Qui - La Corsa di Miguel

Transcript

Qui - La Corsa di Miguel
CINEMA
1. ONCE BROTHERS
“Once Brothers” è il titolo di un commovente documentario girato
dal regista statunitense Michael Tolajian nel 2010; il film fa parte
della serie “30 for 30”, splendida iniziativa firmata ESPN (il
celebre canale televisivo sportivo americano), che commissionò il
racconto di trenta storie di sport a trenta registi di fama
internazionale. Tolajian ripercorre la storia dell’amicizia spezzata
tra due dei più grandi cestisti di tutti i tempi, due autentiche icone
del basket degli anni 80 e 90, Drazen Petrovic e Vlade Divac.
Descrivere cosa fosse Petrovic su un campo di pallacanestro è
impresa ardua, quasi impossibile: il Mozart dei canestri lo
chiamavano, o il Michael Jordan bianco, e questo già dovrebbe
aiutare ad immaginare quanto talento scorresse dentro quelle vene,
insieme al sangue croato. Sì, perché Petrovic era croato ed
orgoglioso di esserlo, orgoglio che reciterà un parte importante, se
non decisiva, in questa storia. Dopo aver dominato in Europa, Drazen tentò l’avventura nell’NBA, il
campionato americano sogno di qualsiasi ragazzo che abbia mai preso in mano una palla a spicchi:
fatica all’inizio, gioca poco a Portland, ma poi esplode in maglia New Jersey Nets, la squadra che
oggi non esiste più, sostituita dai neonati Brooklyn Nets; eppure, anche nel nuovo palazzetto alle
porte di Manatthan, ancora oggi ben visibile lì in alto c’è la sua maglietta numero 3, ritirata come si
fa con i grandi, privilegio più unico che raro per un europeo. Drazen ancora oggi è nei cuori di ogni
singolo tifoso dei Nets.
Per quanto Petrovic fosse introverso e caratterialmente quasi impenetrabile, Vlade Divac era la sua
immagine riflessa in uno specchio, uguale e contraria, estroverso ed eccentrico, gran fumatore di
sigarette, non per niente ribattezzato Marlboro Man, un gigante buono di 216 centimetri con il
talento e l’agilità di un ballerino, mani dolci si dice in gergo, tecnica sopraffina di inconfondibile
scuola slava. Anche Vlade sfondò nel campionato americano, prima con la prestigiosa maglia
Lakers al fianco di Magic Johnson, poi viene scambiato con un ragazzino diciottenne di belle
speranze, un certo Kobe Bryant, e infine a far divertire l’America con gli spettacolari Sacramento
Kings a cavallo del 2000, insieme ad un altro talento europeo, Pedja Stojakovic, la macchina del
tiro da 3. Particolare da non sottovalutare: Vlade, proprio come Pedja, è serbo.
Eppure fino ai primi anni 90 questa distinzione tra serbi e croati, o montenegrini, o sloveni, o
bosniaci, somigliava più ad un asterisco da mettere vicino alla dicitura “Nazionalità:
Jugoslavia”. Petrovic e Divac hanno giocato infatti per la stessa bandiera fin dagli anni delle
giovanili, cresciuti insieme con la maglia della Jugoslavia e diventati grandi amici, inseparabili,
come fratelli appunto, proprio con quei colori addosso. Quella nazionale sarebbe diventata
fantastica tra anni 80 e anni 90, un serbatoio infinito di campioni capaci di affrontare alla pari
chiunque: i successi ai Campionati Europei del 1989 e poi nei Mondiali del 1990 in Argentina sono
la consacrazione di una generazione di talenti con pochi eguali nella storia di questo sport. Ma
proprio nel campionato del mondo del 1990, proprio al termine dell’ultimo atto di quella cavalcata,
pochi secondi dopo la sirena che sancì la vittoria sull’Unione Sovietica, avvenne l’episodio che
segnò l’amicizia tra i due simboli di quella squadra e che descrive meglio forse di molti
manuali di storia il dramma che si stava per scatenare nella penisola balcanica. Il 1990 infatti
non è solo l’anno dell’oro mondiale dei ragazzi del basket: il crollo del muro di Berlino fu come
mettere una biglia su di un piano inclinato, velocemente l’intero blocco sovietico si disintegrò e in
Jugoslavia, senza il collante del comunismo, esplosero i nazionalismi delle etnie che avevano
convissuto fin lì sotto la stessa bandiera. I presupposti per la guerra che avrebbe segnato i primi anni
’90 erano già tutti sul tavolo, la tensione politica percepibile anche a migliaia di chilometri di
distanza, su quel parquet di Buenos Aires dove la nazionale jugoslava aveva appena vinto la finale
dei mondiali. La scintilla che accese il fuoco prese le sembianze di un tifoso, un signore che
entrò in campo per festeggiare quella vittoria insieme ai ragazzi jugoslavi: nella mano una
bandiera, ma croata.
Nella confusione Divac si ritrova davanti
il tifoso e gli strappa quella bandiera
gettandola in terra. “Doveva essere la
vittoria di un gruppo e di una nazionale,
non c’entrava nulla la bandiera della
Croazia”, pensò e disse poi il gigante
buono. “Hai offeso i miei colori, le mie
origini e la mia famiglia”, pensò invece
Petrovic, ma non disse nulla, e nulla
continuò a dire al suo vecchio amico da
quel giorno in poi. L’orgoglio di Drazen era troppo grande, l’amicizia con Vlade poteva anche
finire lì, e finì lì. Una volta fratelli, ora non più. Lo scoppio della guerra e il disintegrarsi della
Jugoslavia anche dal punto di vista sportivo separarono ancor di più le strade dei due: Vlade tentò in
tutti i modi di recuperare, spiegando la propria ingenuità, giurando buona fede, ma Drazen non
tornò mai più indietro. Sono un pugno nello stomaco le immagini delle partite tra Lakers e
Nets, quando Petrovic ignorava Divac, evitando di incrociare lo sguardo con lui, come fosse
uno dei tanti avversari da battere, niente di più.
Forse con gli anni la storia sarebbe cambiata, forse i tornanti che la vita ti fa percorrere avrebbero
riportato Drazen a perdonare Vlade, a tornare suo fratello, nonostante una bandiera diversa da
difendere e una nazionale diversa per cui giocare. Ma purtroppo non lo sapremo mai. Petrovic morì
drammaticamente in una piovosa notte di giugno nel 1993, in Germania. Incidente automobilistico
mentre tornava a casa da una partita proprio con la Croazia. Non guidava lui, al volante la fidanzata,
che uscì incolume. La morte lo rese immortale per ogni appassionato di basket al mondo, in Croazia
il 7 giugno ancora oggi il paese si ferma per ricordarlo. Ma quell’incidente fu la fine di ogni
speranza per Divac di recuperare l’amicizia persa. La scena più toccante del documentario è
sicuramente quella in cui Vlade in lacrime chiede scusa alla famiglia di Drazen e piange sulla
tomba su quello che una volta era suo fratello, Once Brothers appunto.
2. MUNICH
C’è un regista che meglio di altri ha saputo raccontare nel corso
della propria carriera artistica i drammi che il popolo ebraico ha
vissuto nella propria storia, a partire naturalmente dal più orrendo,
l’Olocausto degli anni 40: il suo “Schindler’s List” è
universalmente riconosciuto come uno dei capolavori della
cinematografia i tutti i tempi.
