Indice - C`era una volta l`«America

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Indice - C`era una volta l`«America
Newsletter del CISPEA Summer School Network
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Numero 6
Autunno 2013
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Indice
Introduzione: ........................................................................................................................ p. 2
La middle class come progetto politico: Traiettorie di un concetto
tra fabbrica, marketing e scienze sociali (Sara Cabrele, Michele
Cento, Valentina Cralli, Serena Di Nucci, Martina Mallocci,
Alessandro Stoppoloni) ............................................................................................. p. 4
Ascesa e declino del neoliberismo nell’epoca delle disuguaglianze
(Margherita Anibaldi, Francesco Gualdi, Alessio Marzi, Martina
Mastandrea, Fabrizia Soragnese, Monica Voltolina) .................................... p. 14
Modernità e modernizzazione: l’americanizzazione “universale” (Manuela
Altomonte, Sebastiano Caleffi, Fausto Carbone, Giulia Crisanti, Michele
di Lollo, Vincenzo Leone, Elisa Nicoli) ................................................................ p. 24
L’ascesa del ceto medio in Asia e nel mondo arabo: dai primi passi alle
rivolte neoliberiste (Tommaso Casalone, Anna Chiara Filice, Marta
Giusti,Giovanni Gottuso, Giulia Sacchetti) ....................................................... p. 36
Pubblicazioni degli ex-alunni ...................................................................................... p. 44
Introduzione
I
l sesto numero di C’era una volta l’America riporta come da consuetudine
per l’edizione autunnale una sezione di riflessione sulle tematiche affrontate
durante la Summer School CISPEA, tenutasi quest’anno a Reggio Emilia, dal 23
al 27 giugno. La scuola, alla sua nona edizione, dal titolo “Dagli USA al mondo:
centralità e declino della middle class nella storia e nella riflessione sociopolitica”, ha voluto proporre un’analisi storico-politica approfondita e per quanto
possibile comparata della classe media, della sua ascesa e della sua attuale crisi.
Uno dei principali temi di dibattito nelle società industriali contemporanee,
soprattutto dopo la crisi del 2008, riguarda infatti il declino del ceto medio
causato dal veloce allargarsi della differenza di reddito con le élite e dal precipitare delle sue fasce più basse verso la soglia della povertà. Come si è visto
durante l’ultima campagna presidenziale la cosa assume un rilievo politico del
tutto particolare negli Stati Uniti. Sia il pensiero politico e sociale che la cultura popolare americana tradizionalmente considerano la middle class come il
perno della compattezza sociale e della democrazia del paese, nonché come il
fulcro di ogni modello interpretativo nazionale.
Alla luce dell’attualità politica e sociale, e considerando la peculiarità statunitense nell’elaborazione teorico-politica e nella formazione sociale della
classe media, le relazioni che qui presentiamo – curate dagli alunni della scuola
riassumendo e discutendo le lezioni dei docenti – analizzano le ragioni e le
conseguenze del forte restringersi verso l’alto della piramide sociale ed economica americana negli ultimi decenni, con riferimento anche a quanto avvenuto in Europa; chiariscono i significati del termine middle class nella riflessione
politico-sociale americana, che è giunta a fino a indicare gli Stati Uniti come
una società di sola classe media; allargano infine lo sguardo sulle trasformazioni socioeconomiche in Medio Oriente e in Asia orientale, con l’obiettivo di
offrire al lettore – anche indicando una prima bibliografia – una traccia per
ulteriori riflessioni e ricerche sulla centralità e il declino della classe media, in
chiave storica e comparata tra America ed Europa e tra Occidente e Oriente.
Oltre alle relazioni, questo sesto numero della newsletter inaugura una
nuova rubrica che crediamo possa essere utile non soltanto per promuovere
i lavori accademici degli ex alunni, ma anche e soprattutto per consolidare
quelle reti di comunicazione, scambio e conoscenza tra ex-alunni e tra questi
e il pubblico del blog C’era una volta l’America, che abbiamo attivato e alimentato in questi anni. Si tratta di una rubrica che aggiornerà annualmente il let2
tore delle pubblicazioni (volumi, saggi, articoli etc.), delle tesi di dottorato e di
laurea magistrale degli ex alunni. Oltre al titolo, nel caso delle pubblicazioni,
sarà possibile consultare anche un breve abstract in inglese.
Non resta che augurarvi buona lettura!
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La middle class come
progetto politico:
Traiettorie di un concetto tra
fabbrica, marketing e scienze
sociali
SARA CABRELE, MICHELE CENTO, VALENTINA CRALLI,
SERENA DI NUCCI, MARTINA MALLOCCI, ALESSANDRO
STOPPOLONI*
I
mmerso nella società statunitense, autoproclamatasi middle class society,
il concetto di classe media presenta contorni sfuggenti e confini porosi. A
prima vista si tratta di un concetto evanescente – “sociologicamente amorfo”,
si potrebbe dire con Max Weber – poiché non sembra avere delle contro­
parti sociali né sovrastanti né sottostanti, ma estendersi a perdita d’occhio fin
dove si arresta la società americana. Un’apparente prerogativa della middle
class statunitense, poiché se guardiamo a come in Germania veniva raffigurata
l’equivalente Mittelstand non possiamo non rilevare il suo essere classe media­
na, ovvero “classe di mezzo” tra la borghesia capitalista e la classe operaia. Da
questo primo e fugace confronto con la realtà europea, emerge però immediatamente la dimensione storica e il significato politico di una categoria, quella
di middle class, che non può essere derubricata a un mero e neutrale costrutto
della sociologia. Il nostro obiettivo sarà dunque quello di ripercorrere alcune
delle principali tappe nel percorso di costruzione di tale concetto, situandolo
all’interno delle trasformazioni storiche occorse al capitalismo americano tra
la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale. In primo luogo, ci soffermeremo su come alla fine del diciannovesimo secolo l’introduzione del taylorismo nella fabbrica americana finisca per spazzare via quella “classe media”
* Dalle lezioni di Ferdinando Fasce e Matteo Battistini.
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di lavoratori qualificati e largamente indipendenti, impregnati dell’ideologia
repubblicana del lavoro libero, che vengono rimpiazzati da lavoratori unskilled
e dalla catena di montaggio. Il taylorismo finisce così per erodere i principi
di self-rule propri della democrazia americana (Wiebe 1995), così come costituisce una nuova classe di lavoratori salariati non manuali, con funzioni di controllo e supervisione su processi produttivi drasticamente semplificati. Qualche
decennio dopo il taylorismo, il fordismo fa il suo ingresso nello shop floor con
il suo portato di salari alti e orari di lavoro ridotti. Un combinato che diffonde
tra le classi meno abbienti la possibilità di accedere al consumo, il secondo
elemento su cui focalizzeremo la nostra analisi, poiché esso appare costitutivo
nella definizione della nuova middle class dei primi decenni del Novecento.
Tuttavia, l’irrompere negli anni Trenta della Grande depressione segna la crisi
di questo accesso allargato al consumo. Sono questi anni di profonda riflessione sulla crisi della classe media, ma anche di un rinnovato progetto storico e
politico che le scienze sociali sembrano affidarle. Infine, ci soffermeremo sulla
duplice natura del concetto di classe media, sulla sua capacità inclusiva ed
e­sclusiva, concentrandoci sulla donna come elemento perturbante nello spazio
apparentemente liscio della middle class.
Famiglia davanti alla propria casa in un nuovo settore residenziale a Levittown, PA, 1950.
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1. DAL MESTIERE ALLA CATENA: UNA MIDDLE CLASS IN FORMAZIO­
NE TRA TAYLORISMO E FORDISMO
ll’indomani della Guerra civile si registra negli Stati Uniti una fase di fortissima crescita economica ribattezzata Gilded Age. Si tratta in effetti di un’età
dorata, nella misura in cui i travolgenti processi di modernizzazione che investono il paese generano altresì allarmanti disuguaglianze tra le élite finanziarie
e industriali e le classi di lavoratori/produttori. Un quadro segnato da momenti
anche cruenti di lotta di classe, da cui emergono i Knights of Labor, un gruppo
a metà tra un sindacato e un’organizzazione del mondo della produzione, che
al suo interno include non solo operai, ma anche artigiani e piccoli business
man. Più in generale, i Knights of Labor puntano a organizzare la “producing
class”, rappresentata come un’entità morale, culturale e politica che ridefinisce
la dicotomia capitale-lavoro sul terreno della contrapposizione tra “parassiti”
(banchieri, monopolisti, finanzieri) e “produttori”. Una dicotomia che non lascia
ancora spazio a una classe media propriamente detta, ma suggerisce invece
una visione della realtà politica e sociale che è propria del repubblicanesimo.
La virtù repubblicana, che consente l’accesso alla classe dei produttori, si
esprime nel lavoro, visto come strumento di indipendenza e di autogoverno
che fa dell’individuo un autentico cittadino della Repubblica. È facile sottoline­
are quanto tra le donne e le minoranze che svolgono i lavori più degradanti
l’ideologia del repubblicanesimo attivi processi di esclusione, anziché di inclusione. Al tempo stesso, occorre vedere come attorno agli anni Novanta
dell’Ottocento la virtù repubblicana appaia destinata a un rapido declino, dal
momento che l’introduzione dell’organizzazione tayloristica nelle fabbriche fa
sempre più del lavoro un dispositivo di comando anziché di autonomia, intaccando per giunta la centralità un tempo detenuta da artigiani e skilled workers
nel processo produttivo.
Come osserva Robert Wiebe in The Search for Order e poi in Self-rule, a
cavallo del Novecento negli Stati Uniti si assiste a un potente processo di razionalizzazione che agisce tanto a livello economico quanto a livello politico,
producendo effetti ben visibili sulla stratificazione sociale, che acquista dimensione nazionale, e sulla definizione di middle class. Un processo che nelle strutture produttive comporta standardizzazione, parcellizzazione e forma­lizzazione
delle mansioni lavorative, secondo i precetti stabiliti dall’ingegner Frederick
Taylor. Fenomeni che non solo erodono l’autonomia di tutti i lavoratori, ma,
nello specifico, riclassificano il ruolo e lo statuto della manodopera specializzata. Per quest’ultima tipologia di lavoratori, il mestiere fino ad allora svolto nelle
piccole imprese o in ambito familiare rappresenta prima di tutto l’appartenenza
a un universo professionale che, se anche trova il suo fulcro di applicazione
pratica all’interno di un’entità giuridico-formale come l’impresa, ha comunque
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un’origine in larga misura dipendente dalla direzione e dalla proprietà dei mezzi di produzione: ciò rafforza negli operai qualificati una percezio­ne del tempo
trascorso in fabbrica che sembra riprodurre alcuni tratti di una prestazione di
tipo artigianale. In tal senso, Thorstein Veblen osserva come la meccanizzazio­
ne e le nuove tecniche lavorative distruggono una “cultura proprietaria” delle
classi lavoratrici fondata sul mestiere e, talvolta, simboleggiata dalla proprietà
degli attrezzi.
Il passaggio “dal mestiere alla catena” (Fasce 1983) alimenta tuttavia la
formazione di una classe media dipendente: se il sistema taylorista non necessita più delle competenze specifiche degli skilled workers, si serve nondimeno
della vecchia manodopera specializzata, cui però vengono ora affidati i nuovi
incarichi di controllo e supervisione richiesti dalle trasformazioni nel processo
produttivo. Analogamente, il successo della grande impresa, spesso accompagnato da processi di incorporazione delle formazioni aziendali più piccole, diffonde un modello di business che richiede uno strato di white collar che andrà
a ingrossare le fila di questa nuova middle class.
