Indice - C`era una volta l`«America
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Newsletter del CISPEA Summer School Network * Numero 6 Autunno 2013 Per iscriversi alla newsletter: http://cispeanetwork.hosted.phplist.com/lists/ Indice Introduzione: ........................................................................................................................ p. 2 La middle class come progetto politico: Traiettorie di un concetto tra fabbrica, marketing e scienze sociali (Sara Cabrele, Michele Cento, Valentina Cralli, Serena Di Nucci, Martina Mallocci, Alessandro Stoppoloni) ............................................................................................. p. 4 Ascesa e declino del neoliberismo nell’epoca delle disuguaglianze (Margherita Anibaldi, Francesco Gualdi, Alessio Marzi, Martina Mastandrea, Fabrizia Soragnese, Monica Voltolina) .................................... p. 14 Modernità e modernizzazione: l’americanizzazione “universale” (Manuela Altomonte, Sebastiano Caleffi, Fausto Carbone, Giulia Crisanti, Michele di Lollo, Vincenzo Leone, Elisa Nicoli) ................................................................ p. 24 L’ascesa del ceto medio in Asia e nel mondo arabo: dai primi passi alle rivolte neoliberiste (Tommaso Casalone, Anna Chiara Filice, Marta Giusti,Giovanni Gottuso, Giulia Sacchetti) ....................................................... p. 36 Pubblicazioni degli ex-alunni ...................................................................................... p. 44 Introduzione I l sesto numero di C’era una volta l’America riporta come da consuetudine per l’edizione autunnale una sezione di riflessione sulle tematiche affrontate durante la Summer School CISPEA, tenutasi quest’anno a Reggio Emilia, dal 23 al 27 giugno. La scuola, alla sua nona edizione, dal titolo “Dagli USA al mondo: centralità e declino della middle class nella storia e nella riflessione sociopolitica”, ha voluto proporre un’analisi storico-politica approfondita e per quanto possibile comparata della classe media, della sua ascesa e della sua attuale crisi. Uno dei principali temi di dibattito nelle società industriali contemporanee, soprattutto dopo la crisi del 2008, riguarda infatti il declino del ceto medio causato dal veloce allargarsi della differenza di reddito con le élite e dal precipitare delle sue fasce più basse verso la soglia della povertà. Come si è visto durante l’ultima campagna presidenziale la cosa assume un rilievo politico del tutto particolare negli Stati Uniti. Sia il pensiero politico e sociale che la cultura popolare americana tradizionalmente considerano la middle class come il perno della compattezza sociale e della democrazia del paese, nonché come il fulcro di ogni modello interpretativo nazionale. Alla luce dell’attualità politica e sociale, e considerando la peculiarità statunitense nell’elaborazione teorico-politica e nella formazione sociale della classe media, le relazioni che qui presentiamo – curate dagli alunni della scuola riassumendo e discutendo le lezioni dei docenti – analizzano le ragioni e le conseguenze del forte restringersi verso l’alto della piramide sociale ed economica americana negli ultimi decenni, con riferimento anche a quanto avvenuto in Europa; chiariscono i significati del termine middle class nella riflessione politico-sociale americana, che è giunta a fino a indicare gli Stati Uniti come una società di sola classe media; allargano infine lo sguardo sulle trasformazioni socioeconomiche in Medio Oriente e in Asia orientale, con l’obiettivo di offrire al lettore – anche indicando una prima bibliografia – una traccia per ulteriori riflessioni e ricerche sulla centralità e il declino della classe media, in chiave storica e comparata tra America ed Europa e tra Occidente e Oriente. Oltre alle relazioni, questo sesto numero della newsletter inaugura una nuova rubrica che crediamo possa essere utile non soltanto per promuovere i lavori accademici degli ex alunni, ma anche e soprattutto per consolidare quelle reti di comunicazione, scambio e conoscenza tra ex-alunni e tra questi e il pubblico del blog C’era una volta l’America, che abbiamo attivato e alimentato in questi anni. Si tratta di una rubrica che aggiornerà annualmente il let2 tore delle pubblicazioni (volumi, saggi, articoli etc.), delle tesi di dottorato e di laurea magistrale degli ex alunni. Oltre al titolo, nel caso delle pubblicazioni, sarà possibile consultare anche un breve abstract in inglese. Non resta che augurarvi buona lettura! 3 La middle class come progetto politico: Traiettorie di un concetto tra fabbrica, marketing e scienze sociali SARA CABRELE, MICHELE CENTO, VALENTINA CRALLI, SERENA DI NUCCI, MARTINA MALLOCCI, ALESSANDRO STOPPOLONI* I mmerso nella società statunitense, autoproclamatasi middle class society, il concetto di classe media presenta contorni sfuggenti e confini porosi. A prima vista si tratta di un concetto evanescente – “sociologicamente amorfo”, si potrebbe dire con Max Weber – poiché non sembra avere delle contro parti sociali né sovrastanti né sottostanti, ma estendersi a perdita d’occhio fin dove si arresta la società americana. Un’apparente prerogativa della middle class statunitense, poiché se guardiamo a come in Germania veniva raffigurata l’equivalente Mittelstand non possiamo non rilevare il suo essere classe media na, ovvero “classe di mezzo” tra la borghesia capitalista e la classe operaia. Da questo primo e fugace confronto con la realtà europea, emerge però immediatamente la dimensione storica e il significato politico di una categoria, quella di middle class, che non può essere derubricata a un mero e neutrale costrutto della sociologia. Il nostro obiettivo sarà dunque quello di ripercorrere alcune delle principali tappe nel percorso di costruzione di tale concetto, situandolo all’interno delle trasformazioni storiche occorse al capitalismo americano tra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale. In primo luogo, ci soffermeremo su come alla fine del diciannovesimo secolo l’introduzione del taylorismo nella fabbrica americana finisca per spazzare via quella “classe media” * Dalle lezioni di Ferdinando Fasce e Matteo Battistini. 4 di lavoratori qualificati e largamente indipendenti, impregnati dell’ideologia repubblicana del lavoro libero, che vengono rimpiazzati da lavoratori unskilled e dalla catena di montaggio. Il taylorismo finisce così per erodere i principi di self-rule propri della democrazia americana (Wiebe 1995), così come costituisce una nuova classe di lavoratori salariati non manuali, con funzioni di controllo e supervisione su processi produttivi drasticamente semplificati. Qualche decennio dopo il taylorismo, il fordismo fa il suo ingresso nello shop floor con il suo portato di salari alti e orari di lavoro ridotti. Un combinato che diffonde tra le classi meno abbienti la possibilità di accedere al consumo, il secondo elemento su cui focalizzeremo la nostra analisi, poiché esso appare costitutivo nella definizione della nuova middle class dei primi decenni del Novecento. Tuttavia, l’irrompere negli anni Trenta della Grande depressione segna la crisi di questo accesso allargato al consumo. Sono questi anni di profonda riflessione sulla crisi della classe media, ma anche di un rinnovato progetto storico e politico che le scienze sociali sembrano affidarle. Infine, ci soffermeremo sulla duplice natura del concetto di classe media, sulla sua capacità inclusiva ed esclusiva, concentrandoci sulla donna come elemento perturbante nello spazio apparentemente liscio della middle class. Famiglia davanti alla propria casa in un nuovo settore residenziale a Levittown, PA, 1950. 5 1. DAL MESTIERE ALLA CATENA: UNA MIDDLE CLASS IN FORMAZIO NE TRA TAYLORISMO E FORDISMO ll’indomani della Guerra civile si registra negli Stati Uniti una fase di fortissima crescita economica ribattezzata Gilded Age. Si tratta in effetti di un’età dorata, nella misura in cui i travolgenti processi di modernizzazione che investono il paese generano altresì allarmanti disuguaglianze tra le élite finanziarie e industriali e le classi di lavoratori/produttori. Un quadro segnato da momenti anche cruenti di lotta di classe, da cui emergono i Knights of Labor, un gruppo a metà tra un sindacato e un’organizzazione del mondo della produzione, che al suo interno include non solo operai, ma anche artigiani e piccoli business man. Più in generale, i Knights of Labor puntano a organizzare la “producing class”, rappresentata come un’entità morale, culturale e politica che ridefinisce la dicotomia capitale-lavoro sul terreno della contrapposizione tra “parassiti” (banchieri, monopolisti, finanzieri) e “produttori”. Una dicotomia che non lascia ancora spazio a una classe media propriamente detta, ma suggerisce invece una visione della realtà politica e sociale che è propria del repubblicanesimo. La virtù repubblicana, che consente l’accesso alla classe dei produttori, si esprime nel lavoro, visto come strumento di indipendenza e di autogoverno che fa dell’individuo un autentico cittadino della Repubblica. È facile sottoline are quanto tra le donne e le minoranze che svolgono i lavori più degradanti l’ideologia del repubblicanesimo attivi processi di esclusione, anziché di inclusione. Al tempo stesso, occorre vedere come attorno agli anni Novanta dell’Ottocento la virtù repubblicana appaia destinata a un rapido declino, dal momento che l’introduzione dell’organizzazione tayloristica nelle fabbriche fa sempre più del lavoro un dispositivo di comando anziché di autonomia, intaccando per giunta la centralità un tempo detenuta da artigiani e skilled workers nel processo produttivo. Come osserva Robert Wiebe in The Search for Order e poi in Self-rule, a cavallo del Novecento negli Stati Uniti si assiste a un potente processo di razionalizzazione che agisce tanto a livello economico quanto a livello politico, producendo effetti ben visibili sulla stratificazione sociale, che acquista dimensione nazionale, e sulla definizione di middle class. Un processo che nelle strutture produttive comporta standardizzazione, parcellizzazione e formalizzazione delle mansioni lavorative, secondo i precetti stabiliti dall’ingegner Frederick Taylor. Fenomeni che non solo erodono l’autonomia di tutti i lavoratori, ma, nello specifico, riclassificano il ruolo e lo statuto della manodopera specializzata. Per quest’ultima tipologia di lavoratori, il mestiere fino ad allora svolto nelle piccole imprese o in ambito familiare rappresenta prima di tutto l’appartenenza a un universo professionale che, se anche trova il suo fulcro di applicazione pratica all’interno di un’entità giuridico-formale come l’impresa, ha comunque A 6 un’origine in larga misura dipendente dalla direzione e dalla proprietà dei mezzi di produzione: ciò rafforza negli operai qualificati una percezione del tempo trascorso in fabbrica che sembra riprodurre alcuni tratti di una prestazione di tipo artigianale. In tal senso, Thorstein Veblen osserva come la meccanizzazio ne e le nuove tecniche lavorative distruggono una “cultura proprietaria” delle classi lavoratrici fondata sul mestiere e, talvolta, simboleggiata dalla proprietà degli attrezzi. Il passaggio “dal mestiere alla catena” (Fasce 1983) alimenta tuttavia la formazione di una classe media dipendente: se il sistema taylorista non necessita più delle competenze specifiche degli skilled workers, si serve nondimeno della vecchia manodopera specializzata, cui però vengono ora affidati i nuovi incarichi di controllo e supervisione richiesti dalle trasformazioni nel processo produttivo. Analogamente, il successo della grande impresa, spesso accompagnato da processi di incorporazione delle formazioni aziendali più piccole, diffonde un modello di business che richiede uno strato di white collar che andrà a ingrossare le fila di questa nuova middle class. Dopo l’introduzione del taylorismo, nella fabbrica americana fa la sua comparsa il fordismo, la cui “simbolica data di nascita – scrive David Harvey – è sicuramente il 1914, quando Henry Ford introdusse la giornata lavorativa di otto ore a cinque dollari per gli operai della catena di montaggio automatizzata inaugurata l’anno precedente a Dearborn nel Michigan” (Harvey 1989). I Principles of Scientific Management di Taylor convivono così con l’erogazione di un salario che per la prima volta permette al lavoratore di accedere allo status di consumatore. Uno status che corrisponde a un’elevazione sociale immediata, ma soprattutto evoca l’idea di mobilità sociale quale veicolo di inclusione all’interno di una middle class che, dopo la Prima guerra mondiale, verrà sempre più definita in base ai criteri del reddito e del consumo. In altri termini, la possibilità di accesso alla middle class costituisce uno strumento politico per svuotare le lotte operaie del loro potenziale eversivo, in maniera tale da combatterle da una più rassicurante prospettiva di miglioramento graduale delle condizioni sociali, secondo la tesi del leader sindacale Samuel Gompers per cui la via d’uscita dalla schiavitù del salario è un salario migliore. { La possibilità di accesso alla middle class costituisce uno strumen to politico per svuotare le lotte operaie del loro potenziale eversivo 7 } 2. LA MIDDLE CLASS COME CATEGORIA DELLA NORMALITÀ: TENTA TIVI DI DEFINIZIONE l rinnovamento del sistema produttivo crea la necessità di collocare un numero sempre maggiore di prodotti su un mercato in crescita. La realizzazione di margini di profitto sempre più ampi sembra garantita dall’espansione del reddito, dovuta principalmente all’incremento dei white-collar workers. Su tali cambiamenti registrati sia sul piano della produzione che del consumo si concentrano le agenzie di marketing, che nel dopoguerra conoscono un notevole sviluppo. Esse sono di fatto le prime a cercare di definire sistematicamente la middle class, collocandola all’interno di un modello, il quale, essendo una ca tegoria interpretativa per la collocazione di prodotti di consumo sul mercato, non può che avere parametri di riferimento di tipo economico. I potenziali acquirenti vengono quindi classificati come middle class soprattutto in base al loro reddito, e tale fascia viene eletta come target privilegiato per un certo tipo di articoli “figli” della produzione di massa. A ciò si aggiunge il ruolo svolto dal settore pubblicitario, con il suo tentativo di dare una nuova veste al ruolo del consumo nella società, dove a cavallo del secolo esso è, secondo alcuni osservatori, un’attività ancora “identificata con il lusso e lo spreco e considerata appannaggio del genere femminile” (Fasce 2012). Di fatto una delle peculiarità della middle class statunitense sembra essere quella di essersi inizialmente formata non a partire da un auto-riconoscimento di tipo politico o economico in senso generico, quanto nell’assorbimento di un certo modello di consumo proposto dal sistema di produzione di massa. L’idea di uno standard of living della middle class viene proiettata anche attraverso i media, entrando gradualmente a far parte dell’immaginario popolare. In tale ottica, il consumo e l’acquisto di determinati prodotti sembrerebbero rappresentare non un elemento accessorio, come spesso la storiografia l’ha definito, bensì un punto cruciale intorno al quale si cerca di riunire un gruppo fortemente eterogeneo per orientamento politico, etnia e collocazione geografica. È infatti solo in un secondo momento che la categoria di middle class inizia a essere utilizzata e studiata dai sociologi, i quali cominciano a evidenziarne la complessità. Già attraverso i primi studi ci si rende conto, infatti, che il solo reddito come elemento di categorizzazione non è sufficiente a esplicare alcuni comportamenti socio-economici, quali ad esempio la presenza di diversi standard di consumo tra lavoratori con mansioni o appartenenti ad etnie diverse, ma con reddito simile. Sebbene quindi il consumo sia stato il primo elemento ad emergere associato alla categoria middle class, a causa anche dei soggetti che per primi la definiscono, tale fattore viene ben presto affiancato da altri di tipo politico e culturale. Ferruccio Gambino ha osservato che la classe media è la “categoria della I 8 normalità” della sociologia statunitense (Gambino 1989). Nel discorso delle scienze sociali, la middle class ha storicamente indicato spezzoni diversi della società americana, ma ha tendenzialmente incluso al suo interno quel settore che di volta in volta risulta essere l’asse portante del paese. Come abbiamo vi sto, il passaggio più rilevante nel significato di middle class è stato quello dallo status di produttore/lavoratore indipendente a salariato, sia pure diversamente classificato via via che si sale la scala delle responsabilità gestionali. Tuttavia, la Grande Depressione si presenta come un’interruzione del processo di consolidamento di uno strato intermedio accessibile alla classe operaia. Ciò che si verifica negli anni Trenta è piuttosto, nelle parole di Lewis Corey, la “crisi della classe media”. Al tempo stesso, di fronte all’emergenza rappresentata dalla Depressione le scienze sociali tornano a riflettere proprio sul progetto politico e culturale incarnato dalla middle class, che, in questo senso, non può essere più pensata in termini meramente economici. Non è un caso che alcuni scienziati sociali come Harold Lasswell cerchino di caratterizzare la classe media come strumento di rimoralizzazione della società, affidandole quella che era a tutti gli effetti una missione. L’obiettivo è cercare di istituzionalizzare il conflitto sociale, creando una serie di elementi che possano fungere da punto di riferimento per gli strati sociali inferiori. Realizzare un progetto di questo tipo equivale a mettere in salvo un’idea di società che finisce per basarsi sulla classe media. Secondo questo progetto il conflitto può eventualmente avvenire solo fra persone che hanno ormai accettato dei presupposti comuni – che sono i presupposti di tale middle class – e hanno molto da perdere da uno sconvolgimento radicale. In questo modo non si nega la possibilità di far valere le proprie opinioni, ma si garantisce che la dialettica avvenga all’interno di un’atmosfera controllata. La classe media non viene infatti definita come un blocco granitico ma come una categoria aperta che appare accogliente e desiderabile a chi ancora non ne fa parte. Un discorso di questo tipo è strettamente legato al tema della mobilità. Esso riesce ad avere presa sugli individui se questi sentono di avere la possibilità di raggiungere quello stato di benessere che vedono ostentato da chi lo ha già ottenuto. Il messaggio che si cerca di trasmettere è che non è più necessaria una rivoluzione per migliorare la propria vita, basta cercare di scalare la piramide sociale. Questo tipo di ottica porta infatti a pensare in modo individuale. Lo scopo è fare in modo che le rivendicazioni facciano sempre più fatica a essere portate avanti collettivamente. Così facendo, si riesce a creare un gruppo di persone che hanno sì gli stessi consumi e gli stessi modi di vivere, ma che allo stesso tempo non riescono ad agire facilmente come collettivo, svuotandolo di forza rivoluzionaria. L’idea dominante non è raggiungere tutti insieme un obiettivo, 9 ma arrivare prima degli altri in questo nuovo contenitore chiamato classe media. 