Il regista è naturalmente Steven Spielberg. “Munich” è una sua
pellicola datata 2005 e il titolo fa riferimento ovviamente alla città
di Monaco di Baviera dove, durante le Olimpiadi del 1972,
avvenne uno degli episodi più drammaticamente indimenticabili
della storia del ‘900, e non parliamo solo di sport. La notte è
quella tra il 4 e il 5 settembre, siamo nell’ultima settimana dei
Giochi, il clima è all’apparenza disteso nel Vilaggio Olimpico.
Si narra che un gruppetto di atleti americani stesse rientrando di
nascosto dopo una notte passata tra locali e birra: gli statunitensi, un po’ alticci, forse proprio
ubriachi, aiutarono a scavalcare le recinzioni anche ad altri ragazzi che trovarono all’ingresso del
Villaggio: altri atleti come noi, forse pensarono, le bravate rendono complici.
Ma quelli non erano altri atleti: iniziano così le 24 ore che sconvolgeranno i Giochi Olimpici del
1972 ed il mondo intero. A scavalcare le recinzioni dell’Olympia Park di Monaco fu un
commando di otto terroristi dell’organizzazione palestinese Settembre Nero, che si diressero
subito verso gli appartamenti degli atleti israeliani, ne uccisero due
nell’irruzione, ne presero in ostaggio altri nove. Alle prime luci
dell’alba la notizia diventa di dominio pubblico, i terroristi chiedono
la liberazione di 232 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri
israeliane, comincia una trattativa estenuante con le forze
dell’ordine tedesche davanti agli occhi del mondo intero. A
posteriori si discusse molto sull’efficacia dell’azione della polizia
tedesca, sul livello di preparazione più o meno adeguato degli
agenti, sul loro numero forse troppo scarso.
Le teorie complottiste ancora oggi si sprecano, la dietrologia trova
terreno fertile in casi simili. I fatti sono questi: le infinite
negoziazioni portarono la polizia a decidere nel corso del
pomeriggio di assecondare la volontà dei terroristi, che volevano essere traportati all’aeroporto di
Monaco e da lì al Cairo, da dove avrebbero continuato a trattare la liberazione dei prigionieri in
cambio di quella degli ostaggi. Il piano dell’unità anticrisi prevedeva di sorprendere i terroristi
all’interno dell’aereo Lufthansa subito dopo che vi fossero entrati: tuttavia il tentativo fallì, sia
perché la polizia non sapeva quanti fossero i terroristi (si pensava cinque e non otto), sia per lo
scarso equipaggiamento degli agenti. Si scatenò così un confitto a fuoco a partire dalle 23 fino
alle 1.30 del mattino successivo. Intorno alla mezzanotte, con la sparatoria ancora in corso, venne
diramato un comunicato che annunciava la liberazione di tutti gli ostaggi e la morte dei rapitori, e
infatti i giornali israeliani andarono in stampa con questa notizia. Intorno alle 2 del mattino tedesche
invece un rappresentante del CIO lasciò intuire che le prime ipotesi erano state troppo ottimistiche.
Il primo a dare la notizia ufficiale fu il conduttore dei programmi sportivi della rete americana
ABC, Jim Mckay, con parole che echeggiarono in tutti il mondo e che ancora oggi sono
indimenticabili:
“Abbiamo appena ricevuto le ultime notizie. Quando ero bambino, mio padre mi diceva che
raramente le nostre speranze più belle e le nostre paure più grandi si avverano. Questa notte le
nostre paure più grandi sono divenute realtà. Ci hanno comunicato in questo momento che gli
ostaggi erano undici. Due di loro sono stati uccisi nelle loro stanze ieri mattina, gli altri nove
sono stati uccisi questa notte all'aeroporto. Sono tutti morti”.
Il film di Spielberg ripercorre nelle proprie scene iniziali questo dramma, raccontando poi nel corso
del proprio svolgimento la caccia all’uomo da parte dei servizi segreti israeliani verso i tre terroristi
sopravvissuti al conflitto a fuoco, dapprima arrestati poi liberati in seguito ad un'altra trattativa dopo
il sequestro di un volo Lufthansa. La fotografia dell’uomo incappucciato che si affaccia dal
balcone dell’appartamento israeliano nel Villaggio Olimpico rimane una delle icone più
inconfondibili del ‘900, simbolo di un dramma che ci offre ancora oggi doversi spunti di
riflessione, tutti particolarmente attuali. Il massacro di Monaco ’72 infatti, tappa di un conflitto
che ha segnato tutta la seconda metà del secolo scorso e che continua anche oggigiorno ad
insanguinare una striscia di mondo, è stato forse il primo importante evento seguito e vissuto in
diretta minuto per minuto dal mondo intero. Si dice spesso che l’11 settembre del 2001 abbia
cambiato il mondo per come viene esso percepito: la tragedia degli aerei che si schiantano sulle torri
di New York in diretta mondiale ha trasferito la storia dalle pagine dei giornali e poi del libri agli
schermi delle televisioni e poi dei computer, ma effettivamente questo processo che culminò
proprio con l’attentato al World Trade Center probabilmente mosse i primi passi proprio a Monaco
nel ’72.
I terroristi infatti non scelsero casualmente il palcoscenico delle Olimpiadi, erano consapevoli che
gli occhi e l’attenzione del mondo intero in quei giorni erano rivolti verso la Germania, come
sempre accade e continua ad accadere per ogni edizione del più grande evento sportivo a livello
globale. Il fine di un atto terroristico è seminare appunto terrore, insicurezza nella società, paura
quasi viscerale: farlo utilizzando il megafono di tutti i più grandi mezzi di comunicazione decuplica
il risultato. Per questo il commando decide di spostare più volte l’orario dell’ultimatum fino ad
arrivare al tardo pomeriggio, proprio per avere un pubblico più ampio possibile per la propria
propaganda. I nuovi media ci permettono di vivere in diretta qualsiasi cosa accada in qualsiasi
parte del mondo, soprattutto dopo l’avvento di Internet e della rete globale, ma questo
meccanismo può facilmente deragliare, trasformando il racconto della cronaca in un
palcoscenico da cui chiunque può assicurarsi una visibilità senza precedenti nella storia.
Inoltre è sensibile il rischio di vedere sempre più labile il confine tra realtà e sua rappresentazione:
la degenerazione di questo processo ci porta a interpretare come reale infatti solo ciò che possiamo
vedere in diretta su di uno schermo, mentre ciò che accade lontano da una telecamera o da una
macchina fotografica è come se non sia mai esistito: è per questo meccanismo che tutti conosciamo
il nome di Felix Baumgartner, il paracadutista austriaco che si è lanciato da 42 km di altezza nel
2012 in una diretta streaming globale sponsorizzata RedBull, ma nessuno sa chi sia Alan Eustace,
che nel 2014 quel record lo ha battuto ma senza riprese televisive a testimoniarlo; o ancora, per cui
siamo in ansia per un pilota di Formula 1 dopo un incidente in pista, ma ignoriamo il dramma
quotidiano che avviene nel Mediterraneo. Altro aspetto della vicenda degno di analisi riguarda
poi la decisione presa dall’allora presidente del CIO Avery Brundage di far continuare il
programma di gare nella mattina del 5 settembre e di non interrompere i Giochi nemmeno
dopo che la notizia della morte di tutti gli ostaggi divenne di dominio pubblico. Anche qui il
parallelo con quanto avvenne l’11 settembre 2001 è evidente, con l’UEFA che non cancellò la
giornata di Champions’ League nonostante il mondo intero fosse ancora sotto shock per quanto era
accaduto solo poche ore prima. Riconoscere il confine oltre il quale lo spettacolo non merita più di
dover continuare è un tema eticamente molto delicato, oltre che particolarmente attuale, come
conferma il recente drammatico caso della finale di Coppa Italia giocata a Roma nel maggio del
2014.Il racconto di quanto avvenne nel settembre del 1972 a Monaco che fa Spielberg può quindi
diventare spunto anche per riflessioni di questo genere.
