Qui - La Corsa di Miguel
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Qui - La Corsa di Miguel
CINEMA 1. ONCE BROTHERS “Once Brothers” è il titolo di un commovente documentario girato dal regista statunitense Michael Tolajian nel 2010; il film fa parte della serie “30 for 30”, splendida iniziativa firmata ESPN (il celebre canale televisivo sportivo americano), che commissionò il racconto di trenta storie di sport a trenta registi di fama internazionale. Tolajian ripercorre la storia dell’amicizia spezzata tra due dei più grandi cestisti di tutti i tempi, due autentiche icone del basket degli anni 80 e 90, Drazen Petrovic e Vlade Divac. Descrivere cosa fosse Petrovic su un campo di pallacanestro è impresa ardua, quasi impossibile: il Mozart dei canestri lo chiamavano, o il Michael Jordan bianco, e questo già dovrebbe aiutare ad immaginare quanto talento scorresse dentro quelle vene, insieme al sangue croato. Sì, perché Petrovic era croato ed orgoglioso di esserlo, orgoglio che reciterà un parte importante, se non decisiva, in questa storia. Dopo aver dominato in Europa, Drazen tentò l’avventura nell’NBA, il campionato americano sogno di qualsiasi ragazzo che abbia mai preso in mano una palla a spicchi: fatica all’inizio, gioca poco a Portland, ma poi esplode in maglia New Jersey Nets, la squadra che oggi non esiste più, sostituita dai neonati Brooklyn Nets; eppure, anche nel nuovo palazzetto alle porte di Manatthan, ancora oggi ben visibile lì in alto c’è la sua maglietta numero 3, ritirata come si fa con i grandi, privilegio più unico che raro per un europeo. Drazen ancora oggi è nei cuori di ogni singolo tifoso dei Nets. Per quanto Petrovic fosse introverso e caratterialmente quasi impenetrabile, Vlade Divac era la sua immagine riflessa in uno specchio, uguale e contraria, estroverso ed eccentrico, gran fumatore di sigarette, non per niente ribattezzato Marlboro Man, un gigante buono di 216 centimetri con il talento e l’agilità di un ballerino, mani dolci si dice in gergo, tecnica sopraffina di inconfondibile scuola slava. Anche Vlade sfondò nel campionato americano, prima con la prestigiosa maglia Lakers al fianco di Magic Johnson, poi viene scambiato con un ragazzino diciottenne di belle speranze, un certo Kobe Bryant, e infine a far divertire l’America con gli spettacolari Sacramento Kings a cavallo del 2000, insieme ad un altro talento europeo, Pedja Stojakovic, la macchina del tiro da 3. Particolare da non sottovalutare: Vlade, proprio come Pedja, è serbo. Eppure fino ai primi anni 90 questa distinzione tra serbi e croati, o montenegrini, o sloveni, o bosniaci, somigliava più ad un asterisco da mettere vicino alla dicitura “Nazionalità: Jugoslavia”. Petrovic e Divac hanno giocato infatti per la stessa bandiera fin dagli anni delle giovanili, cresciuti insieme con la maglia della Jugoslavia e diventati grandi amici, inseparabili, come fratelli appunto, proprio con quei colori addosso. Quella nazionale sarebbe diventata fantastica tra anni 80 e anni 90, un serbatoio infinito di campioni capaci di affrontare alla pari chiunque: i successi ai Campionati Europei del 1989 e poi nei Mondiali del 1990 in Argentina sono la consacrazione di una generazione di talenti con pochi eguali nella storia di questo sport. Ma proprio nel campionato del mondo del 1990, proprio al termine dell’ultimo atto di quella cavalcata, pochi secondi dopo la sirena che sancì la vittoria sull’Unione Sovietica, avvenne l’episodio che segnò l’amicizia tra i due simboli di quella squadra e che descrive meglio forse di molti manuali di storia il dramma che si stava per scatenare nella penisola balcanica. Il 1990 infatti non è solo l’anno dell’oro mondiale dei ragazzi del basket: il crollo del muro di Berlino fu come mettere una biglia su di un piano inclinato, velocemente l’intero blocco sovietico si disintegrò e in Jugoslavia, senza il collante del comunismo, esplosero i nazionalismi delle etnie che avevano convissuto fin lì sotto la stessa bandiera. I presupposti per la guerra che avrebbe segnato i primi anni ’90 erano già tutti sul tavolo, la tensione politica percepibile anche a migliaia di chilometri di distanza, su quel parquet di Buenos Aires dove la nazionale jugoslava aveva appena vinto la finale dei mondiali. La scintilla che accese il fuoco prese le sembianze di un tifoso, un signore che entrò in campo per festeggiare quella vittoria insieme ai ragazzi jugoslavi: nella mano una bandiera, ma croata. Nella confusione Divac si ritrova davanti il tifoso e gli strappa quella bandiera gettandola in terra. “Doveva essere la vittoria di un gruppo e di una nazionale, non c’entrava nulla la bandiera della Croazia”, pensò e disse poi il gigante buono. “Hai offeso i miei colori, le mie origini e la mia famiglia”, pensò invece Petrovic, ma non disse nulla, e nulla continuò a dire al suo vecchio amico da quel giorno in poi. L’orgoglio di Drazen era troppo grande, l’amicizia con Vlade poteva anche finire lì, e finì lì. Una volta fratelli, ora non più. Lo scoppio della guerra e il disintegrarsi della Jugoslavia anche dal punto di vista sportivo separarono ancor di più le strade dei due: Vlade tentò in tutti i modi di recuperare, spiegando la propria ingenuità, giurando buona fede, ma Drazen non tornò mai più indietro. Sono un pugno nello stomaco le immagini delle partite tra Lakers e Nets, quando Petrovic ignorava Divac, evitando di incrociare lo sguardo con lui, come fosse uno dei tanti avversari da battere, niente di più. Forse con gli anni la storia sarebbe cambiata, forse i tornanti che la vita ti fa percorrere avrebbero riportato Drazen a perdonare Vlade, a tornare suo fratello, nonostante una bandiera diversa da difendere e una nazionale diversa per cui giocare. Ma purtroppo non lo sapremo mai. Petrovic morì drammaticamente in una piovosa notte di giugno nel 1993, in Germania. Incidente automobilistico mentre tornava a casa da una partita proprio con la Croazia. Non guidava lui, al volante la fidanzata, che uscì incolume. La morte lo rese immortale per ogni appassionato di basket al mondo, in Croazia il 7 giugno ancora oggi il paese si ferma per ricordarlo. Ma quell’incidente fu la fine di ogni speranza per Divac di recuperare l’amicizia persa. La scena più toccante del documentario è sicuramente quella in cui Vlade in lacrime chiede scusa alla famiglia di Drazen e piange sulla tomba su quello che una volta era suo fratello, Once Brothers appunto. 