Dopo l’introduzione del taylorismo, nella fabbrica americana fa la sua comparsa il fordismo, la cui “simbolica data di nascita – scrive David Harvey – è
sicuramente il 1914, quando Henry Ford introdusse la giornata lavorativa di
otto ore a cinque dollari per gli operai della catena di montaggio automatizzata inaugurata l’anno precedente a Dearborn nel Michigan” (Harvey 1989). I
Principles of Scientific Management di Taylor convivono così con l’erogazione
di un salario che per la prima volta permette al lavoratore di accedere allo
status di consumatore. Uno status che corrisponde a un’elevazione sociale immediata, ma soprattutto evoca l’idea di mobilità sociale quale veicolo di inclusione all’interno di una middle class che, dopo la Prima guerra mondiale, verrà
sempre più definita in base ai criteri del reddito e del consumo. In altri termini,
la possibilità di accesso alla middle class costituisce uno strumento politico per
svuotare le lotte operaie del loro potenziale eversivo, in maniera tale da combatterle da una più rassicurante prospettiva di miglioramento graduale delle
condizioni sociali, secondo la tesi del leader sindacale Samuel Gompers per cui
la via d’uscita dalla schiavitù del salario è un salario migliore.
{
La possibilità di accesso alla middle class costituisce uno strumen­
to politico per svuotare le lotte
operaie del loro potenziale eversivo
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}
2. LA MIDDLE CLASS COME CATEGORIA DELLA NORMALITÀ: TENTA­
TIVI DI DEFINIZIONE
l rinnovamento del sistema produttivo crea la necessità di collocare un numero sempre maggiore di prodotti su un mercato in crescita. La realizzazione
di margini di profitto sempre più ampi sembra garantita dall’espansione del
reddito, dovuta principalmente all’incremento dei white-collar workers. Su tali
cambiamenti registrati sia sul piano della produzione che del consumo si concentrano le agenzie di marketing, che nel dopoguerra conoscono un notevole
sviluppo. Esse sono di fatto le prime a cercare di definire sistematicamente la
middle class, collocandola all’interno di un modello, il quale, essendo una ca­
tegoria interpretativa per la collocazione di prodotti di consumo sul mercato,
non può che avere parametri di riferimento di tipo economico. I potenziali
acquirenti vengono quindi classificati come middle class soprattutto in base al
loro reddito, e tale fascia viene eletta come target privilegiato per un certo tipo
di articoli “figli” della produzione di massa. A ciò si aggiunge il ruolo svolto dal
settore pubblicitario, con il suo tentativo di dare una nuova veste al ruolo del
consumo nella società, dove a cavallo del secolo esso è, secondo alcuni osservatori, un’attività ancora “identificata con il lusso e lo spreco e considerata
appannaggio del genere femminile” (Fasce 2012).
Di fatto una delle peculiarità della middle class statunitense sembra essere
quella di essersi inizialmente formata non a partire da un auto-riconoscimento
di tipo politico o economico in senso generico, quanto nell’assorbimento di un
certo modello di consumo proposto dal sistema di produzione di massa. L’idea
di uno standard of living della middle class viene proiettata anche attraverso i
media, entrando gradualmente a far parte dell’immaginario popolare. In tale
ottica, il consumo e l’acquisto di determinati prodotti sembrerebbero rappresentare non un elemento accessorio, come spesso la storiografia l’ha definito,
bensì un punto cruciale intorno al quale si cerca di riunire un gruppo fortemente eterogeneo per orientamento politico, etnia e collocazione geografica.
È infatti solo in un secondo momento che la categoria di middle class inizia a
essere utilizzata e studiata dai sociologi, i quali cominciano a evidenziarne la
complessità. Già attraverso i primi studi ci si rende conto, infatti, che il solo
reddito come elemento di categorizzazione non è sufficiente a esplicare alcuni
comportamenti socio-economici, quali ad esempio la presenza di diversi standard di consumo tra lavoratori con mansioni o appartenenti ad etnie diverse,
ma con reddito simile. Sebbene quindi il consumo sia stato il primo elemento
ad emergere associato alla categoria middle class, a causa anche dei soggetti
che per primi la definiscono, tale fattore viene ben presto affiancato da altri di
tipo politico e culturale.
Ferruccio Gambino ha osservato che la classe media è la “categoria della
I
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normalità” della sociologia statunitense (Gambino 1989). Nel discorso delle
scienze sociali, la middle class ha storicamente indicato spezzoni diversi della
società americana, ma ha tendenzialmente incluso al suo interno quel settore
che di volta in volta risulta essere l’asse portante del paese. Come abbiamo vi­
sto, il passaggio più rilevante nel significato di middle class è stato quello dallo
status di produttore/lavoratore indipendente a salariato, sia pure diversamente
classificato via via che si sale la scala delle responsabilità gestionali. Tuttavia,
la Grande Depressione si presenta come un’interruzione del processo di consolidamento di uno strato intermedio accessibile alla classe operaia. Ciò che si
verifica negli anni Trenta è piuttosto, nelle parole di Lewis Corey, la “crisi della
classe media”. Al tempo stesso, di fronte all’emergenza rappresentata dalla Depressione le scienze sociali tornano a riflettere proprio sul progetto politico e
culturale incarnato dalla middle class, che, in questo senso, non può essere più
pensata in termini meramente economici.
Non è un caso che alcuni scienziati sociali come Harold Lasswell cerchino di
caratterizzare la classe media come strumento di rimoralizzazione della società,
affidandole quella che era a tutti gli effetti una missione. L’obiettivo è cercare
di istituzionalizzare il conflitto sociale, creando una serie di elementi che possano fungere da punto di riferimento per gli strati sociali inferiori. Realizzare
un progetto di questo tipo equivale a mettere in salvo un’idea di società che
finisce per basarsi sulla classe media. Secondo questo progetto il conflitto può
eventualmente avvenire solo fra persone che hanno ormai accettato dei presupposti comuni – che sono i presupposti di tale middle class – e hanno molto
da perdere da uno sconvolgimento radicale. In questo modo non si nega la
possibilità di far valere le proprie opinioni, ma si garantisce che la dialettica avvenga all’interno di un’atmosfera controllata.
La classe media non viene infatti definita come un blocco granitico ma
come una categoria aperta che appare accogliente e desiderabile a chi ancora
non ne fa parte. Un discorso di questo tipo è strettamente legato al tema della
mobilità. Esso riesce ad avere presa sugli individui se questi sentono di avere
la possibilità di raggiungere quello stato di benessere che vedono ostentato
da chi lo ha già ottenuto. Il messaggio che si cerca di trasmettere è che non è
più necessaria una rivoluzione per migliorare la propria vita, basta cercare di
scalare la piramide sociale.
Questo tipo di ottica porta infatti a pensare in modo individuale. Lo scopo
è fare in modo che le rivendicazioni facciano sempre più fatica a essere portate
avanti collettivamente. Così facendo, si riesce a creare un gruppo di persone
che hanno sì gli stessi consumi e gli stessi modi di vivere, ma che allo stesso
tempo non riescono ad agire facilmente come collettivo, svuotandolo di forza
rivoluzionaria. L’idea dominante non è raggiungere tutti insieme un obiettivo,
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ma arrivare prima degli altri in questo nuovo contenitore chiamato classe media.
3. LE DONNE E LA MIDDLE CLASS: TRA LAGER CONFORTEVOLI E TEN­
TATIVI DI EVASIONE
ltre al “Secolo breve”, il Novecento è stato spesso definito anche il “Secolo
delle donne” (Vezzosi, 2007). Ma a concorrere a questa definizione sono
stati fenomeni che affondano le proprie radici nella grande stagione di rinnovamento che, a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, avrebbe portato
molti altri cambiamenti, soprattutto nel mondo del lavoro.
Dal punto di vista della storia di genere, l’ascesa della categoria dei white
collar ingenera l’inserimento nei censimenti dell’epoca (almeno stando agli
analisti statistici, che lavoravano perlopiù per agenzie di comunicazione e
marketing) anche delle donne che occupavano le professioni più classiche: la
commessa, la centralinista, l’impiegata, … D’altro canto, “nel primo decennio
del Novecento le donne entrarono in misura crescente nel mercato del lavoro,
tanto che negli Stati Uniti le donne retribuite rappresentavano nel 1910 il 21%
della forza lavoro del paese” (Vezzosi 2007).
Questa presenza femminile massiccia ha conseguenze tanto più grandi nei
O
Scena di ufficio, anni Venti.
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periodi bellici, soprattutto in relazione all’impiego delle donne nella burocrazia
governativa, conseguenze legate al loro attivismo politico al fine di ottenere
il diritto di voto. Ma è importante sottolineare come sia l’acquisizione di altri diritti, nello specifico diritti sociali, “(dalla protezione della maternità per
le donne lavoratrici all’interdizione del lavoro notturno) a essere stata spesso
precedente all’acquisizione del diritto di voto. Parallelamente al movimento
suffragista, si svilupparono inoltre – negli Stati Uniti così come in Europa –
movimenti femministi maternalisti, il cui tratto comune era costituito dal fatto
di individuare nella maternità una condizione unificante del sesso femminile”
(Vezzosi 2007). Il maternalismo si connota poi anche come movimento dei consumatori, nella misura in cui condannando alcolismo e corruzione (nelle sue
evoluzioni più moralistiche), presenta anche effetti importanti nella dinamica
del proibizionismo post-1929. Non è tralasciabile, all’interno di questo discorso, il ruolo quasi istituzionale della National Consumer League, composta per
la maggior parte da donne, nel rappresentare il Public nelle commissioni attive
nel primo Novecento, quando il diritto di voto era ancora esclusiva prerogativa
dell’uomo.
Alla stagione del grande attivismo politico femminile, declinato nelle sue
varie anime (dal suffragismo al maternalismo) segue dal Secondo dopoguerra
Pubblicità di una lavatrice, anni Cinquanta-Sessanta.
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in poi una stagione di quiete che è in realtà solo apparente, perché proprio nei
silenziosi anni Cinquanta si vengono a creare le premesse per i grandi movimenti femministi degli anni Sessanta. Movimenti che denunciano il “male silenzioso dei lager confortevoli”, secondo la brillante definizione di Betty Friedan.
Questa problematica e contraddittoria condizione della donna viene determinata forse dall’eccessiva disponibilità di beni di cui la Golden Age dell’economia
americana ha goduto dal Secondo dopoguerra agli anni Settanta inoltrati. Una
disponibilità di beni la cui fruizione diventa simbolo dell’appartenenza stessa
alla middle class. Banalmente la lavatrice, l’aspirapolvere, gli elettrodomestici in
genere diventano feticci di uno status, soprattutto del breadwinner americano:
la moglie che non lavora, che può custodire i sani valori sociali nel suo ruolo
di angelo del focolare, è sintomo in sé di un benessere tale per cui non è più
necessario che entrambi i coniugi lavorino. Marketing, comunicazione e pubblicità concorrono a creare l’immagine di una donna emancipata, che non ha
bisogno di sprecare tempo per la gestione domestica. Ma il punto è questo:
dato che non deve lavorare, tempo per cosa? Probabilmente dovremo aspettare i movimenti femministi degli anni Sessanta per saperlo.
BIBLIOGRAFIA
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Mission of the American Middle Class”, in Baritono R., Fasce F., Vaudagna
M. (eds.), Beyond the Nation: Pushing the Boundaries of U.S. History from a
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Fasce F., Dal mestiere alla catena, Genova, Herodote, 1979.
Fasce F., Le anime del commercio. Pubblicità e consumi nel secolo americano,
Roma, Carocci, 2012.
Gambino F., “La classe media come categoria della normalità nella sociologia
statunitense”, in Pace E. (a cura di), Tensioni e tendenze nell’America di Rea­
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2007.
Wiebe R., The Search for Order, London, Macmillan, 1967.
Wiebe R., Self-Rule. A Cultural History of American Democracy, Chicago, The
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12
di Bonazzi T., Bologna, Il Mulino, 2009.
Zunz O., “Class”, in Encyclopedia of the United States in the Twentieth Century,
Vol. I, New York, Scribner’s, 1996.
13
Ascesa e declino
del neoliberismo
nell’epoca delle
disuguaglianze
MARGHERITA ANIBALDI, FRANCESCO GUALDI, ALESSIO
MARZI, MARTINA MASTANDREA, FABRIZIA SORAGNESE,
MONICA VOLTOLINA*
INTRODUZIONE
he impatto hanno avuto le politiche neoliberiste sulla società occidentale?