3. FUGA PER LA VITTORIA
Quando si parla di cinema e sport, non può non venire alla mente
“Fuga per la Vittoria”, il film del 1981 diretto da John Huston nel
cui cast compaiono nomi altisonanti come Silvester Stallone e
Michael Caine, affiancati da stelle come Pelè, Ardiles e Bobby
Moore, che è un po’ come se al cinema oggi andassimo a
vedere un film con Cristiano Ronaldo, Messi e Rooney. La
storia è avvincente, ambientata nel corso della seconda guerra
mondiale in un campo di detenzione nazista in Francia.
I prigionieri alleati guidati da Stallone e Caine pensano ad una
partita di calcio contro le guardie SS come escamotage per
organizzare la fuga perfetta, compongono una squadra con alcuni
dei detenuti più talentuosi e sfidano i tedeschi in una partita epica.
La fuga è fissata all’intervallo, attraverso un tunnel che intanto i
partigiani francesi hanno scavato fino dentro lo spogliatoio;
eppure, dopo un primo tempo umiliante, sia per l’arbitraggio che
per il risultato, alcuni prigionieri decidono di continuare a
giocare, preferendo l’orgoglio alla libertà. La tipica sceneggiatura hollywoodiana regala un
finale perfetto, con la rimonta degli alleati, la mitica rovesciata finale di Pelè e una fuga che si
compie ugualmente grazie alla folla festante dello Stade de Colombes di Parigi. Una storia
affascinante, che esalta lo sport come impareggiabile strumento di riscatto e magnifica il calcio
come straordinaria occasione di aggregazione, anche in un contesto drammatico come quello di una
Parigi occupata dai nazisti. Persino uno Stallone che incarna alla perfezione lo scetticismo
americano verso il “soccer” alla fine rimarrà rapito e conquistato dalla sua bellezza. Una storia che
però non tutti sanno essere ispirata ad un fatto realmente accaduto, per quanto incredibile possa
sembrare.
Cambia il contesto, non siamo nella Francia della resistenza all’occupazione ma nello scenario della
Kiev del 1942, una città pressoché fantasma, abbandonata e spoglia, ridotta in un cumulo di macerie
dai bombardamenti. In un campo di concentramento alle porte della città sono rinchiusi alcuni
calcatori, alcuni della Dinamo Kiev, altri della Lokomotiv. Sono prigionieri di guerra come
tanti, fanno il pane per gli altri detenuti, nessuno sa che nella loro vita precedente alla guerra
erano sportivi di primo livello.
Quando le guardie SS scoprono chi siano in realtà quei ragazzi, decidono di sfidarli e di organizzare
una partita: noi contro di voi, chissà per quale motivo, forse per la voglia di umiliarli anche in
quello che facevano nella loro vita “reale”, forse per quel divertimento sadico tipico di chi portava
la svastica sul braccio. Sta di fatto
che la partita si giocò: siamo nel
luglio del 1942 e qui inizia la storia
che ispirò “Fuga per la Vittoria”. I
calciatori ucraini dovevano perdere,
questi erano i patti, eppure
all’ingresso nello stadio colmo di
tifosi ucraini qualcosa cambiò e i
prigionieri decisero di giocare e
giocarono per davvero: 5 a 1 la
vittoria e nazisti battuti, almeno su
quel prato verde. I soldati però non
potevano accettare un simile affronto e nel giro di un mese le due squadre si ritrovarono di nuovo in
campo: stavolta lo stadio Zenith di Kiev era pressoché deserto, solo qualche guardia delle SS e
qualche poliziotto sulle tribune. La città era ancora più desolata ed abbandonata rispetto mese
precedente, si giocava tra le macerie; arbitro, un soldato nazista. I prigionieri ucraini sapevano
che non avrebbero potuto permettersi un’altra vittoria: tutta la partita non era altro che una
clamorosa messa in scena per permettere al regime di fare altra propaganda e di cancellare la
macchia della sconfitta della prima partita.
Il primo tempo è una farsa: i tedeschi vanno avanti 3 a 1 contro un avversario praticamente
inesistente. Si va all’intervallo e negli spogliatoi qualcosa si accende: tra gli ucraini scatta
all’improvviso rabbia, orgoglio, voglia di alzare la testa dopo mesi di umiliazioni subite, qualcosa di
molto simile a quello che racconta da John Huston nel proprio film. E quindi decidono che basta, la
farsa era finita, il secondo tempo si gioca davvero. E la partita cambia: i prigionieri rimontano lo
svantaggio velocemente, è subito 3 a 3. Poi passano in vantaggio e addirittura vanno sul 5 a 3.
Tedeschi annichiliti. Ma è il sesto gol, quello mai segnato, a sancire l’umiliazione totale dei
soldati nazisti: un prigioniero ucraino, Klymenko il suo nome secondo le scarsissime
cronache, prende palla a metà campo e dribbla due avversari, ne supera un altro, poi un altro
ancora e si presenta davanti al portiere; scarta anche lui in un attimo e arriva fino sulla linea
di porta dove si ferma, si volta e calcia il pallone verso il centro del campo. Non serve farvi il
sesto gol per umiliarvi, sembra voler dire. Inutile dire le conseguenze a cui andarono incontro gli
undici ucraini in campo, undici ragazzi che preferirono l’orgoglio alla vita. In Ucraina ancora oggi
quello che accadde a Kiev nell’agosto del 1942 è ricordato come “Partita della Morte” il cui finale
sicuramente fu meno hollywoodiano del film con Stallone.
4. INVICTUS
L’impatto che ha avuto e continua ad avere la vita e l’esempio di Nelson Mandela nella storia del
Sudafrica è difficilmente raccontabile in un film di due ore, eppure in “Invictus”, pellicola del 2009
vincitrice di due premi Oscar, il regista Clint Eastwood riesce a tracciare un ritratto
particolarmente efficace di uno dei personaggi più grandi che il nostro tempo abbia
conosciuto, e lo fa attraverso una vicenda di sport, i Mondiali di rugby del 1995 giocati
proprio in Sudafrica. Il contesto è quello di un paese ancora ferito, sanguinante quasi: Mandela
appena un anno prima era stato eletto presidente, a compimento di una battaglia che gli era costato
27 anni di prigionia; due anni prima, nel 1993, era stato abolito l’apartheid, la politica di
segregazione razziale che il governo bianco aveva istituito addirittura dal dopoguerra. Eppure il
Sudafrica viveva ancora un periodo di forti turbolenze: il paese era
evidentemente ancora spaccato, segnato da profonde cicatrici ben
visibili dopo mezzo secolo di discriminazione legalizzata. Per
parafrasare D’Azeglio, dopo aver abolito il razzismo, ora
bisognava cancellare i razzisti, cioè unire anche per le strade e non
solo sulla carta il paese. Fu questo lo scopo che mosse Mandela fin
dai suoi primissimi giorni come presidente: il rischio di veder
esplodere la tensione sociale che continuava a regnare nelle città
sudafricane era percepibile, e in questo contesto l’organizzazione dei
Campionati del Mondo di rugby poteva rivelarsi potenzialmente
devastante.