2. MUNICH C’è un regista che meglio di altri ha saputo raccontare nel corso della propria carriera artistica i drammi che il popolo ebraico ha vissuto nella propria storia, a partire naturalmente dal più orrendo, l’Olocausto degli anni 40: il suo “Schindler’s List” è universalmente riconosciuto come uno dei capolavori della cinematografia i tutti i tempi. Il regista è naturalmente Steven Spielberg. “Munich” è una sua pellicola datata 2005 e il titolo fa riferimento ovviamente alla città di Monaco di Baviera dove, durante le Olimpiadi del 1972, avvenne uno degli episodi più drammaticamente indimenticabili della storia del ‘900, e non parliamo solo di sport. La notte è quella tra il 4 e il 5 settembre, siamo nell’ultima settimana dei Giochi, il clima è all’apparenza disteso nel Vilaggio Olimpico. Si narra che un gruppetto di atleti americani stesse rientrando di nascosto dopo una notte passata tra locali e birra: gli statunitensi, un po’ alticci, forse proprio ubriachi, aiutarono a scavalcare le recinzioni anche ad altri ragazzi che trovarono all’ingresso del Villaggio: altri atleti come noi, forse pensarono, le bravate rendono complici. Ma quelli non erano altri atleti: iniziano così le 24 ore che sconvolgeranno i Giochi Olimpici del 1972 ed il mondo intero. A scavalcare le recinzioni dell’Olympia Park di Monaco fu un commando di otto terroristi dell’organizzazione palestinese Settembre Nero, che si diressero subito verso gli appartamenti degli atleti israeliani, ne uccisero due nell’irruzione, ne presero in ostaggio altri nove. Alle prime luci dell’alba la notizia diventa di dominio pubblico, i terroristi chiedono la liberazione di 232 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, comincia una trattativa estenuante con le forze dell’ordine tedesche davanti agli occhi del mondo intero. A posteriori si discusse molto sull’efficacia dell’azione della polizia tedesca, sul livello di preparazione più o meno adeguato degli agenti, sul loro numero forse troppo scarso. Le teorie complottiste ancora oggi si sprecano, la dietrologia trova terreno fertile in casi simili. I fatti sono questi: le infinite negoziazioni portarono la polizia a decidere nel corso del pomeriggio di assecondare la volontà dei terroristi, che volevano essere traportati all’aeroporto di Monaco e da lì al Cairo, da dove avrebbero continuato a trattare la liberazione dei prigionieri in cambio di quella degli ostaggi. Il piano dell’unità anticrisi prevedeva di sorprendere i terroristi all’interno dell’aereo Lufthansa subito dopo che vi fossero entrati: tuttavia il tentativo fallì, sia perché la polizia non sapeva quanti fossero i terroristi (si pensava cinque e non otto), sia per lo scarso equipaggiamento degli agenti. Si scatenò così un confitto a fuoco a partire dalle 23 fino alle 1.30 del mattino successivo. Intorno alla mezzanotte, con la sparatoria ancora in corso, venne diramato un comunicato che annunciava la liberazione di tutti gli ostaggi e la morte dei rapitori, e infatti i giornali israeliani andarono in stampa con questa notizia. Intorno alle 2 del mattino tedesche invece un rappresentante del CIO lasciò intuire che le prime ipotesi erano state troppo ottimistiche. Il primo a dare la notizia ufficiale fu il conduttore dei programmi sportivi della rete americana ABC, Jim Mckay, con parole che echeggiarono in tutti il mondo e che ancora oggi sono indimenticabili: “Abbiamo appena ricevuto le ultime notizie. Quando ero bambino, mio padre mi diceva che raramente le nostre speranze più belle e le nostre paure più grandi si avverano. Questa notte le nostre paure più grandi sono divenute realtà. Ci hanno comunicato in questo momento che gli ostaggi erano undici. Due di loro sono stati uccisi nelle loro stanze ieri mattina, gli altri nove sono stati uccisi questa notte all'aeroporto. Sono tutti morti”. Il film di Spielberg ripercorre nelle proprie scene iniziali questo dramma, raccontando poi nel corso del proprio svolgimento la caccia all’uomo da parte dei servizi segreti israeliani verso i tre terroristi sopravvissuti al conflitto a fuoco, dapprima arrestati poi liberati in seguito ad un'altra trattativa dopo il sequestro di un volo Lufthansa. La fotografia dell’uomo incappucciato che si affaccia dal balcone dell’appartamento israeliano nel Villaggio Olimpico rimane una delle icone più inconfondibili del ‘900, simbolo di un dramma che ci offre ancora oggi doversi spunti di riflessione, tutti particolarmente attuali. Il massacro di Monaco ’72 infatti, tappa di un conflitto che ha segnato tutta la seconda metà del secolo scorso e che continua anche oggigiorno ad insanguinare una striscia di mondo, è stato forse il primo importante evento seguito e vissuto in diretta minuto per minuto dal mondo intero. Si dice spesso che l’11 settembre del 2001 abbia cambiato il mondo per come viene esso percepito: la tragedia degli aerei che si schiantano sulle torri di New York in diretta mondiale ha trasferito la storia dalle pagine dei giornali e poi del libri agli schermi delle televisioni e poi dei computer, ma effettivamente questo processo che culminò proprio con l’attentato al World Trade Center probabilmente mosse i primi passi proprio a Monaco nel ’72. I terroristi infatti non scelsero casualmente il palcoscenico delle Olimpiadi, erano consapevoli che gli occhi e l’attenzione del mondo intero in quei giorni erano rivolti verso la Germania, come sempre accade e continua ad accadere per ogni edizione del più grande evento sportivo a livello globale. Il fine di un atto terroristico è seminare appunto terrore, insicurezza nella società, paura quasi viscerale: farlo utilizzando il megafono di tutti i più grandi mezzi di comunicazione decuplica il risultato. Per questo il commando decide di spostare più volte l’orario dell’ultimatum fino ad arrivare al tardo pomeriggio, proprio per avere un pubblico più ampio possibile per la propria propaganda. I nuovi media ci permettono di vivere in diretta qualsiasi cosa accada in qualsiasi parte del mondo, soprattutto dopo l’avvento di Internet e della rete globale, ma questo meccanismo può facilmente deragliare, trasformando il racconto della cronaca in un palcoscenico da cui chiunque può assicurarsi una visibilità senza precedenti nella storia. Inoltre è sensibile il rischio di vedere sempre più labile il confine tra realtà e sua rappresentazione: la degenerazione di questo processo ci porta a interpretare come reale infatti solo ciò che possiamo vedere in diretta su di uno schermo, mentre ciò che accade lontano da una telecamera o da una macchina fotografica è come se non sia mai esistito: è per questo meccanismo che tutti conosciamo il nome di Felix Baumgartner, il paracadutista austriaco che si è lanciato da 42 km di altezza nel 2012 in una diretta streaming globale sponsorizzata RedBull, ma nessuno sa chi sia Alan Eustace, che nel 2014 quel record lo ha battuto ma senza riprese televisive a testimoniarlo; o ancora, per cui siamo in ansia per un pilota di Formula 1 dopo un incidente in pista, ma ignoriamo il dramma quotidiano che avviene nel Mediterraneo. Altro aspetto della vicenda degno di analisi riguarda poi la decisione presa dall’allora presidente del CIO Avery Brundage di far continuare il programma di gare nella mattina del 5 settembre e di non interrompere i Giochi nemmeno dopo che la notizia della morte di tutti gli ostaggi divenne di dominio pubblico. Anche qui il parallelo con quanto avvenne l’11 settembre 2001 è evidente, con l’UEFA che non cancellò la giornata di Champions’ League nonostante il mondo intero fosse ancora sotto shock per quanto era accaduto solo poche ore prima. Riconoscere il confine oltre il quale lo spettacolo non merita più di dover continuare è un tema eticamente molto delicato, oltre che particolarmente attuale, come conferma il recente drammatico caso della finale di Coppa Italia giocata a Roma nel maggio del 2014.Il racconto di quanto avvenne nel settembre del 1972 a Monaco che fa Spielberg può quindi diventare spunto anche per riflessioni di questo genere. 