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Le Glaciazioni
Giuseppe Orombelli
Università di Milano-Bicocca
Comitato Glaciologico Italiano
Premessa
All’origine dell’attuale dibattito sui cambiamenti climatici sta la scoperta delle glaciazioni,
grandiose e ripetute espansioni dei ghiacciai sulla Terra, giunti fino a ricoprire, ancora in epoca
geologica recente, oltre un terzo della superficie delle terre emerse. Le evidenze geologiche della
passata maggiore estensione dei ghiacciai (quali morene, massi erratici, strie, solchi e forme
d’erosione glaciali) sono assolutamente chiare e immediatamente comprensibili a tutti, ma a lungo
non vennero riconosciute come tali e furono invece interpretate, alla luce di preconcetti
profondamente radicati, come generate da catastrofiche alluvioni, reminiscenze del diluvio noaico.
Un elemento diagnostico indubitabile quale i massi erratici, grossi blocchi di rocce del tutto
estranee alla geologia e idrografia del territorio in cui si trovano e in posizioni, spesso, inverosimili
per essere stati trasportati e abbandonati da correnti idriche (ad esempio in bilico su un versante o su
una stretta cresta rocciosa), ancora dai padri della geologia, quali Lyell e Darwin, a metà
dell’ottocento, venivano ritenuti trasportati da iceberg galleggianti su acque che avrebbero
sommerso i territori in cui si ritrovano. Immaginare la Terra, la sua geografia, le condizioni
ambientali quali erano durante le glaciazioni, totalmente diverse da quelli attuali, è oggi banale e
familiare anche ai bambini, ma l’averlo intuito per la prima volta è stata chiaramente una delle
grandi rivoluzioni del pensiero umano.
Origine della “teoria glaciale”: la scoperta della ”Great Ice Age”
Nel villaggio svizzero di Lourtier, nel Vallese, vi è un piccolo “Musée des glaciers”: è la casa
natale di Jean Pierre Perraudin (1767-1858), un montanaro al quale, per primo, vien fatta risalire
l’idea che, in un remoto passato, i ghiacciai avessero occupato territori ben più ampi di quelli che
attualmente ricoprono (Flint, 1957; Imbrie & Palmer Imbrie, 1979). Nel 1815 Perraudin ne
avrebbe discusso con l’ingegnere minerario Jean de Charpentier (1786-1855) e, nuovamente, nel
1818, con l’ingegnere cantonale Ignaz Venetz (1788-1859), in occasione del disastro causato
dall’improvviso svuotamento di un lago di sbarramento glaciale, formatosi per l’avanzata del
Ghiacciaio di Giétro. In particolare Perraudin sosteneva che i massi erratici e i solchi osservabili
sulle superfici rocciose nella Val des Bagnes, erano in tutto simili a quelli che i ghiacciai
abbandonano e lasciano scoperti alle loro fronti e che pertanto l’intera valle, nel passato, doveva
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essere stata colmata da “una grande massa di ghiacci”. Questa opinione sembra fosse comune tra i
valligiani. Mentre de Charpentier, sulle prime, non dette credito all’ipotesi di Perraudin,
ritenendola del tutto stravagante e inverosimile, Venetz ne rimase gradualmente sempre più
convinto. Nel 1821 presentò una memoria alla Società Elvetica di Scienze Naturali
(successivamente pubblicata nel 1833) in cui enumerava molti casi, nel settore centrale delle Alpi,
di cordoni morenici e di massi erratici lontani dalle fronti glaciali e pertanto indicativi di una
estensione passata dei ghiacciai maggiore di quella attuale. Nel 1829, in una successiva riunione
della medesima società, giunse a immaginare che immensi ghiacciai avessero un tempo coperto le
Alpi, spingendosi sino al Giura. Anche Charpentier, nel frattempo, era divenuto un sostenitore della
“teoria glaciale” e nel 1836 trasmise queste sue convinzioni a Louis Agassiz (1807-1873), celebre
paleontologo svizzero, allievo di Cuvier. Si deve ad Agassiz (a partire dall’opera Études sur le
glaciers - 1840, dedicata a Venetz e a de Charpentier) la formulazione di una organica “teoria
glaciale” e la sua strenua difesa e diffusione in Europa e in Nord America, fino alla completa sua
affermazione. Non soltanto le Alpi, ma pure estesi territori, ove attualmente non esistono ghiacciai,
nelle isole Britanniche, nell’Europa settentrionale e nel Nord America sarebbero stati ricoperti da
enormi coltri di ghiaccio. E questa supposizione veniva fatta quando la grande calotta glaciale
antartica non era stata ancora scoperta e poco si conosceva di quella groenlandese (le uniche due
grandi coltri glaciali attualmente esistenti).
In realtà, se questo è il filone svizzero dell’origine della “teoria glaciale”, intuizioni analoghe erano
già state formulate in precedenza da Kuhn, Hutton, Playfair e alle stesse conclusioni di Venetz e de
Charpentier, più o meno negli stessi anni, erano giunti Jens Esmark nel 1824 in Norvegia e
Albrecht R. Bernhardi in Germania nel 1832. Il botanico tedesco Karl Friedrich Schimper nel 1837
è il primo ad introdurre il termine Eiszeit (ice age, époque de glace, era o epoca glaciale).
La progressiva scoperta delle glaciazioni: periodi glaciali e periodi interglaciali
Nella seconda metà del secolo XIX si afferma l’idea di un’era glaciale, dovuta ad un
raffreddamento climatico che avrebbe interessato l’intera Terra, mentre cominciano ad emergere
le evidenze che non si sarebbe trattato di un evento singolo ma invece di ripetute fasi di espansione
e contrazione dei ghiacciai. Così nelle isole britanniche, in Nord America, sulle Alpi vengono
riconosciute le prove di più glaciazioni separate da periodi interglaciali. Si tratta di evidenze
geomorfologiche, quali distinti terrazzi alluvionali (poi detti fluvioglaciali), ciascuno connesso a
distinti sistemi di morene, o di evidenze stratigrafiche, quali depositi glaciali sovrapposti a suoli ben
sviluppati, formatisi sotto copertura forestale, successioni stratigrafiche in cui si succedono faune e
flore indicanti condizioni climatico-ambientali alternatamente calde e fredde ecc.