Qual è stata la genesi di una stagione politica che ha conosciuto il suo
apice in Gran Bretagna e Stati Uniti negli anni Ottanta e ha poi fortemente
influenzato il pensiero conservatore e progressista anche nel decennio successivo? Come hanno “pensato” la middle class, e come vi si sono rapportati,
i governi Thatcher e Reagan nell’elaborazione di un progetto politico trasformativo, ma con altissimi costi sociali? Queste sono solo alcune delle domande
che hanno guidato la nostra analisi, sviluppata a partire dai saggi consultati e
dagli interventi dei professori Cartosio ed Ellwood, e volta a cercare di comprendere come si sia arrivati alla situazione odierna. Una situazione nella quale
le disuguaglianze aumentano, gli effetti della crisi economica impoveriscono la
classe media e cresce la disaffezione politica. La nostra analisi di conseguenza
ha un punto di partenza temporale ben definito (gli anni Settanta) e intreccia
vari elementi: la teoria politica, le scelte economiche, i rapporti tra paesi e le
trasformazioni sociali. Fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui le conseguenze
della crisi economica e finanziaria accentuano un processo di indifferenza, se
non addirittura di rigetto, nei confronti della partecipazione politica che, in taluni casi, può arrivare fino a forme radicali di anti-politica.
C
* Dalla lezione di Bruno Cartosio e David Ellwood.
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1. “ANNI SETTANTA NATI DAL FRACASSO”.1 LE ORIGINI DELL’ELA­
BORAZIONE POLITICA CONSERVATRICE.
el corso delle lezioni della scuola estiva Cispea 2013 (con particolare rife­
rimento agli interventi di Bruno Cartosio e David Ellwood) e nel successivo
lavoro seminariale di cui queste note sono espressione, è stato sottolineato
come le politiche liberiste in economia e socialmente conservatrici, che caratterizzarono gli anni Ottanta negli Stati Uniti e nel Regno Unito, siano state
una risposta pratica e soprattutto ideologica ad una serie di “terremoti” che
sconvolsero i Paesi con un’economia avanzata negli anni Settanta. Non si trattò
solo di una crisi economica, caratterizzata da un generale rallentamento della
crescita dopo il 1973 (e da brevi cicli di stagnazione o recessione), ma anche
di una forte crisi della società che nel dopoguerra si era organizzata in quello
che è stato definito un “pluralismo corporato”. A partire dal 1968, i Paesi a
capitalismo avanzato furono infatti segnati da una serie di conflitti sociali e
politici senza precedenti, che la crisi economica contribuì ad alimentare o a non
ricomporre: il movimento pacifista, operaio e studentesco, il revival etnico e gli
etnoseparatismi, il nuovo femminismo, la mobilitazione delle minoranze che
chiedevano il riconoscimento pubblico della propria diversità, l’ambientalismo
e, in Italia, Germania e Irlanda del Nord, la lotta armata ed il terrorismo. È in
questo contesto di instabilità che, secondo quanto discusso, vanno rintraccia­
te le origini delle politiche di governo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher,
nonché delle loro retoriche e del loro successo elettorale. Come spiegato da
un osservatore coevo nel 1989, con i suoi primi due mandati di governo, Margaret Thatcher si era distinta per una serie di iniziative politiche che “[avevano
promosso] un’economia libera [cioè liberista] e distrutto molti dei pilastri del
regime di democrazia sociale, ma allo stesso tempo [avevano introdotto] misure che incrementavano il potere centrale dello stato” (Gamble 1989). Il vecchio approccio collaborativo e consensuale con le istituzioni di governo locale
(roccaforti del Partito Laburista) e con le Trade Unions era stato rigettato da
Thatcher e dal Partito Conservatore, segnando la fine di quei “compromessi
keynesiani” che dal 1945, in forme diverse da Paese a Paese e da periodo a
periodo, avevano segnato la crescita economica e la contemporanea distribu­
zione della ricchezza in molte delle economie capitalistiche avanzate. Ciò era
N
{
Dal 1968, i Paesi a capitalismo avan­
zato furono segnati da una serie di
conflitti sociali e politici, che la crisi
economica contribuì ad alimentare
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}
avvenuto non attraverso l’attuazione di un preciso programma, bensì attraverso una serie di interventi non coordinati (dettati anche da necessità contingenti e da calcoli elettorali) che, tuttavia, avevano un loro collante in una serie
di discorsi ideologici fortemente connotati in senso reazionario e moralista.
Uno dei paradossi più evidenti della politica e dell’assalto teoretico (Hobsbawm
1997), che caratterizzava la comunicazione pubblica di Thatcher, era che se da
una parte essa promuoveva l’idea di un’economia libera e di una diversa attitudine nelle relazioni tra lo stato e la società civile (per cui l’individuo sarebbe
dovuto essere sempre meno dipendente dallo stato nelle sue scelte economiche), dall’altra parte rifiutava molti dei possibili corollari di queste idee, quali
la libera scelta individuale del proprio modello di comportamento. Infatti “il
governo preferì imporre una cultura della solidarietà nazionale con un ristretto
numero di stili di vita approvati” (Gamble 1989). “Un uomo che, superati i 26
anni d’età, si trova in un autobus può considerarsi un fallito”: è questa una
frase erroneamente attribuita a Thatcher, ma che tuttavia rappresenta bene il
carattere “prescrittivo” della retorica conservatrice e “yup” della politica britannica degli anni Ottanta; essa presentava infatti lo stile di vita del vecchio ceto
medio (che aveva nel trasporto privato uno dei suoi simboli e dei suoi miti),
come l’unico degno di essere perseguito. Se a determinare le vittorie elettorali dei conservatori in Gran Bretagna nel 1983 e nel 1987 furono soprattutto i
temi della politica e­stera e dell’economia, la campagna elettorale del 1979 che
portò Thatcher per la prima volta al governo fu caratterizzata soprattutto dai
temi della “legge e ordine”, della famiglia e dell’educazione. Questi argomenti
furono declinati dalla Lady di ferro in quello che è stato definito un “rinascimento puritano” (Taylor 1987) che, tuttavia, si accompagnava e anzi era volto a
giustificare la teoria economica neoliberista. Con delle acrobazie dialettiche il
welfare state fu presentato nel 1979 come una delle cause dell’aumento della
criminalità nel Regno Unito, mentre gli operai che picchettavano furono para­
gonati ai criminali comuni. Thatcher dipinse quindi le Trade Unions e il Partito Laburista (considerato generalmente “complice” degli operai in sciopero),
come propugnatori di modelli di comportamento criminali, violenti ed antisociali che avrebbero avuto dei riflessi non solo nelle fabbriche, ma anche nelle
stesse strade del Regno. Ian Taylor ha dimostrato come questi temi e queste
paure si siano sviluppate nel corso degli anni Settanta non solo all’interno di
organizzazioni e gruppi che si opponevano a quello che veniva indicato come
il “permissivismo” che minava alle fondamenta le relazioni della società britannica, società che rimaneva comunque “fortemente patriarcale, eterosessuale,
familista e gerarchica nel modo in regolava la vita sociale e sessuale in generale”
(Taylor 1987), ma anche e soprattutto in settori dello Stato comunque influenti
nella formazione dell’opinione pubblica di ceto medio: magistratura, polizia e,
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soprattutto, scuola. Rimangono comunque molti interrogativi su come queste
paure si siano diffuse in tutte le classi sociali, sul perché la storia degli anni Settanta sia stata essenzialmente “la storia di governi che guadagnavano tempo”
(Hobsbawm 1997) – al di là dell’evidente arbitrarietà dell’individuare i limiti
temporali del manifestarsi dei fenomeni storici nelle decadi del calendario cri­
stiano – e, soprattutto, del perché altri settori dell’opinione pubblica e della politica non seppero elaborare una risposta alla effettiva frammentazione sociale
e alla crisi economica di quel periodo, in alternativa a quella offerta dalla teoria
liberista e dal conservatorismo.
2. LE RISPOSTE ALLA CRISI DEGLI ANNI SETTANTA: IL POLICY
TRANSFER TRA STATI UNITI A GRAN BRETAGNA.
urante tutti gli anni Settanta, dunque, l’Inghilterra, così come altre potenze
occidentali, attraversò una radicale crisi politica e sociale dovuta al venir
meno del modello politico ed economico che aveva dominato nei trent’anni
successivi al secondo dopoguerra. Questa profonda crisi economico-finanzia­
ria (aggravata dallo shock petrolifero del 1973) mise in luce i limiti di uno sviluppo economico occidentale basato su principi keynesiani e portò, soprat-
D
Spazzatura lasciata in strada durante l’”Inverno dello scontento”, Londra,1979.
17
tutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, a un drastico cambiamento della politica
economica in senso neoliberista (Cammarano, Guazzoloca, Piretti, 2009). Sia
Margaret Thatcher, sia Ronald Reagan proposero e misero in atto una ricetta
politica contro la crisi abbastanza simile, anche se con risultati molto diversi.
Fu soprattutto la Thatcher che, come mai nessun Primo Ministro britannico
prima di lei, guardò agli Stati Uniti e ne riprese, a volte totalmente a volte riadattandole, le politiche economiche e sociali. In effetti il processo di scambio
tra i due Paesi andò soprattutto in una direzione: dagli Stati Uniti alla Gran
Bretagna (Dolowitz, Greenwold, Mash 1999). Concetto cardine di questa ricetta neoliberista era la privatizzazione. Iniziata in realtà dalla Lady di Ferro
come una serie di provvedimenti ad hoc per rifocillare le casse dello Stato, diventò ben presto il pilastro della “svolta thatcheriana” (Gamble 1989). Furono
via via privatizzate aziende come la British Telecom, la British Gas e la British
Airways. Il Primo Ministro cercò di smantellare anche alcune importanti lobby,
come quella dei media (BBC) e delle università (tra cui le prestigiose Oxford e
Cambridge), senza però riuscirvi. Anche la retorica che la leader conservatrice
utilizzò può essere ricondotta più alla tradizione americana che non a quella
inglese. Forte della sua esperienza di vita, credeva fermamente nel self-made
man: a suo parere i cittadini, di qualsiasi classe sociale, dovevano farcela con
le proprie forze senza contare sui sussidi statali; i soldi pubblici non dovevano
servire per aiutare i meno abbienti poiché questi avrebbero dovuto farcela da
soli, grazie ad una economia che favoriva l’impresa individuale e il capitalismo.
Questo avrebbe portato alla creazione di una “new middle class”. Le riforme
e la retorica della Thatcher si scontrarono, però, con una società completamente diversa da quella americana. Se le politiche di Reagan furono accolte
in maniera positiva, e il suo rilancio morale della potenza americana servì da
buon collante, la figura della Thatcher spaccò ancora di più la già logorata società inglese. In Gran Bretagna era presente una working class forte e ben organizzata, rappresenta da influenti sindacati. Le politiche neoliberali furono un
attacco frontale a queste ultime, che risposero in maniera aspra e molto spesso
violenta. Come ha sottolineato il professor Ellwood, paragonando i funerali dei
due leader, si può dedurre come la società inglese e quella americana abbiano
accolto in maniera molto diversa le riforme degli anni Settanta e Ottanta. Tuttavia è importante sottolineare che il “policy transfer” tra gli Stati Uniti e la Gran
Bretagna è continuato anche dopo gli anni della Thatcher e di Reagan, esten­
dendosi anche alla parte democratico-laburista (Dolowitz, Greenwold, Mash
1999). Si può affermare, quindi, che la Thatcher non riuscì a far penetrare una
nuova mentalità e un nuovo assetto sociale in Gran Bretagna, ma riuscì comunque ad influenzare in modo decisivo le politiche e i modi di fare politica a
lei successivi.
18
3. LA GIUSTIFICAZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE: IL PRINCIPIO DEL
SELF-MADE MAN COME CARDINE DELL’IDEOLOGIA THATCHERIANA.