3. LE DONNE E LA MIDDLE CLASS: TRA LAGER CONFORTEVOLI E TEN TATIVI DI EVASIONE ltre al “Secolo breve”, il Novecento è stato spesso definito anche il “Secolo delle donne” (Vezzosi, 2007). Ma a concorrere a questa definizione sono stati fenomeni che affondano le proprie radici nella grande stagione di rinnovamento che, a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, avrebbe portato molti altri cambiamenti, soprattutto nel mondo del lavoro. Dal punto di vista della storia di genere, l’ascesa della categoria dei white collar ingenera l’inserimento nei censimenti dell’epoca (almeno stando agli analisti statistici, che lavoravano perlopiù per agenzie di comunicazione e marketing) anche delle donne che occupavano le professioni più classiche: la commessa, la centralinista, l’impiegata, … D’altro canto, “nel primo decennio del Novecento le donne entrarono in misura crescente nel mercato del lavoro, tanto che negli Stati Uniti le donne retribuite rappresentavano nel 1910 il 21% della forza lavoro del paese” (Vezzosi 2007). Questa presenza femminile massiccia ha conseguenze tanto più grandi nei O Scena di ufficio, anni Venti. 10 periodi bellici, soprattutto in relazione all’impiego delle donne nella burocrazia governativa, conseguenze legate al loro attivismo politico al fine di ottenere il diritto di voto. Ma è importante sottolineare come sia l’acquisizione di altri diritti, nello specifico diritti sociali, “(dalla protezione della maternità per le donne lavoratrici all’interdizione del lavoro notturno) a essere stata spesso precedente all’acquisizione del diritto di voto. Parallelamente al movimento suffragista, si svilupparono inoltre – negli Stati Uniti così come in Europa – movimenti femministi maternalisti, il cui tratto comune era costituito dal fatto di individuare nella maternità una condizione unificante del sesso femminile” (Vezzosi 2007). Il maternalismo si connota poi anche come movimento dei consumatori, nella misura in cui condannando alcolismo e corruzione (nelle sue evoluzioni più moralistiche), presenta anche effetti importanti nella dinamica del proibizionismo post-1929. Non è tralasciabile, all’interno di questo discorso, il ruolo quasi istituzionale della National Consumer League, composta per la maggior parte da donne, nel rappresentare il Public nelle commissioni attive nel primo Novecento, quando il diritto di voto era ancora esclusiva prerogativa dell’uomo. Alla stagione del grande attivismo politico femminile, declinato nelle sue varie anime (dal suffragismo al maternalismo) segue dal Secondo dopoguerra Pubblicità di una lavatrice, anni Cinquanta-Sessanta. 11 in poi una stagione di quiete che è in realtà solo apparente, perché proprio nei silenziosi anni Cinquanta si vengono a creare le premesse per i grandi movimenti femministi degli anni Sessanta. Movimenti che denunciano il “male silenzioso dei lager confortevoli”, secondo la brillante definizione di Betty Friedan. Questa problematica e contraddittoria condizione della donna viene determinata forse dall’eccessiva disponibilità di beni di cui la Golden Age dell’economia americana ha goduto dal Secondo dopoguerra agli anni Settanta inoltrati. Una disponibilità di beni la cui fruizione diventa simbolo dell’appartenenza stessa alla middle class. Banalmente la lavatrice, l’aspirapolvere, gli elettrodomestici in genere diventano feticci di uno status, soprattutto del breadwinner americano: la moglie che non lavora, che può custodire i sani valori sociali nel suo ruolo di angelo del focolare, è sintomo in sé di un benessere tale per cui non è più necessario che entrambi i coniugi lavorino. Marketing, comunicazione e pubblicità concorrono a creare l’immagine di una donna emancipata, che non ha bisogno di sprecare tempo per la gestione domestica. Ma il punto è questo: dato che non deve lavorare, tempo per cosa? Probabilmente dovremo aspettare i movimenti femministi degli anni Sessanta per saperlo. BIBLIOGRAFIA Battistini M., “Harold Lasswell, the ‘Problem of World Order’ and the Historic Mission of the American Middle Class”, in Baritono R., Fasce F., Vaudagna M. (eds.), Beyond the Nation: Pushing the Boundaries of U.S. History from a Transatlantic Perspective, Torino, Otto Editore, 2013. Fasce F., Dal mestiere alla catena, Genova, Herodote, 1979. Fasce F., Le anime del commercio. Pubblicità e consumi nel secolo americano, Roma, Carocci, 2012. Gambino F., “La classe media come categoria della normalità nella sociologia statunitense”, in Pace E. (a cura di), Tensioni e tendenze nell’America di Rea gan, Padova, Cedam, 1989. Harvey D., The Condition of Postmodernity, Oxford, Blackwell, 1989, trad. it. La crisi della modernità, Milano, Net, 2002. Moskovitz M., “‘Aren’t we all?’ Aspiration, acquisition and the American middle class”, in Lopez A.R., Weinstein B. (eds.), The Making of Middle Class. Toward a Transnational History, Duhram/ London, Duke University Press, 2012. Nunin R., Vezzosi E., Donne e famiglia nei sistemi di Welfare, Roma, Carocci, 2007. Wiebe R., The Search for Order, London, Macmillan, 1967. Wiebe R., Self-Rule. A Cultural History of American Democracy, Chicago, The University of Chicago Press, 1995, trad. it. La democrazia americana, a cura 12 di Bonazzi T., Bologna, Il Mulino, 2009. Zunz O., “Class”, in Encyclopedia of the United States in the Twentieth Century, Vol. I, New York, Scribner’s, 1996. 13 Ascesa e declino del neoliberismo nell’epoca delle disuguaglianze MARGHERITA ANIBALDI, FRANCESCO GUALDI, ALESSIO MARZI, MARTINA MASTANDREA, FABRIZIA SORAGNESE, MONICA VOLTOLINA* INTRODUZIONE he impatto hanno avuto le politiche neoliberiste sulla società occidentale? Qual è stata la genesi di una stagione politica che ha conosciuto il suo apice in Gran Bretagna e Stati Uniti negli anni Ottanta e ha poi fortemente influenzato il pensiero conservatore e progressista anche nel decennio successivo? Come hanno “pensato” la middle class, e come vi si sono rapportati, i governi Thatcher e Reagan nell’elaborazione di un progetto politico trasformativo, ma con altissimi costi sociali? Queste sono solo alcune delle domande che hanno guidato la nostra analisi, sviluppata a partire dai saggi consultati e dagli interventi dei professori Cartosio ed Ellwood, e volta a cercare di comprendere come si sia arrivati alla situazione odierna. Una situazione nella quale le disuguaglianze aumentano, gli effetti della crisi economica impoveriscono la classe media e cresce la disaffezione politica. La nostra analisi di conseguenza ha un punto di partenza temporale ben definito (gli anni Settanta) e intreccia vari elementi: la teoria politica, le scelte economiche, i rapporti tra paesi e le trasformazioni sociali. Fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui le conseguenze della crisi economica e finanziaria accentuano un processo di indifferenza, se non addirittura di rigetto, nei confronti della partecipazione politica che, in taluni casi, può arrivare fino a forme radicali di anti-politica. C * Dalla lezione di Bruno Cartosio e David Ellwood. 14 1. “ANNI SETTANTA NATI DAL FRACASSO”.1 LE ORIGINI DELL’ELA BORAZIONE POLITICA CONSERVATRICE. el corso delle lezioni della scuola estiva Cispea 2013 (con particolare rife rimento agli interventi di Bruno Cartosio e David Ellwood) e nel successivo lavoro seminariale di cui queste note sono espressione, è stato sottolineato come le politiche liberiste in economia e socialmente conservatrici, che caratterizzarono gli anni Ottanta negli Stati Uniti e nel Regno Unito, siano state una risposta pratica e soprattutto ideologica ad una serie di “terremoti” che sconvolsero i Paesi con un’economia avanzata negli anni Settanta. Non si trattò solo di una crisi economica, caratterizzata da un generale rallentamento della crescita dopo il 1973 (e da brevi cicli di stagnazione o recessione), ma anche di una forte crisi della società che nel dopoguerra si era organizzata in quello che è stato definito un “pluralismo corporato”. A partire dal 1968, i Paesi a capitalismo avanzato furono infatti segnati da una serie di conflitti sociali e politici senza precedenti, che la crisi economica contribuì ad alimentare o a non ricomporre: il movimento pacifista, operaio e studentesco, il revival etnico e gli etnoseparatismi, il nuovo femminismo, la mobilitazione delle minoranze che chiedevano il riconoscimento pubblico della propria diversità, l’ambientalismo e, in Italia, Germania e Irlanda del Nord, la lotta armata ed il terrorismo. È in questo contesto di instabilità che, secondo quanto discusso, vanno rintraccia te le origini delle politiche di governo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, nonché delle loro retoriche e del loro successo elettorale. Come spiegato da un osservatore coevo nel 1989, con i suoi primi due mandati di governo, Margaret Thatcher si era distinta per una serie di iniziative politiche che “[avevano promosso] un’economia libera [cioè liberista] e distrutto molti dei pilastri del regime di democrazia sociale, ma allo stesso tempo [avevano introdotto] misure che incrementavano il potere centrale dello stato” (Gamble 1989). Il vecchio approccio collaborativo e consensuale con le istituzioni di governo locale (roccaforti del Partito Laburista) e con le Trade Unions era stato rigettato da Thatcher e dal Partito Conservatore, segnando la fine di quei “compromessi keynesiani” che dal 1945, in forme diverse da Paese a Paese e da periodo a periodo, avevano segnato la crescita economica e la contemporanea distribu zione della ricchezza in molte delle economie capitalistiche avanzate. Ciò era N { Dal 1968, i Paesi a capitalismo avan zato furono segnati da una serie di conflitti sociali e politici, che la crisi economica contribuì ad alimentare 15 } avvenuto non attraverso l’attuazione di un preciso programma, bensì attraverso una serie di interventi non coordinati (dettati anche da necessità contingenti e da calcoli elettorali) che, tuttavia, avevano un loro collante in una serie di discorsi ideologici fortemente connotati in senso reazionario e moralista. Uno dei paradossi più evidenti della politica e dell’assalto teoretico (Hobsbawm 1997), che caratterizzava la comunicazione pubblica di Thatcher, era che se da una parte essa promuoveva l’idea di un’economia libera e di una diversa attitudine nelle relazioni tra lo stato e la società civile (per cui l’individuo sarebbe dovuto essere sempre meno dipendente dallo stato nelle sue scelte economiche), dall’altra parte rifiutava molti dei possibili corollari di queste idee, quali la libera scelta individuale del proprio modello di comportamento. Infatti “il governo preferì imporre una cultura della solidarietà nazionale con un ristretto numero di stili di vita approvati” (Gamble 1989). “Un uomo che, superati i 26 anni d’età, si trova in un autobus può considerarsi un fallito”: è questa una frase erroneamente attribuita a Thatcher, ma che tuttavia rappresenta bene il carattere “prescrittivo” della retorica conservatrice e “yup” della politica britannica degli anni Ottanta; essa presentava infatti lo stile di vita del vecchio ceto medio (che aveva nel trasporto privato uno dei suoi simboli e dei suoi miti), come l’unico degno di essere perseguito. Se a determinare le vittorie elettorali dei conservatori in Gran Bretagna nel 1983 e nel 1987 furono soprattutto i temi della politica estera e dell’economia, la campagna elettorale del 1979 che portò Thatcher per la prima volta al governo fu caratterizzata soprattutto dai temi della “legge e ordine”, della famiglia e dell’educazione. Questi argomenti furono declinati dalla Lady di ferro in quello che è stato definito un “rinascimento puritano” (Taylor 1987) che, tuttavia, si accompagnava e anzi era volto a giustificare la teoria economica neoliberista. Con delle acrobazie dialettiche il welfare state fu presentato nel 1979 come una delle cause dell’aumento della criminalità nel Regno Unito, mentre gli operai che picchettavano furono para gonati ai criminali comuni. Thatcher dipinse quindi le Trade Unions e il Partito Laburista (considerato generalmente “complice” degli operai in sciopero), come propugnatori di modelli di comportamento criminali, violenti ed antisociali che avrebbero avuto dei riflessi non solo nelle fabbriche, ma anche nelle stesse strade del Regno. Ian Taylor ha dimostrato come questi temi e queste paure si siano sviluppate nel corso degli anni Settanta non solo all’interno di organizzazioni e gruppi che si opponevano a quello che veniva indicato come il “permissivismo” che minava alle fondamenta le relazioni della società britannica, società che rimaneva comunque “fortemente patriarcale, eterosessuale, familista e gerarchica nel modo in regolava la vita sociale e sessuale in generale” (Taylor 1987), ma anche e soprattutto in settori dello Stato comunque influenti nella formazione dell’opinione pubblica di ceto medio: magistratura, polizia e, 16 soprattutto, scuola. Rimangono comunque molti interrogativi su come queste paure si siano diffuse in tutte le classi sociali, sul perché la storia degli anni Settanta sia stata essenzialmente “la storia di governi che guadagnavano tempo” (Hobsbawm 1997) – al di là dell’evidente arbitrarietà dell’individuare i limiti temporali del manifestarsi dei fenomeni storici nelle decadi del calendario cri stiano – e, soprattutto, del perché altri settori dell’opinione pubblica e della politica non seppero elaborare una risposta alla effettiva frammentazione sociale e alla crisi economica di quel periodo, in alternativa a quella offerta dalla teoria liberista e dal conservatorismo. 2. LE RISPOSTE ALLA CRISI DEGLI ANNI SETTANTA: IL POLICY TRANSFER TRA STATI UNITI A GRAN BRETAGNA. urante tutti gli anni Settanta, dunque, l’Inghilterra, così come altre potenze occidentali, attraversò una radicale crisi politica e sociale dovuta al venir meno del modello politico ed economico che aveva dominato nei trent’anni successivi al secondo dopoguerra. Questa profonda crisi economico-finanzia ria (aggravata dallo shock petrolifero del 1973) mise in luce i limiti di uno sviluppo economico occidentale basato su principi keynesiani e portò, soprat- D Spazzatura lasciata in strada durante l’”Inverno dello scontento”, Londra,1979. 