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Nelle Alpi si afferma il modello di Penck & Brückner (1909), con quattro glaciazioni separate da
tre interglaciali, di cui il penultimo ritenuto di particolare lunga durata. Anche nel Nord America
vengono riconosciute quattro glaciazioni.
Se il fenomeno delle glaciazioni è stato ripetitivo o ciclico, nascono subito delle ipotesi volte a
spiegarlo. Tra queste, già con Adhémar (1842) viene proposta l’ipotesi astronomica, poi ampliata
da Croll (1864) e infine sviluppata da Milankovitch nella prima metà del secolo XX, che vede nelle
variazioni periodiche dei parametri orbitali terrestri che influiscono sulla distribuzione stagionale e
latitudinale della radiazione solare sulla Terra, la possibile causa di cicli climatici e delle
conseguenti glaciazioni e interglaciazioni. Sempre nella seconda metà dell’800 appaiono chiari i
fenomeni e le modificazioni geografiche ed ambientali che hanno accompagnato le glaciazioni,
dalle variazioni eustatiche del livello del mare alle deformazioni glacioisostatiche della crosta
terrestre, dalle modificazioni della copertura vegetale alle migrazioni delle faune, dall’ampliamento
e contrazione delle zone aride alla deposizione delle coltri loessiche indicative di ambienti steppici,
dalle variazioni dei livelli dei laghi e della rete idrografica all’alternarsi di fasi di erosione e di
sedimentazione per ragioni climatiche.
Nella prima metà del secolo XX lo sviluppo degli studi delle testimonianze delle glaciazioni sulle
aree emerse porta gradualmente a riconoscerne, con crescente dettaglio, l’estensione raggiunta, in
particolare nelle fasi di massima espansione, mentre per l’ultima glaciazione vengono messe in
evidenza delle oscillazioni minori, cui si dà il nome di stadi (per le fasi fredde di avanzata dei
ghiacciai) e di interstadi (per le fasi più temperate di parziale ritiro). Nel Nord America sono
riconosciute due grandi coltri glaciali (ice sheets) tra loro largamente coalescenti, quella della
Laurentide, la maggiore, incentrata sulla Baia di Hudson e con uno spessore che superava i 1200 m,
e quella della Cordigliera, sviluppata sulle catene costiere del margine pacifico. In Europa una
grande coltre glaciale, originatasi sulla penisola scandinava, si estendeva fino alle isole britanniche,
alla Danimarca, Olanda, Germania, Polonia, i paesi baltici, l’Ucraina e la Russia. Meno certi sono
i confini raggiunti nell’Asia settentrionale e sul Mare di Barents e di Kara. L’estensione dei ghiacci
antartici e groenlandesi era un poco maggiore di quella attuale. Più limitati complessi glaciali (ice
fields) esistevano sulle principali catene montuose, ove i ghiacciai potevano scendere sulle regioni
pedemontane circostanti. In America meridionale particolarmente esteso era l’ice field patagonico.
Al confronto poca cosa era l’ice field che ricopriva le Alpi, che comunque si estendeva al loro
esterno fino al Giura, su gran parte del territorio Svizzero, e, con grandi ghiacciai pedemontani, in
Baviera, Austria, e infine al margine della Pianura padana (Flint, 1957).
Sulla base delle evidenze stratigrafiche e geomorfologiche vengono ricostruite successioni di
depositi, suoli, superfici di erosione e conseguentemente di eventi di espansione e ritiro dei
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ghiacciai (e connesse fasi climatiche), di diverso rango, ai quali si danno nomi derivati dalle
località in cui sono stati riconosciuti. L’estensione massima dei ghiacciai risulta diversa nelle
successive glaciazioni e da regione a regione. Il numero delle glaciazioni localmente riconosciute
aumenta, ma le numerose successioni così individuate, ciascuna con una sua propria terminologia e
fornite unicamente di una cronologia relativa, risultano tra loro differenti e difficilmente correlabili.
Un progresso importante è segnato dall’introduzione dei metodi di datazione radiometrica, in
particolare del metodo del radiocarbonio, che viene ampiamente utilizzato per datare i sedimenti
deposti dall’ultima maggiore avanzata glaciale e quelli delle sue fasi di ritiro. Le date così ottenute
contraddicono in parte l’ipotesi milankoviana che, dopo avere conosciuto grande favore, viene
giudicata inadeguata a spiegare il fenomeno delle glaciazioni.
Le glaciazioni multiple e le nuove evidenze geochimiche
Negli anni ’60 del secolo scorso l’esplorazione geologica dei fondali oceanici (circa due terzi della
superficie terrestre) ha portato ad un rapido e rivoluzionario rinnovamento delle Scienze della
Terra. Grandi novità emergono dagli studi geochimici dei sedimenti oceanici che spostano
l’attenzione, circa il problema delle glaciazioni, dalle aree continentali a quelle degli oceani.
Un pioniere in questo settore è il micropaleontologo Cesare Emiliani (1922-1995), che intraprende
lo studio sistematico della composizione isotopica dell’ossigeno nei gusci di carbonato di calcio dei
Foraminiferi, minuscoli organismi unicellulari le cui spoglie si rinvengono in grande abbondanza
nei sedimenti campionati nei fondali oceanici. Già H.C. Urey (1893-1981), il padre della
geochimica isotopica, aveva mostrato che nei passaggi di fase si produce un frazionamento
isotopico in funzione della temperatura. Pertanto dall’analisi della composizione isotopica si puo’
risalire alle paleotemperature. Analizzando il rapporto isotopico 18O/16O nei gusci dei Foraminiferi
planctonici, vissuti nelle acque superficiali e presenti nei sedimenti campionati in successione
stratigrafica dalle perforazioni nei fondali marini, Emiliani (1955) scopre che tale rapporto varia nel
tempo e ne attribuisce le variazioni (in prevalenza) a cambiamenti della temperatura delle acque
nelle quali è avvenuta la deposizione del guscio. Riconosce in tal modo una successione di fasi
calde e fredde, che chiama stadi isotopici e che numera progressivamente dal più recente al più
antico, attribuendo numeri dispari alle fasi calde (interglaciali) e numeri pari a quelle fredde
(glaciali).