Il modello di stato britannico proposto da Margaret Thatcher si pone nel
solco della tradizione americana sedimentata a partire dalla Gilded Age e avente come suo più importante interprete il filosofo darwinista William Grahm
Sumner. L’intellettuale, nel libro What Social Classes Owe to Each Other del
1883, interpretava la disuguaglianza sociale e il laissez faire nell’ottica di un
generale progresso economico e morale che l’operare di questi principi porterebbe nella società. Questa filosofia fornisce una giustificazione alla grande
disparità delle ricchezze e del potere economico americano e definisce la virtù
come una qualità morale che emerge dalla selezione sociale tra gli individui e
connota il più ricco come il più virtuoso. Il pensiero di Sumner diventa un credo
per la middle class americana del tempo. L’ideologia della Thatcher, pur attingendo a questa filosofia, non fa propri i principi del puritanesimo che, invece,
costituiscono la base del pensiero americano. Uno dei suoi pilastri è, infatti, la
connessione, tra plutocrazia e puritanesimo: in base a questa relazione l’uomo
virtuoso è l’individuo eletto da Dio
che attraverso i propri sforzi e il duro
lavoro è riuscito ad arricchirsi ed è, per
questi motivi, legittimato all’accumulo
di denaro. Questa relazione non è presente nel pensiero inglese. Il modello
della Lady di ferro può essere meglio
definito ricorrendo al termine autoritarismo popolare e sottolineando tre
aspetti principali: la concezione organica della società, l’individualismo e
la formulazione di un nemico interno,
che viene rintracciato nel criminale e
indicato come il fattore di disturbo
dell’armonia sociale (Taylor 1987).
Nella retorica della Thatcher l’accento
posto sulla paura e sulla sicurezza diventa molto importante per ottenere
consensi in seno alla middle class. Di
importazione americana è l’ideologia
del self-made man che entra a far
parte del modello sociale e politico
in­glese di quegli anni: donna e per di
Copertina di Time, 14 luglio 1979.
più appartenente a una lower middle
19
class, la Thatcher rappresenta colei che attraverso i propri sforzi e il proprio
valore è riuscita a risalire faticosamente la scale sociale e ad appartenere alle
élites di governo. Questo modello sarà rappresentato anche dal Presidente
americano Barack Obama. La questione dell’influenza del pensiero americano
su quello inglese è di particolare interesse e può essere spiegata a partire da
motivazio­ni di politica estera (mantenere e rafforzare l’alleanza con gli Stati
Uniti) e di politica interna (consolidare l’ideologia neoliberista in voga al tempo). Alla base c’è, insomma, il monito della Thatcher “to make England more
American” (Dolowitz, Greenwold, Mash 1999). È importante sottolineare, infine,
come il modello economico ripreso dal primo ministro inglese faccia propri i
principi del neoliberismo promulgati da Friedrich Von Hayek, uno dei maggiori
avversari del keynesismo e del welfare state. Soprattutto, il principio della “so­
cial market economy” in antitesi al potere coercitivo dello Stato, e della libertà
in opposizione alla democrazia sono centrali per comprendere alcune direttive
del primo governo Thatcher (Taylor 1987). Ancora oggi, però, sembra che le
posizioni teoriche espresse dal sociologo Sumner fino a quelle dell’economista
Hayek siano dominanti nelle società occidentali.
4. LA STRUTTURAZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE: L’AFFERMAZIONE
DEL NEO-LIBERISMO E LA TRASFORMAZIONE DELL’ECONOMIA
La frase icastica del miliardario Warren Buffett, “certo che c’è guerra di
classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo
vincendo”, suona come rivelatrice di un processo in corso da circa trent’anni
che ha visto accrescere le disuguaglianze all’interno della società. Se al giorno d’oggi il differenziale tra la porzione più ricca della popolazione e quella
più povera è cresciuto in maniera esponenziale, ciò è dovuto all’affermazione
di un modello economico ben preciso, quello neoliberale, frutto delle scelte
politiche delle élite dagli anni Ottanta ad oggi. Solo con l’esplosione della crisi
economico-finanziaria del 2007 è iniziato un processo di ripensamento di un
modello che fino ad allora era stato abbracciato con convinzione dalla maggior
parte dell’establishment occidentale. Il fatto è che il modello neoliberale non
ha prodotto solo conseguenze a livello economico, ma anche, e anzi soprattutto, a livello sociale. Le sperequazioni interne agli Stati sono cresciute, la concentrazione della ricchezza si è fatta via via più intensa. Due sono stati i punti
cardine attorno ai quali costruire la narrazione neoliberale: la deindustrializzazione e la terziarizzazione dell’economia (unitamente a una de-sindacalizzazione crescente). La rivoluzione neoliberale venne abbracciata in prima istanza
dalle amministrazioni Reagan e Thatcher, a partire dagli anni Ottanta. Nel caso
britannico, poi, come è stato notato da Ellwood, l’adesione al neoliberalismo
era funzionale anche al perseguimento di un obiettivo politico, vale a dire la
20
crescita della middle class (o upper middle class). I governi Thatcher infatti erano
convinti della necessità di limitare il potere della working class, ragion per cui
favorirono la privatizzazione e terziarizzazione dell’economia britannica. Il che
comportò una pesante deindustrializzazione del paese, con l’esplosione delle
tensioni sociali che caratterizzarono gli anni Ottanta (Gamble 1989). Tuttavia,
è necessario sottolineare come le politiche neoliberali ebbero l’effetto di accelerare la crescita di una nuova classe sociale, quella prodotta dall’esplosione
del terziario, che non coinvolse tutta la classe media. Al contrario, sia in Gran
Bretagna che negli Stati Uniti si affermò una nuova élite manageriale, frutto
della finanziarizzazione dell’economia, che accrebbe le disuguaglianze interne
per via dell’impoverimento delle tradizionali occupazioni della middle class.
Questo spiega in parte la concentrazione della ricchezza nonché il divario tra il
vertice e la base della piramide sociale. Con la crisi economico-finanziaria ini­
ziata nel 2007 il modello neoliberale è stato messo in discussione, a fronte della
necessità di ridurre le disuguaglianze sociali. Occorre chiedersi, tuttavia, se la
mera riproposizione della ricetta antagonista a quella neoliberale (il keynesi­
smo, per intenderci) sia una soluzione ancora valida o se la ripresa economica,
nel 2013, sia da ritrovare prima di tutto elaborando nuovi modelli in grado di
interpretare con schemi concettuali diversi la società odierna, infinitamente più
disgregata e diversificata rispetto a quella sulla quale incisero sia il keynesismo
che il neoliberalismo (Bortolotti 2013).
5. DAL KANSAS ALL’ITALIA: DISUGUAGLIANZE SOCIALI E TRIONFO
DELL’ANTIPOLITICA.
n conclusione, seguendo il suggerimento di Bruno Cartosio, è possibile fare
una considerazione sulla similitudine di due fenomeni che accomunerebbero
gli Stati Uniti e l’Italia: da un lato l’indifferenza nei confronti della politica e
quindi il relativo avvicinamento a movimenti di anti-politica e all’astensionismo
e, dall’altro, il voto delle fasce meno abbienti a partiti che male rappresentano
i loro interessi. Per quanto riguarda la prima questione, è importante riflettere
sul fatto che è soprattutto a causa delle dimensioni paurose degli intrecci tra
denaro e politica che la gran parte della gente percepisce le istituzioni rappresentative come lontane. Da questo derivano tanto l’indifferenza di molti
cittadini nei confronti di una politica istituzionale gestita da partiti da cui non
saranno tutelati, quanto l’estraneità a sfide che ricchi e potenti giocano tra loro
I
{
Il modello neoliberale non ha prodotto
solo conseguenze a livello economico,
ma anche e soprattutto a livello sociale
21
}
in nome e a difesa dei propri interessi. E qui possiamo riportare il commento
di un taxista americano, in merito all’alternativa Bush-Gore del 2000, che retoricamente si chiede “perché dovrei votare per un milionario oppure per un
altro milionario?”. Questa frase si avvicina ai sentimenti sempre più diffusi in
Italia, quali “destra e sinistra son la stessa cosa”, “mi ci vorrebbe il loro stipendio”, e qualunque altra frase di chi ormai rifiuta di schierarsi o da una parte o
dall’altra, sentendosi estraniato dalle decisioni prese dal governo e finendo per
astenersi. In secondo luogo, la scelta di parte dell’elettorato della lower middle
class di indirizzare il proprio voto verso il partito che meno rappresenta i propri interessi: il Partito Repubblicano negli Stati Uniti e il Popolo delle Libertà in
Italia. Thomas Frank nel sul libro What’s the Matter with Kansas (2005), descrive
come nella contea più povera di quello stato del Midwest nelle elezioni del
2000 oltre l’80 percento degli elettori scelse George W. Bush – il cui partito si
era posto come obiettivo i tagli ai sussidi e all’assistenza pubblica – mettendo
così a repentaglio il loro lavoro, la loro salute e l’educazione dei loro figli. Così
in Italia, una buona fetta dell’elettorato negli ultimi vent’anni ha dato la propria
fiducia a una parte politica capace di creare un immaginario valoriale simbolico
che appariva appetibile come un prodotto ben pubblicizzato, ma poi si rivelava
inattuabile nel concreto, anzi sortiva effetti nocivi proprio nella ricaduta sui ceti
meno abbienti, quando tagliava finanziamenti alla sanità e alle scuole e, più in
generale, ai servizi pubblici. Niente quindi ci sembra più appropriato che citare
una frase di Thomas Frank: “People getting their fundamental interest wrong
is what American (e potremmo aggiungere qui: and Italian) political life is all
about” (Frank 2005).
NOTE:
1. È questo il titolo di una canzone del cantautore italiano Paolo Pietrangeli,
incisa e pubblicata su disco nel 1975, in cui già si segnalava la “stanchezza”
della società italiana per il periodo di mobilitazione sociale successivo al
1968.
BIBLIOGRAFIA
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It”, in The New York Times, 11 Febbraio 2012.
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Dolowitz D., Greenwold S., Marsh D., “Policy Transfer: Something Old, Some22
thing New, Something Borrowed, But Why Red, White and Blue?”, in Parlia­
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government”, in The socialist Register, Vol. 23, 1987, pp. 297–331.
“The Geography of Government Benefits”, in The New York Times, 11 Febbraio
2012.
23
Modernità e
modernizzazione:
L’americanizzazione
“universale”
MANUELA ALTOMONTE, SEBASTIANO CALEFFI, FAUSTO
CARBONE, GIULIA CRISANTI, MICHELE DI LOLLO, VINCENZO LEONE, ELISA NICOLI*
L
a parola chiave che riassume il contributo di Mario Del Pero alla nona Summer School organizzata dal CISPEA è “modernizzazione”. Una modernità –
quella americana – che nei primi anni della Guerra fredda diventa esempio se­
gnando “un’americanizzazione dell’Europa, dove i modelli americani diventano
modelli universali”. La nostra riflessione è partita proprio da qui, dalla classica
pubblicità americana dei primi anni Cinquanta con l’idealtipo della famiglia statunitense – che viveva nei suburbs, guidava una Ford e che si riuniva in salotto
davanti alla tv – attraverso cui si pubblicizzava non solo un sistema economico
basato sullo sviluppo dei beni di consumo, ma anche l’ideale di uno stile di vita
che puntava a stabilità e benessere.
Un modello che era irresistibile agli occhi dell’Europa, pronto per essere
standardizzato ed esportato. Un modello a cui però, considerato il contesto
di Guerra fredda e competizione bipolare, se ne contrapponeva un altro, alternativo e rivale, quello sovietico. Una contrapposizione che aiuta a spiegare
le scelte di politica interna ed estera compiute dagli Stati Uniti nel Secondo
dopoguerra fino almeno alla caduta del muro di Berlino, dato che l’unico modo
per uscire vincitori dal conflitto era quello di far prevalere il “great American ex­
periment” sul “great Russian experiment”. Se il modello sovietico parve proporsi
come la scorciatoia più rapida verso la modernità, giustificato – almeno fino
agli anni Settanta – anche dai dati quantitativi disponibili, il modello americano
tentò di presentarsi come un modello dalla portata universale attraverso il le* Dalla lezione di Mario del Pero.
24
game concettuale tra modernizzazione e americanizzazione. Esso riuscì infatti
a creare un nuovo paradigma capace di investire la dimensione sociale, politica
ed economica di tutto il blocco occidentale.