Il rugby infatti era diventato negli anni uno dei simboli della
spaccatura tra bianchi e neri, sport importato dal Nord Europa,
passatempo dei coloni bianchi e orgoglio degli afrikaner, la fetta bianca di popolazione sudafricana.
In un paese popolato per l’80% da chi invece questo sport lo odiava proprio perché simbolo
dell’oppressione, da chi festeggiava ogni sconfitta della nazionale, i cosiddetti Springboks, era
chiaro come l’organizzazione del Mondiale potesse nascondere insidie quasi devastanti. E Nelson
Mandela era il primo ad essere consapevole di questo pericolo. Lui che aveva odiato come
qualsiasi altro nero sudafricano quello sport nei suoi lunghissimi anni di prigionia, comprese
per primo però che proprio il rugby poteva diventare lo strumento ideale per creare
finalmente un Sudafrica realmente unito.
Il giorno che pretese di incontrare di persona i 25 ragazzi che componevano la nazionale degli
Springboks (24 dei quali erano ovviamente bianchi), lo stupore tra i suoi collaboratori quasi superò
il sacro rispetto che provavano verso di lui. Madiba, come Mandela veniva chiamato fin da ragazzo
all’interno del proprio clan di appartenenza, si presentò all’incontro conoscendo i nomi di tutti i
giocatori, le caratteristiche di gioco, il club di appartenenza e persino le condizioni fisiche di
ognuno di loro, come il più appassionato dei tifosi, come chi non avesse fatto altro che seguire il
rugby nella propria vita. Gli atleti rimasero increduli, stupefatti nel vedere che un uomo
dell’importanza di Mandela fosse così interessato alla loro nazionale, quasi ancor più scioccati
dal fatto che un nero fosse così appassionato di rugby.
Madiba prese poi da parte il capitano degli Springboks, Francois Pienaar, e con lui giocò a carte
scoperte, spiegando quanto importante fossero quella nazionale e quel Campionato del Mondo per
le sorti del Sudafrica, per poter finalmente avere un paese unito. Gli allenamenti aperti al pubblico
nei quartieri più poveri delle grandi città, gli atleti che impararono a memoria Nkosi Sikelele, lo
storico inno in lingua Xhosa, una delle 11 parlate dalla comunità nera, la visita della squadra a
Robben Island, la piccola isola dove venivano detenuti i prigionieri politici, tra cui lo stesso
Mandela, furono tutte tappe fondamentali del processo di avvicinamento tra gli Springboks e la
popolazione di colore, avvicinamento fortemente voluto dal presidente. Ma fu proprio Mandela a
fare il resto, con il coraggio che sempre contraddistinse ogni istante della sua vita: all’esordio
del Sudafrica nel Mondiale si presentò infatti in tribuna con la maglia ed il cappellino della
Nazionale, un nero con addosso i colori degli Springboks, qualcosa di mai visto.
All’inizio fu scetticismo, anche qualche critica, ma poi il campo fece il resto. Il Sudafrica iniziò una
cavalcata incredibile, il destino sa scrivere storie inimmaginabili a volte. Subito la vittoria
all’esordio con la fortissima Australia fece respirare un’aria nuova per le strade del Sudafrica, i neri
per la prima volta erano felici per una partita di rugby, il loro leader aveva tracciato la strada. Da lì
in poi solo vittorie, tutte sofferte, tutte emozionanti, fino alla finale del torneo, sulla carta
impossibile: di fronte gli All Backs, la leggendaria nazionale neozelandese. 25 giugno 1995, Ellis
Park di Johannesburg, come dirà Francois Pienaar “l’emozione più forte che abbia mai provato
nella mia vita”. Mandela entra in campo prima dell’inizio a stringere le mani di tutti i giocatori,
maglia e cappellino verdi ben visibili dagli spalti, da cui un coro unanime parte, fortissimo, quasi
assordante: “Nelson! Nelson!”, e a cantare sono bianchi e neri insieme, per la prima volta. Non
c’era nemmeno bisogno di giocarla quella finale, Madiba aveva già vinto. Ma la finale si gioca,
eccome: il Sudafrica va avanti 9 a 6, ma i neozelandesi non mollano e la partita finisce 9 a 9 dopo i
tempi regolamentari. Ad un passo dalla fine è un drop-goal di Joel Stransky a dare l’oro ai
sudafricani. La festa è completa, per le strade di Johannesburg si festeggia senza alcuna
differenza. Per la prima volta l’unica cosa che conta è essere sudafricani.
5. MILLION DOLLAR BABY
“Million Dollar Baby” è un film del 2005 diretto da
Clint Eastwood, raro caso di immenso attore diventato
ancora più immenso dietro la macchina da presa. Non
racconta una storia vera, ma sa tratteggiare i contorni
di una realtà che ogni appassionato di boxe riconosce
come familiare, e lo fa in modo particolarmente
riuscito. La palestra scassata gestita da Frankie
(interpretato dallo stesso Eastwood) è un piccolo
mondo in cui si snodano una serie di esistenze ai
margini della società, all’ombra dei riflettori, prima
tra tutte quella del suo amico Scrapt (un grande
Morgan Freeman), che addirittura nella palestra ci
vive. A rompere il ritmo delle stanche giornate monotone è Maggie (interpretazione che valse
ad Hilary Swank l’Oscar come migliore attrice), ragazza non più giovanissima che ha fatto a
pugni nella vita per anni e che ora vorrebbe cominciare a fare a pugni anche sul ring.
Frequenta la palestra di sera, alla fine del turno come
cameriera, non ha i soldi per i guantoni né per il resto,
non parliamo della coordinazione o della tecnica,
eppure in quella ragazza c’è qualcosa che cattura
Frankie, all’inizio scettico, anzi quasi infastidito. C’è
grande orgoglio, immensa determinazione, voglia di
riscattare una vita sfortunata, in definitiva c’è tutto
quello che è sempre stato la benzina dei grandi di
questo sport. Frankie si convince così ad allenarla e
da qui inizia una breve ed immensa carriera nelle
categorie minori della boxe femminile, un mondo
oscuro e sporco, sulla linea di confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è, anzi spesso oltre
quella linea di confine.
Il film riscosse un enorme successo di critica
e di pubblico nel 2006, sbancando la serata
degli Oscar e i botteghini di tutto il mondo,
ma soprattutto aprendo un intenso dibattito
sul tema che Eastwood sceglie di
scaraventare sul tavolo proprio nelle scene
finali del film: Maggie infatti durante il suo
ultimo incontro rimane vittima di un
terribile infortunio, collo spezzato,
paralizzata dalla testa in giù. Gli ultimi
minuti della pellicola raccontano il dramma
del suo allenatore, convinto cristiano, che si
sente chiedere di staccare la spina da parte di una ragazza che alla vita aveva già dato tutto, e anche
di più, senza ottenere nulla. Alla fine Frankie esaudisce l’ultimo desiderio della ragazza, e il tema
dell’eutanasia finisce per travolgere tutto.