Ma qualche anno dopo Shackleton (1967) scopre che anche i gusci dei Foraminiferi bentonici
(vissuti nelle acque fredde al fondo degli oceani, in cui i cambiamenti di temperatura possono
solamente essere minimi) mostrano una paragonabile variabilità nel tempo del rapporto isotopico.
Attribuisce questo fatto più che a variazioni della temperatura, a cambiamenti della composizione
isotopica delle acque oceaniche, a sua volta causati dalle variazioni del volume globale dei ghiacci
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sui continenti. Nell’evaporazione dagli oceani, infatti, evapora più facilmente l’isotopo più leggero,
mentre le acque oceaniche si arricchiscono relativamente di quello più pesante. Le precipitazioni
ristabiliscono l’equilibrio, salvo quando cadono in forma di neve sui continenti e vi si accumulano
progressivamente nei periodi glaciali, formando estesi ghiacciai. Soltanto alla loro fusione, nei
periodi interglaciali, si tornerà alle condizioni di origine. Gli stadi isotopici sarebbero quindi diretta
espressione dei cicli glaciali/interglaciali e, contestualmente, delle connesse oscillazioni del livello
medio degli oceani. La storia delle glaciazioni, cioè della variazione del volume dei ghiacci sui
continenti, letta nelle curve isotopiche ottenute dai sedimenti oceanici, rivela una molteplicità di
eventi superiore a quella letta nella documentazione incompleta lasciata dai ghiacciai stessi sulle
terre emerse. Anche lo studio di altre successioni sedimentarie continue (sequenze polliniche in
sedimenti lacustri) o quasi continue (successioni di loess e paleosuoli) aveva portato negli stessi
anni alle stesse conclusioni.
Pochi anni dopo Hays, Imbrie e Schackleton (1976) scoprono che le periodicità osservabili nelle
curve isotopiche sono proprio quelle delle variazioni dei tre parametri dell’orbita terrestre
(eccentricità dell’orbita, inclinazione dell’asse di rotazione terrestre, precessione degli equinozi)
considerate dell’astronomo serbo Milankovitch (1941) come causa delle glaciazioni. Le ciclicità
astronomiche scandiscono come un pacemaker le fasi climatiche e contestualmente forniscono un
orologio astronomico per datarle, ove manchino altri metodi di datazione.
Le conoscenze attuali
L’era glaciale individuata da Agassiz è attualmente detta Era glaciale Cenozoica (per distinguerla
dalle altre, via via riconosciute, che l’hanno preceduta nella lunga storia della Terra) ed è iniziata
circa 34 milioni di anni fa nell’emisfero meridionale, con lo sviluppo dei ghiacciai in Antartide. Il
clima terrestre era stato estremamente caldo durante il Cretaceo (145-65 milioni di anni fa), quando
l’Antartide, malgrado già fosse in posizione polare, era coperta da foreste e popolata da animali.
Un ultimo picco caldo fu raggiunto intorno a 55 milioni di anni fa, quindi la temperatura globale
andò calando, ma in modo irregolare, con periodi di rapida diminuzione intercalati ad altri di
ripetute oscillazioni intorno a valori medi. Un primo accentuato raffreddamento all’inizio
dell’Oligocene (circa 34 milioni di anni fa) portò al progressivo sviluppo dei ghiacciai in Antartide,
ove si formarono grandi coltri glaciali che giungevano fino al mare. Un secondo accentuato
raffreddamento si produsse nel Miocene medio (intorno a 12 milioni di anni fa) quando i ghiacciai
antartici da “temperati” (con abbondante acqua di fusione) divennero ghiacciai “freddi e secchi” di
tipo polare. Gli studi nelle Dry Valleys e le perforazioni nei fondali marini nel settore del Mare e
della Piattaforma glaciale di Ross hanno trovato evidenze di ripetute frequenti oscillazioni delle
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calotte glaciali antartiche negli ultimi 20 milioni di anni. Trentotto cicli sedimentari, indicativi di
fasi di avanzata e di ritiro glaciale sono stati individuati negli ultimi 5 milioni di anni (Naish et al.,
2009).
Una terza fase di raffreddamento del clima della Terra iniziò intorno a 3,5 milioni di ani fa e si
accentuò tra 3 e 2,5 milioni di anni fa, quando i ghiacciai iniziarono a svilupparsi anche
nell’emisfero settentrionale ove, per altro, già erano presenti alle latitudini più settentrionali
(Alaska, Groenlandia, Islanda ecc.).
La storia del clima terrestre e delle glaciazioni (volume globale dei ghiacci) negli ultimi 5 milioni di
anni è riassunta dalla curva isotopica composita di Lisiecki e Raymo (2005) che mostra,
sinteticamente, come la temperatura sulla Terra sia stata elevata, con variazioni ad elevata
frequenza e modesta ampiezza, fino a circa 3 milioni e mezzo di anni fa. Poi la temperatura ha
iniziato a declinare e contestualmente ad oscillare con maggiore ampiezza. Il periodo di queste
oscillazioni climatiche è stato di circa 40 000 anni (il periodo della variazione dell’inclinazione
dell’asse terrestre). A partire da circa 900 mila anni fa l’ampiezza si è ulteriormente accresciuta
(cioè gli interglaciali sono stati più caldi – poco ghiaccio sui continenti - e le glaciazioni molto più
accentuate –ghiacciai molto estesi) mentre il periodo si è allungato a 100 mila anni. Sono queste le
glaciazioni che anche sulle nostre Alpi hanno portato i ghiacciai a discendere fino all’orlo della
pianura.