17 tutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, a un drastico cambiamento della politica economica in senso neoliberista (Cammarano, Guazzoloca, Piretti, 2009). Sia Margaret Thatcher, sia Ronald Reagan proposero e misero in atto una ricetta politica contro la crisi abbastanza simile, anche se con risultati molto diversi. Fu soprattutto la Thatcher che, come mai nessun Primo Ministro britannico prima di lei, guardò agli Stati Uniti e ne riprese, a volte totalmente a volte riadattandole, le politiche economiche e sociali. In effetti il processo di scambio tra i due Paesi andò soprattutto in una direzione: dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna (Dolowitz, Greenwold, Mash 1999). Concetto cardine di questa ricetta neoliberista era la privatizzazione. Iniziata in realtà dalla Lady di Ferro come una serie di provvedimenti ad hoc per rifocillare le casse dello Stato, diventò ben presto il pilastro della “svolta thatcheriana” (Gamble 1989). Furono via via privatizzate aziende come la British Telecom, la British Gas e la British Airways. Il Primo Ministro cercò di smantellare anche alcune importanti lobby, come quella dei media (BBC) e delle università (tra cui le prestigiose Oxford e Cambridge), senza però riuscirvi. Anche la retorica che la leader conservatrice utilizzò può essere ricondotta più alla tradizione americana che non a quella inglese. Forte della sua esperienza di vita, credeva fermamente nel self-made man: a suo parere i cittadini, di qualsiasi classe sociale, dovevano farcela con le proprie forze senza contare sui sussidi statali; i soldi pubblici non dovevano servire per aiutare i meno abbienti poiché questi avrebbero dovuto farcela da soli, grazie ad una economia che favoriva l’impresa individuale e il capitalismo. Questo avrebbe portato alla creazione di una “new middle class”. Le riforme e la retorica della Thatcher si scontrarono, però, con una società completamente diversa da quella americana. Se le politiche di Reagan furono accolte in maniera positiva, e il suo rilancio morale della potenza americana servì da buon collante, la figura della Thatcher spaccò ancora di più la già logorata società inglese. In Gran Bretagna era presente una working class forte e ben organizzata, rappresenta da influenti sindacati. Le politiche neoliberali furono un attacco frontale a queste ultime, che risposero in maniera aspra e molto spesso violenta. Come ha sottolineato il professor Ellwood, paragonando i funerali dei due leader, si può dedurre come la società inglese e quella americana abbiano accolto in maniera molto diversa le riforme degli anni Settanta e Ottanta. Tuttavia è importante sottolineare che il “policy transfer” tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna è continuato anche dopo gli anni della Thatcher e di Reagan, esten dendosi anche alla parte democratico-laburista (Dolowitz, Greenwold, Mash 1999). Si può affermare, quindi, che la Thatcher non riuscì a far penetrare una nuova mentalità e un nuovo assetto sociale in Gran Bretagna, ma riuscì comunque ad influenzare in modo decisivo le politiche e i modi di fare politica a lei successivi. 18 3. LA GIUSTIFICAZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE: IL PRINCIPIO DEL SELF-MADE MAN COME CARDINE DELL’IDEOLOGIA THATCHERIANA. Il modello di stato britannico proposto da Margaret Thatcher si pone nel solco della tradizione americana sedimentata a partire dalla Gilded Age e avente come suo più importante interprete il filosofo darwinista William Grahm Sumner. L’intellettuale, nel libro What Social Classes Owe to Each Other del 1883, interpretava la disuguaglianza sociale e il laissez faire nell’ottica di un generale progresso economico e morale che l’operare di questi principi porterebbe nella società. Questa filosofia fornisce una giustificazione alla grande disparità delle ricchezze e del potere economico americano e definisce la virtù come una qualità morale che emerge dalla selezione sociale tra gli individui e connota il più ricco come il più virtuoso. Il pensiero di Sumner diventa un credo per la middle class americana del tempo. L’ideologia della Thatcher, pur attingendo a questa filosofia, non fa propri i principi del puritanesimo che, invece, costituiscono la base del pensiero americano. Uno dei suoi pilastri è, infatti, la connessione, tra plutocrazia e puritanesimo: in base a questa relazione l’uomo virtuoso è l’individuo eletto da Dio che attraverso i propri sforzi e il duro lavoro è riuscito ad arricchirsi ed è, per questi motivi, legittimato all’accumulo di denaro. Questa relazione non è presente nel pensiero inglese. Il modello della Lady di ferro può essere meglio definito ricorrendo al termine autoritarismo popolare e sottolineando tre aspetti principali: la concezione organica della società, l’individualismo e la formulazione di un nemico interno, che viene rintracciato nel criminale e indicato come il fattore di disturbo dell’armonia sociale (Taylor 1987). Nella retorica della Thatcher l’accento posto sulla paura e sulla sicurezza diventa molto importante per ottenere consensi in seno alla middle class. Di importazione americana è l’ideologia del self-made man che entra a far parte del modello sociale e politico inglese di quegli anni: donna e per di Copertina di Time, 14 luglio 1979. più appartenente a una lower middle 19 class, la Thatcher rappresenta colei che attraverso i propri sforzi e il proprio valore è riuscita a risalire faticosamente la scale sociale e ad appartenere alle élites di governo. Questo modello sarà rappresentato anche dal Presidente americano Barack Obama. La questione dell’influenza del pensiero americano su quello inglese è di particolare interesse e può essere spiegata a partire da motivazioni di politica estera (mantenere e rafforzare l’alleanza con gli Stati Uniti) e di politica interna (consolidare l’ideologia neoliberista in voga al tempo). Alla base c’è, insomma, il monito della Thatcher “to make England more American” (Dolowitz, Greenwold, Mash 1999). È importante sottolineare, infine, come il modello economico ripreso dal primo ministro inglese faccia propri i principi del neoliberismo promulgati da Friedrich Von Hayek, uno dei maggiori avversari del keynesismo e del welfare state. Soprattutto, il principio della “so cial market economy” in antitesi al potere coercitivo dello Stato, e della libertà in opposizione alla democrazia sono centrali per comprendere alcune direttive del primo governo Thatcher (Taylor 1987). Ancora oggi, però, sembra che le posizioni teoriche espresse dal sociologo Sumner fino a quelle dell’economista Hayek siano dominanti nelle società occidentali. 4. LA STRUTTURAZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE: L’AFFERMAZIONE DEL NEO-LIBERISMO E LA TRASFORMAZIONE DELL’ECONOMIA La frase icastica del miliardario Warren Buffett, “certo che c’è guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo”, suona come rivelatrice di un processo in corso da circa trent’anni che ha visto accrescere le disuguaglianze all’interno della società. Se al giorno d’oggi il differenziale tra la porzione più ricca della popolazione e quella più povera è cresciuto in maniera esponenziale, ciò è dovuto all’affermazione di un modello economico ben preciso, quello neoliberale, frutto delle scelte politiche delle élite dagli anni Ottanta ad oggi. Solo con l’esplosione della crisi economico-finanziaria del 2007 è iniziato un processo di ripensamento di un modello che fino ad allora era stato abbracciato con convinzione dalla maggior parte dell’establishment occidentale. Il fatto è che il modello neoliberale non ha prodotto solo conseguenze a livello economico, ma anche, e anzi soprattutto, a livello sociale. Le sperequazioni interne agli Stati sono cresciute, la concentrazione della ricchezza si è fatta via via più intensa. Due sono stati i punti cardine attorno ai quali costruire la narrazione neoliberale: la deindustrializzazione e la terziarizzazione dell’economia (unitamente a una de-sindacalizzazione crescente). La rivoluzione neoliberale venne abbracciata in prima istanza dalle amministrazioni Reagan e Thatcher, a partire dagli anni Ottanta. Nel caso britannico, poi, come è stato notato da Ellwood, l’adesione al neoliberalismo era funzionale anche al perseguimento di un obiettivo politico, vale a dire la 20 crescita della middle class (o upper middle class). I governi Thatcher infatti erano convinti della necessità di limitare il potere della working class, ragion per cui favorirono la privatizzazione e terziarizzazione dell’economia britannica. Il che comportò una pesante deindustrializzazione del paese, con l’esplosione delle tensioni sociali che caratterizzarono gli anni Ottanta (Gamble 1989). Tuttavia, è necessario sottolineare come le politiche neoliberali ebbero l’effetto di accelerare la crescita di una nuova classe sociale, quella prodotta dall’esplosione del terziario, che non coinvolse tutta la classe media. Al contrario, sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti si affermò una nuova élite manageriale, frutto della finanziarizzazione dell’economia, che accrebbe le disuguaglianze interne per via dell’impoverimento delle tradizionali occupazioni della middle class. Questo spiega in parte la concentrazione della ricchezza nonché il divario tra il vertice e la base della piramide sociale. Con la crisi economico-finanziaria ini ziata nel 2007 il modello neoliberale è stato messo in discussione, a fronte della necessità di ridurre le disuguaglianze sociali. Occorre chiedersi, tuttavia, se la mera riproposizione della ricetta antagonista a quella neoliberale (il keynesi smo, per intenderci) sia una soluzione ancora valida o se la ripresa economica, nel 2013, sia da ritrovare prima di tutto elaborando nuovi modelli in grado di interpretare con schemi concettuali diversi la società odierna, infinitamente più disgregata e diversificata rispetto a quella sulla quale incisero sia il keynesismo che il neoliberalismo (Bortolotti 2013). 5. DAL KANSAS ALL’ITALIA: DISUGUAGLIANZE SOCIALI E TRIONFO DELL’ANTIPOLITICA. n conclusione, seguendo il suggerimento di Bruno Cartosio, è possibile fare una considerazione sulla similitudine di due fenomeni che accomunerebbero gli Stati Uniti e l’Italia: da un lato l’indifferenza nei confronti della politica e quindi il relativo avvicinamento a movimenti di anti-politica e all’astensionismo e, dall’altro, il voto delle fasce meno abbienti a partiti che male rappresentano i loro interessi. Per quanto riguarda la prima questione, è importante riflettere sul fatto che è soprattutto a causa delle dimensioni paurose degli intrecci tra denaro e politica che la gran parte della gente percepisce le istituzioni rappresentative come lontane. Da questo derivano tanto l’indifferenza di molti cittadini nei confronti di una politica istituzionale gestita da partiti da cui non saranno tutelati, quanto l’estraneità a sfide che ricchi e potenti giocano tra loro I { Il modello neoliberale non ha prodotto solo conseguenze a livello economico, ma anche e soprattutto a livello sociale 21 } in nome e a difesa dei propri interessi. E qui possiamo riportare il commento di un taxista americano, in merito all’alternativa Bush-Gore del 2000, che retoricamente si chiede “perché dovrei votare per un milionario oppure per un altro milionario?”. Questa frase si avvicina ai sentimenti sempre più diffusi in Italia, quali “destra e sinistra son la stessa cosa”, “mi ci vorrebbe il loro stipendio”, e qualunque altra frase di chi ormai rifiuta di schierarsi o da una parte o dall’altra, sentendosi estraniato dalle decisioni prese dal governo e finendo per astenersi. In secondo luogo, la scelta di parte dell’elettorato della lower middle class di indirizzare il proprio voto verso il partito che meno rappresenta i propri interessi: il Partito Repubblicano negli Stati Uniti e il Popolo delle Libertà in Italia. Thomas Frank nel sul libro What’s the Matter with Kansas (2005), descrive come nella contea più povera di quello stato del Midwest nelle elezioni del 2000 oltre l’80 percento degli elettori scelse George W. Bush – il cui partito si era posto come obiettivo i tagli ai sussidi e all’assistenza pubblica – mettendo così a repentaglio il loro lavoro, la loro salute e l’educazione dei loro figli. Così in Italia, una buona fetta dell’elettorato negli ultimi vent’anni ha dato la propria fiducia a una parte politica capace di creare un immaginario valoriale simbolico che appariva appetibile come un prodotto ben pubblicizzato, ma poi si rivelava inattuabile nel concreto, anzi sortiva effetti nocivi proprio nella ricaduta sui ceti meno abbienti, quando tagliava finanziamenti alla sanità e alle scuole e, più in generale, ai servizi pubblici. Niente quindi ci sembra più appropriato che citare una frase di Thomas Frank: “People getting their fundamental interest wrong is what American (e potremmo aggiungere qui: and Italian) political life is all about” (Frank 2005). NOTE: 1. È questo il titolo di una canzone del cantautore italiano Paolo Pietrangeli, incisa e pubblicata su disco nel 1975, in cui già si segnalava la “stanchezza” della società italiana per il periodo di mobilitazione sociale successivo al 1968. BIBLIOGRAFIA Applebaum B., Gebeloff R., “Even Critics of Safety Net Increasingly Depend on It”, in The New York Times, 11 Febbraio 2012. Bortolotti B., Crescere insieme: per un’economia giusta, Roma-Bari, Laterza, 2013. Cammarano F., Guazzaloca G., Piretti M.S., Storia Contemporanea dal XIX al XXI secolo, Milano, Le Monnier Università, 2009. Dolowitz D., Greenwold S., Marsh D., “Policy Transfer: Something Old, Some22 thing New, Something Borrowed, But Why Red, White and Blue?”, in Parlia mentary Affairs, Vol. 52, No. 4, 1999, pp. 719–730. Frank T., What’s the Matter with Kansas?: How Conservatives Won the Heart of America, New York, Henry Holt, 2005. Gamble A., “Privatization, Thatcherism, and the British State”, in Journal of Law and Society, Vol. 16, No. 1, 1989, pp. 1–20. Hobsbawm E., Il secolo breve. 1914–1991. L’epoca più violenta della storia dell’umanità, Milano, Rcs, 1997. Taylor I., “Law and order, moral order: the changing rhetoric of the Thatcher government”, in The socialist Register, Vol. 23, 1987, pp. 297–331. “The Geography of Government Benefits”, in The New York Times, 11 Febbraio 2012. 23 Modernità e modernizzazione: L’americanizzazione “universale” MANUELA ALTOMONTE, SEBASTIANO CALEFFI, FAUSTO CARBONE, GIULIA CRISANTI, MICHELE DI LOLLO, VINCENZO LEONE, ELISA NICOLI* L a parola chiave che riassume il contributo di Mario Del Pero alla nona Summer School organizzata dal CISPEA è “modernizzazione”. Una modernità – quella americana – che nei primi anni della Guerra fredda diventa esempio se gnando “un’americanizzazione dell’Europa, dove i modelli americani diventano modelli universali”. La nostra riflessione è partita proprio da qui, dalla classica pubblicità americana dei primi anni Cinquanta con l’idealtipo della famiglia statunitense – che viveva nei suburbs, guidava una Ford e che si riuniva in salotto davanti alla tv – attraverso cui si pubblicizzava non solo un sistema economico basato sullo sviluppo dei beni di consumo, ma anche l’ideale di uno stile di vita che puntava a stabilità e benessere. Un modello che era irresistibile agli occhi dell’Europa, pronto per essere standardizzato ed esportato. Un modello a cui però, considerato il contesto di Guerra fredda e competizione bipolare, se ne contrapponeva un altro, alternativo e rivale, quello sovietico. Una contrapposizione che aiuta a spiegare le scelte di politica interna ed estera compiute dagli Stati Uniti nel Secondo dopoguerra fino almeno alla caduta del muro di Berlino, dato che l’unico modo per uscire vincitori dal conflitto era quello di far prevalere il “great American ex periment” sul “great Russian experiment”. Se il modello sovietico parve proporsi come la scorciatoia più rapida verso la modernità, giustificato – almeno fino agli anni Settanta – anche dai dati quantitativi disponibili, il modello americano tentò di presentarsi come un modello dalla portata universale attraverso il le* Dalla lezione di Mario del Pero. 24 game concettuale tra modernizzazione e americanizzazione. Esso riuscì infatti a creare un nuovo paradigma capace di investire la dimensione sociale, politica ed economica di tutto il blocco occidentale. La modernizzazione finì in tal modo per diventare sinonimo di fordismo, di welfare, di sicurezza e stabilità politica ed economica, di produttività, di piena occupazione, di consumi di massa (al punto che il concetto stesso di cittadinanza finì per legarsi alla possibilità di accesso ai consumi) e soprattutto di ampliamento e affermazione della middle class, definita sempre più dal reddito, dalle abitudini e dalla capacità di consumo, e considerata garante della stabilità democratica all’interno del Paese. Tuttavia, la realizzazione di questa middle class revolution, così come la proiezione su scala globale dell’American way of life, richiedeva oltre ad una politica estera attiva, anche l’individuazione e il sostegno di interlocutori locali, che fossero capaci di veicolare questo modello in regioni eterogenee fra loro e profondamente diverse e distanti dal contesto sociale statunitense. Fu proprio questa necessaria ricerca di alleati locali a determinare una delle prime e più evidenti contraddizioni della politica estera statunitense negli anni della Guerra fredda: gli interlocutori a cui gli americani erano costretti a rivolgersi non furono, infatti, mai quelli che loro avrebbero voluto. Anzi, il più delle volte gli Stati Uniti finirono per essere costretti a trovare una sponda politica in soggetti poco recettivi verso il modello di modernità da loro proposto, o addirittura in soggetti che negavano quel modello e/o lo ribaltavano. La rigidità della logica bipolare di contrapposizione globale tra modello sovietico e modello americano