3. FUGA PER LA VITTORIA Quando si parla di cinema e sport, non può non venire alla mente “Fuga per la Vittoria”, il film del 1981 diretto da John Huston nel cui cast compaiono nomi altisonanti come Silvester Stallone e Michael Caine, affiancati da stelle come Pelè, Ardiles e Bobby Moore, che è un po’ come se al cinema oggi andassimo a vedere un film con Cristiano Ronaldo, Messi e Rooney. La storia è avvincente, ambientata nel corso della seconda guerra mondiale in un campo di detenzione nazista in Francia. I prigionieri alleati guidati da Stallone e Caine pensano ad una partita di calcio contro le guardie SS come escamotage per organizzare la fuga perfetta, compongono una squadra con alcuni dei detenuti più talentuosi e sfidano i tedeschi in una partita epica. La fuga è fissata all’intervallo, attraverso un tunnel che intanto i partigiani francesi hanno scavato fino dentro lo spogliatoio; eppure, dopo un primo tempo umiliante, sia per l’arbitraggio che per il risultato, alcuni prigionieri decidono di continuare a giocare, preferendo l’orgoglio alla libertà. La tipica sceneggiatura hollywoodiana regala un finale perfetto, con la rimonta degli alleati, la mitica rovesciata finale di Pelè e una fuga che si compie ugualmente grazie alla folla festante dello Stade de Colombes di Parigi. Una storia affascinante, che esalta lo sport come impareggiabile strumento di riscatto e magnifica il calcio come straordinaria occasione di aggregazione, anche in un contesto drammatico come quello di una Parigi occupata dai nazisti. Persino uno Stallone che incarna alla perfezione lo scetticismo americano verso il “soccer” alla fine rimarrà rapito e conquistato dalla sua bellezza. Una storia che però non tutti sanno essere ispirata ad un fatto realmente accaduto, per quanto incredibile possa sembrare. Cambia il contesto, non siamo nella Francia della resistenza all’occupazione ma nello scenario della Kiev del 1942, una città pressoché fantasma, abbandonata e spoglia, ridotta in un cumulo di macerie dai bombardamenti. In un campo di concentramento alle porte della città sono rinchiusi alcuni calcatori, alcuni della Dinamo Kiev, altri della Lokomotiv. Sono prigionieri di guerra come tanti, fanno il pane per gli altri detenuti, nessuno sa che nella loro vita precedente alla guerra erano sportivi di primo livello. Quando le guardie SS scoprono chi siano in realtà quei ragazzi, decidono di sfidarli e di organizzare una partita: noi contro di voi, chissà per quale motivo, forse per la voglia di umiliarli anche in quello che facevano nella loro vita “reale”, forse per quel divertimento sadico tipico di chi portava la svastica sul braccio. Sta di fatto che la partita si giocò: siamo nel luglio del 1942 e qui inizia la storia che ispirò “Fuga per la Vittoria”. I calciatori ucraini dovevano perdere, questi erano i patti, eppure all’ingresso nello stadio colmo di tifosi ucraini qualcosa cambiò e i prigionieri decisero di giocare e giocarono per davvero: 5 a 1 la vittoria e nazisti battuti, almeno su quel prato verde. I soldati però non potevano accettare un simile affronto e nel giro di un mese le due squadre si ritrovarono di nuovo in campo: stavolta lo stadio Zenith di Kiev era pressoché deserto, solo qualche guardia delle SS e qualche poliziotto sulle tribune. La città era ancora più desolata ed abbandonata rispetto mese precedente, si giocava tra le macerie; arbitro, un soldato nazista. I prigionieri ucraini sapevano che non avrebbero potuto permettersi un’altra vittoria: tutta la partita non era altro che una clamorosa messa in scena per permettere al regime di fare altra propaganda e di cancellare la macchia della sconfitta della prima partita. Il primo tempo è una farsa: i tedeschi vanno avanti 3 a 1 contro un avversario praticamente inesistente. Si va all’intervallo e negli spogliatoi qualcosa si accende: tra gli ucraini scatta all’improvviso rabbia, orgoglio, voglia di alzare la testa dopo mesi di umiliazioni subite, qualcosa di molto simile a quello che racconta da John Huston nel proprio film. E quindi decidono che basta, la farsa era finita, il secondo tempo si gioca davvero. E la partita cambia: i prigionieri rimontano lo svantaggio velocemente, è subito 3 a 3. Poi passano in vantaggio e addirittura vanno sul 5 a 3. Tedeschi annichiliti. Ma è il sesto gol, quello mai segnato, a sancire l’umiliazione totale dei soldati nazisti: un prigioniero ucraino, Klymenko il suo nome secondo le scarsissime cronache, prende palla a metà campo e dribbla due avversari, ne supera un altro, poi un altro ancora e si presenta davanti al portiere; scarta anche lui in un attimo e arriva fino sulla linea di porta dove si ferma, si volta e calcia il pallone verso il centro del campo. Non serve farvi il sesto gol per umiliarvi, sembra voler dire. Inutile dire le conseguenze a cui andarono incontro gli undici ucraini in campo, undici ragazzi che preferirono l’orgoglio alla vita. In Ucraina ancora oggi quello che accadde a Kiev nell’agosto del 1942 è ricordato come “Partita della Morte” il cui finale sicuramente fu meno hollywoodiano del film con Stallone. 4. INVICTUS L’impatto che ha avuto e continua ad avere la vita e l’esempio di Nelson Mandela nella storia del Sudafrica è difficilmente raccontabile in un film di due ore, eppure in “Invictus”, pellicola del 2009 vincitrice di due premi Oscar, il regista Clint Eastwood riesce a tracciare un ritratto particolarmente efficace di uno dei personaggi più grandi che il nostro tempo abbia conosciuto, e lo fa attraverso una vicenda di sport, i Mondiali di rugby del 1995 giocati proprio in Sudafrica. Il contesto è quello di un paese ancora ferito, sanguinante quasi: Mandela appena un anno prima era stato eletto presidente, a compimento di una battaglia che gli era costato 27 anni di prigionia; due anni prima, nel 1993, era stato abolito l’apartheid, la politica di segregazione razziale che il governo bianco aveva istituito addirittura dal dopoguerra. Eppure il Sudafrica viveva ancora un periodo di forti turbolenze: il paese era evidentemente ancora spaccato, segnato da profonde cicatrici ben visibili dopo mezzo secolo di discriminazione legalizzata. Per parafrasare D’Azeglio, dopo aver abolito il razzismo, ora bisognava cancellare i razzisti, cioè unire anche per le strade e non solo sulla carta il