La modernizzazione finì in tal modo per diventare sinonimo di fordismo, di
welfare, di sicurezza e stabilità politica ed economica, di produttività, di piena
occupazione, di consumi di massa (al punto che il concetto stesso di cittadinanza finì per legarsi alla possibilità di accesso ai consumi) e soprattutto di ampliamento e affermazione della middle class, definita sempre più dal reddito,
dalle abitudini e dalla capacità di consumo, e considerata garante della stabilità
democratica all’interno del Paese.
Tuttavia, la realizzazione di questa middle class revolution, così come la
proiezione su scala globale dell’American way of life, richiedeva oltre ad una
politica estera attiva, anche l’individuazione e il sostegno di interlocutori locali,
che fossero capaci di veicolare questo modello in regioni eterogenee fra loro e
profondamente diverse e distanti dal contesto sociale statunitense. Fu proprio
questa necessaria ricerca di alleati locali a determinare una delle prime e più
evidenti contraddizioni della politica estera statunitense negli anni della Guerra
fredda: gli interlocutori a cui gli americani erano costretti a rivolgersi non furono, infatti, mai quelli che loro avrebbero voluto. Anzi, il più delle volte gli
Stati Uniti finirono per essere costretti a trovare una sponda politica in soggetti
poco recettivi verso il modello di modernità da loro proposto, o addirittura in
soggetti che negavano quel modello e/o lo ribaltavano. La rigidità della logica
bipolare di contrapposizione globale tra modello sovietico e modello americano finiva, infatti, per far sì che l’anticomunismo diventasse l’unico criterio
determinante (sebbene non l’unico tenuto in considerazione) su cui fondare
le alleanze con le forze politiche locali al governo nei diversi Paesi posti sotto
l’egemonia americana.
Due degli esempi forse più significativi a dimostrazione della contrad­
dizione che venne così a generarsi sono quello dell’Italia e quello dell’America
Latina. Nel primo caso l’interlocutore privilegiato, la Democrazia Cristiana, accolse solo in parte il modello americano di modernità e i valori e le politiche
economiche e sociali che esso comportava, dimostrandosi, anche agli occhi
degli stessi americani, poco ricettivo nei confronti dei progetti di moderniz-
{
Il modello americano tentò di pre­
sentarsi come universale attraver­
so il legame concettuale tra mo­
dernizzazione e americanizzazione
25
}
zazione sociale, economica e culturale che gli USA avrebbero voluto realizzare in Italia. Nel secondo caso, il timore di una diffusione del comunismo in
America Latina, spinse gli americani a dare il loro sostegno a regimi dittatoriali
che negavano completamente il paradigma statunitense della libertà e della
modernità. A tal proposito è significativo che Roosevelt, riferendosi a Somoza,
abbia affermato “sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Oltre alle evidenti contraddizioni, le scelte poco coerenti crearono anche
problemi di legittimazione rispetto all’opinione pubblica nazionale e mondiale.
Un altro dato importante emerso dall’analisi di Del Pero è quello relativo
allo stretto legame che intercorre tra modernizzazione da un lato e sicurezza, interna ed esterna, dall’altro. Nella logica di pensiero statunitense, infatti,
una realtà in cui non sia in corso un processo di modernizzazione economica,
culturale e sociale è destinata, per sua stessa natura, a risultare arretrata e a
costituire una potenziale fonte di minaccia alla stabilità e alla sicurezza interna,
determinando il fallimento del sistema pacifico e democratico ben rappresentato dal welfare state. La questione relativa alla sicurezza esterna presenta, invece, una dimensione più complessa. Gli Stati Uniti sentivano la necessità di
esportare il loro modello per difendersi da un collasso sistemico che, sulla base
della “teoria del domino”, fondata sulla convinzione che ogni focolaio di tensione fosse potenzialmente in grado di trascinare gli altri Paesi nell’esplosione
di un conflitto degenerativo, temevano avrebbe coinvolto inevitabilmente gli
Stati Uniti e le aree d’influenza americane. Il loro intervento tempestivo in ogni
parte del mondo, pur giustificato agli occhi dell’opinione pubblica come una
decli­nazione della loro vocazione missionaria, era, in realtà, una mera strategia
egoistica per tutelare la propria sfera di influenza a dispetto dell’URSS. Questo
tentativo venne in gran misura intrapreso in quelle aree del mondo che, secondo gli studiosi Millikan e Rostow, si caratterizzavano per la loro natura “premo­
derna” e per il fatto di non ricadere ancora nell’orbita d’influenza sino-sovietica.
Soprattutto durante l’amministrazione Kennedy si tentò dunque di intervenire
e di prestare aiuti economici e militari ai Paesi in via di sviluppo, per definizione
deboli e vulnerabili al fascino degli ideali rivoluzionari comunisti. L’America Latina, il Vietnam del Sud e l’Africa furono sin da subito individuati come possibili
laboratori dove applicare le nuove teorie della modernizzazione. Gli interventi statunitensi e la loro portata modernizzatrice rivelarono ben presto però i
loro limiti, unitamente ad un’eclatante contraddizione interna: l’esigenza vitale
di contenere l’influenza comunista, tollerando – e in taluni casi appoggiando
– svolte neoautoritarie ed antidemocratiche, venne mascherata dalla necessità di esportare in questi Paesi “premoderni” le istituzioni democratiche ed il
sistema economico liberale per garantire il benessere alla popolazione civile
arretrata. Ci si rese conto infatti di come gli apparati militari potessero incar26
nare quel “potenziale modernizzatore” che era necessario diffondere nei Paesi
in via di sviluppo e rappresentassero, dunque, una forza stabilizzatrice in grado di prevenire la caduta di questi Stati nelle mani del comunismo. L’identità
modernizzazione-sicurezza rivelò ben presto il suo fondamento, grazie anche
alle posizioni radicali e portate alle estreme conseguenze dallo scienziato politico Samuel Huntington, il quale però mosse una severa critica alla teoria della
modernizzazione coniugandola con una forte esaltazione conservatrice ed antiprogressista dell’importante ruolo stabilizzatore delle forze armate.
Analizzando il concetto di modernizzazione nel periodo della Guerra fredda, è parso inoltre importante focalizzare l’attenzione anche sul nesso che
ha strettamente unito il tentativo di esportare il modello di modernizzazione
americana e la grande fiducia riposta nel progresso delle scienze; tale fiducia
ha avuto per oggetto sia le scienze sociali che le hard sciences, ed è giunta in
certi momenti a livelli tali da far parlare di scientismo.
Al termine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si presentavano
vincitori su tutti i fronti, e al vertice del nuovo ordine economico globale. Inoltre
lo sviluppo della bomba atomica, il vasto ricorso a brillanti menti scientifiche
per scopi bellici e la volontà di conservare il vantaggio tecnologico accumulato
sull’URSS avevano consegnato agli Stati Uniti anche una superiorità a livello
mondiale in campo scientifico.
I ripetuti successi tecnologici furono il combustibile che alimentò la fiducia
Buzz Aldrin sulla Luna fotografato da Neil Armstrong, 20 luglio 1969.
27
nelle hard sciences, esemplificata dalla promessa fatta dal presidente Kennedy
nel 1961 di portare l’uomo sulla luna (e farlo tornare sano e salvo) entro la fine
del decennio, promessa che in realtà venne fatta in un momento di profonda
instabilità delle certezze americane. Il programma spaziale sovietico, infatti, regalava di continuo all’URSS nuovi primati, costringendo per 3–4 anni gli americani ad una affannosa rincorsa, unitamente alla detonazione del primo ordigno
nucleare sovietico, avvenuta in largo anticipo rispetto alle previsioni, avevano
creato un senso di insicurezza generalizzato anche verso le capacità previsio­
nali degli scienziati di Washington. Questa paura spinse ad aumentare ulterior­
mente gli investimenti nelle istituzioni scientifiche, soprattutto in quelle che
potevano garantire avanzamenti nel settore bellico, e i nuovi successi, culminati nello straordinario programma Apollo, furono gli elementi che sancirono
il definitivo recupero della fiducia nel primato americano nelle scienze fisiche
e naturali e nella loro capacità di contribuire alla modernizzazione del paese.
Diverso è il discorso relativo alle scienze sociali, la cui accresciuta importanza si può probabilmente ascrivere al combinato di crescita economica e stabilità politica che gli Stati Uniti conobbero dalla fine della guerra fino ai primi
anni Sessanta: l’espansione della middle class, dovuta alla massificazione dei
consumi, e la riduzione della conflittualità sociale (che stava in realtà covando
sotto la cenere in attesa di esplodere nei decenni successivi), generarono in
molti scienziati sociali ed in alcuni politici (ma non solo) la convinzione che gli
Stati Uniti avessero trovato la chiave per realizzare la società perfetta, o che
fossero comunque sulla strada giusta.
Nell’ambito del nuovo ordine geopolitico globale che si andava delineando
e dopo la nascita dei due blocchi, apparve chiaro a molti che il Paese poteva e
doveva farsi carico di esportare il proprio modello di sviluppo, anche se dietro
questa spinta vi erano due motivazioni differenti: una minoritaria ed ideologi­
ca che vedeva nello sviluppo altrui (realizzato naturalmente seguendo il mo­
dello americano) un fatto in sé positivo, ed una maggioritaria che inseriva tale
processo nel contesto della Guerra fredda, contrapponendo la modernizzazio­
ne “giusta” americana a quella “malata” sovietica, indicando in questo modo
la via da seguire per i Paesi che sarebbero dovuti ricadere all’interno o sotto
l’influenza del blocco occidentale.
Un chiaro esempio di questa volontà di esportazione si può rintracciare nel
paper che Rostow pubblicò nel 1960 con il titolo The Stages of Econo­mic Growth:
A Non-Communist Manifesto, nel quale delineava in modo chiaro e netto il percorso di sviluppo che un’economia avrebbe dovuto seguire per raggiungere lo
stadio ultimo e migliore, quello della società dei consumi di massa, da lui identificato con la realtà americana. Dividendo lo sviluppo di un’economia nazionale in 5 stadi, Rostow individuò un percorso lineare e netto, che non prevede28
va la possibilità di salti in avanti o passi indietro, e che se imboccato nel modo
corretto avrebbe portato ad un’unica conclusione: lo sviluppo di un’economia
capitalista, basata sulla massificazione dei consumi, migliore del, ed alternativa
al, modello comunista (del quale riconosceva le capacità di generare crescita,
che definiva però “malata”). Si trattava insomma di una teoria scientifica con
valore fortemente prescrittivo, che idealizzava il modello americano rendendolo applicabile a tutte le realtà possibili, senza che ne venissero considerate
peculiarità e differenze.
La modernizzazione aveva però un’altra dimensione, quella riguardante la
crescente attenzione verso il tema dei diritti umani. A metà degli anni Settanta,
infatti, il paradigma della modernizzazione americana tentò di rivolgersi verso
nuove frontiere: in particolare, con l’amministrazione Carter, gli Stati Uniti si fecero garanti del rispetto dei diritti umani, questione basilare per lo sviluppo di
rapporti internazionali di natura collaborativa o commerciale. Seppure tale li­
nea politica non rappresentasse propriamente una novità – si pensi alla Confe­
renza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa e all’Atto di Helsinki del 1975,
contenente il “third basket on human rights” – l’appoggio dell’amministrazione
americana a questo indirizzo fu decisivo per conferire alla politica di distensione europea quella credibilità internazionale necessaria ad avviare la discussione su temi molto delicati che, spesso, andavano ad interferire con la sovranità
statale. Il partito democratico americano aveva già tentato un simile approccio
nella prima metà degli anni Settanta con l’emendamento Jackson-Vanik, pro-
Firma dell’Atto di Helsinki, 1° agosto 1975.