finiva, infatti, per far sì che l’anticomunismo diventasse l’unico criterio determinante (sebbene non l’unico tenuto in considerazione) su cui fondare le alleanze con le forze politiche locali al governo nei diversi Paesi posti sotto l’egemonia americana. Due degli esempi forse più significativi a dimostrazione della contrad dizione che venne così a generarsi sono quello dell’Italia e quello dell’America Latina. Nel primo caso l’interlocutore privilegiato, la Democrazia Cristiana, accolse solo in parte il modello americano di modernità e i valori e le politiche economiche e sociali che esso comportava, dimostrandosi, anche agli occhi degli stessi americani, poco ricettivo nei confronti dei progetti di moderniz- { Il modello americano tentò di pre sentarsi come universale attraver so il legame concettuale tra mo dernizzazione e americanizzazione 25 } zazione sociale, economica e culturale che gli USA avrebbero voluto realizzare in Italia. Nel secondo caso, il timore di una diffusione del comunismo in America Latina, spinse gli americani a dare il loro sostegno a regimi dittatoriali che negavano completamente il paradigma statunitense della libertà e della modernità. A tal proposito è significativo che Roosevelt, riferendosi a Somoza, abbia affermato “sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Oltre alle evidenti contraddizioni, le scelte poco coerenti crearono anche problemi di legittimazione rispetto all’opinione pubblica nazionale e mondiale. Un altro dato importante emerso dall’analisi di Del Pero è quello relativo allo stretto legame che intercorre tra modernizzazione da un lato e sicurezza, interna ed esterna, dall’altro. Nella logica di pensiero statunitense, infatti, una realtà in cui non sia in corso un processo di modernizzazione economica, culturale e sociale è destinata, per sua stessa natura, a risultare arretrata e a costituire una potenziale fonte di minaccia alla stabilità e alla sicurezza interna, determinando il fallimento del sistema pacifico e democratico ben rappresentato dal welfare state. La questione relativa alla sicurezza esterna presenta, invece, una dimensione più complessa. Gli Stati Uniti sentivano la necessità di esportare il loro modello per difendersi da un collasso sistemico che, sulla base della “teoria del domino”, fondata sulla convinzione che ogni focolaio di tensione fosse potenzialmente in grado di trascinare gli altri Paesi nell’esplosione di un conflitto degenerativo, temevano avrebbe coinvolto inevitabilmente gli Stati Uniti e le aree d’influenza americane. Il loro intervento tempestivo in ogni parte del mondo, pur giustificato agli occhi dell’opinione pubblica come una declinazione della loro vocazione missionaria, era, in realtà, una mera strategia egoistica per tutelare la propria sfera di influenza a dispetto dell’URSS. Questo tentativo venne in gran misura intrapreso in quelle aree del mondo che, secondo gli studiosi Millikan e Rostow, si caratterizzavano per la loro natura “premo derna” e per il fatto di non ricadere ancora nell’orbita d’influenza sino-sovietica. Soprattutto durante l’amministrazione Kennedy si tentò dunque di intervenire e di prestare aiuti economici e militari ai Paesi in via di sviluppo, per definizione deboli e vulnerabili al fascino degli ideali rivoluzionari comunisti. L’America Latina, il Vietnam del Sud e l’Africa furono sin da subito individuati come possibili laboratori dove applicare le nuove teorie della modernizzazione. Gli interventi statunitensi e la loro portata modernizzatrice rivelarono ben presto però i loro limiti, unitamente ad un’eclatante contraddizione interna: l’esigenza vitale di contenere l’influenza comunista, tollerando – e in taluni casi appoggiando – svolte neoautoritarie ed antidemocratiche, venne mascherata dalla necessità di esportare in questi Paesi “premoderni” le istituzioni democratiche ed il sistema economico liberale per garantire il benessere alla popolazione civile arretrata. Ci si rese conto infatti di come gli apparati militari potessero incar26 nare quel “potenziale modernizzatore” che era necessario diffondere nei Paesi in via di sviluppo e rappresentassero, dunque, una forza stabilizzatrice in grado di prevenire la caduta di questi Stati nelle mani del comunismo. L’identità modernizzazione-sicurezza rivelò ben presto il suo fondamento, grazie anche alle posizioni radicali e portate alle estreme conseguenze dallo scienziato politico Samuel Huntington, il quale però mosse una severa critica alla teoria della modernizzazione coniugandola con una forte esaltazione conservatrice ed antiprogressista dell’importante ruolo stabilizzatore delle forze armate. Analizzando il concetto di modernizzazione nel periodo della Guerra fredda, è parso inoltre importante focalizzare l’attenzione anche sul nesso che ha strettamente unito il tentativo di esportare il modello di modernizzazione americana e la grande fiducia riposta nel progresso delle scienze; tale fiducia ha avuto per oggetto sia le scienze sociali che le hard sciences, ed è giunta in certi momenti a livelli tali da far parlare di scientismo. Al termine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si presentavano vincitori su tutti i fronti, e al vertice del nuovo ordine economico globale. Inoltre lo sviluppo della bomba atomica, il vasto ricorso a brillanti menti scientifiche per scopi bellici e la volontà di conservare il vantaggio tecnologico accumulato sull’URSS avevano consegnato agli Stati Uniti anche una superiorità a livello mondiale in campo scientifico. I ripetuti successi tecnologici furono il combustibile che alimentò la fiducia Buzz Aldrin sulla Luna fotografato da Neil Armstrong, 20 luglio 1969. 27 nelle hard sciences, esemplificata dalla promessa fatta dal presidente Kennedy nel 1961 di portare l’uomo sulla luna (e farlo tornare sano e salvo) entro la fine del decennio, promessa che in realtà venne fatta in un momento di profonda instabilità delle certezze americane. Il programma spaziale sovietico, infatti, regalava di continuo all’URSS nuovi primati, costringendo per 3–4 anni gli americani ad una affannosa rincorsa, unitamente alla detonazione del primo ordigno nucleare sovietico, avvenuta in largo anticipo rispetto alle previsioni, avevano creato un senso di insicurezza generalizzato anche verso le capacità previsio nali degli scienziati di Washington. Questa paura spinse ad aumentare ulterior mente gli investimenti nelle istituzioni scientifiche, soprattutto in quelle che potevano garantire avanzamenti nel settore bellico, e i nuovi successi, culminati nello straordinario programma Apollo, furono gli elementi che sancirono il definitivo recupero della fiducia nel primato americano nelle scienze fisiche e naturali e nella loro capacità di contribuire alla modernizzazione del paese. Diverso è il discorso relativo alle scienze sociali, la cui accresciuta importanza si può probabilmente ascrivere al combinato di crescita economica e stabilità politica che gli Stati Uniti conobbero dalla fine della guerra fino ai primi anni Sessanta: l’espansione della middle class, dovuta alla massificazione dei consumi, e la riduzione della conflittualità sociale (che stava in realtà covando sotto la cenere in attesa di esplodere nei decenni successivi), generarono in molti scienziati sociali ed in alcuni politici (ma non solo) la convinzione che gli Stati Uniti avessero trovato la chiave per realizzare la società perfetta, o che fossero comunque sulla strada giusta. Nell’ambito del nuovo ordine geopolitico globale che si andava delineando e dopo la nascita dei due blocchi, apparve chiaro a molti che il Paese poteva e doveva farsi carico di esportare il proprio modello di sviluppo, anche se dietro questa spinta vi erano due motivazioni differenti: una minoritaria ed ideologi ca che vedeva nello sviluppo altrui (realizzato naturalmente seguendo il mo dello americano) un fatto in sé positivo, ed una maggioritaria che inseriva tale processo nel contesto della Guerra fredda, contrapponendo la modernizzazio ne “giusta” americana a quella “malata” sovietica, indicando in questo modo la via da seguire per i Paesi che sarebbero dovuti ricadere all’interno o sotto l’influenza del blocco occidentale. Un chiaro esempio di questa volontà di esportazione si può rintracciare nel paper che Rostow pubblicò nel 1960 con il titolo The Stages of Economic Growth: A Non-Communist Manifesto, nel quale delineava in modo chiaro e netto il percorso di sviluppo che un’economia avrebbe dovuto seguire per raggiungere lo stadio ultimo e migliore, quello della società dei consumi di massa, da lui identificato con la realtà americana. Dividendo lo sviluppo di un’economia nazionale in 5 stadi, Rostow individuò un percorso lineare e netto, che non prevede28 va la possibilità di salti in avanti o passi indietro, e che se imboccato nel modo corretto avrebbe portato ad un’unica conclusione: lo sviluppo di un’economia capitalista, basata sulla massificazione dei consumi, migliore del, ed alternativa al, modello comunista (del quale riconosceva le capacità di generare crescita, che definiva però “malata”). Si trattava insomma di una teoria scientifica con valore fortemente prescrittivo, che idealizzava il modello americano rendendolo applicabile a tutte le realtà possibili, senza che ne venissero considerate peculiarità e differenze. La modernizzazione aveva però un’altra dimensione, quella riguardante la crescente attenzione verso il tema dei diritti umani. A metà degli anni Settanta, infatti, il paradigma della modernizzazione americana tentò di rivolgersi verso nuove frontiere: in particolare, con l’amministrazione Carter, gli Stati Uniti si fecero garanti del rispetto dei diritti umani, questione basilare per lo sviluppo di rapporti internazionali di natura collaborativa o commerciale. Seppure tale li nea politica non rappresentasse propriamente una novità – si pensi alla Confe renza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa e all’Atto di Helsinki del 1975, contenente il “third basket on human rights” – l’appoggio dell’amministrazione americana a questo indirizzo fu decisivo per conferire alla politica di distensione europea quella credibilità internazionale necessaria ad avviare la discussione su temi molto delicati che, spesso, andavano ad interferire con la sovranità statale. Il partito democratico americano aveva già tentato un simile approccio nella prima metà degli anni Settanta con l’emendamento Jackson-Vanik, pro- Firma dell’Atto di Helsinki, 1° agosto 1975. 29 posto nel 1972 ed approvato nel 1974, che legava la disponibilità americana ad esportare grano in URSS alla certezza che all’interno del blocco sovietico fossero rispettati i diritti fondamentali dell’uomo. Tale emendamento, seppur approvato e discusso, non fu applicato con grande vigore dall’amministrazione repubblicana di Nixon e Kissinger: il linkage da loro elaborato, per ottenere risultati significativi, non prevedeva infatti un’intromissione invasiva nella sovranità del blocco sovietico. La situazione cambiò durante i primi anni dell’amministrazione Carter. Fondamentale per la redazione del sopra citato “third basket on human rights” e per l’“emphasis on human rights”, che guidò la linea politica democratica nella campagna elettorale e nelle elezioni presidenziali del 1976, fu la figura di Zbignew Brzezinski. Quest’ultimo, divenuto Consigliere per la Sicurezza Nazionale, sostenne la necessità di un “nuovo linkage” che fosse basato sulla diffusione dei diritti umani in tutta la sfera d’influenza sovietica. Questa nuova posizione americana rappresentò un passo decisivo per la diffusione della modernizzazione o, meglio, del paradigma di moder nizzazione che gli americani si erano proposti di esportare. L’intransigenza che l’amministrazione democratica mostrava sul tema dei diritti umani spinse infatti l’URSS a modificare i suoi parametri di azione: mentre nel 1945 la potenza comunista si era astenuta dal voto sulla Carta dei diritti fondamentali dell’uomo proposta dalle Nazioni Unite, nel 1975, con il mutare delle condizioni politiche internazionali europee (Ostpolitik) e americane, firmò l’Atto di Helsinki e, nel 1977, adottò una nuova costituzione che garantiva il rispetto delle libertà riconosciute fondamentali dalla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Come noto, l’amministrazione Carter subì si allontanò progressivamente dalla “human rights policy” nel corso del suo mandato, distacco che culminò con l’adozione della vecchia agenda della Guerra fredda. Probabilmente, questo radicale cambio di direzione, insieme alla mal gestita tensione derivante dal sequestro degli ostaggi americani in Iran, fu la causa della sconfitta di Car ter alle successive elezioni presidenziali. Secondo molti studiosi, gli ultimi anni di Carter segnarono una profonda controtendenza rispetto ai primi. La svolta antisovietica alla fine del suo mandato equivaleva, del resto, a riconoscere che quella seguita fino ad allora era stata una linea sbagliata e imprudente, almeno agli occhi dell’opinione pubblica. Tale cambiamento di Carter nell’approccio alle problematiche internazionali condizionò significativamente anche il suo contributo nel campo dei diritti umani. Romero definisce tale insuccesso di Carter come “il suo mesto destino politico”, ma anche altri studiosi concordano che la dualità di Carter inficiò la validità dei risultati, alcuni parziali, altri completi, da lui ottenuti, che furono in seguito esaltati dalla decisa politica di Reagan. Se, infatti, si può ampiamente discutere sul successo politico della gestione Carter, è meno discutibile l’impatto che il suo nuovo paradigma di modernizzazione 30 ebbe a livello mondiale e nel confronto bipolare. Non può essere imputata alla mera casualità infatti la proliferazione, durante la sua amministrazione, dei movimenti dissidenti all’interno del blocco sovietico. Nel 1976, infatti, nacque il Moscow Helsinki Group, movimento di militanti per i diritti umani fondato da Yuri Orlov, che intrattenne numerosi rapporti di corrispondenza con il presidente democratico. L’anno successivo venne, invece, fondato in Cecoslovacchia il movimento Charta 77, guidato dal drammaturgo Václav Havel, il principale protagonista del processo che portò al raggiungimento dell’indipendenza dal blocco sovietico alla fine degli anni Ottanta. Carter fu, in definitiva, un uomo nuovo nel panorama politico mondiale: sollevò una problematica considerata, forse per troppo tempo, una questione di secondo piano. La freschezza delle sue idee, anche se non sostenute fino all’ultimo, fu sicuramente percepita da coloro che lottavano quotidianamente per le libertà fondamentali dell’uomo: non a caso, il presidente americano risulta essere, tra i politici dell’epoca, il più citato in assoluto nelle opere dei dissidenti appartenenti al blocco di nazioni che sottostava al regime comunista. La delicata questione dei diritti umani andò a intrecciarsi col paradigma della modernità per rendere protagonista dello scontro bipolare un nuovo teatro, fino a quel momento oscurato dalla colonizzazione, e appetibile alleato per entrambi gli schieramenti: il Terzo Mondo. Negli anni Sessanta, questa regione divenne l’obiettivo principale delle politiche statunitensi che attraverso riforme economiche miravano alla crescita del PIL e della produttività. La Guerra fredda divenne pertanto davvero globale, investendo Africa e Asia e coinvolgendo a Il presidente Kennedy davanti alla placca inaugurale di un’iniziativa all’interno del programma di aiuti ”Alleanza per il Progresso”, Colombia, 17 dicembre 1961. 