Il grande merito del film “Million Dollar Baby”, al di là del finale e delle infinite riflessioni etiche
che induce a fare, è quello di descrivere in modo crudo e realistico il mondo della boxe
semiprofessionistica, quel sottobosco composto da ragazzi che spesso vedono nella palestra e
nel ring l’unica vera alternativa alla strada e alla delinquenza.
Rino Tommasi, uno dei più grandi esperti di pugilato che il nostro giornalismo ricordi, disse una
volta che il film Rocky se fosse finito al suono del gong del primo incontro sarebbe stato perfetto,
perché, al di là della trama e dei combattimenti molto romanzati, seppe raccontare alla perfezione
questo mondo. E “Million Dollar Baby” non è da meno. La boxe è sempre stato lo sport degli
ultimi, lo sport di chi è sommerso e cerca di riemergere. I grandi pugili del passato venivano dalla
strada, e spesso sulla strada sono poi tornati dopo aver appeso i guantoni al chiodo. Maggie, proprio
come il Rocky di Stallone, viveva in un appartamento minuscolo di un quartiere degradato ai
margini della grande città, ai confini della società americana, senza grandi possibilità di riscatto
oltre al cercare di vincere più incontri possibile e mettere k.o. più avversari possibile.
E proprio per questo il pugilato ha a lungo conservato una nobiltà quasi sacra rispetto agli altri
sport, evidenziata dal fatto che a differenza di una partita di calcio o di basket, il mio avversario lo
devo abbattere fisicamente per prevalere. Eppure esiste sempre un profondo rispetto tra due
pugili che si guardano negli occhi prima del gong, proprio perché spesso riconoscono in quegli
occhi la propria storia, le ore passate in palestra nonostante tutto, le difficoltà, il degrado
sociale da cui fuggire, il riscatto che una vittoria potrebbe significare; l’abbraccio finale dopo dodici
riprese di pugni nasce proprio dalla realtà che così magistralmente Eastwood riesce a descrivere.
Una realtà che purtroppo oggi si è quasi persa. Il pugilato ha perso gran parte della propria magia
quando è venuto meno l’elemento fondamentale del riscatto sociale, quando i milioni di dollari
hanno cominciato a dettare legge, quando un casinò di Las Vegas ha cominciato ad avere più peso
nel decidere la data di un incontro rispetto ad un allenatore. Oggi la boxe è morta, o quasi, stravolta
in un marasma di campionati incomprensibili, parto dell’avidità di qualcuno. Non c’è nulla delle
polverose ma romantiche palestre nelle quali sono cresciuti i grandi del passato. Le paillettes e i
contratti multimilionari hanno sommerso il mondo di “Million Dollar Baby”, e con esso uno degli
sport più epici che siano mai esistiti.
6. UN RAGAZZO DI CALABRIA
Un grande classico della cinematografia italiana a tema sportivo è il film di Luigi Comencini “Un
ragazzo di Calabria” datato 1987. Il contesto è quello di una Calabria rurale, ai margini
dell’Italia del boom economico dei primi anni ’60. Protagonista è Mimì, giovane proveniente
da un umile famiglia di contadini, la sua unica grande passione è la corsa.
Mimì vuole diventare un atleta, andare alle
Olimpiadi e vincerle, questo è il suo unico
sogno. Il padre però è irremovibile: lo sport non
ti dà da mangiare, non ti assicura alcun futuro.
Il ragazzo deve solo studiare, in alternativa può
dare una mano con il lavoro, niente di più.
Mimì però non si arrende, nessun
innamorato si arrende mai. Inizia ad
allenarsi di nascosto, addirittura scalzo, per
nascondere le scarpe sporche o rovinate. E’ la
mamma a diventare sua complice, intenerita
dalla passione con cui il figlio si mette in testa di raggiungere il proprio obiettivo, che è quello di
andare a Roma. Sì, Roma, proprio la città dove nel frattempo si stanno svolgendo le Olimpiadi. La
città dove Abebe Bikila era appena diventato mito. Mimì lo aveva intravisto da una televisione di
una famiglia benestante mentre tagliava il traguardo ai piedi dell’Arco di Trionfo, scalzo, proprio
come lui. E alla fine Mimì ci arriverà a Roma e la scena conclusiva del film è il riscatto di
questo ragazzo che finalmente ce la fa, vince i Giochi Studenteschi e convince il padre che il
suo sogno valeva la pena viverlo fino in fondo.
Guardare oggi il film di Comencini significa immergersi in un’Italia che forse non esiste più, una
società fondata su valori di cui oggi è sopravvissuta solo una sbiadita ombra appena visibile nella
frenesia in cui viviamo. La realtà familiare tipica di un meridione forse un po’ stereotipato, con la
presenza ingombrante di un padre padrone e una madre priva di autorità ma unica sponda e
complice del figlio sono l’ambiente nel quale il giovane Mimì coltiva le proprie ambizioni e
combatte con le proprie frustrazioni. Sullo sfondo una Calabria che sente solo da lontano l’eco di
un’Italia che sta vivendo il primo vero grande momento di benessere dal secondo dopoguerra e che
da lontano vive le grandi Olimpiadi di Roma 1960, probabilmente il più importante evento
organizzato su suolo italiano fino a quel momento. Il mito di Bikila è la vera ispirazione per
Mimì, quel Bikila che proprio a Roma entrò nel mito dell’atletica mondiale. La sua corsa a
piedi nudi lungo i 42 km della Maratona olimpica rappresentò il modo con l’Africa si presentò per
la prima volta al cospetto del mondo intero, simbolo della definitiva liberazione del continente nero
dal colonialismo europeo. La prima medaglia d’oro di un africano alle Olimpiadi contribuì a
rendere i giochi di Roma leggendari e ad ispirare il ragazzo calabrese e insieme a lui una intera
generazione di giovani atleti.
7. MOMENTI DI GLORIA
Alcuni film sanno regalare momenti, scene o dialoghi
che entrano di diritto nella memoria e nel bagaglio
culturale di ognuno di noi, anche di chi quei film non
li ha mai visti per intero. La scena di Robin Williams
che sale in piedi sulla propria cattedra in un aula
universitaria recitando i versi di Walt Whitman è
familiare anche a chi non ha mai avuto la fortuna di
vedere L’Attimo Fuggente, ad esempio.
Allo stesso modo il film di Colin Welland “Momenti
di Gloria” del 1981 ha saputo fissare nella storia
soprattutto una scena, quella iniziale, grazie anche
alla straordinaria colonna sonora del compositore
greco Vangelis, note associate ormai quasi per istinto
al concetto di impresa sportiva. La scena iniziale a cui facciamo riferimento è la celebre corsa sulla
spiaggia di un gruppo di giovani atleti, durante la quale ci vengono introdotti i due protagonisti
della vicenda. Siamo nel primo dopoguerra, l’Università di Cambridge fa da sfondo alla storia vera
di due velocisti, dapprima rivali, poi amici nel percorso di preparazione alle Olimpiadi di Parigi;
l’anno è il 1924.
