anni ‘50 e di
nuovo dopo quasi quarant’anni (originale, ined.): è un bosco di abete rosso e tale è rimasto, quindi
lo strato arboreo non è cambiato in maniera rilevante; invece, nella flora di piante cespugliose ed
erbacee si nota un cospicuo aumento di specie del bosco di latifoglie. Questo si può interpretare
come conseguenza di un aumento di temperatura (oppure di nutrienti nel suolo ?).
4 - la piccola isola di Zannone nell’arcipelago ponziano è stata studiata alla fine del secolo
XIX, poi negli anni ‘50 ed ancora nel 1995 (tesi di Menegoni P., ined.): quest’ultimo rilevamento
ha messo in evidenza una significativa riduzione delle specie presenti, però nel senso che le specie
termofile sono diventate proporzionalmente più abbondanti.
5 - i rilievi compiuti allo Stelvio durante l’estate 1953 (Giacomini V. & Pignatti S., 1955)
sono stati ripetuti a distanza di cinquant’anni in due distinte ricerche: sui pascoli alpini (Pignatti S.
et al., 2001) e da Cannone N. (Cannone N. e Pignatti S., in pubbl.). Sei comunità vegetali sono
state prese in considerazione: si nota la scomparsa di numerose specie, però anche la comparsa di
un gruppo ancora più numeroso di specie estranee, molte delle quali con esigenze termiche più
accentuate. Le specie dominanti vanno in crisi; aumenta la frequenza di specie che indicano
temperature più elevate ed accumulo di nutrienti nel suolo.
6 - L’ambiente di alta montagna è prossimo ai limiti dell’adattabilità delle specie vegetali e
pertanto - si ritiene - più sensibile al cambio climatico; un ambiente analogo per le severe
condizioni ambientali sono i prati steppici delle valli aride centro-alpine: in uno studio di Schwabe
A. et al., 2007 sono ripetuti rilievi effettuati 50-70 anni prima. Si osserva in generale stabilità della
vegetazione, però con un leggero aumento degli indicatori di basicità e nutrienti.
7 - Il comportamento della vegetazione in occasione di una estate particolarmente calda (2007)
si è avuto un prolungato periodo arido con temperature elevate durante l’estate: la vegetazione
caducifoglia sull’Appennino ha subito un lungo periodo di stress idrico, in particolare nella foresta
di faggio (Pignatti S., 2008). Nell’ipotesi iniziale, le faggete di bassa quota, esposte alle temperature
più elevate, avrebbero sofferto maggiormente. Invece è successo che il massimo danno avvenisse
nelle faggete della fascia più elevata, perché esse sono più esposte alla radiazione solare ed alle
correnti calde e aride mentre le faggete di bassa quota, generalmente nelle vallecole, mantenevano
una certa umidità e maggiore vitalità: in questo caso è avvenuto il contrario di quello che si sarebbe
previsto.
8 - Nei consorzi forestali planiziari presso Roma è stata messa in evidenza una marcata
aridizzazione del sottobosco, senza però notare importanti variazioni nello stato arboreo (Guidotti
S. et al., 2010).
Dallo studio della vegetazione delle alte montagne, incluso il Piz Languard, da oltre un
decennio si è sviluppato un programma con ampia collaborazione internazionale, sotto l’acronimo
GLORIA per monitorare i cambiamenti nella flora delle cime più elevate, in tutti i continenti
(Grabherr G. et al., 1994; Theurillat J. P. and Guisan A., 2001; Pauli H. et al., 2007; Engler R , et
al., 2011): non si notano cambiamenti rilevanti, tuttavia, anche in questo caso, molti fatti fanno
pensare che ci si trovi di fronte ad un problema ben più complesso che la semplice registrazione di
specie scomparse ed altre che vengono a sostituirle. Infatti, la presenza/assenza di una specie non
va registrata come un dato di fatto, senza tener conto delle intrinseche qualità del vivente stesso e
dei feedback tra questo ed altri viventi. Così si sono acquisite conoscenze inattese. Nei processi di
espansione al di fuori del proprio ambiente, sulle alte montagne europee si distinguono due specie:
Bistorta vivipara e Poa alpina, che hanno una sorta di viviparia, avendo la capacità di diffondersi
mediante plantule già atte a radicare (e non mediante semi, come è la regola per le specie vegetali).