31 lungo i Paesi dei due continenti; i paradigmi di modernizzazione e le promesse di benessere erano le armi con cui pretendere lo schieramento a favore di uno dei due blocchi, attraverso l’attuazione di politiche che non erano altro che la messa in pratica delle teorie di Rostow tanto in auge all’epoca. È possibile individuare un parallelismo tra l’esportazione della mo dernizzazione di Rostow e l’esportazione della democrazia in Iraq teorizzata dall’amministrazione Bush e legata alla retorica della democrazia. Una democrazia – globale – che appariva sotto attacco all’indomani dell’attentato al World Trade Center dell’11 settembre 2001. Persino Le Monde, notoriamente scettico verso le politiche USA, titolò in prima pagina “We are all Americans”. Così facendo l’allora presidente George W. Bush poté elaborare la sua dottrina, plasmata sul modello di Reagan, forte del sostegno europeo di fronte alla prospettiva di avere un comune nemico da fronteggiare e sconfiggere. Esattamente come ai tempi della Guerra fredda, gli Stati Uniti ritrovavano il loro ruolo e la loro posizione andando a riempire il vuoto strategico lasciato dal crollo dell’Unione Sovietica e dall’impossibilità di dare un nome e un volto alla minaccia. Oggi terrorismo, ieri comunismo. Quello che negli anni Ottanta Reagan definiva empire of evil, l’impero del male, veniva definito da Bush come axis of evil, l’asse del male. L’effetto rievocativo fu sensazionale, e la miscela esplosiva fatta di patriottismo, sicurezza e promozione della democrazia sembrava funzionare, rimettendo in moto la potente macchina globale, per troppo tempo lasciata senza una guida. Gli Stati Uniti erano saldamente di nuovo seduti al posto di comando, quello che lo storico Lundestad definisce letteralmente “driver’s seat”, posto di guida, e si poteva pertanto tornare a ragionare da “America”, e a imporre la propria visione del mondo, esportando democrazia a suon di bombe e a colpi di proiettili. Quello a cui però oggi bisogna sottrarsi, nel delirio di onnipotenza in cui troppo spesso sono cadute le amministrazioni statunitensi, è il ragionamento basato esclusivamente su simboli, che non permette di tenere in conto quelle variabili che prescindono dai posti di comando di Washington. Questa è probabilmente la ragione per cui il modello di modernizzazione che gli Stati Uniti impongono al resto del mondo fallisce: la poca attenzione alle peculiarità locali e regionali, e la fondamentale assenza di una middle class sulla quale far attecchire i valori democratici. Diventa quindi importante cercare di cogliere l’evoluzione del legame di stampo statunitense tra la sicurezza nazionale e quella globale. La fine della Guerra fredda ha imposto un cambio radicale nella gestione degli scenari di guerra in cui gli Stati Uniti sono coinvolti. Il disimpegno militare non ha però intaccato la leadership incontrastata dell’unica superpotenza rimasta sulla scena 32 globale dopo l’implosione dell’impero sovietico. La modernizzazione in campo bellico rende possibile il paradosso di una guerra senza responsabilità, una guerra senza volto che non deve far i conti con le esigenze elettorali. È il caso delle cosiddette outsourced wars, guerre che contano sul campo la presenza di compagnie militari private a sostegno o in sostituzione degli eserciti nazio nali, chiamate private military companies (PMCs). Si tratta di squadre speciali che operano per conto del governo che le paga, offrendo sostegno logistico nella pianificazione degli interventi, partecipando direttamente a conflitti interni e internazionali o provvedendo all’addestramento e all’equipaggiamento delle forze dell’esercito dello Stato per cui lavorano. Un rapporto pubblicato nel 2009 dal PRIO – International Peace Research Institute di Oslo – spiega che gli Stati Uniti sono il Paese con il maggior numero di contractor sul proprio libro paga (nella prassi si parla di “contractor” per indicare le persone che lavorano per queste società). E un altro studio dell’INSS – Institute for National Strategic Studies – spiega come in Iraq e Afghanistan l’utilizzo di contractor ha raggiun to numeri senza precedenti nelle operazioni militari americane. Per il governo americano i vantaggi di affidarsi a forze esterne derivano dalla maggiore velocità di dispiegamento sul territorio e dalla riduzione del numero di soldati americani impiegati nel conflitto e – di conseguenza – dalla riduzione delle “perdite ufficiali”. Dal gennaio del 2010, infatti, in Iraq e in Afghanistan sono morti più soldati appartenenti a milizie private che marines. Queste vittime sono – nel gergo militare – “off the books”, non sono registrate nei rapporti del Pentagono, la sede del quartiere generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti – ma in quelli del Dipartimento del Lavoro – e quindi rimangono escluse dal dibattito politico sui numeri di una guerra. Innegabile è anche il vantaggio economico: si risparmia sugli stipendi oggi e soprattutto sulle pensioni domani, dato che i contratti sono stipulati a tempo determinato e vincolati alle singole missioni. Gli svantaggi di affidare questioni ritenute di sicurezza nazionale a mercenari senza bandiera derivano invece dalla difficoltà di verificare la qualità del personale arruolato, e dal fatto che il governo non ha il pieno controllo delle interazioni quotidiane di queste truppe con la popolazione locale. Il coinvolgimento di mercenari sul campo di battaglia non è un fenomeno nuovo – presero parte anche alle guerre d’indipendenza ai tempi di George { La fine della Guerra fredda ha im posto un cambio radicale nella gestione degli scenari di guerra in cui gli Stati Uniti sono coinvolti 33 } Washington – ma dagli anni Novanta è diventato sempre più comune rivolgersi alle compagnie di contractor. Uno studio dell’ICIJ – International Consortium of Investigative Journalists – rivela l’esistenza di almeno 90 compagnie militari private che operano in più di 110 Paesi nel mondo. Insomma, “l’amministrazione più trasparente della storia” – così definita dal presidente Obama in videoconferenza su YouTube – è coinvolta in scenari di cui non si trova traccia nei telegiornali della sera. In una testimonianza al Congresso, il giornalista Jeremy Scahill ha descritto così le “guerre ombra” dell’amministrazione Obama: “Se c’è stato un cambiamento, consiste nel fatto che Obama sta colpendo con più forza e in un maggior numero di nazioni di Bush. Sotto l’amministrazione Bush, le forze speciali statunitensi operavano in 68 nazioni. Sotto il presidente in cari ca operano in 75 nazioni”. Appaltare la propria sicurezza a compagnie private è quindi un rischio-opportunità che gli Stati Uniti sono disposti a correre per condurre le loro politiche mondiali a luci spente. Così facendo, la middle class in America non ha l’esatta percezione delle politiche militari intraprese dalle diverse amministrazioni. Mancando questa percezione, è possibile costruire il consenso e – in periodo elettorale – uniformare la classe media ai problemi che la attanagliano da vicino e allontanarla da quelli che invece non sembrano rappresentare emergenze. I numeri ufficiali delle guerre, grazie ai contractor, non rappresentano un’emergenza nazionale. La middle class può pertanto dormire sonni tranquilli. BIBLIOGRAFIA Baritono R., Vezzosi E. (a cura di), Oltre il secolo americano?: gli Stati Uniti prima e dopo l’11 settembre, Roma, Carocci Editore, 2011. Collins A., Contemporary Security Studies, Oxford, Oxford University Press, 2013. De Grazia V., L’Impero irresistibile. La società dei consumi americana alla con quista del mondo, Torino, Einaudi, 2006. Del Pero M., Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776–2011, Roma, La terza, 2011. Del Pero M., L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948– 1955), Roma, Carocci, 2005. Ellwood D.W., Una sfida per la modernità. Europa e America nel lungo Novecen to, Roma, Carocci, 2012. Fox J., The Myth of the Rational Market, Petersfield, Harriman House, 2010. Lundestad G., The United States and Europe since 1945: From “Empire” by invita tion to Transatlantic Drift, Oxford, Oxford University Press, 2004. Nolan M., The Transatlantic Century: Europe and America, 1890–2010, Cambridge, Cambridge University Press, 2012. 34 Romero F., Storia della Guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Ei naudi, 2009. Rostow W., The Stages of Economic Growth: a non-communist manifesto, Cambridge, Cambridge University Press, 1960. Savranskaya S., “Human Rights Movement in the USSR”, in Nuti L., The Crisis of Détente in Europe: From Helsinki to Gorbacev, 1975–1985, New York, Routledge, 2009. Testi A., Il Secolo degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 2008. Westad O.A., The Global Cold War: Third World Interventions and the Making of Our Times, Cambridge, Cambridge University Press, 2007. SITI CONSULTATI http://psm.du.edu/media/documents/reports_and_stats/think_tanks/inss_ hammes-private-contractors.pdf. h t t p : / / w w w. c a t o . o r g / s i t e s / c a t o . o r g / f i l e s / a r t i c l e s / i s e n b e r g private%2520military-contractors-2009.pdf. http://www.govtrack.us/congress/bills/110/s674/te. 35 L’ascesa del ceto medio in Asia e nel mondo arabo: Dai primi passi alle rivolte neoliberiste TOMMASO CASALONE, ANNA CHIARA FILICE, MARTA GIUSTI,GIOVANNI GOTTUSO, GIULIA SACCHETTI* L ’avvocato col panciotto, il banchiere con il monocolo, l’insegnante di italiano con l’abbecedario sgualcito insieme ai lavoratori specializzati della Ford e agli ingegneri occhialuti delle fabbriche Knauf sono, per lo storico, borghesi. Così la middle class diventa una categoria ampia, inclusiva, che allarga la sezio ne centrale della piramide sociale. Durante la lezione del professor Trentin e di quella del professor Fiori la riflessione sulla middle class, le sue pareti scivolose, le sue specificità, i suoi movimenti, è stata estesa geograficamente all’Asia orientale. “Si può parlare di middle class in Cina? E in Corea del Sud?”. Questo è stato il quesito a cui la lezione di Fiori ha cercato di rispondere, mentre il professor Trentin si è concentrato sul seguente interrogativo: “Quanto di europeooccidentale esiste nella middle class araba e quali sono, invece, le specificità di questo soggetto socio-politico?”. In un percorso cronologico sul Medio Oriente, l’inizio di una serie di fenomeni sociali quali l’accumulazione della ricchezza, la possibilità di fare impresa { Si può parlare di middle class in Cina? E in Sud Corea? Quanto di occiden tale esiste nella middle class araba? * Dalle lezioni di Massimiliano Trentin e Antonio Fiori. 36 } e l’emergere di nuovi sbocchi commerciali, si ha con il Tanzimat, il cosiddetto periodo di riforma. Così prende forma una classe media caratterizzata da proprietà, educazione e fedeltà al governo, l’effeddiyya. Una sorta di borghesia imperiale, laica e istruita, che include non solo i funzionari di una pubblica amministrazione modellata sull’esempio europeo, ma anche commercianti, liberi professionisti o, dopo la riforma agraria del 1858, i figli dei nuovi imprenditori agricoli. Con la Prima guerra mondiale, la rivoluzione kemalista e la fine dell’Impero Ottomano questa classe sociale acquisisce anche in tutto il mondo arabo sempre maggior potere e comincia a autodefinirsi tramite modelli di consumo (cosa si fuma, come ci si veste), ideologia politica (nazionalismo arabo e liberalismo) e, soprattutto, attraverso la professione di fede musulmana. Nascono in questo periodo numerosi giornali e riviste e, in tal modo, si ricerca l’omogeneità culturale, linguistica e amministrativa. Nella promozione della nuova leadership della classe media araba sono le donne a giocare un ruolo molto rilevante. Sono, infatti, inserite in movimenti emancipazionisti che sostengono il più delle volte le battaglie liberali della middle class. La borghesia si trova a lavorare nelle amministrazioni pseudo coloniali instaurate dagli europei (gli arabi chiamano questo periodo Mudallaha, colonialismo de iure). In questo frangente l’Europa fornisce modelli di consumo: gesti, riti, comportamenti come, ad esempio, riunirsi nei club. A partire da questo momento, dunque, comincia quella che può essere definita l’europeizzazione della middle class araba. Tale processo, però, contribuisce anche alla frammentazione e alla disgregazione della società: i “mo dernisti” (appartenenti alla classe politicamente dominante) si distinguono dagli “indigeni” (legati ai valori tradizionali, sociali e religiosi). Dopo la Seconda guerra mondiale, una volta ottenuta l’agognata indipendenza, le nuove (middle class urbana europeizzata) e le vecchie (agrari, autorità tribali) forze sociali si alleano per governare i nuovi Stati. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta il modello di consumo occidentale, assieme all’importanza riservata alla proprietà, all’istruzione e alla respectability, divengono elementi caratterizzanti di fette sempre più ampie della società: i figli dei proprietari fondiari, gli amministratori locali, le élites tribali. Le caratteristiche d’accesso rispecchiano quelle della middle class occidentale, principalmente proprietà e istruzione. Non si può dire lo stesso per i tratti identificativi e autorappresentativi: il linguaggio non è soltanto emancipazionista verso l’interno (dall’autorità ecclesiastica, dai vecchi proprietari fondiari, dai legami familiari e tribali), ma anche nazionalista verso l’esterno, nel tentativo di emanciparsi dall’antico legame di dipendenza (politica o economica) contratto in passato con il mondo europeo. I modelli di consumo sono gli stessi, 37 cioè orientati ai “lussi” europei (sigarette, abiti alla moda, musica, film) ma con la differenza che tutto ciò deve essere prodotto in loco. Questa è la fetta di middle class che finisce nei partiti di massa come il Bath o che sostiene Nasser nella nazionalizzazione del Canale di Suez. L’Occidente, dunque, ha esportato beni di consumo dai porti di Barcellona e Amsterdam e, con essi, desideri e aspirazioni, ma quello che ha contribuito a mettere in moto è stato anche un processo di diversificazione sociale con le sue importanti specificità. Negli anni Settanta, complici le liberalizzazioni e l’apertura delle frontiere, molti appartenenti al ceto medio abbandonano il paese d’origine e si arricchiscono all’estero per poi tornare, importando di nuovo stili di vita, più vicini ai valori occidentali. Questi nuovi ricchi sono rappresentati dalla nuova classe politica al potere che, portatrice di istanze liberali, promotrice di privatizzazioni e dell’apertura apertura ai mercati globali, seguendo le contingenze economiche e politiche contemporanee, metterà fine al vecchio nazionalismo e statalismo. Questa tendenza sarà combattuta dalla effediyya, che continuerà a pretendere Pubblicità, Egitto, 1950. 38 di rappresentare la nazione e il popolo, non più tramite i partiti di massa ma con strategie individuali per lo più differenti le une dalle altre, tramite piccole gilde, quali Hamas o i partiti della sinistra radicale. Infatti, mentre i nuovi ricchi portano avanti privatizzazioni, speculazioni edilizie e una progressiva finanziarizzazione dell’economia, la middle class subisce le conseguenze di questi processi, perdendo i suoi tratti distintivi, in primis il lavoro, poi la proprietà della casa e dopo ancora l’istruzione. È questa middle class scontenta, impoverita e assoggettata che diverrà il nerbo dei movimenti di rivolta scoppiati tra il 2010 e il 2012, conosciuti con il nome di Primavera araba. Strade molto differenti sono state invece prese nella definizione della mid dle class nei due paesi dell’Asia orientale qui considerati. Una definizione che risulta problematica a causa della difficoltà di stabilire se effettivamente si possa parlare di classe media secondo gli stessi parametri sopra utilizzati. Come delineato nella lezione del professor Fiori, il primo elemento riscontrabile nel caso cinese risulta essere la totale mancanza di qualcosa di propriamente definibile come “classe media” nel periodo che va dal 1949 – anno in cui Mao Tse-Tung instaura la Repubblica Popolare Cinese – fino alla morte del leader nel 1976. La ragione di tale mancanza risiede nel dominio dell’ideologia politica maoista e nel concetto di equità che il partito unico faceva propria. L’equità si fondava sulla negazione delle disuguaglianze sociali e di classe e si riconosceva nel carattere prevalentemente rurale della società. Le uniche due classi ammesse dal partito erano infatti quella dei lavoratori e quella degli agricoltori, mentre era totalmente assente una porzione centrale della scala sociale. Le ripetute offensive di Mao contro gli intellettuali avevano, inoltre, l’obiettivo di controllare un milieu culturale dal quale potessero giungere sfide a questa visione rigida e programmata della società cinese. Nonostante ciò, non fu solo l’ideologia a contribuire all’assenza di forme di organizzazione sociale identifi cabili con la middle class. L’eredità lasciata dalla natura arcaica e agraria della società tradizionale, infatti, era molto forte e la Cina e dopo un secolo di umilia zioni e guerre rimaneva un Paese estremamente povero e sottosviluppato, nel quale però le ricette economiche del maoismo non diedero i risultati sperati. Tale situazione di immobilismo mutò nel 1978 quando, dopo la morte di Mao – seguita da una violenta lotta per la successione –, emerse finalmente la personalità di Deng Xiaoping. Il nuovo leader si fece fautore di un processo di rinnovamento riassunto nella cosiddetta teoria delle “quattro modernizzazioni” (della scienza, dell’industria, dell’economia e dell’esercito). Fu questo periodo di riforme che permise la formazione di nuove forme sociali, identificabili soprattutto in un’imprenditoria privata di dimensioni contenute, la cui esistenza fu resa possibile – una volta superate le barriere dell’ideologia – grazie alla parziale privatizzazione dell’industria a capitale statale. L’abbandono 39 dell’ortodossia marxista, inoltre, fece sì che agli agricoltori venisse permesso di trattenere parte del surplus, favorendo la nascita di piccoli proprietari, mentre fino a quel momento il lavoratore era colui che non poteva fare altro che svolgere lavori manuali sia nelle industrie di stato che nello stesso settore agricolo. A ciò si aggiunse – com’era accaduto con la nascita della effeddiyya nel mondo arabo – il raggiungimento di livelli di istruzione più elevati. La modernizzazio ne diede avvio anche a una parziale apertura economica verso l’esterno, con la creazione di enclaves commerciali nel sud-ovest del Paese che permisero l’afflusso di beni e merci occidentali, inaugurando un trend sempre più liberale nelle politiche commerciali ed economiche, riflesso anche nella trasformazione di usi e consumi della società. Questi cambiamenti ebbero l’effetto di contribuire al miglioramento nel tenore di vita della popolazione e hanno tutt’oggi l’obiettivo di condurre la Cina, con tassi di crescita sostenuti, in una nuova fase di prosperità e armonia sociale che il premier Hu Jintao nel 2005 ha definito proprio col nome di “società armoniosa”, una formula che coniuga le istanze marxiste del partito alle radice più profonde della concezione tradizionale cinese del mondo e della società. Se si identificano questi settori della società che hanno beneficiato finora dell’espansione dell’economia cinese con il concetto di classe media, è necessario però specificare che tale fenomeno sociale è stato strettamente control- Televisori in esposizione in un grande magazzino di Pechino, 1981. 