29
posto nel 1972 ed approvato nel 1974, che legava la disponibilità americana
ad e­sportare grano in URSS alla certezza che all’interno del blocco sovietico
fossero rispettati i diritti fondamentali dell’uomo. Tale emendamento, seppur
approvato e discusso, non fu applicato con grande vigore dall’amministrazione
repubblicana di Nixon e Kissinger: il linkage da loro elaborato, per ottenere risultati significativi, non prevedeva infatti un’intromissione invasiva nella sovranità del blocco sovietico. La situazione cambiò durante i primi anni
dell’amministrazione Carter. Fondamentale per la redazione del sopra citato
“third basket on human rights” e per l’“emphasis on human rights”, che guidò la
linea politica democratica nella campagna elettorale e nelle elezioni presidenziali del 1976, fu la figura di Zbignew Brzezinski. Quest’ultimo, divenuto Consigliere per la Sicurezza Nazionale, sostenne la necessità di un “nuovo linkage”
che fosse basato sulla diffusione dei diritti umani in tutta la sfera d’influenza
sovietica. Questa nuova posizione americana rappresentò un passo decisivo
per la diffusione della modernizzazione o, meglio, del paradigma di moder­
nizzazione che gli americani si erano proposti di esportare. L’intransigenza che
l’amministrazione democratica mostrava sul tema dei diritti umani spinse infatti l’URSS a modificare i suoi parametri di azione: mentre nel 1945 la potenza
comunista si era astenuta dal voto sulla Carta dei diritti fondamentali dell’uomo
proposta dalle Nazioni Unite, nel 1975, con il mutare delle condizioni politiche
internazionali europee (Ostpolitik) e americane, firmò l’Atto di Helsinki e, nel
1977, adottò una nuova costituzione che garantiva il rispetto delle libertà riconosciute fondamentali dalla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione
in Europa. Come noto, l’amministrazione Carter subì si allontanò progressivamente dalla “human rights policy” nel corso del suo mandato, distacco che culminò con l’adozione della vecchia agenda della Guerra fredda. Probabilmente,
questo radicale cambio di direzione, insieme alla mal gestita tensione derivante
dal sequestro degli ostaggi americani in Iran, fu la causa della sconfitta di Car­
ter alle successive elezioni presidenziali. Secondo molti studiosi, gli ultimi anni
di Carter segnarono una profonda controtendenza rispetto ai primi. La svolta
antisovietica alla fine del suo mandato equivaleva, del resto, a riconoscere che
quella seguita fino ad allora era stata una linea sbagliata e imprudente, almeno
agli occhi dell’opinione pubblica. Tale cambiamento di Carter nell’approccio alle
problematiche internazionali condizionò significativamente anche il suo contributo nel campo dei diritti umani. Romero definisce tale insuccesso di Carter
come “il suo mesto destino politico”, ma anche altri studiosi concordano che la
dualità di Carter inficiò la validità dei risultati, alcuni parziali, altri completi, da
lui ottenuti, che furono in seguito esaltati dalla decisa politica di Reagan. Se,
infatti, si può ampiamente discutere sul successo politico della gestione Carter,
è meno discutibile l’impatto che il suo nuovo paradigma di modernizzazione
30
ebbe a livello mondiale e nel confronto bipolare. Non può essere imputata
alla mera casualità infatti la proliferazione, durante la sua amministrazione, dei
movimenti dissidenti all’interno del blocco sovietico. Nel 1976, infatti, nacque
il Moscow Helsinki Group, movimento di militanti per i diritti umani fondato da
Yuri Orlov, che intrattenne numerosi rapporti di corrispondenza con il presidente democratico. L’anno successivo venne, invece, fondato in Cecoslovacchia
il movimento Charta 77, guidato dal drammaturgo Václav Havel, il principale
protagonista del processo che portò al raggiungimento dell’indipendenza dal
blocco sovietico alla fine degli anni Ottanta. Carter fu, in definitiva, un uomo
nuovo nel panorama politico mondiale: sollevò una problematica considerata,
forse per troppo tempo, una questione di secondo piano. La freschezza delle
sue idee, anche se non sostenute fino all’ultimo, fu sicuramente percepita da
coloro che lottavano quotidianamente per le libertà fondamentali dell’uomo:
non a caso, il presidente americano risulta essere, tra i politici dell’epoca, il più
citato in assoluto nelle opere dei dissidenti appartenenti al blocco di nazioni
che sottostava al regime comunista.
La delicata questione dei diritti umani andò a intrecciarsi col paradigma della modernità per rendere protagonista dello scontro bipolare un nuovo teatro,
fino a quel momento oscurato dalla colonizzazione, e appetibile alleato per
entrambi gli schieramenti: il Terzo Mondo. Negli anni Sessanta, questa regione
divenne l’obiettivo principale delle politiche statunitensi che attraverso riforme
economiche miravano alla crescita del PIL e della produttività. La Guerra fredda
divenne pertanto davvero globale, investendo Africa e Asia e coinvolgendo a
Il presidente Kennedy davanti alla placca inaugurale di un’iniziativa all’interno
del programma di aiuti ”Alleanza per il Progresso”, Colombia, 17 dicembre 1961.
31
lungo i Paesi dei due continenti; i paradigmi di modernizzazione e le promesse
di benessere erano le armi con cui pretendere lo schieramento a favore di uno
dei due blocchi, attraverso l’attuazione di politiche che non erano altro che la
messa in pratica delle teorie di Rostow tanto in auge all’epoca.
È possibile individuare un parallelismo tra l’esportazione della mo­
dernizzazione di Rostow e l’esportazione della democrazia in Iraq teorizzata
dall’amministrazione Bush e legata alla retorica della democrazia. Una democrazia – globale – che appariva sotto attacco all’indomani dell’attentato al World
Trade Center dell’11 settembre 2001.
Persino Le Monde, notoriamente scettico verso le politiche USA, titolò in
prima pagina “We are all Americans”. Così facendo l’allora presidente George
W. Bush poté elaborare la sua dottrina, plasmata sul modello di Reagan, forte
del sostegno europeo di fronte alla prospettiva di avere un comune nemico da
fronteggiare e sconfiggere. Esattamente come ai tempi della Guerra fredda,
gli Stati Uniti ritrovavano il loro ruolo e la loro posizione andando a riempire il
vuoto strategico lasciato dal crollo dell’Unione Sovietica e dall’impossibilità di
dare un nome e un volto alla minaccia.
Oggi terrorismo, ieri comunismo. Quello che negli anni Ottanta Reagan
definiva empire of evil, l’impero del male, veniva definito da Bush come axis
of evil, l’asse del male. L’effetto rievocativo fu sensazionale, e la miscela esplosiva fatta di patriottismo, sicurezza e promozione della democrazia sembrava
funzio­nare, rimettendo in moto la potente macchina globale, per troppo tempo lasciata senza una guida. Gli Stati Uniti erano saldamente di nuovo seduti
al posto di comando, quello che lo storico Lundestad definisce letteralmente
“driver’s seat”, posto di guida, e si poteva pertanto tornare a ragionare da
“America”, e a imporre la propria visione del mondo, esportando democrazia a
suon di bombe e a colpi di proiettili.
Quello a cui però oggi bisogna sottrarsi, nel delirio di onnipotenza in cui
troppo spesso sono cadute le amministrazioni statunitensi, è il ragionamento
basato esclusivamente su simboli, che non permette di tenere in conto quelle
variabili che prescindono dai posti di comando di Washington. Questa è probabilmente la ragione per cui il modello di modernizzazione che gli Stati Uniti
impongono al resto del mondo fallisce: la poca attenzione alle peculiarità locali
e regionali, e la fondamentale assenza di una middle class sulla quale far attecchire i valori democratici.
Diventa quindi importante cercare di cogliere l’evoluzione del legame di
stampo statunitense tra la sicurezza nazionale e quella globale. La fine della
Guerra fredda ha imposto un cambio radicale nella gestione degli scenari di
guerra in cui gli Stati Uniti sono coinvolti. Il disimpegno militare non ha però intaccato la leadership incontrastata dell’unica superpotenza rimasta sulla scena
32
globale dopo l’implosione dell’impero sovietico. La modernizzazione in campo
bellico rende possibile il paradosso di una guerra senza responsabilità, una
guerra senza volto che non deve far i conti con le esigenze elettorali. È il caso
delle cosiddette outsourced wars, guerre che contano sul campo la presenza
di compagnie militari private a sostegno o in sostituzione degli eserciti nazio­
nali, chiamate private military companies (PMCs). Si tratta di squadre speciali
che operano per conto del governo che le paga, offrendo sostegno logistico
nella pianificazione degli interventi, partecipando direttamente a conflitti interni e internazionali o provvedendo all’addestramento e all’equipaggiamento
delle forze dell’esercito dello Stato per cui lavorano. Un rapporto pubblicato
nel 2009 dal PRIO – International Peace Research Institute di Oslo – spiega che
gli Stati Uniti sono il Paese con il maggior numero di contractor sul proprio libro
paga (nella prassi si parla di “contractor” per indicare le persone che lavorano
per queste società). E un altro studio dell’INSS – Institute for National Strategic
Studies – spiega come in Iraq e Afghanistan l’utilizzo di contractor ha raggiun­
to numeri senza precedenti nelle operazioni militari americane. Per il governo
americano i vantaggi di affidarsi a forze esterne derivano dalla maggiore velocità di dispiegamento sul territorio e dalla riduzione del numero di soldati
americani impiegati nel conflitto e – di conseguenza – dalla riduzione delle
“perdite ufficiali”. Dal gennaio del 2010, infatti, in Iraq e in Afghanistan sono
morti più soldati appartenenti a milizie private che marines. Queste vittime
sono – nel gergo militare – “off the books”, non sono registrate nei rapporti del
Pentagono, la sede del quartiere generale del Dipartimento della Difesa degli
Stati Uniti – ma in quelli del Dipartimento del Lavoro – e quindi rimangono
e­scluse dal dibattito politico sui numeri di una guerra. Innegabile è anche il
vantaggio economico: si risparmia sugli stipendi oggi e soprattutto sulle pensioni domani, dato che i contratti sono stipulati a tempo determinato e vincolati alle singole missioni. Gli svantaggi di affidare questioni ritenute di sicurezza
nazionale a mercenari senza bandiera derivano invece dalla difficoltà di verificare la qualità del personale arruolato, e dal fatto che il governo non ha il pieno
controllo delle interazioni quotidiane di queste truppe con la popolazione locale. Il coinvolgimento di mercenari sul campo di battaglia non è un fenomeno
nuovo – presero parte anche alle guerre d’indipendenza ai tempi di George
{
La fine della Guerra fredda ha im­
posto un cambio radicale nella
gestione degli scenari di guerra
in cui gli Stati Uniti sono coinvolti
33
}
Washington – ma dagli anni Novanta è diventato sempre più comune rivolgersi
alle compagnie di contractor. Uno studio dell’ICIJ – International Consortium of
Investigative Journalists – rivela l’esistenza di almeno 90 compagnie militari private che operano in più di 110 Paesi nel mondo. Insomma, “l’amministrazione
più trasparente della storia” – così definita dal presidente Obama in videoconferenza su YouTube – è coinvolta in scenari di cui non si trova traccia nei
telegiornali della sera. In una testimonianza al Congresso, il giornalista Jeremy
Scahill ha descritto così le “guerre ombra” dell’amministrazione Obama: “Se
c’è stato un cambiamento, consiste nel fatto che Obama sta colpendo con più
forza e in un maggior numero di nazioni di Bush. Sotto l’amministrazione Bush,
le forze speciali statunitensi operavano in 68 nazioni. Sotto il presidente in cari­
ca operano in 75 nazioni”. Appaltare la propria sicurezza a compagnie private
è quindi un rischio-opportunità che gli Stati Uniti sono disposti a correre per
condurre le loro politiche mondiali a luci spente. Così facendo, la middle class
in America non ha l’esatta percezione delle politiche militari intraprese dalle
diverse amministrazioni. Mancando questa percezione, è possibile costruire il
consenso e – in periodo elettorale – uniformare la classe media ai problemi che
la attanagliano da vicino e allontanarla da quelli che invece non sembrano rappresentare emergenze. I numeri ufficiali delle guerre, grazie ai contractor, non
rappresentano un’emergenza nazionale. La middle class può pertanto dormire
sonni tranquilli.
BIBLIOGRAFIA
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http://www.govtrack.us/congress/bills/110/s674/te.
35
L’ascesa del ceto
medio in Asia e nel
mondo arabo:
Dai primi passi alle rivolte
neoliberiste
TOMMASO CASALONE, ANNA CHIARA FILICE, MARTA
GIUSTI,GIOVANNI GOTTUSO, GIULIA SACCHETTI*
L
’avvocato col panciotto, il banchiere con il monocolo, l’insegnante di italiano con l’abbecedario sgualcito insieme ai lavoratori specializzati della Ford
e agli ingegneri occhialuti delle fabbriche Knauf sono, per lo storico, borghesi.