Un fenomeno rilevato in molte ricerche sperimentali (anche da noi, cfr. sopra al punto 5) è la
stabilità delle specie dominanti in alta montagna. Esperienze su specie particolarmente diffuse e
significative a 2400-2600 m sulle Alpi (Friedmann B. et al., 2011) hanno dimostrato come due
specie formanti modesti cespi erbacei alti 5-10 cm, abbiano in realtà una vitalità insospettabile:
zolle di Carex curvula possono aver raggiunto l’età di 200-300 anni (ed in altri casi, estrapolando,
si arriverebbe a forse 5000 anni !); zolle di Carex firma sviluppatesi ad alta quota, trasferite in
pianura, in ambiente sperimentale controllato, continuano a svilupparsi da 5 anni senza mostrare
sintomi di sofferenza. Sono capitoli del tutto nuovi nella biologia delle specie che necessitano di
approfondimenti.
Come notizia recentissima (pubblicata il 3 giugno 2012 su Nature Climate Change online),
cioè posteriore al convegno del 17-18 maggio, si può aggiungere un’altro risultato esemplare. Un
team anglo-finnico studia le variazioni della vegetazione nella zona artica della Russia europea:
un’ampia superficie, precedentemente ricoperta dalla tundra, risulta essere ora interpretabile come
vegetazione arborea. La prima ipotesi è che la foresta boreale di conifere, prima limitata a
latitudini più basse, abbia compiuto una rapida espansione verso nord. Ma ricerche sul campo
hanno messo in evidenza una realtà differente: la vegetazione di tundra (composta essenzialmente
da muschi e licheni) include normalmente anche alcune specie legnose, di piccoli arbusti striscianti
al suolo (Salix, Betula), e queste specie ora stanno assumendo un portamento eretto e formano
minuscoli alberelli alti fino a 2 m. Così la tundra si trasforma in una comunità alberata, senza che
per questo si abbia l’invasione di specie estranee.
Conclusioni
Noi sappiamo che l’aumento delle temperature è un fenomeno progressivo con un andamento
lineare. Così immaginiamo che anche le variazioni nella vegetazione procedano in maniera lineare.
Sembra invece che le modificazioni dell’ecosistema (ed in particolare della vegetazione) abbiano
un andamento del tutto differente ed imprevedibile.
Le esperienze acquisite finora, di carattere preliminare, sembrano escludere che il cambio
climatico possa consistere in una lenta e progressiva variazione in senso latitudinale e altitudinale
nella vegetazione. Sembra invece di giungere ad un modello differente: la vegetazione non
risponde in maniera unitaria e univoca al cambio climatico, ma ha una forte capacità omeostatica, e
se le condizioni per un tempo limitato si fanno negative, alla fine del periodo avverso può anche
ritornare alle condizioni primitive (resilienza). E’ il comportamento dei sistemi complessi, il che
però implica l’esistenza di un livello di soglia, oltre il quale si ha il cambiamento totale ed
improvviso, con modificazioni a tendenza caotica, come previsto dalla teoria delle catastrofi. Fino
ad oggi non sono apparsi, almeno da noi, fenomeni di tipo catastrofico, però non siamo in grado di
prevedere se, e quando, tali condizioni potrebbero venire raggiunte.
In una visione generale, la distribuzione dei vegetali sulla superficie terrestre sembra essere
regolata in maniera deterministica dalla radiazione luminosa e dal calore, sia in latitudine che in
altitudine, tuttavia questo non permette di arrivare ad una ragionevole previsione delle
conseguenze del cambio climatico sul componente vegetale della biosfera, a causa della intrinseca
imprevedibilità dei sistemi complessi.
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