paese. Fu questo lo scopo che mosse Mandela fin dai suoi primissimi giorni come presidente: il rischio di veder esplodere la tensione sociale che continuava a regnare nelle città sudafricane era percepibile, e in questo contesto l’organizzazione dei Campionati del Mondo di rugby poteva rivelarsi potenzialmente devastante. Il rugby infatti era diventato negli anni uno dei simboli della spaccatura tra bianchi e neri, sport importato dal Nord Europa, passatempo dei coloni bianchi e orgoglio degli afrikaner, la fetta bianca di popolazione sudafricana. In un paese popolato per l’80% da chi invece questo sport lo odiava proprio perché simbolo dell’oppressione, da chi festeggiava ogni sconfitta della nazionale, i cosiddetti Springboks, era chiaro come l’organizzazione del Mondiale potesse nascondere insidie quasi devastanti. E Nelson Mandela era il primo ad essere consapevole di questo pericolo. Lui che aveva odiato come qualsiasi altro nero sudafricano quello sport nei suoi lunghissimi anni di prigionia, comprese per primo però che proprio il rugby poteva diventare lo strumento ideale per creare finalmente un Sudafrica realmente unito. Il giorno che pretese di incontrare di persona i 25 ragazzi che componevano la nazionale degli Springboks (24 dei quali erano ovviamente bianchi), lo stupore tra i suoi collaboratori quasi superò il sacro rispetto che provavano verso di lui. Madiba, come Mandela veniva chiamato fin da ragazzo all’interno del proprio clan di appartenenza, si presentò all’incontro conoscendo i nomi di tutti i giocatori, le caratteristiche di gioco, il club di appartenenza e persino le condizioni fisiche di ognuno di loro, come il più appassionato dei tifosi, come chi non avesse fatto altro che seguire il rugby nella propria vita. Gli atleti rimasero increduli, stupefatti nel vedere che un uomo dell’importanza di Mandela fosse così interessato alla loro nazionale, quasi ancor più scioccati dal fatto che un nero fosse così appassionato di rugby. Madiba prese poi da parte il capitano degli Springboks, Francois Pienaar, e con lui giocò a carte scoperte, spiegando quanto importante fossero quella nazionale e quel Campionato del Mondo per le sorti del Sudafrica, per poter finalmente avere un paese unito. Gli allenamenti aperti al pubblico nei quartieri più poveri delle grandi città, gli atleti che impararono a memoria Nkosi Sikelele, lo storico inno in lingua Xhosa, una delle 11 parlate dalla comunità nera, la visita della squadra a Robben Island, la piccola isola dove venivano detenuti i prigionieri politici, tra cui lo stesso Mandela, furono tutte tappe fondamentali del processo di avvicinamento tra gli Springboks e la popolazione di colore, avvicinamento fortemente voluto dal presidente. Ma fu proprio Mandela a fare il resto, con il coraggio che sempre contraddistinse ogni istante della sua vita: all’esordio del Sudafrica nel Mondiale si presentò infatti in tribuna con la maglia ed il cappellino della Nazionale, un nero con addosso i colori degli Springboks, qualcosa di mai visto. All’inizio fu scetticismo, anche qualche critica, ma poi il campo fece il resto. Il Sudafrica iniziò una cavalcata incredibile, il destino sa scrivere storie inimmaginabili a volte. Subito la vittoria all’esordio con la fortissima Australia fece respirare un’aria nuova per le strade del Sudafrica, i neri per la prima volta erano felici per una partita di rugby, il loro leader aveva tracciato la strada. Da lì in poi solo vittorie, tutte sofferte, tutte emozionanti, fino alla finale del torneo, sulla carta impossibile: di fronte gli All Backs, la leggendaria nazionale neozelandese. 25 giugno 1995, Ellis Park di Johannesburg, come dirà Francois Pienaar “l’emozione più forte che abbia mai provato nella mia vita”. Mandela entra in campo prima dell’inizio a stringere le mani di tutti i giocatori, maglia e cappellino verdi ben visibili dagli spalti, da cui un coro unanime parte, fortissimo, quasi assordante: “Nelson! Nelson!”, e a cantare sono bianchi e neri insieme, per la prima volta. Non c’era nemmeno bisogno di giocarla quella finale, Madiba aveva già vinto. Ma la finale si gioca, eccome: il Sudafrica va avanti 9 a 6, ma i neozelandesi non mollano e la partita finisce 9 a 9 dopo i tempi regolamentari. Ad un passo dalla fine è un drop-goal di Joel Stransky a dare l’oro ai sudafricani. La festa è completa, per le strade di Johannesburg si festeggia senza alcuna differenza. Per la prima volta l’unica cosa che conta è essere sudafricani. 5. MILLION DOLLAR BABY “Million Dollar Baby” è un film del 2005 diretto da Clint Eastwood, raro caso di immenso attore diventato ancora più immenso dietro la macchina da presa. Non racconta una storia vera, ma sa tratteggiare i contorni di una realtà che ogni appassionato di boxe riconosce come familiare, e lo fa in modo particolarmente riuscito. La palestra scassata gestita da Frankie (interpretato dallo stesso Eastwood) è un piccolo mondo in cui si snodano una serie di esistenze ai margini della società, all’ombra dei riflettori, prima tra tutte quella del suo amico Scrapt (un grande Morgan Freeman), che addirittura nella palestra ci vive. A rompere il ritmo delle stanche giornate monotone è Maggie (interpretazione che valse ad Hilary Swank l’Oscar come migliore attrice), ragazza non più giovanissima che ha fatto a pugni nella vita per anni e che ora vorrebbe cominciare a fare a pugni anche sul ring. Frequenta la palestra di sera, alla fine del turno come cameriera, non ha i soldi per i guantoni né per il resto, non parliamo della coordinazione o della tecnica, eppure in quella ragazza c’è qualcosa che cattura Frankie, all’inizio scettico, anzi quasi infastidito. C’è grande orgoglio, immensa determinazione, voglia di riscattare una vita sfortunata, in definitiva c’è tutto quello che è sempre stato la benzina dei grandi di questo sport. Frankie si convince così ad allenarla e da qui inizia una breve ed immensa carriera nelle categorie minori della boxe femminile, un mondo oscuro e sporco, sulla linea di confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è, anzi spesso oltre quella linea di confine. Il film riscosse un enorme successo di critica e di pubblico nel 2006, sbancando la serata degli Oscar e i botteghini di tutto il mondo, ma soprattutto aprendo un intenso dibattito sul tema che Eastwood sceglie di scaraventare sul tavolo proprio nelle scene finali del film: Maggie infatti durante il suo ultimo incontro rimane vittima di un terribile infortunio, collo spezzato, paralizzata dalla testa in giù. Gli ultimi minuti della pellicola raccontano il dramma del suo allenatore, convinto cristiano, che si sente chiedere di staccare la spina da parte di una ragazza che alla vita aveva già dato tutto, e anche di più, senza ottenere nulla. Alla fine Frankie esaudisce l’ultimo desiderio della ragazza, e il tema dell’eutanasia finisce per travolgere tutto. Il grande merito del film “Million Dollar