Negli ultimi 2,6 milioni di anni (Quaternario) si sarebbero succeduti una cinquantina di cicli
climatici ma soltanto una ventina di essi avrebbe dato luogo a glaciazioni (Ehlers e Gibbard, 2007);
lo sviluppo di estese coltri glaciali (ice sheets) alle medie latitudini nell’emisfero settentrionale
sarebbe iniziato solamente circa 900 mila anni fa, quando si produssero periodi glaciali
sufficientemente freddi e lunghi, e vi sarebbero state non più di 5-6 glaciazioni con massima
estensione intorno a 870, 620, 420, 350, 140 e 21 mila anni fa.
E’ stato ricostruito il limite massimo dei ghiacciai in questo intervallo di tempo, ma esso è un
limite composito, raggiunto nelle sue diverse parti durante distinte successive glaciazioni. Nel Nord
America il limite massimo raggiunto dalle coltri glaciali della Cordigliera e della Laurentide (che si
saldava a quella della Groenlandia) includeva quasi per intero il Canada, parte degli Stati Uniti,
localmente spingendosi a Sud fin’oltre i 40° di latitudine, rimanendo scoperta dai ghiacci solamente
una larga parte dell’Alaska. In Eurasia il limite massimo raggiunto dalla coltre glaciale si estendeva
dalle isole britanniche all’intera Scandinavia, alla Russia e alla metà occidentale della Siberia
settentrionale, a Nord spingendosi sulla piattaforma continentale dell’Oceano Artico ed a Sud
lasciando uno stretto corridoio rispetto alla copertura glaciale delle Alpi. L’ idrografia eurasiatica,
che attualmente scorre verso nord, era bloccata dai ghiacci e in larga parte deviata a Sud verso il
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Mar Nero e il Mediterraneo, oppure a ovest verso il Nord Atlantico. Nell’emisfero meridionale,
oltre all’Antartide, un esteso copertura glaciale occupava le Ande meridionali e la Patagonia,
mentre altre estese masse glaciali erano presenti sulle maggiori catene montuose.
Meglio nota è la storia dei ghiacciai e l’estensione da essi raggiunta nell’ultima fase di massima
espansione, culminata intorno a 21 mila anni fa e nota come LGM (Last Glacial Maximum). Nel
complesso le coltri glaciali antartiche e nordamericane avevano una estensione circa uguale a
quella massima sopra descritta, mentre in Europa l’estensione era minore. Le isole britanniche
erano coperte da una calotta locale, e nel settore asiatico i ghiacci occupavano quasi unicamente la
piattaforma continentale, lasciando largamente scoperta la Siberia settentrionale. Anche nelle Alpi
l’estensione dei ghiacci non raggiungeva il limite massimo in precedenza raggiunto.
La storia delle glaciazioni documentata nei ghiacci dell’Antartide e della Groenlandia
Mentre gli studi geologici e geomorfologici dei depositi e delle tracce lasciati dai ghiacciai sui
continenti si integravano con gli studi geochimici sui campioni raccolti dai fondali marini per dare
un quadro della storia delle glaciazioni e dell’estensione raggiunta dai ghiacciai nel passato, i
ghiacciai attualmente esistenti, in particolare le grandi coltri glaciali dell’Antartide e della
Groenlandia, divenivano essi stessi testimoni del loro passato, grazie alla memoria delle variazioni
climatiche e atmosferiche conservata nel ghiaccio stesso.
Le coltri glaciali polari altro non sono, infatti, che l’accumulo delle successive nevicate impilatesi
nel tempo, che via via vengono trasformate in profondità in nevato ed in ghiaccio di ghiacciaio, con
aumento della densità e riduzione dei vuoti. Poiché questa trasformazione avviene a temperature
sempre nettamente inferiori a quelle di fusione, i segnali ambientali, chimici e fisici, registrati nella
neve all’atto della sua cristallizzazione nell’atmosfera non vengono cancellati né la successione
stratigrafica viene obliterata dai processi di fusione e rigelo, come invece avviene nei ghiacciai
montani delle regioni temperate. Inoltre il meccanismo di trasformazione della neve in nevato e
ghiaccio ingloba ed isola delle bolle d’aria che divengono veri e propri campioni di aria fossile. In
profondità anche le bolle d’aria scompaiono e si formano clatrati. Forando nei luoghi opportuni è
possibile estrarre “carote” di ghiaccio indisturbate, dalle quali si ottengono informazioni sulla storia
dell’atmosfera e del clima nel passato (Orombelli, 1996).
Negli anni 1996 – 2005 sul plateau antartico ad oltre 3200 m (in una culminazione della calotta nota
come Dome C) è stata fatta una perforazione in ghiaccio profonda 3270 m, con la quale si è ottenuta
la più lunga, fino ad ora, ricostruzione della storia del clima e dell’atmosfera (circa 800.000 anni).
Si tratta della perforazione del progetto EPICA (European Project for Ice Coring in Antarctica),
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condotta da un consorzio di 10 nazioni con fondi nazionali e della UE e guidata da Francesi ed
Italiani.
I principali risultati ottenuti con la perforazione EPICA riguardano le variazioni della temperatura
media annua (Tma) in Antartide e le variazioni della concentrazione atmosferica di alcuni gas serra
negli ultimi 800.000 anni (EPICA Community Members, 2004). La temperatura media annua è
oscillata nel tempo, descrivendo otto cicli glaciali/interglaciali, con una durata media di 100 000
anni. Nei quattro cicli più antichi l’ampiezza è stata contenuta, nel senso che i picchi interglaciali
sono stati poco caldi, mentre negli ultimi quattro cicli l’escursione è aumentata, con valori di
temperatura media annua negli interglaciali fino a 5 °C superiori ai valori attuali e nei periodi
glaciali con valori fino a -10 °C inferiori. Gli ultimi quattro cicli sono spiccatamente asimmetrici, a
“dente di sega”: dal picco caldo interglaciale la temperatura declina lentamente e irregolarmente,
quasi la Terra opponesse resistenza al raffreddamento, mentre la transizione dalla fase più fredda
al picco caldo è assai rapida. Ne deriva che la durata dei periodi interglaciali è breve (da pochi
millenni a circa 15.000 anni), mentre quella dei periodi freddi glaciali è molto più lunga. In
quest’intervallo di tempo le condizioni più fredde, glaciali, sono state, quindi, la norma sulla Terra,
mentre quelle simili alle attuali (interglaciali) sono state l’eccezione (circa il 10% del tempo totale).