Così la middle class diventa una categoria ampia, inclusiva, che allarga la sezio­
ne centrale della piramide sociale. Durante la lezione del professor Trentin e
di quella del professor Fiori la riflessione sulla middle class, le sue pareti scivolose, le sue specificità, i suoi movimenti, è stata estesa geograficamente all’Asia
orien­tale. “Si può parlare di middle class in Cina? E in Corea del Sud?”. Questo è
stato il quesito a cui la lezione di Fiori ha cercato di rispondere, mentre il professor Trentin si è concentrato sul seguente interrogativo: “Quanto di europeooccidentale esiste nella middle class araba e quali sono, invece, le specificità di
questo soggetto socio-politico?”.
In un percorso cronologico sul Medio Oriente, l’inizio di una serie di fenomeni sociali quali l’accumulazione della ricchezza, la possibilità di fare impresa
{
Si può parlare di middle class in Cina?
E in Sud Corea? Quanto di occiden­
tale esiste nella middle class araba?
* Dalle lezioni di Massimiliano Trentin e Antonio Fiori.
36
}
e l’emergere di nuovi sbocchi commerciali, si ha con il Tanzimat, il cosiddetto
periodo di riforma. Così prende forma una classe media caratterizzata da proprietà, educazione e fedeltà al governo, l’effeddiyya. Una sorta di borghesia
imperiale, laica e istruita, che include non solo i funzionari di una pubblica amministrazione modellata sull’esempio europeo, ma anche commercianti, liberi
professionisti o, dopo la riforma agraria del 1858, i figli dei nuovi imprenditori
agricoli.
Con la Prima guerra mondiale, la rivoluzione kemalista e la fine dell’Impero
Ottomano questa classe sociale acquisisce anche in tutto il mondo arabo sempre maggior potere e comincia a autodefinirsi tramite modelli di consumo (cosa
si fuma, come ci si veste), ideologia politica (nazionalismo arabo e liberalismo)
e, soprattutto, attraverso la professione di fede musulmana. Nascono in questo
periodo numerosi giornali e riviste e, in tal modo, si ricerca l’omogeneità culturale, linguistica e amministrativa. Nella promozione della nuova leadership
della classe media araba sono le donne a giocare un ruolo molto rilevante.
Sono, infatti, inserite in movimenti emancipazionisti che sostengono il più delle
volte le battaglie liberali della middle class. La borghesia si trova a lavorare nelle
amministrazioni pseudo coloniali instaurate dagli europei (gli arabi chiamano
questo periodo Mudallaha, colonialismo de iure). In questo frangente l’Europa
fornisce modelli di consumo: gesti, riti, comportamenti come, ad esempio, riunirsi nei club.
A partire da questo momento, dunque, comincia quella che può essere
definita l’europeizzazione della middle class araba. Tale processo, però, contribuisce anche alla frammentazione e alla disgregazione della società: i “mo­
dernisti” (appartenenti alla classe politicamente dominante) si distinguono dagli “indigeni” (legati ai valori tradizionali, sociali e religiosi).
Dopo la Seconda guerra mondiale, una volta ottenuta l’agognata indipendenza, le nuove (middle class urbana europeizzata) e le vecchie (agrari, autorità
tribali) forze sociali si alleano per governare i nuovi Stati. Tra gli anni Quaranta e
Cinquanta il modello di consumo occidentale, assieme all’importanza riservata
alla proprietà, all’istruzione e alla respectability, divengono elementi caratterizzanti di fette sempre più ampie della società: i figli dei proprietari fondiari, gli
amministratori locali, le élites tribali.
Le caratteristiche d’accesso rispecchiano quelle della middle class occidentale, principalmente proprietà e istruzione. Non si può dire lo stesso per i tratti
identificativi e autorappresentativi: il linguaggio non è soltanto emancipazionista verso l’interno (dall’autorità ecclesiastica, dai vecchi proprietari fondiari, dai
legami familiari e tribali), ma anche nazionalista verso l’esterno, nel tentativo
di emanciparsi dall’antico legame di dipendenza (politica o economica) contratto in passato con il mondo europeo. I modelli di consumo sono gli stessi,
37
cioè orientati ai “lussi” europei (sigarette, abiti alla moda, musica, film) ma con
la differenza che tutto ciò deve essere prodotto in loco. Questa è la fetta di
middle class che finisce nei partiti di massa come il Bath o che sostiene Nasser
nella nazionalizzazione del Canale di Suez. L’Occidente, dunque, ha esportato
beni di consumo dai porti di Barcellona e Amsterdam e, con essi, desideri e
aspirazioni, ma quello che ha contribuito a mettere in moto è stato anche un
processo di diversificazione sociale con le sue importanti specificità.
Negli anni Settanta, complici le liberalizzazioni e l’apertura delle frontiere,
molti appartenenti al ceto medio abbandonano il paese d’origine e si arricchiscono all’estero per poi tornare, importando di nuovo stili di vita, più vicini ai
valori occidentali. Questi nuovi ricchi sono rappresentati dalla nuova classe politica al potere che, portatrice di istanze liberali, promotrice di privatizzazioni e
dell’apertura apertura ai mercati globali, seguendo le contingenze economiche
e politiche contemporanee, metterà fine al vecchio nazionalismo e statalismo.
Questa tendenza sarà combattuta dalla effediyya, che continuerà a pretendere
Pubblicità, Egitto, 1950.
38
di rappresentare la nazione e il popolo, non più tramite i partiti di massa ma con
strategie individuali per lo più differenti le une dalle altre, tramite piccole gilde,
quali Hamas o i partiti della sinistra radicale. Infatti, mentre i nuovi ricchi portano avanti privatizzazioni, speculazioni edilizie e una progressiva finanziarizzazione dell’economia, la middle class subisce le conseguenze di questi processi,
perdendo i suoi tratti distintivi, in primis il lavoro, poi la proprietà della casa
e dopo ancora l’istruzione. È questa middle class scontenta, impoverita e assoggettata che diverrà il nerbo dei movimenti di rivolta scoppiati tra il 2010 e
il 2012, conosciuti con il nome di Primavera araba.
Strade molto differenti sono state invece prese nella definizione della mid­
dle class nei due paesi dell’Asia orientale qui considerati. Una definizione che risulta problematica a causa della difficoltà di stabilire se effettivamente si possa
parlare di classe media secondo gli stessi parametri sopra utilizzati.
Come delineato nella lezione del professor Fiori, il primo elemento riscontrabile nel caso cinese risulta essere la totale mancanza di qualcosa di propriamente definibile come “classe media” nel periodo che va dal 1949 – anno in
cui Mao Tse-Tung instaura la Repubblica Popolare Cinese – fino alla morte del
leader nel 1976. La ragione di tale mancanza risiede nel dominio dell’ideologia
politica maoista e nel concetto di equità che il partito unico faceva propria.
L’equità si fondava sulla negazione delle disuguaglianze sociali e di classe e si
riconosceva nel carattere prevalentemente rurale della società. Le uniche due
classi ammesse dal partito erano infatti quella dei lavoratori e quella degli agricoltori, mentre era totalmente assente una porzione centrale della scala sociale.
Le ripetute offensive di Mao contro gli intellettuali avevano, inoltre, l’obiettivo
di controllare un milieu culturale dal quale potessero giungere sfide a questa
visione rigida e programmata della società cinese. Nonostante ciò, non fu solo
l’ideologia a contribuire all’assenza di forme di organizzazione sociale identifi­
cabili con la middle class. L’eredità lasciata dalla natura arcaica e agraria della
società tradizionale, infatti, era molto forte e la Cina e dopo un secolo di umilia­
zioni e guerre rimaneva un Paese estremamente povero e sottosviluppato, nel
quale però le ricette economiche del maoismo non diedero i risultati sperati.
Tale situazione di immobilismo mutò nel 1978 quando, dopo la morte di
Mao – seguita da una violenta lotta per la successione –, emerse finalmente
la personalità di Deng Xiaoping. Il nuovo leader si fece fautore di un processo
di rinnovamento riassunto nella cosiddetta teoria delle “quattro modernizzazioni” (della scienza, dell’industria, dell’economia e dell’esercito). Fu questo
periodo di riforme che permise la formazione di nuove forme sociali, identificabili soprattutto in un’imprenditoria privata di dimensioni contenute, la cui
esistenza fu resa possibile – una volta superate le barriere dell’ideologia – grazie alla parziale privatizzazione dell’industria a capitale statale. L’abbandono
39
dell’ortodossia marxista, inoltre, fece sì che agli agricoltori venisse permesso di
trattenere parte del surplus, favorendo la nascita di piccoli proprietari, mentre
fino a quel momento il lavoratore era colui che non poteva fare altro che svolgere lavori manuali sia nelle industrie di stato che nello stesso settore agricolo.
A ciò si aggiunse – com’era accaduto con la nascita della effeddiyya nel mondo
arabo – il raggiungimento di livelli di istruzione più elevati. La modernizzazio­
ne diede avvio anche a una parziale apertura economica verso l’esterno, con
la creazione di enclaves commerciali nel sud-ovest del Paese che permisero
l’afflusso di beni e merci occidentali, inaugurando un trend sempre più liberale
nelle politiche commerciali ed economiche, riflesso anche nella trasformazione
di usi e consumi della società.
Questi cambiamenti ebbero l’effetto di contribuire al miglioramento nel tenore di vita della popolazione e hanno tutt’oggi l’obiettivo di condurre la Cina,
con tassi di crescita sostenuti, in una nuova fase di prosperità e armonia sociale
che il premier Hu Jintao nel 2005 ha definito proprio col nome di “società armoniosa”, una formula che coniuga le istanze marxiste del partito alle radice
più profonde della concezione tradizionale cinese del mondo e della società.
Se si identificano questi settori della società che hanno beneficiato finora
dell’espansione dell’economia cinese con il concetto di classe media, è necessario però specificare che tale fenomeno sociale è stato strettamente control-
Televisori in esposizione in un grande magazzino di Pechino, 1981.
40
lato e guidato dal governo e dal Partito comunista. La legittimità stessa del
regime risiede nella sua capacità di permettere la continuazione del benessere
e l’ampliamento della base sociale che ne beneficia. Nel momento in cui questa
dovesse invece impoverirsi o perdere i benefici economici conquistati, le fondamenta del potere comunista in Cina verrebbero messe in discussione.
Come riscontrato anche nell’analisi condotta sulla Corea del Sud, si è notato
come la formazione della classe media in Cina e in Corea sia stata un processo
fondamentale nella auto-legittimazione del governo: semplificando il fenomeno, i regimi al potere crearono le classi medie al fine di perseguire i propri scopi
politici e consentire la continuità del regime stesso, eliminando i tentativi di
creare alternative al potere costituito. L’aspetto che caratterizza maggiormente
queste comunità sociali è la modalità di consumo dei nuovi beni prodotti resa
possibile grazie al possesso della ricchezza, possesso consentito con la finalità
di rendere la popolazione mansueta e controllabile e funzionale alla legittimazione del regime.
Nel caso specifico della Corea del Sud fu il governo militare del generale
Park a favorire, a partire dal 1961 in poi, il processo di stratificazione sociale
che delinea i tratti della classe media coreana. La necessità di ottenere una legittimazione che trascendesse i fattori di forza e violenza caratteristici di una
presa di potere militare indusse Park a cercare garanzie di stabilità ed equilibrio governativo attraverso la creazione in vitro e la composizione di fattori
sociali ed economici in grado di assicurare una legittimazione sia interna che
esterna (solidità, potere regionale e capacità di contrattazione con le grandi
potenze). In quest’ottica la classe media coreana venne investita di un ruolo
politico funzionale agli obiettivi di stabilizzazione governativa e la poderosa
crescita economica fu una via per rafforzare questa investitura: ciò accadeva
nel sistema di chaebol. Queste ultime erano conglomerati industriali di enormi
dimensioni che svolgevano anche la funzione di “microcosmi di welfare”: se lo
Stato coreano creava i presupposti legislativi, le chaebol erano i provider, offrivano cioè lavoro e protezione sociale a fette consistenti della forza lavoro.