Baby”, al di là del finale e delle infinite riflessioni etiche che induce a fare, è quello di descrivere in modo crudo e realistico il mondo della boxe semiprofessionistica, quel sottobosco composto da ragazzi che spesso vedono nella palestra e nel ring l’unica vera alternativa alla strada e alla delinquenza. Rino Tommasi, uno dei più grandi esperti di pugilato che il nostro giornalismo ricordi, disse una volta che il film Rocky se fosse finito al suono del gong del primo incontro sarebbe stato perfetto, perché, al di là della trama e dei combattimenti molto romanzati, seppe raccontare alla perfezione questo mondo. E “Million Dollar Baby” non è da meno. La boxe è sempre stato lo sport degli ultimi, lo sport di chi è sommerso e cerca di riemergere. I grandi pugili del passato venivano dalla strada, e spesso sulla strada sono poi tornati dopo aver appeso i guantoni al chiodo. Maggie, proprio come il Rocky di Stallone, viveva in un appartamento minuscolo di un quartiere degradato ai margini della grande città, ai confini della società americana, senza grandi possibilità di riscatto oltre al cercare di vincere più incontri possibile e mettere k.o. più avversari possibile. E proprio per questo il pugilato ha a lungo conservato una nobiltà quasi sacra rispetto agli altri sport, evidenziata dal fatto che a differenza di una partita di calcio o di basket, il mio avversario lo devo abbattere fisicamente per prevalere. Eppure esiste sempre un profondo rispetto tra due pugili che si guardano negli occhi prima del gong, proprio perché spesso riconoscono in quegli occhi la propria storia, le ore passate in palestra nonostante tutto, le difficoltà, il degrado sociale da cui fuggire, il riscatto che una vittoria potrebbe significare; l’abbraccio finale dopo dodici riprese di pugni nasce proprio dalla realtà che così magistralmente Eastwood riesce a descrivere. Una realtà che purtroppo oggi si è quasi persa. Il pugilato ha perso gran parte della propria magia quando è venuto meno l’elemento fondamentale del riscatto sociale, quando i milioni di dollari hanno cominciato a dettare legge, quando un casinò di Las Vegas ha cominciato ad avere più peso nel decidere la data di un incontro rispetto ad un allenatore. Oggi la boxe è morta, o quasi, stravolta in un marasma di campionati incomprensibili, parto dell’avidità di qualcuno. Non c’è nulla delle polverose ma romantiche palestre nelle quali sono cresciuti i grandi del passato. Le paillettes e i contratti multimilionari hanno sommerso il mondo di “Million Dollar Baby”, e con esso uno degli sport più epici che siano mai esistiti. 6. UN RAGAZZO DI CALABRIA Un grande classico della cinematografia italiana a tema sportivo è il film di Luigi Comencini “Un ragazzo di Calabria” datato 1987. Il contesto è quello di una Calabria rurale, ai margini dell’Italia del boom economico dei primi anni ’60. Protagonista è Mimì, giovane proveniente da un umile famiglia di contadini, la sua unica grande passione è la corsa. Mimì vuole diventare un atleta, andare alle Olimpiadi e vincerle, questo è il suo unico sogno. Il padre però è irremovibile: lo sport non ti dà da mangiare, non ti assicura alcun futuro. Il ragazzo deve solo studiare, in alternativa può dare una mano con il lavoro, niente di più. Mimì però non si arrende, nessun innamorato si arrende mai. Inizia ad allenarsi di nascosto, addirittura scalzo, per nascondere le scarpe sporche o rovinate. E’ la mamma a diventare sua complice, intenerita dalla passione con cui il figlio si mette in testa di raggiungere il proprio obiettivo, che è quello di andare a Roma. Sì, Roma, proprio la città dove nel frattempo si stanno svolgendo le Olimpiadi. La città dove Abebe Bikila era appena diventato mito. Mimì lo aveva intravisto da una televisione di una famiglia benestante mentre tagliava il traguardo ai piedi dell’Arco di Trionfo, scalzo, proprio come lui. E alla fine Mimì ci arriverà a Roma e la scena conclusiva del film è il riscatto di questo ragazzo che finalmente ce la fa, vince i Giochi Studenteschi e convince il padre che il suo sogno valeva la pena viverlo fino in fondo. Guardare oggi il film di Comencini significa immergersi in un’Italia che forse non esiste più, una società fondata su valori di cui oggi è sopravvissuta solo una sbiadita ombra appena visibile nella frenesia in cui viviamo. La realtà familiare tipica di un meridione forse un po’ stereotipato, con la presenza ingombrante di un padre padrone e una madre priva di autorità ma unica sponda e complice del figlio sono l’ambiente nel quale il giovane Mimì coltiva le proprie ambizioni e combatte con le proprie frustrazioni. Sullo sfondo una Calabria che sente solo da lontano l’eco di un’Italia che sta vivendo il primo vero grande momento di benessere dal secondo dopoguerra e che da lontano vive le grandi Olimpiadi di Roma 1960, probabilmente il più importante evento organizzato su suolo italiano fino a quel momento. Il mito di Bikila è la vera ispirazione per Mimì, quel Bikila che proprio a Roma entrò nel mito dell’atletica mondiale. La sua corsa a piedi nudi lungo i 42 km della Maratona olimpica rappresentò il modo con l’Africa si presentò per la prima volta al cospetto del mondo intero, simbolo della definitiva liberazione del continente nero dal colonialismo europeo. La prima medaglia d’oro di un africano alle Olimpiadi contribuì a rendere i giochi di Roma leggendari e ad ispirare il ragazzo calabrese e insieme a lui una intera generazione di giovani atleti. 7. MOMENTI DI GLORIA Alcuni film sanno regalare momenti, scene o dialoghi che entrano di diritto nella memoria e nel bagaglio culturale di ognuno di noi, anche di chi quei film non li ha mai visti per intero. La scena di Robin Williams che sale in piedi sulla propria cattedra in un aula universitaria recitando i versi di Walt Whitman è familiare anche a chi non ha mai avuto la fortuna di vedere L’Attimo Fuggente, ad esempio. Allo stesso modo il film di Colin Welland “Momenti di Gloria” del 1981 ha saputo fissare nella storia soprattutto una scena, quella iniziale, grazie anche alla straordinaria colonna sonora del compositore greco Vangelis, note associate ormai quasi per istinto al concetto di impresa sportiva. La scena iniziale a cui facciamo riferimento è la celebre corsa sulla spiaggia di un gruppo di giovani atleti, durante la quale ci vengono introdotti i due protagonisti della vicenda. Siamo nel primo dopoguerra, l’Università di Cambridge fa da sfondo alla storia vera di due velocisti, dapprima rivali, poi amici nel percorso di preparazione alle Olimpiadi di Parigi; l’anno è il 1924. Eric Liddell è un grande talento, pastore protestante dai principi religiosi saldissimi: corre per magnificare la grandezza di Dio ma su una cosa non transige: la domenica è il giorno dedicato al signore, non si lavora né si gareggia. Harold Abrahams è ambizioso fino all’ossessione, si allena per diventare un campione e riscattare quel