40 lato e guidato dal governo e dal Partito comunista. La legittimità stessa del regime risiede nella sua capacità di permettere la continuazione del benessere e l’ampliamento della base sociale che ne beneficia. Nel momento in cui questa dovesse invece impoverirsi o perdere i benefici economici conquistati, le fondamenta del potere comunista in Cina verrebbero messe in discussione. Come riscontrato anche nell’analisi condotta sulla Corea del Sud, si è notato come la formazione della classe media in Cina e in Corea sia stata un processo fondamentale nella auto-legittimazione del governo: semplificando il fenomeno, i regimi al potere crearono le classi medie al fine di perseguire i propri scopi politici e consentire la continuità del regime stesso, eliminando i tentativi di creare alternative al potere costituito. L’aspetto che caratterizza maggiormente queste comunità sociali è la modalità di consumo dei nuovi beni prodotti resa possibile grazie al possesso della ricchezza, possesso consentito con la finalità di rendere la popolazione mansueta e controllabile e funzionale alla legittimazione del regime. Nel caso specifico della Corea del Sud fu il governo militare del generale Park a favorire, a partire dal 1961 in poi, il processo di stratificazione sociale che delinea i tratti della classe media coreana. La necessità di ottenere una legittimazione che trascendesse i fattori di forza e violenza caratteristici di una presa di potere militare indusse Park a cercare garanzie di stabilità ed equilibrio governativo attraverso la creazione in vitro e la composizione di fattori sociali ed economici in grado di assicurare una legittimazione sia interna che esterna (solidità, potere regionale e capacità di contrattazione con le grandi potenze). In quest’ottica la classe media coreana venne investita di un ruolo politico funzionale agli obiettivi di stabilizzazione governativa e la poderosa crescita economica fu una via per rafforzare questa investitura: ciò accadeva nel sistema di chaebol. Queste ultime erano conglomerati industriali di enormi dimensioni che svolgevano anche la funzione di “microcosmi di welfare”: se lo Stato coreano creava i presupposti legislativi, le chaebol erano i provider, offrivano cioè lavoro e protezione sociale a fette consistenti della forza lavoro. Il ceto medio inserito in questa peculiare forma di organizzazione economica era simbolicamente raccolto in quartieri residenziali costruiti ad hoc e aveva un’attitudine mansueta e conciliante nei confronti di un regime autoritario che era, però, la garanzia della condizione di relativo benessere. Proprio questo fattore economico, unito alla contrapposizione sociale dei movimenti studenteschi contrari al regime militare di Park, delinea la classe media coreana. Peculiarità di questa fetta di popolazione è, infatti, la mancanza di una coscienza di classe, lacuna allevata con “amore” da un progetto governativo che preferì premere sull’acceleratore economico piuttosto che cambiare marcia su istruzione, educazione e formazione culturale. A conferma di ciò, solo a metà degli anni 41 Ottanta, quando una crisi economica sconvolse il Paese e le rivendicazioni studentesche favorevoli alla liberalizzazione politica presero forza, la classe media coreana ricoprì quel ruolo di elemento di cambiamento sociale ed espressione dell’identità nazionale che aveva già assunto all’epoca dell’instaurazione del regime, diventando ora però promotrice della democrazia. Con le dovute differenze, quello coreano è un percorso che ricorda l’evoluzione della classe media nel mondo arabo ma si distingue nettamente dal caso cinese. La middle class cinese, nel momento in cui ne avrebbe avuto l’opportunità – durante i fatti del 1989 a Tienanmen – non raccolse le rivendicazioni degli studenti e degli intellettuali, così come avvenuto in Corea e, negli ultimi anni, nel mondo arabo con le primavere arabe. La classe media cinese rimase e rimane un ceto consumatore ma non un’espressione del cambiamento sociale. Il professor Fiori, partendo proprio da quest’ultima considerazione, arriva a suggerire che il ceto medio cinese potrebbe fungere da fulcro per la destabilizzazione e il cambiamento della società solo qualora raccogliesse e si facesse portavoce di tali rivendicazioni. Come sottolineato in precedenza, l’analisi comparata della classe media araba, cinese e coreana porta a concludere che, così come in Occidente, la middle class è concepita come un potente strumento di legittimazione e di coesione sociale. La comunanza nelle dinamiche di formazione e identificazione delle classi medie mediorientali e asiatiche sembra tuttavia non determinare una stessa comunanza di carattere e attitudine. La reazione alla crisi economica, infatti, presenta forme e declinazioni completamente diverse nelle aree considerate, inducendo a chiedersi cosa abbia a tal punto diversificato le tre esperienze. Il confronto tra quanto appreso dalle due lezioni conduce a sostenere che per comprendere le classi medie occidentali o orientali e delinearne, così, un processo evolutivo, è necessario analizzare la coscienza che esse hanno del proprio ruolo politico e del potere che esse detengono nell’esercitarlo. Se da una parte l’inerzia della classe media cinese è facilmente riconducibile all’assenza di tale coscienza, dall’altra la potenza di quella mediorientale è ciò che ha portato a rivendicazioni cosi violente e drammatiche da generare una vera e propria rivoluzione. { Così come in Occidente, la middle class è concepita come un potente strumen to di legittimazione e coesione sociale 42 } BIBLIOGRAFIA Asef B., “Activism and Social Development in the Middle East”, in International Journal of Middle East Studies, Vol. 34, No. 1, Febbraio 2002, pp. 1–28. Di Nolfo E., Storia delle relazioni internazionali, 1918–1999, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 752–754, 1293–1295. Chen J., Lu C., “Democratization and the Middle Class in China: The Middle Class’s Attitudes toward Democracy”, in Political Research Quarterly, Vol. 64, No. 3, 2011, pp. 705–719. Fewsmith J., “The Political Implications of China’s Growing Middle Class”, in China Leadership Monitor, No. 21. Watenpaugh K. D., Being Modern in the Middle East, Princeton, Princeton University Press, 2006. Zhou X., Chinese Middle Class: Reality or Illusion?, http://gpsw.doshisha.ac.jp/ pdf/s_071109b.pdf. 43 Pubblicazioni degli ex-alunni EDOARDO ANDREONI • Tesi di Laurea Magistrale (2012): Strength and Optimism: Ronald Reagan’s Soviet Policy beyond the Neoconservatives, Università di Bologna (Sede di Forlì), Facoltà di Scienze Politiche “Roberto Ruffilli”, Tutor: Mario Del Pero. LUCIANA BARONE • Tesi di Dottorato (2012), L’amministrazione Nixon e il Cile di Allende, 1970– 1973, Università del Salento, Tutor: Giuliana Iurlano. • “Le elezioni presidenziali cilene del 1970 e la spoiling operation degli Stati Uniti”, in Eunomia, 1/2013, pp. 273–296, http://siba-ese.unisalento.it/index. php/eunomia/article/view/13018. The official entry of Latin America in the bipolar competition had given way to a real anti-Communist crusade in the region since the strong popular discontent, due to economic backwardness and political instability, offered the favorable humus to Communist infiltration in the Western Hemisphere. Thus, it was necessary to maintain a US sphere of influence within the Southern continent. The possibility, more and more concrete, that the Chilean presidential election of 1970 would bring to power an avowed Marxist posed to the US government one of the most serious challenges it had ever faced in this area. Therefore, concerned at the consequences that the victory of a socialist candidate could have on the US economic and political interests in Chile – in addition to serious geopolitical repercussions throughout the region –, the United States pledged to prevent such an eventuality. So, it was decided to finance a spoiling operation against the Popular Unity, the communists, socialists and left-wing elements coalition who supported Allende. In order to achieve this objective, the CIA resorted to covert operations and started an intensive propaganda campaign, relying on the fear that the victory of Allende would be identified with violence and Stalinist repression. Despite these efforts, the US “spoiling campaign” was not successful and the Socialist candidate Salvador Allende won the 1970 presidential election, although by a narrow margin. 44 MATTEO BATTISTINI • “Un mondo in disordine: le diverse storie dell’Atlantico”, in Ricerche di Storia Politica, 2/2012, pp. 173–188. The article reconstructs the several political genealogies of Atlantic history and the equally many methodological approaches and interpretations of the Atlantic world, discussing how these transnational histories relate to the latest historiographical perspectives on global history. This review essay discusses the “white” Euro-American Atlantic, the “black” and “red” Atlantic, and the commercial and consumerist Atlantic. It does so by highlighting how different tonalities concur to define a diverse and changing Atlantic, depending on the subjective, geographic, cultural or social perspective one adopts. From different points of observation, the article focuses on the reasons for the divergence between Atlantic history and political history, and the opportunities of dialogue between the two. • “Living in Transition in the Atlantic World: Democratic Revolution and Commercial Society in the Political Writings of Thomas Paine”, in Nuevo MundoMundos Nuevos, Coloquios, Puesto en línea el 27 junio 2012, http://nuevomundo.revues.org/63485. By reconstructing Thomas Paine’s vision of the Atlantic world, this paper will discuss three main points. Firstly, it will be demonstrated that Paine’s political thought articulated an understanding of the historical and theoretical relationship between commercial society and representative democracy. This will highlight the convergences and divergences between the American and French revolutions, and the mechanisms of political and social transition that moved the Atlantic world into the nineteenth century. Secondly, it will be argued that this historical and theoretical relationship between commercial society and representative democracy, found in Paine’s work, claims to reconsider contrasting conceptions of Atlantic history. From its beginnings, Atlantic history has been treated as political history, but new Atlantic studies – such as social and economic histories or histories of material culture – have done much to eclipse the political aspects of the history of the Atlantic world by looking at other, equally interesting factors. By reading Paine, this paper will instead argue that a faithful account of Atlantic history cannot hold on to a strict distinction between the political and social. Instead, the political and the societal are interrelated, both conceptual camera lenses through which the Atlantic world during this era can be more accurately captured. • Una Rivoluzione per lo Stato: Thomas Paine e la Rivoluzione americana nel mondo atlantico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 257. Over the course of his intense political and intellectual life, Thomas Paine 45 • assumed different semblances and maintained sometimes discordant political positions. In the book we will meet the officer of excise of the British State against whom the north American colonies would declare their independence. We will meet the collaborator of the Superintendent of Finances of the Continental Congress. We will again meet the man of the bank, worried about protecting what he thought of as a fundamental financial institution for the development of a national market against popular protests. These diverse faces do not reflect an incoherent author or an opportunistic politician, but show a man capable of interpreting the profound and contradictory political and social transformations of his time, as few others protagonists of the revolution were capable. And these transformations outlined the historical context in which the decisive confrontation for real independence took place, that is the construction of the early American State. “Harold Lasswell, the ‘problem of World Order’, and the Historic Mission of the American middle class”, in F. Fasce, M. Vaudagna, R. Baritono, Beyond the Nation: Pushing the Boundaries of US History from a Transatlantic Per spective, Torino, Otto, 2013, pp. 225–254. The author reconstructs Lasswell’s main political contribution to American social science: his universal conception of the middle class as a social and cultural device that shaped both the American sociologists’ systemic understanding of society and the consensual framework of the American world politics after the World War II. His policy science not only defined the function of symbols and values in society, but had also forged the term and the vocational role of the middle class that was promulgated by the liberal historians of the fifties, and that actually became the “common sense” of the American political culture during the Cold War: as middle class was a “state of mind”, it could be “society-wide”, namely all peoples, social groups and personality types could become part of it, enjoy its moral privileges and concur to its historic mission. ALBERTO BENVENUTI • Tesi di Dottorato (2013): Il nazionalismo afro-americano e la Cuba rivoluzio naria dal 1959 agli anni del Black Power, Tutor: Stefano Luconi. My research takes into consideration the political and cultural exchanges between revolutionary Cuba and some African American leaders in the Sixties and Seventies. While civil rights advocates distanced themselves from Castro’s Cuba, many black radicals perceived the alliance with Cuba as an opportunity to internationalize their struggle. As they were promoting revolutionary Marxism and Third-worldism, Cuban guevarism represented a 46 source of inspiration for them. The research argues that Black Power internationalism had its roots in the black nationalists’ support for the Cuban revolution, and it also shows that, even if the Castro regime initially supported black radicals’ protests, the ideological incompatibility between socialism and black nationalism caused many clashes between African Americans and Cuban communists. This incompatibility became more and more obvious when Ernesto Guevara left Cuba in 1965. Since then, the growing political influence of the Soviet Union contributed to worsen black Americans’ relations with Cuba: USSR’s strict Marxism – many blacks argued – was not the solution to solve the racial problem in the US. CRISTINA BON • Alla Ricerca di una più perfetta Unione. Convenzioni e Costituzioni negli Stati Uniti della prima metà dell’800, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 291. As an instrument for revising the fundamental laws of the State, the device of the constitutional convention proved vital to reach that idea of “more perfect Union” called for by the Charter of Philadelphia in 1787. Up to now, though, this institutional device has been exclusively used by the member states of the Federation. By analyzing both the procedures and issues addressed by the constitutional revision processes at the state level, the first aim of this book is that of identifying the contribution given by the states to the creation of a “more Perfect Union”, during the so called antebellum period. Finally, in the light of a political context punctuated by a series of federal crisis centered on the slavery issue, this book reflects upon the potential links between the constitutional development of the states and the political and institutional dynamics which brought the Federation to the edge of the Civil War. • “Verso una more perfect union. Problemi di rappresentanza politica e revisione costituzionale negli Stati Uniti del primo Ottocento”, in L. Scuccimarra, G. Ruocco (a cura di), Il governo del popolo. Rappresentanza, partecipazione, esclusione alle origini della democrazia moderna, vol. 2, Dalla Restaurazione alla guerra franco-prussiana, Roma, Viella, 2012, pp. 375–399. This essay discusses the constitutional origin and the development of the political representation in the United States, both at the Federal and at the state level. In particular it focuses on the relation between