Eric Liddell è un grande talento, pastore protestante dai principi religiosi saldissimi: corre
per magnificare la grandezza di Dio ma su una cosa non transige: la domenica è il giorno
dedicato al signore, non si lavora né si gareggia. Harold Abrahams è ambizioso fino
all’ossessione, si allena per diventare un campione e riscattare quel pregiudizio magari velato ma
molto ben visibile e altrettanto fastidioso, conseguenza del suo essere ebreo.
Tra i due all’inizio c’è competizione, rivalità quasi, ma la corsa getta presto il seme di una amicizia
che germoglierà nel corso della storia fino a diventare forte e salda. La vicenda subisce una svolta
quando a Parigi Eric scopre che la
sua gara di qualificazione sui 100
metri è stata fissata la domenica: il
ragazzo si rifiuta di correre per
rimanere fedele ai principi
religiosi che ha scelto di seguire
per tutta la propria vita, e rimane
irremovibile nella propria scelta,
nonostante le pressioni dell’intera
delegazione britannica, della
stampa e persino dei reali inglesi.
Troverà una preziosa sponda in
questo momento di difficoltà proprio in Harold, che sarà tra i pochi ad appoggiare la sua decisione.
Eric infine riesce a gareggiare e a vincere la gara dei 400 metri anziché dei 100, dove invece
trionferà proprio Harold. Il film rappresenta un’idea di sport lontana dall’agonismo insensato e
cieco a cui siamo purtroppo spesso abituati oggi, per cui l’avversario è sempre più simile ad un
nemico piuttosto che ad un rivale; lo sport può invece essere occasione irripetibile per la nascita
di sani rapporti umani conseguenza proprio del confronto, della rivalità addirittura, sempre
però all’interno di un confine di lealtà e rispetto reciproco, terreno sul quale è facile possano
fiorire le amicizie più belle, come il film dimostra splendidamente. Abbiamo inoltre un efficace
descrizione di cosa fossero i Giochi Olimpici nel 1924, grazie ad una ricostruzione particolarmente
accurata e attenta delle ambientazioni così come dei costumi, che ci proiettano all’interno di un
evento già allora considerato il più importante e prestigioso al mondo, nel quale però era ancora ben
visibile l’aspetto umano: è molto difficile oggi immaginare un atleta che scelga di non gareggiare,
rinunciando quindi a contratti, sponsor e ai guadagni conseguenti, per rimanere fedele ad un
principio morale o religioso.
8. UNITED
Lo sport sa essere bacino di storie incredibili, emozionanti,
può raccontare favole, può essere da insegnamento o offrire
spunti unici di riflessione. Però lo sport sa essere anche
crudele, spietato. Spesso senza nemmeno un perché. “United”
è un film prodotto dalla televisione britannica nel 2011,
diretto da James Strong, racconta l’epopea di una
leggendaria edizione del Manchester United, una delle
squadre più incredibili che il calcio abbia mai partorito.
“Busby Babes” li chiamavano, un gruppo di ragazzi
entrati nello stesso momento nelle giovanili dei Red Devils,
poco più di 6 anni avevano quando indossarono tutti
insieme per la prima volta la maglia rossa della squadra
di Manchester. Cresciuti insieme come fratelli, una
generazione di talenti irripetibile, come ne passa una ogni
cento anni o giù di lì, e tutti dalla stessa parte, tutti a difendere
gli stessi colori.
La trafila nelle giovanili scivola via veloce e in un attimo si
ritrovano in massa in prima squadra, a giocare con
i grandi del campionato inglese. Anzi non a
giocare, a dominare. Allenati da Matt Busby, più
che un mister un secondo padre, i “Busby
Babes”, i bambini di Busby appunto, lasciarono
a bocca aperta tutta l’Inghilterra a metà degli anni
50, quando trionfarono in due campionati
consecutivi, 55/56 e 56/57. Un’irreale età media di
21 anni li proiettò direttamente nella leggenda:
una nidiata di campioni bambini destinati a
dominare il calcio britannico ed europeo almeno
per un decennio, senza storia alcuna. Però lo
sport sa essere crudele si diceva, spietato. Lo United nel ‘56 fu la prima squadra inglese ammessa
alla Coppa dei Campioni, nata appena l’anno precedente ma priva di squadre provenienti dal Regno
Unito nella prima edizione a causa di alcune regole imposte dalla Football League e incompatibili
con un torneo internazionale.
Nel 1956/1957 i ragazzi di Busby esordirono alla grande nella coppa più prestigiosa: subito
semifinale, sconfitti solo dall’immenso Real Madrid che di quei trofei fece collezione tra anni ‘50 a
‘60. Per la stagione successiva i talenti dei Red Devils si presentavano come i rivali più accreditati
delle merengues, e infatti l’inizio fu devastante, fino alla partita di Belgrado, dove il 3 a 3 con la
Stella Rossa significò semifinale, la seconda consecutiva. Si giocava all’inizio del mese di febbraio,
il 6 febbraio del 1958. Lo United ripartì da Belgrado con un volo charter della British European
Airways, scalo a Monaco per rifornimento e atterraggio previsto all’aeroporto di Manchester: a
bordo la squadra al completo, lo staff tecnico e qualche giornalista al seguito.
Purtroppo l’aereo non giunse mai a destinazione. Lo schianto all’aeroporto di Monaco in fase di
decollo dopo lo scalo tecnico fu devastante: i primi soccorritori si ritrovarono davanti una scena
infernale, il velivolo per le avverse condizioni della pista ricoperta di ghiaccio non riuscì mai a
staccarsi da terra e finì per schiantarsi contro un edificio al termine della pista di decollo.
La palla di fuoco che avvolse l’aereo fu impressionante. Dei 44 passeggeri a bordo, persero la vita
in 23, 8 dei quali erano calciatori. Il sogno del Manchester dei ragazzi si spezzò quel giorno. Tra i
sopravvissuti Bobby Charlton, che sarebbe diventato un mito del calcio inglese e dei Red Devils e
proprio Busby, l’allenatore, che visse il resto della propria vita martoriato da un senso di colpa
devastante. Lo sport sa essere crudele, anche senza motivo. Il parallelo con un’altra leggendaria
squadra di fenomeni stroncata da un incidente aereo è naturale, quasi ovvio. C’è qualcosa che
unisce i tifosi dello United a quelli del Torino, un destino nemico che ha deciso di riscrivere la
storia per capriccio.
9. MIRACLE
Nel 1980 il mondo era diviso ancora in due blocchi contrapposti:
da una parte gli Stati Uniti e i paesi dell’Europa occidentale,
dall’altra l’Unione Sovietica e i suoi stati satellite, in mezzo una
linea di tensione che per decenni è rimasta incandescente, sempre
sul punto di prendere fuoco e di far precipitare il mondo in un
conflitto che probabilmente sarebbe stato disastroso oltre ogni
immaginazione. Le due grandi potenze vincitrici della Seconda
Guerra Mondiale si erano letteralmente spartite il pianeta,
avviando fin dal 1945 un lungo periodo di crisi politica e
diplomatica che condizionò pesantemente l’andamento della storia
nel secondo ‘900. La geniale definizione di Guerra Fredda, coniata
dalla mente superiore di George Orwell e ripescata dal giornalista
Walter Lippmann, descrive alla perfezione il clima che avvolse il
mondo per lunghi decenni fino all’abbattimento del muro di
Berlino nel 1989.