Le variazioni della concentrazione di CO2 sostanzialmente replicano quelle della temperatura
media annua, nel senso che picco corrisponde a picco, diminuzione a diminuzione, anche nei
dettagli. Questo significa che le due variabili sono accoppiate: la concentrazione di CO2 varia circa
proporzionalmente alle variazioni della temperatura. Così i valori minimi di CO2 (intorno a 180
ppm) sono stati raggiunti nelle fasi di minima temperatura (glaciali) ed i valori massimi (intorno a
280-300 ppm) in quelle di massima temperatura (interglaciali). Prima di affrontare le relazioni
temporali e causali tra i due fenomeni, si puo’ mettere in evidenza come tra essi si producano
meccanismi di feedback positivo, di amplificazione, poiché se, come vedremo, un aumento di
temperatura produce un aumento della concentrazione atmosferica di CO2, un aumento di
quest’ultima porta ad un ulteriore aumento della temperatura. Anche altre variabili misurate nelle
carote di EPICA (ad esempio la concentrazione del metano, del protossido di azoto o quella delle
polveri atmosferiche) mostrano simile accoppiamento ed anch’esse implicano fenomeni di
amplificazione (Lüthi et al., 2008; Loulergue et al., 2008).
Negli ultimi 800 000 anni la concentrazione atmosferica di CO2 è variata in una banda di valori
compresi tra 170 e 300 ppm (280 ppm nell’ultimo interglaciale), mentre il valore attuale (febbraio
2012) è di 392 ppm (http://www.esrl.noaa.gov/gmd/ccgg/trends/) ed è stato raggiunto pressoché
istantaneamente, in meno di 200 anni. Analoghi incrementi (circa 100 ppm) nel passato
preindustriale si sono prodotti in numerose migliaia di anni. Le analisi dei campioni d’aria estratti
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dai ghiacci antartici e il loro confronto con le concentrazioni atmosferiche attuali hanno mostrato
che anche il metano e il protossido di azoto sono usciti dalla banda di oscillazione naturale negli
ultimi 800 000 anni. In due secoli, dalla rivoluzione industriale (ma sostanzialmente dalla metà del
secolo scorso), il Metano è aumentato del 130%, CO2 del 38% e N2O del 29 %.
Se si considerano nel dettaglio (alla scala dei secoli) i rapporti temporali tra le variazioni della
temperatura media annua e quelle dei gas serra si vede che la prima precede gli altri di circa un
millennio (Monnin et al. 2001). Pertanto si ritiene che un aumento della temperatura forzi uno
spostamento di tali gas in atmosfera da altri serbatoi. Il parallelismo della curva di CO2 con quella
della temperatura in Antartide e altri dati e considerazioni fanno ritenere che CO2 derivi in gran
parte dall’Oceano meridionale, mentre il metano, che nel dettaglio varia in accordo con le variazioni
di temperatura nell’ emisfero settentrionale (desunte dalle perforazioni nei ghiacci della
Groenlandia e, come vedremo, non in fase, a questa scala temporale, con quelle dell’emisfero
meridionale), sia emesso dalle aree umide dell’emisfero settentrionale, anche sulla base di evidenze
isotopiche. Recenti analisi (Shakun et al., 2012) condotte sull’ultima deglaciazione (transizione
dall’ultima glaciazione all’attuale interglaciale) mostrano che, se l’aumento della temperatura
media annua in Antartide precede l’aumento della concentrazione atmosferica della CO2,
quest’ultimo a sua volta precede l’aumento della temperatura media annua globale (ed in particolare
di quella dell’emisfero settentrionale). Questa successione di eventi (aumento della temperatura in
Antartide, aumento della CO2 atmosferica, aumento della temperatura globale) confermerebbe gli
effetti del feedback positivo tra gas serra e temperatura atmosferica.
In Groenlandia, agli inizi degli anni ’90, sono state fatte due perforazioni profonde 3 km nel punto
più elevato della calotta groenlandese a 3200 m, una dagli americani l’altra da un consorzio
europeo, cui anche l’Italia aderiva (GRIP Members, 1993). Altre perforazioni sono state fatte
successivamente nel settore della Groenlandia settentrionale (NorthGRIP).
Benché lo spessore di ghiaccio sia analogo a quello in Antartide, il maggiore accumulo annuo di
neve in Groenlandia fa sì che l’intervallo di tempo contenuto sia molto minore, circa 100-120 mila
anni, ma sia analizzabile con elevato dettaglio, così che nel ghiaccio si possono riconoscere e
conteggiare gli incrementi annui, per la presenza di segnali stagionali. La novità apportata dalle
perforazioni in Groenlandia è che l’ultima glaciazione è stata in realtà una successione di ripetuti e
rapidi cambiamenti climatici, di breve durata (da alcuni secoli a pochi millenni), elevata frequenza
e di ampiezza rilevante, di poco inferiore a quella dei cicli glaciali/interglaciali (escursione della
Tma sopra la Groenlandia di 8-16 °C). Le transizioni, in particolare dal picco freddo a quello caldo,
sono state repentine, realizzandosi anche in pochi decenni, talora in pochi anni. In altre parole
durante l’ultima glaciazione il clima è stato in Groenlandia estremamente instabile, con oltre una
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ventina di oscillazioni, iniziate e concluse da transizioni veloci. Questa variabilità climatica alla
scala del millennio era del tutto sconosciuta e quando fu per la prima volta ritrovata negli anni ’60
da Dansgaard ed Oeschger fu imputata ad errori, finché non fu più volte replicata dalle successive
perforazioni. Da allora queste rapide variazioni climatiche sono state chiamate eventi o cicli di
Dansgaard-Oeschger (D-O cycles).