pregiudizio magari velato ma molto ben visibile e altrettanto fastidioso, conseguenza del suo essere ebreo. Tra i due all’inizio c’è competizione, rivalità quasi, ma la corsa getta presto il seme di una amicizia che germoglierà nel corso della storia fino a diventare forte e salda. La vicenda subisce una svolta quando a Parigi Eric scopre che la sua gara di qualificazione sui 100 metri è stata fissata la domenica: il ragazzo si rifiuta di correre per rimanere fedele ai principi religiosi che ha scelto di seguire per tutta la propria vita, e rimane irremovibile nella propria scelta, nonostante le pressioni dell’intera delegazione britannica, della stampa e persino dei reali inglesi. Troverà una preziosa sponda in questo momento di difficoltà proprio in Harold, che sarà tra i pochi ad appoggiare la sua decisione. Eric infine riesce a gareggiare e a vincere la gara dei 400 metri anziché dei 100, dove invece trionferà proprio Harold. Il film rappresenta un’idea di sport lontana dall’agonismo insensato e cieco a cui siamo purtroppo spesso abituati oggi, per cui l’avversario è sempre più simile ad un nemico piuttosto che ad un rivale; lo sport può invece essere occasione irripetibile per la nascita di sani rapporti umani conseguenza proprio del confronto, della rivalità addirittura, sempre però all’interno di un confine di lealtà e rispetto reciproco, terreno sul quale è facile possano fiorire le amicizie più belle, come il film dimostra splendidamente. Abbiamo inoltre un efficace descrizione di cosa fossero i Giochi Olimpici nel 1924, grazie ad una ricostruzione particolarmente accurata e attenta delle ambientazioni così come dei costumi, che ci proiettano all’interno di un evento già allora considerato il più importante e prestigioso al mondo, nel quale però era ancora ben visibile l’aspetto umano: è molto difficile oggi immaginare un atleta che scelga di non gareggiare, rinunciando quindi a contratti, sponsor e ai guadagni conseguenti, per rimanere fedele ad un principio morale o religioso. 8. UNITED Lo sport sa essere bacino di storie incredibili, emozionanti, può raccontare favole, può essere da insegnamento o offrire spunti unici di riflessione. Però lo sport sa essere anche crudele, spietato. Spesso senza nemmeno un perché. “United” è un film prodotto dalla televisione britannica nel 2011, diretto da James Strong, racconta l’epopea di una leggendaria edizione del Manchester United, una delle squadre più incredibili che il calcio abbia mai partorito. “Busby Babes” li chiamavano, un gruppo di ragazzi entrati nello stesso momento nelle giovanili dei Red Devils, poco più di 6 anni avevano quando indossarono tutti insieme per la prima volta la maglia rossa della squadra di Manchester. Cresciuti insieme come fratelli, una generazione di talenti irripetibile, come ne passa una ogni cento anni o giù di lì, e tutti dalla stessa parte, tutti a difendere gli stessi colori. La trafila nelle giovanili scivola via veloce e in un attimo si ritrovano in massa in prima squadra, a giocare con i grandi del campionato inglese. Anzi non a giocare, a dominare. Allenati da Matt Busby, più che un mister un secondo padre, i “Busby Babes”, i bambini di Busby appunto, lasciarono a bocca aperta tutta l’Inghilterra a metà degli anni 50, quando trionfarono in due campionati consecutivi, 55/56 e 56/57. Un’irreale età media di 21 anni li proiettò direttamente nella leggenda: una nidiata di campioni bambini destinati a dominare il calcio britannico ed europeo almeno per un decennio, senza storia alcuna. Però lo sport sa essere crudele si diceva, spietato. Lo United nel ‘56 fu la prima squadra inglese ammessa alla Coppa dei Campioni, nata appena l’anno precedente ma priva di squadre provenienti dal Regno Unito nella prima edizione a causa di alcune regole imposte dalla Football League e incompatibili con un torneo internazionale. Nel 1956/1957 i ragazzi di Busby esordirono alla grande nella coppa più prestigiosa: subito semifinale, sconfitti solo dall’immenso Real Madrid che di quei trofei fece collezione tra anni ‘50 a ‘60. Per la stagione successiva i talenti dei Red Devils si presentavano come i rivali più accreditati delle merengues, e infatti l’inizio fu devastante, fino alla partita di Belgrado, dove il 3 a 3 con la Stella Rossa significò semifinale, la seconda consecutiva. Si giocava all’inizio del mese di febbraio, il 6 febbraio del 1958. Lo United ripartì da Belgrado con un volo charter della British European Airways, scalo a Monaco per rifornimento e atterraggio previsto all’aeroporto di Manchester: a bordo la squadra al completo, lo staff tecnico e qualche giornalista al seguito. Purtroppo l’aereo non giunse mai a destinazione. Lo schianto all’aeroporto di Monaco in fase di decollo dopo lo scalo tecnico fu devastante: i primi soccorritori si ritrovarono davanti una scena infernale, il velivolo per le avverse condizioni della pista ricoperta di ghiaccio non riuscì mai a staccarsi da terra e finì per schiantarsi contro un edificio al termine della pista di decollo. La palla di fuoco che avvolse l’aereo fu impressionante. Dei 44 passeggeri a bordo, persero la vita in 23, 8 dei quali erano calciatori. Il sogno del Manchester dei ragazzi si spezzò quel giorno. Tra i sopravvissuti Bobby Charlton, che sarebbe diventato un mito del calcio inglese e dei Red Devils e proprio Busby, l’allenatore, che visse il resto della propria vita martoriato da un senso di colpa devastante. Lo sport sa essere crudele, anche senza motivo. Il parallelo con un’altra leggendaria squadra di fenomeni stroncata da un incidente aereo è naturale, quasi ovvio. C’è qualcosa che unisce i tifosi dello United a quelli del Torino, un destino nemico che ha deciso di riscrivere la storia per capriccio. 9. MIRACLE Nel 1980 il mondo era diviso ancora in due blocchi contrapposti: da una parte gli Stati Uniti e i paesi dell’Europa occidentale, dall’altra l’Unione Sovietica e i suoi stati satellite, in mezzo una linea di tensione che per decenni è rimasta incandescente, sempre sul punto di prendere fuoco e di far precipitare il mondo in un conflitto che probabilmente sarebbe stato disastroso oltre ogni immaginazione. Le due grandi potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale si erano letteralmente spartite il pianeta, avviando fin dal 1945 un lungo periodo di crisi politica e diplomatica che condizionò pesantemente l’andamento della storia nel secondo ‘900. La geniale definizione di Guerra Fredda, coniata dalla mente superiore di George Orwell e ripescata dal giornalista Walter Lippmann, descrive alla perfezione il clima che avvolse il mondo per lunghi decenni fino all’abbattimento del muro di Berlino nel 1989. Ma il 1980 era anche l’anno delle due Olimpiadi, quella invernale di Lake Placid negli Stati Uniti, e poi quella estiva di Mosca, in URSS. Fino al 1992 infatti olimpiadi invernali ed estive condividevano lo stesso anno. E se i giochi di Mosca sono passati