the issues of legislative apportionment, taxation system and slavery. After considering the way these three issues were discussed during the Constitutional Convention of Philadelphia, this essay will analyze the consequences of the federal representative system on the choices adopted by the states and their democratic development in the first half of nineteenth century. In 47 • • particular the essay will focus on the Southern states, considering the way in which the debate over the nature of slavery was deeply intertwined with the problem of the state-legislative apportionment. “Governatori sudisti e crisi costituzionali negli Stati Uniti della prima metà dell‘800”, in Storia, Amministrazione, Costituzione, 2/2011, pp. 7–47. With particular reference to the first half of the nineteenth century, the American historiography has always stressed the limited role played by the state governors since the origins of the federal system. This essay aims at revaluate the overall importance and effectiveness of the state Governors in the first half of the nineteenth century, with a particular focus on the Southern states and the comparison of two case studies. “Da Covenant a Convention: riflessione sulle origini dell’esperienza costituzionale statunitense”, in Cahiers Adriana Petracchi. Quaderni di studi storici, 2/2011, pp. 143–176. This essays analyzes the concept of convention and its political development at the origin of the US institutional experience. DAVIDE BORSANI • La NATO e la guerra al terrorismo durante la presidenza di Bush, Roma, Aracne editrice, 2012, pp. 304. NATO entered the 21st century unprepared to tackle international terrorism. The 9/11 attacks showed its strategic weakness, while putting the US on a revolutionary path. Washington started a “hyper-securitization” process, which was questioned by some allies in Europe. The loyalty of the UK was guaranteed, but France and Germany opposed the militarization of the US foreign policy. The Western cohesion was at risk and the repercussions on NATO were sounding. When the major combat operations ended in Iraq and Afghanistan, the insurgencies revealed the US deficiencies to tackle stabilization and reconstruction operations. Washington was forced to ask for political and military support to Europe and, at the same time, Paris and Berlin realized their national interests had the need of the US support. Thus, the crisis was left behind. However, at the end of the Bush years, differences between the allies remained about the role of NATO, its commitments in the Middle East and the burden sharing effect. • “L’inevitabile declino? L’ordine occidentocentrico alla prova dell’understretching”, in Geopolitica, 1/2013, pp. 65–76. In Europe and the United States, the financial crisis has caused significant effects on the organization of State finances and, as a consequence, on the politics of power. Backed by the public opinion, the “welfare state” has been privileged over the “warfare state”. Thus, the United States has started 48 • a process of withdrawal from the international theatre, while Europe does not seem to have the resources and the willingness to take on new geopolitical responsibilities. The bridge which connects the two sides of the Atlantic rests on two unstable pillars. If not reversed, the flow of power exiting from the West, could then change the equation of the global balance of power with radical consequences for the current world order. “La politica estera degli Usa, la visione ‘reaganiana’ di Mitt Romney”, in Isti tuto per gli Studi di Politica Internazionali (ISPI) Analysis, 117/2012. The most part of the US public opinion generally remembers the 80s as a successful decade, characterized by a great economic recovery and the victory in the Cold War at the expense of the Soviet Union. Those years came after the uncertain 70s, when the US weakness was particularly visible. Many authors used to describe the President Ronald Reagan, as the leading “actor” of that patriotic renaissance. More than 30 years later, the ghost of the US decline is back. Mitt Romney, the Grand Old Party candidate for the presidential election to be held in November 2012, declared one of his main goals is to reverse this widespread perception. What is his perspective of the world politics? And, should he won the election, how would he act on the international stage to defend the US and Western interests around the globe? The article addresses these issues, focusing on the suggested historical parallelism between Jimmy Carter and Barack Obama, and – as a consequence – between Ronald Reagan and Mitt Romney. FRANCESCA CADEDDU • Tesi di Dottorato (2013): Democrazia e cattolicesimo negli Stati Uniti. La libertà di religione e il pensiero di John Courtney Murray, Università di Bologna, Tutor: Tiziano Bonazzi, Dottorato in “Europa e Americhe. Costituzio ni, dottrine e istituzioni politiche – Nicola Matteucci”, Scuola di Scienze Politiche, Università di Bologna. The work analyses the thought of John Courtney Murray from the political and theological perspective. It focuses on the influences of Catholic and non-Catholic intellectual circles on the categories used to interpret the history of Catholicism and American Catholics, and the relevance of the jesuit’s theory on freedom of religion for the integration of the Catholic community in the American society. • “Washington, 5/6/2012″, in Lettere internazionali, La rivista – il Mulino, 5 giugno 2012, http://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/ News:NEWS_ITEM:1632. A brief contribution on the issue of religious freedom raised by the Unites States Episcopal Conference to stop the so-called “birth control mandate”. 49 MICHELE CENTO • Tesi di Dottorato (2013): Una grande narrazione del capitalismo: potere e scienze sociali nel pensiero politico di Daniel Bell, Tutor: Maurizio Ricciardi, Cotutor: Francesco Tuccari. Dottorato in “Europa e Americhe. Costituzio ni, dottrine e istituzioni politiche – Nicola Matteucci”, Scuola di Scienze Politiche, Università di Bologna. This dissertation deals with Daniel Bell’s political thought between the post-war era and the Seventies. Bell’s political reflection appears to be, to say it in the words of J.-F. Lyotard, a “grand narrative” of capitalism. It points out the height of fordism by assuming the end of ideology, and then highliths the post-industrial transformations of capitalism, emphasizing the effects produced on power relations and the legitimacy of the socio-political system. In Bell’s view, capitalism is not only an economic system, but a complex social system which places individuals in the power structure by means of subordination and coordination processes. Therefore, “what holds a society together?”, apparently a sociological question, is the political question that marks his intellectual path. The link between politics and sociology marks Bell’s thought and shows how social sciences are assumed to be the political theory of modernity, insofar as they analyze the political side of social relations as well as the social element inherent to the workings of political institutions. • “Tra ‘Old South’ e ‘Old World’: i ‘Southern Agrarians’ e la critica conservatrice del progresso americano”, in Ricerche di Storia Politica, 1/2012, pp. 3–23. The essay deals with a lesser-known wing of American conservatism: antiprogressive and anti-industrial Southern Agrarian intellectuals, based at Vanderbilt University of Nashville (Tn.). Between the 1920s and the 1930s, they focused on a critical analysis of the self-representation of America as a progressive nation, and affirm the primacy of a traditional and agrarian Gemeinschaft over the modern and industrial society embodied by the United States. Their view lied on a reevaluation of the Old South intellectual heritage through the appropriation of elements of conservative European thought. The essay thus emphasizes the influence of Europe in shaping the Southern Agrarians’ vision of the traditional society. Such vision was markedly different from the conventional image conveyed by progressive and industrial America. Overthrowing the usual exceptionalist separation between Europe and America, the Southern Agrarians joined the intellectual struggle to redefine the American identity. • “Dalla fine dell’ideologia alla società post-industriale: Daniel Bell sociologo del potere”, in Scienza & Politica, 45/2011, pp. 81–99, http://scienzaepo50 litica.unibo.it/article/view/2716. The essay aims at overcoming the usual representation of the American sociologist Daniel Bell as the theorist – or the “ideologist” – of the end of ideology. As The Economist put it in his obituary in February 2011, Bell was one of the “great sociologists of capitalism”. In this essay I will make clear why I prefer this definition, reevaluating Bell’s works published after his famous book on The End of Ideology. Namely, I will focus on his reflections which stem from The Coming of Post-Industrial Society and The Cul tural Contradictions of Capitalism, where a clear analysis of the structural changes in capistalistic economies and the shortcomings of the Welfare State emerges. This analysis leads us to the political, economic and social crisis of the contemporary world. FRANCESCO CONDOLUCI • “La ‘sociocrazia’ nell’America tra Otto e Novecento. Il pensiero politico e sociale di Lester Frank Ward (1841–1913)”, in Annali della Fondazione Ei naudi, vol. XLVI (2012). This essay deals with the political and social thought of Lester Frank Ward (1841–1913). Ward was a relevant social and political thinker in the United States during the Gilded Age and the first decade of the Progressive Era. In his works, published between 1883 and 1906, and in a great number of articles, he supported rational and conscious planning to improve the condition of society, defended State interventionism against laissez-faire and developed an ideal of “sociocracy”, which he considered the scientific government of society by society. In this essay, I analyze Ward’s life in order to contextualize his ideas in a historical and biographical framework, especially focusing on his views on “sociocracy”. PAOLA CORDISCO • Tesi di Laurea Magistrale (2011): La caduta del Muro di Berlino nella stampa USA, Università Roma Tre, Tutor: Daniele Fiorentino. LORENZO COSTAGUTA • “Marxismo, identità e nazione: la vita e il pensiero di Daniel De Leon”, in Pier Paolo Poggio (ed.), L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Il capitalismo americano e i suoi critici, vol. III, Milano, Jaca Book, (2013), pp. 375–390. This essay discusses the life and thought of Daniel De Leon (1852–1914), the leader of the Socialist Labor Party of the United States. De Leon was born in Curaçao, a Dutch colony in the Caribbean Sea, and was educated 51 • between American and Europe, before moving to the United States in the 1870s. After a period as a Lecturer of International Law at Columbia University, in 1890 he became the most prominent leader of the SLP, a position he held until his death. The essay investigates De Leon’s thought from two different angles: on the one hand, it discusses his biography in order to consider the ways in which national and cultural influences shaped his intellectual production; on the other hand, it analyses writings and speeches with the objective of reconstructing the developments of his thought during the various phases of his life (the growth of the SLP during the 1890s; the failure of the Socialist Trade and Labor Alliance; the founding of the Industrial Workers of the World). “Social Norms and Legal Rules. A Comparison of the Theories of H. Hart, J. Rawls and F. Hayek”, in Annali della Fondazione Einaudi, vol. XLVI (2012), pp. 359–383. This paper sets out to analyze a group of liberal theories that take a social practice-based approach, namely those contained in The Concept of law by Herbert Hart; Political Liberalism and Justice as Fairness by John Rawls; The Constitution of Liberty and Law, Legislation and Liberty by Friedrich Hayek. This essay focuses on the sources of Law and its role in a modern society. It compares these theories in order to identify their negative and positive aspects. It argues that, while Rawls’s project is a fruitful evolution of Hart’s insights into legal jurisprudence, Hayek’s theory contradicts his own liberal stance and ends up embracing a conservative point of view. MATTEO DIAN • Tesi di Dottorato (2012), The Politics of Asymmetry. The evolution of the US-Japan Alliance, Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM), Tutor: Filippo Andreatta. • “The Shield and the Chrysanthemum. Missile Defense and the evolution of the Japanese Security Strategy”, in WARning, 1/2013. Japan is moving along a long-term trajectory to assume a “normal” security role, gradually eroding the self-binding prescriptions that have marked its foreign policy identity during the Post War era. Recently, this process has been accelerated by the emergence of new security threats in the East Asian security environment. In the short-term, the North Korean nuclear and ballistic program is the most immediate threat for Japan. In the longer term, Chinese military modernization and the increasing power projection capacity of the PRC represent the main strategic challenges. As a result of these trends, Japan is moving away from its traditional post-war selfrestraint and is attempting to craft a more assertive security strategy in 52 • • response to what it perceives as newfound security realities. The development of the US-Japan Theatre Missile Defense represents a crucial step in this direction. On the one hand, Japan’s participation in the Ballistic Missile Defense system represents the de facto overcoming a considerable part the legal and political underpinnings that had sustained the “Culture of Antimilitarism”. On the other hand, it contributes to redefine the Japanese role in the alliance with the United States, enhancing the interoperability of forces and promoting a unified chain of command and control. These developments are likely to encourage Japan to play a role of “hub nation” and active junior partner in the US-led military apparatus in East Asia. “No more a security consumer”, in ISPI Commentary, April 2013. The American pivot to Asia, the increasing military capabilities of China’s People’s Liberation Army (PLA) and the growing threat posed by the nuclear and ballistic program of the Democratic People’s Republic of Korea (DPRK), have accelerated the evolution of the US-Japan alliance that had started after the end of the Cold War. Even if Japan remains the cornerstone of the US engagement in the region, its bargaining power vis à vis the United States has diminished within the evolving security environment. This has forced Tokyo to rethink the main tenets of its security strategy. “Japan and the US Pivot to Asia Pacific”, in LSE IDEAS Strategic Update, January 2013. (Republished also as ETH Zurich ISN Report in February 2013). This paper analyses the consequences of the US pivot to Asia on the USJapan alliance and on Japanese foreign and security policies. On the one hand, the US pivot is reassuring for Tokyo, since it seeks to “rebalance” Chinese military ascendency and to strengthen extended deterrence in the region. On the other hand, it contributes to the acceleration of the “normalization” of Japanese security policies, speeding the process of overcoming the institutional self-binding prescriptions that underpinned Japan’s post-war pacifism. This process, inaugurated by the first post-Cold War renewal of the US-Japan Alliance in 1997 and culminating with the adoption of the “dynamic defence concept” in 2010 and the relaxation of the Three Principles of Arms Control in 2012, created a vicious cycle for Japan. During the post-war era, pacifist self binding prescriptions functioned as “anti-entrapment devices” preventing Tokyo from becoming involved in the conflicts that marked the Cold War in Asia. Today an increasingly “normal” Japan is no longer able to resist US pressure for a more active role in the alliance and less unequal burden sharing. Moreover, China’s military rise renders Tokyo ever more dependent on US forces. These trends compel Japan to accept further integration into the US military apparatus in the region and to take additional steps towards the definitive abandonment of 53 • • Japan’s pacifist identity. “State Capitalism: Can it Work?”, in Aspenia, July 2012. The Recent crisis has reawakened the battle of ideas between free market capitalism and alternative models. While the West seems to have no immediate answer to the question of how to rethink the relationship between real economy, finance and politics, Chinese state capitalism is looking like a possible option in terms of efficiency and growth. But behind the challenge to global governance posed by Beijing lurk many risks. “Hosts and Hostilities. Base Politics in Italy and Japan” in Silvio Beretta, Fabio Rugge, Alex Bekofsky, Italy and Japan. How Similar Are They?, London, Springer, 2013. One of the characteristic post war Japan and Italy share is the presence