La variabilità alla scala del millennio è stata ritrovata anche nei ghiacci antartici, ma si è visto che
essa vi è presente in modo più attenuato (ampiezza nelle escursioni di temperatura di soli 2-4 °C) e
soprattutto non in fase, nel senso che i picchi caldi in Groenlandia coincidono temporalmente con
quelli freddi in Antartide e viceversa (EPICA Community Members, 2006). Le variazioni a questa
scala di tempo nei due emisferi sono accoppiate (nel senso che vi è corrispondenza biunivoca) ma in
opposizione di fase. Si tratta quindi non di variazioni climatiche globali, ma di variazioni dovute a
diversa ripartizione del calore, alternativamente, nei due emisferi. E’ stato quindi proposto un
modello, detto dell’altalena termica polare, che immagina un trasporto di calore ad opera della
circolazione oceanica, in particolare la cosiddetta circolazione atlantica meridiana termoalina, che
quando trasferisce calore all’Atlantico settentrionale lo sottrae all’emisfero meridionale e viceversa
(Broecker, 1991; Stocker e Johnsen, 2003). Queste variazioni alla scala del millennio sono presenti
in Antartide anche nelle glaciazioni precedenti e, con frequenza e ampiezza molto minore, anche
nelle fasi interglaciali (Jouzel et al. 2007).
Anatomia di una glaciazione: l’ultimo periodo glaciale
L’ultimo periodo caldo interglaciale, se si esclude quello attuale, è culminato tra 130 e 115 mila
anni fa, quando la temperatura media annua globale si stima fosse superiore a quella attuale di
alcuni gradi e il livello del mare superiore di circa 5-6 m. Tra 115 e 12 mila anni fa si è svolto
l’ultimo grande periodo glaciale. Sia le curve isotopiche ottenute dai sedimenti oceanici, indicative
delle variazioni del volume globale dei ghiacci, sia le curve isotopiche ottenute dalle perforazioni
nei ghiacci polari, indicative delle variazioni della temperatura, mostrano in questo lungo intervallo
di tempo un seguito di vicende complesse, con tre picchi freddi culminati intorno a 100, 70 e 21
mila anni, separati da periodi meno freddi, al punto che, secondo alcuni autori, i tre picchi freddi
sarebbero da considerarsi distinte successive glaciazioni. Di fatto le coltri glaciali dell’emisfero
Nord (ed anche l’ice field alpino) si sono espanse e contratte assumendo configurazioni diverse
nelle tre fasi fredde ed anche la massima estensione nei diversi settori è stata raggiunta in tempi
diversi (Ehlers et al., 2007; Ivy-Ochs et al., 2008). Globalmente, tuttavia, la massima estensione dei
ghiacci sulla Terra, nell’ultimo periodo glaciale, è stata raggiunta in corrispondenza del picco
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freddo culminato intorno a 21 mila anni fa, generalmente denominato Last Glacial Maximum
(LGM) e che si estende tra 25 e 19 mila anni fa.
Su queste maggiori oscillazioni climatiche e glaciali, si sovrappongono le variazioni climatiche alla
scala del millennio, i cicli D-O sopra descritti. Nell’ultimo periodo glaciale, tra 115 e 12 mila anni
fa, nella perforazione NGRIP sono stati riconosciuti 25 cicli D-O, i cui picchi caldi e freddi sono
detti, rispettivamente Greenland Interstadials (GI) e Greenland Stadials (GS) (Wolff et al. 2009),
riprendendo la terminologia già in uso per indicare, all’interno di una glaciazione, con il termine
stadio le fasi di avanzata glaciale/picco freddo e con quello di interstadio le fasi di parziale regresso
glaciale e di moderato riscaldamento climatico. Ma anche in questo caso, l’elevata risoluzione
temporale e continuità di registrazione nei ghiacci della Groenlandia, ha mostrato che tali
stadi/interstadi sono stati molto più numerosi e di breve durata, rispetto a quelli individuati nei
sedimenti continentali.
Ogni ciclo D-O ha un andamento asimmetrico, a dente di sega, con una fase di riscaldamento molto
rapida (pochi decenni), seguita da una fase di lento di raffreddamento, terminata da una rapida
caduta della temperatura. Altri parametri climatici, come l’accumulo della neve, la concentrazione
del particolato atmosferico, la concentrazione del metano, variano anch’essi in connessione ai cicli
D-O.
Intorno a 19 mila anni fa è iniziata la de glaciazione: la temperatura media annua in Antartide, dai
valori minimi è iniziata a risalire, dapprima lentamente, poi più rapidamente ed in modo quasi
regolare, raggiungendo un valore massimo intorno a 14.500 mila anni fa. La temperatura quindi
ridiscese un poco fino a circa 12.500 anni fa (Antarctic Cold Reversal), per poi nuovamente risalire
fino ad un ampio massimo intorno a 10-12 mila anni fa, all’inizio dell’attuale periodo interglaciale.
Vicende molto diverse si sono invece avute nell’emisfero settentrionale, complicate dalle frequenti
e più accentuate variazioni alla scala del millennio, come documentato dalle carote di ghiaccio
groenlandesi. Dopo lo Stadio groenlandese freddo GS 3, si è avuto un breve episodio un poco più
caldo, l’Interstadio groenlandese 2, tra 24 e 22 mila anni fa, seguito da un lungo intervallo di
temperature fluttuanti (GS 2), fino a 14.700 anni fa, quando ha avuto bruscamente inizio
l’Interstadio caldo GS 1, noto come Interstadio Bølling-Allerød, nel quale sono state raggiunte
temperature assai prossime a quelle attuali. La temperatura è quindi declinata lentamente sino a
precipitare nuovamente, intorno a 12.900 anni fa, intorno a valori prossimi a quelli delle fasi più
fredde. Questo ultimo stadio freddo (GS 1), noto anche come Younger Dryas, è durato da 12.900 a
11.700 anni fa, quando è bruscamente terminata l’ultima glaciazione ed è iniziato l’attuale periodo
interglaciale (Orombelli et al., 2008). Si noti che lo stadio freddo Younger Dryas risulta
contemporaneo ad una fase di rapido riscaldamento in Antartide.