alla storia per il boicottaggio della squadra statunitense, quelle che si svolsero nello Stato di New York qualche mese prima hanno regalato al libro delle grandi imprese dello sport mondiale un vero e proprio miracolo, quello della nazionale di casa di hockey su ghiaccio. “Miracle” è anche il titolo del film del 2005 diretto da Gavin O’Connor che ripercorre proprio questa incredibile vicenda. Del clima da Guerra Fredda abbiamo detto, c’è da aggiungere che appena qualche settimana prima gli URSS avevano mosso una importante pedina nel costante gioco di provocazioni e contro-provocazioni sulla scacchiera mondiale, invadendo l’Afghanistan e avvicinandosi minacciosi ai grandi bacini di petrolio del Golfo. Era questo il contesto con cui si aprirono i Giochi di Lake Placid. La nazionale di hockey americana non aveva una singola possibilità di regalare un oro al medagliere di casa: composta solo da ragazzi universitari e da dilettanti (i professionisti dello sport statunitense approdarono alle Olimpiadi solo nel 1992, e lo fecero nel modo più spettacolare, con il mitico Dream Team di basket che segnò un’epoca in tutti i sensi), sembrava inevitabilmente condannata a soccombere nei confronti delle grandi superpotenze come Canada e appunto URSS. Invece la storia andò diversamente: nel film prodotto dalla Disney il tutto viene ridotto a toni forse un po’ troppo fiabeschi, eppure qualcosa di difficilmente spiegabile secondo logica accadde. L’allenatore di quella squadra, Herb Brooks, ben interpretato sul grande schermo da Kurt Russell, fu più psicologo e motivatore che tattico: riuscì infatti a creare un gruppo che sarebbe stato disposto a tutto pur di uscire vincitore dal campo, convogliò la grande ondata patriottica che investì quel torneo di hockey su ghiaccio trasformandola in determinazione e orgoglio, in due parole fu in grado di plasmare una squadra che, pur non essendo la più forte, era semplicemente impossibile da battere. Spesso negli sport di squadra si verifica questa speciale chimica di gruppo, una serie di fattori che si mescolano più o meno casualmente e che rendono straordinario un gruppo composto da individui non così straordinari. Se parliamo di calcio ad esempio, come può l’Atletico Madrid operaio del 2014 vincere il campionato e arrivare a 5 cm dalla Coppa dei Campioni contro club che pagano un singolo giocatore più della somma degli stipendi della loro intera rosa? Eppure è accaduto, e probabilmente continuerà ancora ad accadere. A Lake Placid nel 1980 un fattore forse determinante fu il clima nel quale si giocò l’intero torneo olimpico di hockey: il patriottismo americano esplose nella propria forma più festante e trascinante, ogni partita degli USA si giocava in un frastuono assordante di tifo e bandiere, letteralmente un giocatore in più pattinava sul ghiaccio insieme ai ragazzi in divisa statunitense. Il caso a volte si diverte a scrivere il copione giusto per alcune storie, e gli incroci del tabellone finale misero una di fronte all’altra proprio Stati Uniti e URSS per la conquista della medaglia d’oro, nonostante la formula del torneo non prevedesse finale secca. Per media e tifosi americani quella divenne LA PARTITA, non con la p maiuscola ma con ogni singola lettera maiuscola. Caricata dalle rispettive macchine di propaganda di un significato politico, ideologico, culturale quasi, molto superiore rispetto alla battaglia sportiva per una medaglia olimpica, LA PARTITA catturò l’attenzione del mondo intero che si fermò ad osservare quei 12 ragazzi su una pista di ghiaccio, sei per parte, ma in realtà milioni per parte, un blocco di mondo contro l’altro. Eppure tecnicamente non ci doveva essere alcun dubbio sull’esito del match. Appena qualche giorno prima, nel corso di un torneo pre-olimpico, gli URSS avevano strapazzato gli americani senza offrire alcun diritto di replica: 10 a 3 il finale, ma potevano essere molti di più. Però miracolo doveva essere e miracolo fu. Gli USA vanno sotto tre volte, ma come un pugile che ormai combatte a guardia abbassata per il tutto per tutto, ad ogni schiaffo risposero, ad ogni svantaggio riuscirono ad acciuffare il pareggio: 0-1, 1-1, 1-2, 2-2, 2-3, 3-3. Epico. Fino alla fine, fino al gol decisivo del capitano, un improbabile italo americano di nome Mike Eruzione. La gioia esplode sul ghiaccio e sugli spalti e in tutte le città americane. La leggenda è già impressa nella storia. Un gruppo di ragazzi senza talento (nessuno di loro riuscì a sfondare nei campionati professionistici ad eccezione di Ken Morrow) che batte i colossi sovietici, sospinti da un paese intero. Guardare “Miracle” e non ritrovarsi con un accenno di sorriso sul volto è impossibile: è questo l’effetto che fa lo sport quando decide di svelarci la propria immane bellezza. 10. COOL RUNNINGS “Cool Runnings” è un film del 1993 diretto da Jon Turteltaub ed è il racconto di un singolare episodio che accadde nel corso delle Olimpiadi invernali del 1988 a Calgary, in Canada. Il titolo gioca sul doppio significato che la parola “cool” ha nella lingua inglese: freddo, come la neve e il ghiaccio del Canada, ma anche “figo”, “sfacciato”, come la Jamaica ad esempio. E citare la Giamaica è tutt’altro che casuale. Lastoria è infatti quella della nazionale giamaicana di bob, che a sentirlo sembra quasi un ossimoro: Giamaica evoca sole, caldo, estate, musica e divertimento, quanto di più lontano da una Olimpiade invernale. Eppure nel 1988 accadde l’improbabile. Questa singolare storia inizia con una gara di velocità sui 100 metri, habitat ben più naturale per qualsiasi giamaicano che si rispetti, una gara di qualificazione per le Olimpiadi, quelle estive stavolta, che si svolgevano nel 1988 a Seul. Durante lo sprint però qualcosa va storto: un ragazzo di nome Junior perde l’equilibrio e inciampa, andando a travolgere altri due velocisti, Derice e Yul. In un colpo solo spazzati via i sogni olimpici di tre giovani speranze dell’atletica giamaicana. Derice però non demorde: se la sfortuna gli aveva sottratto l’Olimpiade estiva, allora si sarebbe preso l’Olimpiade invernale. Non Seul ma Calgary, che tanto i cinque cerchi sono gli stessi. Parte quindi alla ricerca di un vecchio amico del padre, un americano ex bobbista che viveva in Jamaica, un eccentrico signore con un passato turbolento in patria, diventato allibratore e chissà che altro proprio tra le spiagge di Kingston. Lo scopo è convincerlo a formare la prima squadra di bob giamaicana della storia e andare alle Olimpiadi; impresa da pazzi, pensa all’inizio l’americano, ma poi si convince: d’altronde per tutti i ragazzi giamaicani il passatempo preferito era la corsa dei carretti in discesa, qualcosa di molto simile al bob, e in quanto alla velocità, fondamentale nella partenza di una gara di bob, sembrava davvero l’ultimo dei problemi. Derice così, insieme agli altri due velocisti inciampati nella gara dei 100 metri e ad un quarto ragazzo, mette insieme la squadra e quasi inspiegabilmente riesce a realizzare il sogno di arrivare ai giochi di Calgary. In Canada i giamaicani hanno l’effetto di una chitarra elettrica in mezzo ad un orchestra di fiati, sono totalmente fuori luogo, ma il loro atteggiamento festante, colorato e divertente cattura immediatamente il pubblico di tutto il mondo. Il film ovviamente prevede il classico finale disneyano, unico particolare che si discosta dalla storia realmente accaduta nel 1988: i ragazzi giamaicani si scoprono a sorpresa competitivi, ma nella discesa finale il bob si ribalta insieme ad ogni sogno di gloria; invece però di uscire a testa bassa, i quattro si caricano in spalla il bob e tagliano il traguardo a piedi, tra gli applausi commossi dei presenti e di tutti i giamaicani davanti alla televisione. 