of a vast network of American bases on their sovereign territory. The aim of these bases varied since their edification. During the early postwar period they contributed to keep under control the former enemies. During the Cold War, they were essential elements of a “double containment” policy. After the Cold War they become fundamental enablers of the American “command of the commons”. Even if the purpose of the US bases has been someway similar, “base politics” has had a very different impact on domestic and foreign policies of the two countries. In Japan the opposition has been constant and intense, while in Italy the American presence has been almost welcome. I will highlight how dynamics related to local, domestic and international politics determined these different approaches to the presence of the bases. CARLA KONTA • “Antiamericanismo e titoismo: gli anni Cinquanta e la ‘zona grigia jugoslava’” in Contemporanea, 1/2013, pp. 65–86. After the breaking of the Tito-Stalin political alliance in 1948, the Yugoslavian regime reviewed its national and foreign policy. It established the strategy and goals of the non-alignment movement and, at same time, an ambivalent Yugoslavian-American partnership. Anti-Americanism in Yugoslavia followed this political evolution; therefore the anti-American propaganda, shaped on the Soviet example in the 1940s, echoed the proclamations of the non-alignment international movement. For the Communist party and in particular for its leaders, anti-Americanism was an instrument to confirm the loyalty to the world-wide socialist cause, and legitimate their power in front of the public opinion. Furthermore, Anti-Americanism was meant to give evidence of Yugoslavian independence in front of western allies and to offer the example of a non-alignment foreign policy. Through 54 the analysis of the Yugoslavian press, the government policies, and the documents of the US Department of State (the Foreign Relations of the United States), the author has examined the phenomenon of the Yugoslavian anti-Americanism as a key to reach a better historical understanding of the “Yugoslavian grey zone”. FULVIO LOREFICE • Tesi di Dottorato (2012): For God’s sake! Lift the embargo to Spain. L’amministrazione Roosevelt, i liberal e la guerra civile spagnola, Università di Bologna, Tutor: Mario Del Pero. • “La politica del governo degli Stati Uniti nella Guerra civile spagnola”, in Ricerche di Storia Politica, 2/2013, pp. 183–198. The article discusses the historiographical debate on the policy of the United States government toward the Spanish Civil War. The essay focuses on two crucial issues. The first are the reasons of the “non-intervention”, which resulted in a series of legislative measures such as the “moral embargo” of August 1936, the Joint Congressional Resolution of January 1937, and the Neutrality Act of May 1937. The second issue are the reasons that rendered the Roosevelt Administration “deaf” to the requests of politicians and exponents of civil society to extend, at first, the embargo to Germany and Italy, and to eventually lift it at a later time. In particular, the author discusses the historiographical interpretations on Roosevelt’s behavior during the Civil War and compares the US and the Spanish historiographies. ANASTASIA MASSA • Tesi di Laurea Magistrale (2011): Ida B. Wells e la Lotta contro i Linciaggi negli Stati Uniti d’America, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, Tutor: Elisabetta Bini. The main aim of my thesis is to verify how influential the figure of Ida B. Wells was. She was one of the most important black activists during the end of nineteenth century in the United States of America. She began her activity for her community as a journalist trying to push the African-Americans to fight for their rights and to fight against the pressure of the white southerner. Wells, in 1892, decided to write Southern Horrors in which she described the horrors of lynchings and at the same time gave voice to the helpless black people. MARCO MORINI • Gli Spot Elettorali nelle Campagne Presidenziali Americane: Forme, Immagi ni, Strategie, Torino, Otto Editore, 2011, pp. 246. 55 • • • In a media-saturated environment in which news, opinions, and entertainment surround us all day on our television sets, computers, and cell phones, the political ad remains the one area where presidential candidates have complete control over their images. Political commercials use all the tools of fiction filmmaking, including script, visuals, editing, and performance, to distill a candidate’s major campaign themes into a few powerful images. Ads elicit emotional reactions, inspiring support for a candidate or raising doubts about his opponent. While commercials reflect the styles and techniques of the times in which they were made, the fundamental strategies and messages have tended to remain the same over the years. This research analyzes the political ads realized for TV and the Internet by the official campaigns of the four main candidates of the 2008 American primaries and presidential elections and the TV spots released by the political action committees (PACs). con Fabrizio Tonello, “Le elezioni di medio termine”, in Acoma. Rivista Inter nazionale di Studi Nord-Americani, 1/2011, pp. 9–18. The outcome of the 2010 congressional elections confirmed the expected political realignment. The Republicans won control of the House of Representatives, having gained 64 seats and surpassing the 52 it won when Bill Clinton took a midterms drubbing in 1994. Democrats held enough seats to keep the Senate but failed to make any pick-ups and lost six seats. 54 Tea Party candidates will be heading to Washington DC: alongside new members of the House of Representatives, Marc Rubio in Florida, Rand Paul in Kentucky and Mike Lee in Utah will be joining ultra-conservative Jim DeMint of South Carolina in the Senate. Republicans also won 8 governors in states that were administered by Democrats. “Uno Studio sulle Presidenziali Americane: L’Economia Conta?”, in Historia Magistra, 9/2012, pp. 41–56. The economy matters. This is one of the dogmas taught us by those who have studied the history of the American presidential elections. It is widely believed that the higher the unemployment rate is in November 2012, the more difficult it will be for Obama to gain re-election for a second term. But is this collective perception of the influence of economic data on individual electoral behaviour confirmed by statistical analysis of the history of presidential elections? This study shows that the most commonly used economic indicators are poor predictors of election outcomes, and also that variation in the approval rating of the incumbent president is a variable independent from the real economic data. “La rielezione di Obama. Un’analisi del voto presidenziale 2012”, in Qua derni dell’Osservatorio Elettorale, 68/2013, pp. 67–103. 56 • This article analyzes the 2012 American Presidential election. It is divided into five sections. The first one is focused on data and numbers of the electoral result. The second reflects upon the nature of the Electoral College. The third section examines in depth the vote of women and minorities, which are the two factors that mostly contributed to Barack Obama’s re-election. Then, there is a section that scrutinises the electoral campaign, describing the issues, the candidates’ strategy and the media coverage received by Obama and Mitt Romney. The fifth part concerns the two candidates’ fundraising and expenses. Finally, we resume the previous analyses and we formulate the hypothesis that a new electoral bloc is currently under formation: the idea is that there is a political realignment that is going to favour the Democratic Party. “I risultati delle elezioni per il rinnovo del Congresso. Le variabili pre-elettorali e la polarizzazione ideologica del nuovo parlamento”, in Acoma. Rivista Internazionale di Studi Nord-Americani, 2013, pp. 55–66. Democrats are clear winners of the 2012 elections: they won the Presidency, they have more seats in the Senate and they reduced their gap in the House. The reasons for this satisfaction have to be interpreted in light of the negative opinion polls that were released in the months prior to the elections and because of the redistricting, which was mostly controlled by the Republicans. The 113th Congress is the most racial and ethnic diverse ever, but the representation of the minorities is not in direct ratio to the population yet. On the conservative side, Tea Party members performed very well and it is possible to predict that the new parliament will be again highly radicalized. MARCO REGLIA • “La mascolinità fascista e la repressione della sua devianza: l’originalità della Venezia Giulia” in Acta Histriae, vol. 20, 2012, pp. 351–366. This paper suggests an approach to the masculinity as an idealized representation in contrast with the stereotypical representation of the homosexuality as the typical opposite of virility. We based our approach on the thesis of George Mosse, concerning the role of the ideal type and anti-type during the nation building process between the nineteenth and twentieth centuries. Thanks to new evidences derived from archive sources, which support a recent historiography about the relation between the idea of masculinity and the fascist ideology, this paper proposes a general scheme about the idea of masculinity in a specific area. This study considered the area of the former “Venezia Giulia”, a region at the center of a conflictual nation building process. Previously named “Litorale Austriaco”, the current 57 “Venezia Giulia” assumed this denomination after First World War. At the same time homosexuality became legal; but the repression was continuing in other manner. This paper try to propose the new approach that Italian Kingdom used against homosexuality. FABRIZIO RIBELLI • Tesi di Laurea Magistrale (2012): L’icona di Ronald Reagan. La costruzione di un presidente, Università degli Studi di Roma Tre, Facoltà di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, Tutor: Daniele Fiorentino, Cotutor: Giordana Pulcini. FRANCESCA SALVATORE • “Il ruolo della Teoria dei Giochi nel neorealismo strategico di Thomas C. Schelling”, in Eunomia, Rivista Semestrale del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali, Università del Salento, 1/2012, pp. 243–265, http://siba-ese.unisalento.it/index.php/eunomia/article/ view/12245/10955. Nowadays in the world there are a lot of game theory fans among politicians, economists, mathematicians and psychologists: also a “pure” economist like Thomas C. Schelling was charmed by game theory and in 1994 his studies, shared with Robert Aumann, led him to win the Nobel Prize for Economics. His masterpiece, The Strategy of Conflict, published in 1960, was the first study in the world about strategic behavior and is considered now as one of the most important books that influenced Western culture after 1945. With The Strategy of Conflict Schelling inaugurated a new stream of international relations known as “strategic neorealism”. In this essay, that explains the link between international relations and maths, there is a reflection about Cold War and nuclear deterrence: the study of game theory highlights how weapons of mass destruction (this is the paradox of the atomic age) avoided, at the same time, the nuclear destruction of the planet. ANTONIO SOGGIA • La nostra parte per noi stessi. I medici afro-americani tra razzismo, politica e riforme sanitarie (1945–1968), Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 432. The National Medical Association (N.M.A.), the organization of AfricanAmerican physicians, was born in 1895 from the American Medical Association’s refusal to accept black professionals in its ranks. The N.M.A. had a dual identity: it was both a professional group and a racial organization; consequently, black physicians’ profiles resulted from a permanent nego58 • • tiation between class and race demands. During the 1950s and the 1960s, among the frequent tensions produced by this ambiguity, the conflict around separation and integration was of special importance, representing a constant in the black medical community’s history during the post-war era. Furthermore, while the N.M.A. mostly supported progressive efforts for health care reforms, it was divided within its ranks on the federal role in health care. Gradually the N.M.A.’s political role prevailed on professionals’ self-interest; during the 1960s, the N.M.A. evolved as a militant group, attracting progressive physicians of all races interested in health problems of black and underprivileged masses. Nevertheless, the association was not effective in criticizing the 1960s public policies’ categorial and residual approach, which created different kinds of recipients and undermined any idea of universalism. “In nome del cambiamento: la riforma sanitaria di Obama”, in Passato e Presente, a. XXIX (2011), n. 82, pp. 103–114. Obama’s health care reform sets a tripartite policy: regulation of private insurers in the new market called “the Exchange”, mandated coverage for individuals and businesses, and broader public intervention in health care (especially through Medicaid and Medicare’s overhaul and subsidies). The meaning of Obama’s reform can be understood only taking into account the special history of health care in the United States: the privileged status conferred to private interests, the absence of an idea of social citizenship, the distinction between insurance and assistance in social policies, the market’s centrality, and the residual role of public policies have been fundamental in shaping the current reform. “Their Own Society. Razza, classe e politica tra i medici afro-americani”, in Contemporanea, a. XIV, n. 3, luglio 2011, pp. 421–455. The National Medical Association, the organization of African-American physicians, was born in 1895 from the American medical association’s refusal to accept black professionals in the Southern states. In different phases, the association represented a kind of adaptation to segregation, a concrete means of resistance against racism in medicine and a separated organization (although not formally segregated). The NMA had a dual identity: it was both a professional group and a racial organization; consequently, black physicians’ profiles resulted from a permanent negotiation between class and race demands. The dual identity caused internal conflicts and originated contradictory attitudes towards social reforms which dealt with black masses’ welfare; consequently, the NMA was divided within its ranks on the federal role in health care, and until the second world war’s 59 aftermath strongly opposed a public health insurance. Gradually the NMA political role prevailed on professionals’ self-interest; during the 1960s, the NMA evolved as a militant group, attracting progressive physicians of all races interested in health problems of black and underprivileged masses. UMBERTO TULLI • “‘Boicottare le Olimpiadi del Gulag’. I diritti umani e la campagna contro le Olimpiadi di Mosca”, in Ricerche di Storia Politica, 1/2013, pp. 3–24. In the four-year period leading up to the 1980 Moscow Olympic Games, a growing controversy developed in the United States and to a lesser extent in many Western countries on the appropriateness of having the Olympics in Moscow, given the blatant violations of human rights and the repression of political dissent. The article intertwines Cold War history, the rise of human rights in international relations during the Seventies and the history of the Olympic movement. It argues that the Olympic movement was an important field for the new dialogue then promoted between the United States and the Soviet Union, as well as a tool to criticize and oppose the bipolar dialogue. In its conclusions, the article suggests that the controversy contributed to Carter’s campaign to use the Olympic boycott to punish the Soviets for their aggression against Afghanistan. • Tra Diritti Umani e distensione. L’Amministrazione Carter e il dissenso in URSS, Milano, FrancoAngeli, 2013, pp. 256. The book concentrates on Jimmy Carter’s human rights policy toward the Soviet Union. It argues that an ambiguous political consensus shaped the rise of American foreign policy since the early Seventies: for conservatives, human rights were meant to challenge the Soviet Union; for liberals, they were a tool to go beyond the Cold War dichotomies. Once in office, Carter tried to operate a synthesis between the two different perceptions. Since his early months in office, he tried to promote his human rights agenda through open diplomacy with the Soviets, in order to placate domestic conservative critics. Such a choice proved nevertheless unacceptable for the Soviets and jeopardized Carter’s attempt to revive détente. Soviet reactions forced the administration to modify its approach – which shifted from open to quiet diplomacy – and created broad room for domestic criticism, coming from liberals and conservatives alike. 60 www.ceraunavoltalamerica.it