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Durante l’ultima deglaciazione, tra 19 mila e 11 700 anni fa, i ghiacciai hanno conosciuto un
seguito di fasi di avanzata e di regresso. Sono gli stadi e interstadi del Tardoglaciale,
particolarmente studiati sulle Alpi, ove sono stati identificati quattro stadi (Gschnitz, Clavadel,
Daun, Egesen), documentati da cerchie moreniche via via più arretrate. L’ultimo stadio nelle Alpi
(Egesen) è correlato allo Younger Dryas (Ivy-Ochs et al., 2008).
Nei sedimenti dell’Atlantico settentrionale sono documentati ripetuti eventi di rilascio improvviso
in mare di “flottiglie” di iceberg dalle coltri glaciali della Laurentide e Scandinava, noti come
Heinrich events. Tali eventi sono stati messi in relazione con i cicli D-O (Bond & Lotti, 1995;
Hemming, 2004) ma le relazioni temporali (e causali) non sono state adeguatamente chiarite.
Analogamente la risalita del livello medio degli oceani determinata dalla deglaciazione non è stata
graduale ma punteggiata da rapidi incrementi (meltwater pulses MWP); il più violento (MNWP1A), con una risalita di 14-18 m (> 40 mm/anno), si è prodotto tra 14.650 e 14.300 anni fa in
coincidenza con l’Interstadio Bølling (Deschamps et al. 2012).
L’Olocene
Undicimila e settecento anni fa si è conclusa l’ultima glaciazione ed è iniziato bruscamente il
presente interglaciale, che, nella terminologia stratigrafia, è chiamato Olocene: la transizione è
marcata nei ghiacci della Groenlandia da numerosi segnali indicativi di un repentino cambiamento
nella circolazione atmosferica, un aumento della temperatura e delle precipitazioni medie annue.
Dal punto di vista termico l’Olocene è stato relativamente stabile. La temperatura media annua
globale si ritiene abbia avuto oscillazioni modeste, che si sono mantenute entro una fascia ampia
circa 2 °C, ma vi sono stati, invece, grandiosi mutamenti climatico-ambientali a scala regionale,
connessi a variazioni nella circolazione atmosferica e nella distribuzione delle precipitazioni, che
hanno portato, ad esempio, alla desertificazione del Sahara.
La storia dei ghiacciai durante l’Olocene è stata differente nei due emisferi. In particolare
nell’emisfero settentrionale le grandi coltri glaciali, pur riducendosi, sono sopravvissute a lungo
nell’Olocene, scomparendo definitivamente circa 6 mila anni fa. Di esse sopravvive attualmente
solo la grande calotta glaciale groenlandese e le minori calotte delle isole del Canadà Artico. I
ghiacciai montani, invece, già nei successivi stadi tardoglaciali si erano via via ritratti nelle regioni
più interne ed elevate. Così, ad esempio, nelle Alpi, dopo l’ultima fase di avanzata (lo Stadio di
Egesen) intorno a 12.900 – 11.700 anni fa, e dopo una sua possibile coda proprio all’inizio
dell’Olocene, intorno a 11.000 anni fa, i ghiacciai si erano ridotti all’incirca alle loro dimensioni
moderne. Tuttavia, pure se su dimensioni assolutamente non comparabili alle precedenti variazioni,
anche nell’Olocene i ghiacciai hanno più e più volte avanzato e ritratto le loro fronti. La storia delle
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fluttuazioni glaciali durante l’attuale periodo interglaciale ha grande interesse per la ricostruzione
delle variazioni climatiche prodottesi nei tempi storici e della recente preistoria, in condizioni
ambientali simili a quelle attuali, in concomitanza con lo sviluppo dell’umanità, dalla rivoluzione
neolitica a quella industriale, ai tempi attuali. Nell’emisfero settentrionale nella prima metà
dell’Olocene, tra 10 e 5-6mila anni fa, i ghiacciai montani si sono ridotti alle loro dimensioni
minime, quando non sono del tutto scomparsi. Negli ultimi 5-6 millenni, in connessione ad una
progressiva riduzione della radiazione solare nei mesi estivi alle alte latitudini, i ghiacciai montani
hanno ripreso ad estendersi ( o a riformarsi) e sono stati riconosciuti diversi periodi di avanzata, di
durata plurisecolare, collettivamente indicati con il termine di Neoglaciazione. Nell’ultimo di questi
periodi di avanzata, noto coma Piccola Età Glaciale e svoltosi tra il XIV e il XIX secolo, i ghiacciai
dell’emisfero Nord hanno raggiunto, in generale, la loro massima estensione. Come già nei
precedenti periodi neoglaciali, anche la Piccola Età Glaciale è stata connotata da diverse fasi di
avanzata e di ritiro di durata pluridecennale, non esattamente sincrone né di eguale entità nelle
diverse catene montuose. Nelle Alpi la massima estensione dei ghiacciai è stata raggiunta intorno al
1850-1860. Le fluttuazioni glaciali oloceniche evidenziano quindi variazioni climatiche di breve
durata (decenni) sovrapposte a variazioni plurisecolari, a loro volta sovrapposte a variazioni alla
scala del millennio e ad un trend della durata di circa 10 mila anni.
Nell’emisfero meridionale i ghiacciai montani hanno raggiunto la loro massima estensione nella
prima metà dell’Olocene e le morene della Piccola Età Glaciale, sebbene molto evidenti, non sono
spesso le più esterne (Orombelli, 2011).
Dalla metà del secolo XIX i ghiacciai alpini sono in progressivo regresso, sebbene si siano prodotti
brevi periodi di temporanea riavanzata. Le osservazioni sistematiche sui ghiacciai alpini sono
iniziate alla fine del secolo XIX. In Italia dal 1895 opera il Comitato Glaciologico Italiano, con sede
in Torino, che dal 1925 con continuità (brevemente interrotta solamente negli anni bellici) ha
misurato le oscillazioni frontali dei principali ghiacciai italiani. Attualmente sono misurate le
oscillazioni frontali di oltre 150 ghiacciai mentre per una decina di ghiacciai viene valutato
annualmente il bilancio di massa.