11. HE GOT GAME Quando un nuovo arrivato fa la propria comparsa su un campo di basket di un playground americano, su un campo di strada, dove le regole non le stabilisce l’arbitro la ma strada stessa, capita di sentir dire dai presenti dopo un paio di canestri o di assist dietro la schiena “ehy, he got game”. Solo allora il nuovo arrivato si può considerare parte del gruppo, è una sorta di battesimo senza il quale si può anche tornare a casa o cambiare velocemente aria. “He Got Game”, traducibile con “Quello lì ha stoffa, sa giocare” è anche il titolo di un film del 1998 firmato da Spike Lee, indiscutibilmente il più efficace narratore delle dinamiche della società afroamericana, nel bene e nel male. La storia è quella di Jesus Shuttlesworth, uno dei più forti diciottenni nel panorama cestistico americano, ribattezzato “Black Jesus”, altro nomignolo ricorrente nella mitologia del basket di strada, riservato solo ai più grandi. Ad interpretarlo è Ray Allen, che oltre ad essere diventato poi il giocatore con più canestri da tre segnati nella storia dell’NBA, dimostrò anche eccezionali doti di attore nel film. Jesus è all’ultimo anno di liceo, domina nel campionato scolastico dello Stato di New York e addosso ha tutti gli occhi delle più grandi università americane che se lo contendono per rafforzare le proprie squadre di college. Su questo punto torneremo più tardi, essendo uno degli spunti di riflessione più interessanti che il film ci offre. Il ragazzo però proviene da un contesto familiare drammatico, come spesso accade per i giovani afroamericani che vivono ai margini delle grandi città: in particolare il papà di Jesus, Jake, interpretato da un Denzel Washington al proprio meglio, è rinchiuso in carcere per l’omicidio della moglie, la mamma del ragazzo. La scelta che deve prendere Jesus è il perno della trama: le grandi università sognano di vederlo difendere ognuna i propri colori, e addirittura la Big State University fa pressioni attraverso il governatore dello Stato di New York, ex studente e sostenitore finanziario dell’ateneo, sul direttore del carcere dove è rinchiuso il padre di Jesus; “il patto è: il ragazzo sceglie noi e tu sei libero”, si sente dire Jake, che viene liberato per una settimana proprio con lo scopo di convincere il figlio, che però rifiuta rabbiosamente di vederlo. La climax finale culmina nella scena della sfida uno contro uno tra Jake e Jesus: se vince il padre, Jesus sceglie Big State e lui è libero, se invece perde, Jesus è libero di fare quello che ritiene più vantaggioso per il proprio futuro. Il ragazzo ovviamente vince ma sceglie comunque per la libertà del padre, impietosito dalla sua condizione di disperazione. Il colpo di coda finale della trama è tipico della visione del mondo del regista Spike Lee: nonostante il desiderio del governatore fosse stato esaudito, Jake rimane comunque in prigione e la promessa viene tradita. Il film è una preziosa occasione per mettere a fuoco una realtà che non è propria né della società né della cultura di casa nostra. Negli Stati Uniti infatti la carriera sportiva di un ragazzo è saldamente intrecciata alla sua carriera scolastica. Fin dai licei, gli studenti giocano in campionati ed in strutture che non hanno nulla da invidiare alla nostra realtà di Serie A2, se parliamo di basket, ma il discorso è il medesimo anche per football, baseball, atletica e persino calcio: i giovani talenti sono messi nelle migliori condizioni per poter esprimere al meglio le proprie qualità, per poter maturare come atleti e costruirsi la propria carriera di sportivo. A patto però che mantengano un determinato standard nella propria istruzione. Cattivi voti significa zero allenamento e zero partite. I liceali più forti entrano nel mirino poi delle grandi università, proprio come nel caso di Jesus: gli atenei non possono pagare i ragazzi, ma offrono loro borse di studio che coprono integralmente i costi degli anni accademici altrimenti spesso insostenibili, con lo scopo di rendere sempre più competitive le proprie squadre. Se i campionati liceali sono al livello della nostra Serie A2, il College BasketBall è sicuramente competitivo come e forse più di un campionato di serie maggiore europeo. I palazzetti in cui si gioca sono ultramoderni, arrivano fino a 15.000 spettatori, le fasi finali sono seguite in diretta tv in tutto il paese, con i diritti venduti anche all’estero per cifre altissime, da spartirsi poi tra i diversi atenei. Anche a livello universitario, nonostante un volume di affari degno dell’Eurolega, la carriera sportiva dei ragazzi dipende comunque da quella scolastica. Ed è questo il grande sistema messo in piedi dagli americani, legare istruzione a sport, garantendo strutture di altissimo livello ma anche una preparazione scolastica se non di altissimo, almeno di buon livello. Tuttavia questa realtà può avere delle pericolose degenerazioni, e Spike Lee è stato maestro a metterle tutte sul piatto: un ragazzo di diciotto anni può trovarsi travolto da immani pressioni al momento della scelta dell’università, che per lui non significa guadagno, ma che per tutti quelli che vivono in questo mondo sì. In più ci sono gli sponsor, che hanno libertà di azione fin da questa età e che spesso finiscono per condizionare più o meno direttamente ogni scelta, senza considerare che fino a qualche anno fa era possibile anche il passaggio diretto da liceo a campionato professionistico; LeBron James ad esempio, il più forte giocatore di basket del pianeta, era talmente dominante già a 19 anni che venne subito ingaggiato dai Cleveland Cavaliers, ciò significa che appena maggiorenne si ritrovò a discutere di contratti multimiliardari e a prendere decisioni cruciali senza probabilmente la maturità adeguata. LeBron ha poi dimostrato di essere un fenomeno anche con la testa oltre che con le mani e ha sempre mantenuto la retta via, ma non sono rari i casi di ragazzi che perdono totalmente il controllo di sé stessi in questa situazione, soprattutto se fino a solo un paio di anni prima erano costretti a contare le monete trovate in giro per la casa per potersi permettere un litro di latte.