Ma il 1980 era anche l’anno delle due Olimpiadi, quella invernale di Lake Placid negli Stati
Uniti, e poi quella estiva di Mosca, in URSS. Fino al 1992 infatti olimpiadi invernali ed estive
condividevano lo stesso anno. E se i giochi di Mosca sono passati alla storia per il boicottaggio
della squadra statunitense, quelle
che si svolsero nello Stato di New
York qualche mese prima hanno
regalato al libro delle grandi
imprese dello sport mondiale un
vero e proprio miracolo, quello
della nazionale di casa di hockey su
ghiaccio. “Miracle” è anche il titolo
del film del 2005 diretto da Gavin
O’Connor che ripercorre proprio
questa incredibile vicenda. Del
clima da Guerra Fredda abbiamo
detto, c’è da aggiungere che
appena qualche settimana prima gli URSS avevano mosso una importante pedina nel costante
gioco di provocazioni e contro-provocazioni sulla scacchiera mondiale, invadendo
l’Afghanistan e avvicinandosi minacciosi ai grandi bacini di petrolio del Golfo. Era questo il
contesto con cui si aprirono i Giochi di Lake Placid.
La nazionale di hockey americana non aveva una singola possibilità di regalare un oro al
medagliere di casa: composta solo da ragazzi universitari e da dilettanti (i professionisti dello sport
statunitense approdarono alle Olimpiadi solo nel 1992, e lo fecero nel modo più spettacolare, con il
mitico Dream Team di basket che segnò un’epoca in tutti i sensi), sembrava inevitabilmente
condannata a soccombere nei confronti delle grandi superpotenze come Canada e appunto URSS.
Invece la storia andò diversamente: nel film prodotto dalla Disney il tutto viene ridotto a toni forse
un po’ troppo fiabeschi, eppure qualcosa di difficilmente spiegabile secondo logica accadde.
L’allenatore di quella squadra, Herb Brooks, ben interpretato sul grande schermo da Kurt
Russell, fu più psicologo e motivatore che tattico: riuscì infatti a creare un gruppo che sarebbe
stato disposto a tutto pur di uscire vincitore dal campo, convogliò la grande ondata patriottica che
investì quel torneo di hockey su ghiaccio trasformandola in determinazione e orgoglio, in due
parole fu in grado di plasmare una squadra che, pur non essendo la più forte, era semplicemente
impossibile da battere. Spesso negli sport di squadra si verifica questa speciale chimica di gruppo,
una serie di fattori che si mescolano più o meno casualmente e che rendono straordinario un gruppo
composto da individui non così straordinari.
Se parliamo di calcio ad esempio, come può l’Atletico Madrid operaio del 2014 vincere il
campionato e arrivare a 5 cm dalla Coppa dei Campioni contro club che pagano un singolo
giocatore più della somma degli stipendi della loro intera rosa? Eppure è accaduto, e probabilmente
continuerà ancora ad accadere. A Lake Placid nel 1980 un fattore forse determinante fu il clima
nel quale si giocò l’intero torneo olimpico di hockey: il patriottismo americano esplose nella
propria forma più festante e trascinante, ogni partita degli USA si giocava in un frastuono
assordante di tifo e bandiere, letteralmente un giocatore in più pattinava sul ghiaccio insieme ai
ragazzi in divisa statunitense.
Il caso a volte si diverte a scrivere il copione giusto per alcune storie, e gli incroci del tabellone
finale misero una di fronte all’altra proprio Stati Uniti e URSS per la conquista della medaglia
d’oro, nonostante la formula del torneo non prevedesse finale secca. Per media e tifosi americani
quella divenne LA PARTITA, non con la p maiuscola ma con ogni singola lettera maiuscola.
Caricata dalle rispettive macchine di propaganda di un significato politico, ideologico, culturale
quasi, molto superiore rispetto alla battaglia sportiva per una medaglia olimpica,
LA PARTITA catturò l’attenzione del mondo intero che si fermò ad osservare quei 12 ragazzi su
una pista di ghiaccio, sei per parte, ma in realtà milioni per parte, un blocco di mondo contro l’altro.
Eppure tecnicamente non ci doveva essere alcun dubbio sull’esito del match. Appena qualche
giorno prima, nel corso di un torneo pre-olimpico, gli URSS avevano strapazzato gli americani
senza offrire alcun diritto di replica: 10 a 3 il finale, ma potevano essere molti di più. Però miracolo
doveva essere e miracolo fu. Gli USA vanno sotto tre volte, ma come un pugile che ormai combatte
a guardia abbassata per il tutto per tutto, ad ogni schiaffo risposero, ad ogni svantaggio riuscirono
ad acciuffare il pareggio: 0-1, 1-1, 1-2, 2-2, 2-3, 3-3. Epico. Fino alla fine, fino al gol decisivo del
capitano, un improbabile italo americano di nome Mike Eruzione. La gioia esplode sul ghiaccio e
sugli spalti e in tutte le città americane. La leggenda è già impressa nella storia. Un gruppo di
ragazzi senza talento (nessuno di loro riuscì a sfondare nei campionati professionistici ad eccezione
di Ken Morrow) che batte i colossi sovietici, sospinti da un paese intero. Guardare “Miracle” e non
ritrovarsi con un accenno di sorriso sul volto è impossibile: è questo l’effetto che fa lo sport quando
decide di svelarci la propria immane bellezza.
10. COOL RUNNINGS
“Cool Runnings” è un film del 1993 diretto da
Jon Turteltaub ed è il racconto di un singolare
episodio che accadde nel corso delle Olimpiadi
invernali del 1988 a Calgary, in Canada. Il
titolo gioca sul doppio significato che la parola
“cool” ha nella lingua inglese: freddo, come la
neve e il ghiaccio del Canada, ma anche
“figo”, “sfacciato”, come la Jamaica ad
esempio. E citare la Giamaica è tutt’altro che
casuale. Lastoria è infatti quella della
nazionale giamaicana di bob, che a sentirlo
sembra quasi un ossimoro: Giamaica evoca
sole, caldo, estate, musica e divertimento, quanto di più lontano da una Olimpiade invernale.
Eppure nel 1988 accadde l’improbabile.
Questa singolare storia inizia con una gara di velocità sui 100 metri, habitat ben più naturale per
qualsiasi giamaicano che si rispetti, una gara di qualificazione per le Olimpiadi, quelle estive
stavolta, che si svolgevano nel 1988 a Seul. Durante lo sprint però qualcosa va storto: un
ragazzo di nome Junior perde l’equilibrio e inciampa, andando a travolgere altri due velocisti,
Derice e Yul. In un colpo solo spazzati via i sogni
olimpici di tre giovani speranze dell’atletica giamaicana.
Derice però non demorde: se la sfortuna gli aveva sottratto
l’Olimpiade estiva, allora si sarebbe preso l’Olimpiade
invernale. Non Seul ma Calgary, che tanto i cinque cerchi
sono gli stessi. Parte quindi alla ricerca di un vecchio amico
del padre, un americano ex bobbista che viveva in Jamaica,
un eccentrico signore con un passato turbolento in patria,
diventato allibratore e chissà che altro proprio tra le spiagge di Kingston. Lo scopo è convincerlo a
formare la prima squadra di bob giamaicana della storia e andare alle Olimpiadi; impresa da pazzi,
pensa all’inizio l’americano, ma poi si convince: d’altronde per tutti i ragazzi giamaicani il
passatempo preferito era la corsa dei carretti in discesa, qualcosa di molto simile al bob, e in quanto
alla velocità, fondamentale nella partenza di una gara di bob, sembrava davvero l’ultimo dei
problemi. Derice così, insieme agli altri due velocisti inciampati nella gara dei 100 metri e ad un
quarto ragazzo, mette insieme la squadra e quasi inspiegabilmente riesce a realizzare il sogno di
arrivare ai giochi di Calgary.