Nel secolo XX in quasi tutte le catene montuose i ghiacciai sono prevalentemente in ritiro; negli
ultimi tre decenni il fenomeno si è ulteriormente generalizzato e accentuato. Secondo uno studio
dell’UNEP (2007) è in atto una fase generalizzata ed acuta di ritiro nei ghiacciai montani in tutto il
mondo: se si considera il diseguale comportamento dei ghiacciai nel passato (per altro dovuto anche
a lacune di conoscenza), colpisce la simultaneità del comportamento attuale.
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Considerazioni conclusive
Nel passato geologico sono state riconosciute variazioni nella estensione dei ghiacciai sulla Terra a
diverse scale temporali e spaziali, probabilmente prodotte da cause diverse, compatibili con le loro
durata ed estensione. Alla scala dei milioni-decine di milioni di anni sono stati riconosciuti
diverse epoche in cui i ghiacciai erano presenti e diffusi sulla Terra, anche alle medie e talora basse
latitudini (ice ages o ere glaciali), separati da più lunghi periodi in cui i ghiacciai erano del tutto
assenti o di dimensione ridotta e confinati alle regioni polari e ai rilievi più elevati. Queste
variazioni dei ghiacciai corrispondono ai cambiamenti climatici estremi cui la Terra negli ultimi 23 miliardi di anni è stata sottoposta, passando da condizioni assimilate ad una ”serra” a quelle
assimilate ad una “ghiacciaia”. L’ultima di tali ere glaciali è iniziata circa 34 milioni d’anni fa, dura
tutt’ora ed è detta era glaciale Cenozoica. Queste grandiose variazioni globali di lunga durata sono
attribuite ai processi geodinamici della “tettonica delle placche”, vulcanismo e degassamento,
mobilità delle placche e relative variazioni della configurazione e posizione dei continenti e degli
oceani, nonché della altimetria delle aree emerse. Da tali processi dipendono, da un lato, la
composizione chimica dell’atmosfera e la concentrazione dei gas serra, dall’altro la circolazione
atmosferica e oceanica nonché la possibilità di avere aree continentali a latitudini/altitudini idonee
per ospitare ghiacciai.
Nelle ere glaciali (quali l’era glaciale Cenozoica) l’estensione dei ghiacciai varia nel tempo
secondo cicli glaciali/interglaciali (detti anche “cicli milankoviani”) della durata delle decine di
migliaia di anni. Glaciazioni e interglaciazioni, nell’ultimo milione di anni, sono fenomeni globali,
praticamente sincroni nei due emisferi. Si ritengono fenomeni innescati e modulati dalle variazioni
dei parametri orbitali che regolano la distribuzione stagionale e latitudinale della radiazione solare
sulla Terra, amplificati e deformati da cause interne al sistema climatico (feedback positivi: gas
serra, albedo, ecc.).
A sua volta in ogni glaciazione (ed in particolare nell’ultima) si riconoscono variazioni
nell’estensione dei ghiacciai della durata di numerosi secoli/alcuni millenni, cioè una successione
di avanzate glaciali (stadi), e di parziali ritiri glaciali (interstadi). Sono associati a variazioni
climatiche alla scala del millennio, che si manifestano come cicli climatici (cicli di DansgaardOeschger) molto evidenti nell’emisfero settentrionale (particolarmente nel Nord Atlantico), più
attenuati nell’emisfero meridionale. Tali variazioni risultano accoppiate ma non in fase nei due
emisferi. Non sono variazioni climatiche globali ma risultano da una diversa ripartizione del calore
nei due emisferi, probabilmente operata dalla circolazione oceanica termoalina, in particolare
dell’Oceano Atlantico (Atlantico Meridional Overturnig Circulation), che ha un ruolo importante
nella ridistribuzione del calore sulla Terra.
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Infine vi sono variazioni nella estensione dei ghiacciai di durata ancora minore, da alcuni secoli (ad
esempio la Piccola Età Glaciale) ad alcuni decenni (le oscillazioni glaciali del XX secolo). Tali
variazioni hanno ampiezza molto più contenuta delle precedenti, spesso non sono sincrone o hanno
espressione solo regionale. Son attribuite a varie cause, quali l’attività solare, l’attività vulcanica
esplosiva, la variabilità interna al sistema climatico (ENSO, NAO, ecc.).
L’attuale fase di ritiro dei ghiacciai montani, accentuatasi negli ultimi tre decenni, appare anomala
perché, salvo limitate eccezioni, colpisce simultaneamente tutte le catene montuose nei due
emisferi. Localmente vi sono evidenze che alcuni piccoli ghiacciai montani si sono ormai ridotti a
dimensioni non più prodottesi negli ultimi millenni (ad es. Baroni & Orombelli, 1996).
Al ritiro dei ghiacciai montani si accompagnano sintomi gravi di riduzione anche nei ghiacciai
polari, quali la disgregazione di numerose piattaforme di ghiaccio galleggianti nella Penisola
Antartica, l’aumento dell’area di fusione superficiale nella calotta groenlandese, la riduzione della
superficie e dello spessore dei ghiacci marini artici.
Questa tendenza alla riduzione dei ghiacciai è probabile continui nel prossimo futuro, perché vi è
un ritardo nell’adeguarsi delle masse glaciali al riscaldamento climatico, ormai già prodottosi
nell’ultimo trentennio. In un futuro più remoto, visto la molteplicità delle possibili cause naturali
delle variazioni climatiche e dei ghiacciai alle diverse scale dei tempi e le loro complesse
interazioni, è molto aleatorio fare previsioni, anche se, per quanto attiene alle cause orbitali, i valori
di eccentricità molto bassi nei prossimi millenni non sono favorevoli ad uno sviluppo dei ghiacciai.
Quanto alla rilevanza delle cause umane nell’attuale cambiamento climatico (e conseguentemente
nel ritiro dei ghiacciai) il dibattito scientifico è ancora aperto.
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