In Canada i giamaicani hanno l’effetto di una chitarra elettrica in mezzo ad un orchestra di fiati,
sono totalmente fuori luogo, ma il loro atteggiamento festante, colorato e divertente cattura
immediatamente il pubblico di tutto il mondo. Il film ovviamente prevede il classico finale
disneyano, unico particolare che si discosta dalla storia realmente accaduta nel 1988: i ragazzi
giamaicani si scoprono a sorpresa competitivi, ma nella discesa finale il bob si ribalta insieme ad
ogni sogno di gloria; invece però di uscire a testa bassa, i quattro si caricano in spalla il bob e
tagliano il traguardo a piedi, tra gli applausi commossi dei presenti e di tutti i giamaicani davanti
alla televisione.
11. HE GOT GAME
Quando un nuovo arrivato fa la propria comparsa su un campo
di basket di un playground americano, su un campo di strada,
dove le regole non le stabilisce l’arbitro la ma strada stessa,
capita di sentir dire dai presenti dopo un paio di canestri o di
assist dietro la schiena “ehy, he got game”. Solo allora il nuovo
arrivato si può considerare parte del gruppo, è una sorta di
battesimo senza il quale si può anche tornare a casa o cambiare
velocemente aria. “He Got Game”, traducibile con “Quello lì
ha stoffa, sa giocare” è anche il titolo di un film del 1998
firmato da Spike Lee, indiscutibilmente il più efficace
narratore delle dinamiche della società afroamericana, nel
bene e nel male.
La storia è quella di Jesus Shuttlesworth, uno dei più forti
diciottenni nel panorama cestistico americano, ribattezzato
“Black Jesus”, altro nomignolo ricorrente nella mitologia del
basket di strada, riservato solo ai più grandi. Ad interpretarlo è
Ray Allen, che oltre ad essere diventato poi il giocatore con più canestri da tre segnati nella storia
dell’NBA, dimostrò anche eccezionali doti di attore nel film. Jesus è all’ultimo anno di liceo,
domina nel campionato scolastico dello Stato di New York e addosso ha tutti gli occhi delle
più grandi università americane che se lo contendono per rafforzare le proprie squadre di
college.
Su questo punto torneremo più tardi, essendo uno degli spunti di riflessione più interessanti che il
film ci offre. Il ragazzo però proviene da un contesto familiare drammatico, come spesso accade per
i giovani afroamericani che vivono ai margini delle grandi città: in particolare il papà di Jesus, Jake,
interpretato da un Denzel Washington al proprio meglio, è rinchiuso in carcere per l’omicidio
della moglie, la mamma del ragazzo.
La scelta che deve prendere Jesus è il perno della
trama: le grandi università sognano di vederlo
difendere ognuna i propri colori, e addirittura la Big
State University fa pressioni attraverso il
governatore dello Stato di New York, ex studente e
sostenitore finanziario dell’ateneo, sul direttore del
carcere dove è rinchiuso il padre di Jesus; “il patto
è: il ragazzo sceglie noi e tu sei libero”, si sente dire
Jake, che viene liberato per una settimana proprio
con lo scopo di convincere il figlio, che però rifiuta rabbiosamente di vederlo. La climax finale
culmina nella scena della sfida uno contro uno tra Jake e Jesus: se vince il padre, Jesus sceglie Big
State e lui è libero, se invece perde, Jesus è libero di fare quello che ritiene più vantaggioso per
il proprio futuro. Il ragazzo ovviamente vince ma sceglie comunque per la libertà del padre,
impietosito dalla sua condizione di disperazione. Il colpo di coda finale della trama è tipico della
visione del mondo del regista Spike Lee: nonostante il desiderio del governatore fosse stato
esaudito, Jake rimane comunque in prigione e la promessa viene tradita.
Il film è una preziosa occasione per mettere a fuoco una realtà che non è propria né della società né
della cultura di casa nostra. Negli Stati Uniti infatti la carriera sportiva di un ragazzo è saldamente
intrecciata alla sua carriera scolastica. Fin dai licei, gli studenti giocano in campionati ed in strutture
che non hanno nulla da invidiare alla nostra realtà di Serie A2, se parliamo di basket, ma il discorso
è il medesimo anche per football, baseball, atletica e persino calcio: i giovani talenti sono messi
nelle migliori condizioni per poter esprimere al meglio le proprie qualità, per poter maturare come
atleti e costruirsi la propria carriera di sportivo. A patto però che mantengano un determinato
standard nella propria istruzione.
Cattivi voti significa zero allenamento e zero partite. I liceali più forti entrano nel mirino poi
delle grandi università, proprio come nel caso di Jesus: gli atenei non possono pagare i ragazzi, ma
offrono loro borse di studio che coprono integralmente i costi degli anni accademici altrimenti
spesso insostenibili, con lo scopo di rendere sempre più competitive le proprie squadre. Se i
campionati liceali sono al livello della nostra Serie A2, il College BasketBall è sicuramente
competitivo come e forse più di un campionato di serie maggiore europeo. I palazzetti in cui si
gioca sono ultramoderni, arrivano fino a 15.000 spettatori, le fasi finali sono seguite in diretta tv in
tutto il paese, con i diritti venduti anche all’estero per cifre altissime, da spartirsi poi tra i diversi
atenei.
Anche a livello universitario, nonostante un volume di affari degno dell’Eurolega, la carriera
sportiva dei ragazzi dipende comunque da quella scolastica. Ed è questo il grande sistema messo in
piedi dagli americani, legare istruzione a sport, garantendo strutture di altissimo livello ma anche
una preparazione scolastica se non di altissimo, almeno di buon livello. Tuttavia questa realtà può
avere delle pericolose degenerazioni, e Spike Lee è stato maestro a metterle tutte sul piatto: un
ragazzo di diciotto anni può trovarsi travolto da immani pressioni al momento della scelta
dell’università, che per lui non significa guadagno, ma che per tutti quelli che vivono in questo
mondo sì. In più ci sono gli sponsor, che hanno libertà di azione fin da questa età e che spesso
finiscono per condizionare più o meno direttamente ogni scelta, senza considerare che fino a
qualche anno fa era possibile anche il passaggio diretto da liceo a campionato professionistico;
LeBron James ad esempio, il più forte giocatore di basket del pianeta, era talmente dominante già a
19 anni che venne subito ingaggiato dai Cleveland Cavaliers, ciò significa che appena maggiorenne
si ritrovò a discutere di contratti multimiliardari e a prendere decisioni cruciali senza probabilmente
la maturità adeguata. LeBron ha poi dimostrato di essere un fenomeno anche con la testa oltre che
con le mani e ha sempre mantenuto la retta via, ma non sono rari i casi di ragazzi che perdono
totalmente il controllo di sé stessi in questa situazione, soprattutto se fino a solo un paio di anni
prima erano costretti a contare le monete trovate in giro per la casa per potersi permettere un litro di
latte.