Il ceto medio inserito in questa peculiare forma di organizzazione economica
era simbolicamente raccolto in quartieri residenziali costruiti ad hoc e aveva
un’attitudine mansueta e conciliante nei confronti di un regime autoritario che
era, però, la garanzia della condizione di relativo benessere. Proprio questo
fattore economico, unito alla contrapposizione sociale dei movimenti studenteschi contrari al regime militare di Park, delinea la classe media coreana. Peculiarità di questa fetta di popolazione è, infatti, la mancanza di una coscienza di
classe, lacuna allevata con “amore” da un progetto governativo che preferì premere sull’acceleratore economico piuttosto che cambiare marcia su istruzione,
educazione e formazio­ne culturale. A conferma di ciò, solo a metà degli anni
41
Ottanta, quando una crisi economica sconvolse il Paese e le rivendicazioni studentesche favorevoli alla liberalizzazione politica presero forza, la classe media coreana ricoprì quel ruolo di elemento di cambiamento sociale ed espressione dell’identità nazionale che aveva già assunto all’epoca dell’instaurazione
del regime, diventando ora però promotrice della democrazia. Con le dovute
differenze, quello coreano è un percorso che ricorda l’evoluzione della classe
media nel mondo arabo ma si distingue nettamente dal caso cinese. La middle
class cinese, nel momento in cui ne avrebbe avuto l’opportunità – durante i fatti
del 1989 a Tienanmen – non raccolse le rivendicazioni degli studenti e degli
intellettuali, così come avvenuto in Corea e, negli ultimi anni, nel mondo arabo
con le primavere arabe. La classe media cinese rimase e rimane un ceto consumatore ma non un’espressione del cambiamento sociale. Il professor Fiori,
partendo proprio da quest’ultima considerazione, arriva a suggerire che il ceto
medio cinese potrebbe fungere da fulcro per la destabilizzazione e il cambiamento della società solo qualora raccogliesse e si facesse portavoce di tali
rivendicazioni.
Come sottolineato in precedenza, l’analisi comparata della classe media
araba, cinese e coreana porta a concludere che, così come in Occidente, la
middle class è concepita come un potente strumento di legittimazione e di
coesione sociale.
La comunanza nelle dinamiche di formazione e identificazione delle classi
medie mediorientali e asiatiche sembra tuttavia non determinare una stessa
comunanza di carattere e attitudine. La reazione alla crisi economica, infatti,
presenta forme e declinazioni completamente diverse nelle aree considerate,
inducendo a chiedersi cosa abbia a tal punto diversificato le tre esperienze.
Il confronto tra quanto appreso dalle due lezioni conduce a sostenere che
per comprendere le classi medie occidentali o orientali e delinearne, così, un
processo evolutivo, è necessario analizzare la coscienza che esse hanno del
proprio ruolo politico e del potere che esse detengono nell’esercitarlo.
Se da una parte l’inerzia della classe media cinese è facilmente riconducibile all’assenza di tale coscienza, dall’altra la potenza di quella mediorientale
è ciò che ha portato a rivendicazioni cosi violente e drammatiche da generare
una vera e propria rivoluzione.
{
Così come in Occidente, la middle class
è concepita come un potente strumen­
to di legittimazione e coesione sociale
42
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Pubblicazioni degli
ex-alunni
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• Tesi di Laurea Magistrale (2012): Strength and Optimism: Ronald Reagan’s
Soviet Policy beyond the Neoconservatives, Università di Bologna (Sede di
Forlì), Facoltà di Scienze Politiche “Roberto Ruffilli”, Tutor: Mario Del Pero.
LUCIANA BARONE
• Tesi di Dottorato (2012), L’amministrazione Nixon e il Cile di Allende, 1970–
1973, Università del Salento, Tutor: Giuliana Iurlano.
• “Le elezioni presidenziali cilene del 1970 e la spoiling operation degli Stati
Uniti”, in Eunomia, 1/2013, pp. 273–296, http://siba-ese.unisalento.it/index.
php/eunomia/article/view/13018.
The official entry of Latin America in the bipolar competition had given
way to a real anti-Communist crusade in the region since the strong popular discontent, due to economic backwardness and political instability, offered the favorable humus to Communist infiltration in the Western Hemisphere. Thus, it was necessary to maintain a US sphere of influence within
the Southern continent. The possibility, more and more concrete, that the
Chilean presidential election of 1970 would bring to power an avowed
Marxist posed to the US government one of the most serious challenges it
had ever faced in this area. Therefore, concerned at the consequences that
the victory of a socialist candidate could have on the US economic and political interests in Chile – in addition to serious geopolitical repercussions
throughout the region –, the United States pledged to prevent such an
eventuality. So, it was decided to finance a spoiling operation against the
Popular Unity, the communists, socialists and left-wing elements coalition
who supported Allende. In order to achieve this objective, the CIA resorted
to covert operations and started an intensive propaganda campaign, relying on the fear that the victory of Allende would be identified with violence
and Stalinist repression. Despite these efforts, the US “spoiling campaign”
was not successful and the Socialist candidate Salvador Allende won the
1970 presidential election, although by a narrow margin.
44
MATTEO BATTISTINI
• “Un mondo in disordine: le diverse storie dell’Atlantico”, in Ricerche di Storia
Politica, 2/2012, pp. 173–188.
The article reconstructs the several political genealogies of Atlantic history
and the equally many methodological approaches and interpretations of
the Atlantic world, discussing how these transnational histories relate to
the latest historiographical perspectives on global history. This review essay
discusses the “white” Euro-American Atlantic, the “black” and “red” Atlantic, and the commercial and consumerist Atlantic. It does so by highlighting
how different tonalities concur to define a diverse and changing Atlantic,
depending on the subjective, geographic, cultural or social perspective one
adopts. From different points of observation, the article focuses on the reasons for the divergence between Atlantic history and political history, and
the opportunities of dialogue between the two.
• “Living in Transition in the Atlantic World: Democratic Revolution and Commercial Society in the Political Writings of Thomas Paine”, in Nuevo MundoMundos Nuevos, Coloquios, Puesto en línea el 27 junio 2012, http://nuevomundo.revues.org/63485.
By reconstructing Thomas Paine’s vision of the Atlantic world, this paper will
discuss three main points. Firstly, it will be demonstrated that Paine’s political thought articulated an understanding of the historical and theoretical
relationship between commercial society and representative democracy.
This will highlight the convergences and divergences between the American and French revolutions, and the mechanisms of political and social
transition that moved the Atlantic world into the nineteenth century. Secondly, it will be argued that this historical and theoretical relationship between commercial society and representative democracy, found in Paine’s
work, claims to reconsider contrasting conceptions of Atlantic history. From
its beginnings, Atlantic history has been treated as political history, but
new Atlantic studies – such as social and economic histories or histories of
material culture – have done much to eclipse the political aspects of the
history of the Atlantic world by looking at other, equally interesting factors.
By reading Paine, this paper will instead argue that a faithful account of
Atlantic history cannot hold on to a strict distinction between the political
and social. Instead, the political and the societal are interrelated, both conceptual camera lenses through which the Atlantic world during this era can
be more accurately captured.
• Una Rivoluzione per lo Stato: Thomas Paine e la Rivoluzione americana nel
mondo atlantico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 257.
Over the course of his intense political and intellectual life, Thomas Paine
45
•
assumed different semblances and maintained sometimes discordant political positions. In the book we will meet the officer of excise of the British
State against whom the north American colonies would declare their independence. We will meet the collaborator of the Superintendent of Finances
of the Continental Congress. We will again meet the man of the bank, worried about protecting what he thought of as a fundamental financial institution for the development of a national market against popular protests.
These diverse faces do not reflect an incoherent author or an opportunistic
politician, but show a man capable of interpreting the profound and contradictory political and social transformations of his time, as few others
protagonists of the revolution were capable. And these transformations
outlined the historical context in which the decisive confrontation for real
independence took place, that is the construction of the early American
State.
“Harold Lasswell, the ‘problem of World Order’, and the Historic Mission of
the American middle class”, in F. Fasce, M. Vaudagna, R. Baritono, Beyond
the Nation: Pushing the Boundaries of US History from a Transatlantic Per­
spective, Torino, Otto, 2013, pp. 225–254.
The author reconstructs Lasswell’s main political contribution to American social science: his universal conception of the middle class as a social
and cultural device that shaped both the American sociologists’ systemic
understanding of society and the consensual framework of the American
world politics after the World War II. His policy science not only defined the
function of symbols and values in society, but had also forged the term and
the vocational role of the middle class that was promulgated by the liberal
historians of the fifties, and that actually became the “common sense” of
the American political culture during the Cold War: as middle class was a
“state of mind”, it could be “society-wide”, namely all peoples, social groups
and personality types could become part of it, enjoy its moral privileges
and concur to its historic mission.
ALBERTO BENVENUTI
• Tesi di Dottorato (2013): Il nazionalismo afro-americano e la Cuba rivoluzio­
naria dal 1959 agli anni del Black Power, Tutor: Stefano Luconi.
My research takes into consideration the political and cultural exchanges
between revolutionary Cuba and some African American leaders in the Sixties and Seventies. While civil rights advocates distanced themselves from
Castro’s Cuba, many black radicals perceived the alliance with Cuba as an
opportunity to internationalize their struggle. As they were promoting revolutionary Marxism and Third-worldism, Cuban guevarism represented a
46
source of inspiration for them. The research argues that Black Power internationalism had its roots in the black nationalists’ support for the Cuban
revolution, and it also shows that, even if the Castro regime initially supported black radicals’ protests, the ideological incompatibility between socialism and black nationalism caused many clashes between African Americans and Cuban communists. This incompatibility became more and more
obvious when Ernesto Guevara left Cuba in 1965. Since then, the growing
political influence of the Soviet Union contributed to worsen black Americans’ relations with Cuba: USSR’s strict Marxism – many blacks argued –
was not the solution to solve the racial problem in the US.
CRISTINA BON
• Alla Ricerca di una più perfetta Unione. Convenzioni e Costituzioni negli
Stati Uniti della prima metà dell’800, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 291.
As an instrument for revising the fundamental laws of the State, the device
of the constitutional convention proved vital to reach that idea of “more
perfect Union” called for by the Charter of Philadelphia in 1787. Up to now,
though, this institutional device has been exclusively used by the member
states of the Federation. By analyzing both the procedures and issues addressed by the constitutional revision processes at the state level, the first
aim of this book is that of identifying the contribution given by the states
to the creation of a “more Perfect Union”, during the so called antebellum
period. Finally, in the light of a political context punctuated by a series of
federal crisis centered on the slavery issue, this book reflects upon the potential links between the constitutional development of the states and the
political and institutional dynamics which brought the Federation to the
edge of the Civil War.
• “Verso una more perfect union. Problemi di rappresentanza politica e revisione costituzionale negli Stati Uniti del primo Ottocento”, in L. Scuccimarra,
G. Ruocco (a cura di), Il governo del popolo. Rappresentanza, partecipazione,
esclusione alle origini della democrazia moderna, vol. 2, Dalla Restaurazione
alla guerra franco-prussiana, Roma, Viella, 2012, pp. 375–399.
This essay discusses the constitutional origin and the development of the
political representation in the United States, both at the Federal and at
the state level. In particular it focuses on the relation between the issues
of legislative apportionment, taxation system and slavery. After considering the way these three issues were discussed during the Constitutional
Convention of Philadelphia, this essay will analyze the consequences of
the federal representative system on the choices adopted by the states
and their democratic development in the first half of nineteenth century. In
47
•
•
particular the essay will focus on the Southern states, considering the way
in which the debate over the nature of slavery was deeply intertwined with
the problem of the state-legislative apportionment.
“Governatori sudisti e crisi costituzionali negli Stati Uniti della prima metà
dell‘800”, in Storia, Amministrazione, Costituzione, 2/2011, pp. 7–47.
With particular reference to the first half of the nineteenth century, the
American historiography has always stressed the limited role played by the
state governors since the origins of the federal system. This essay aims at
revaluate the overall importance and effectiveness of the state Governors
in the first half of the nineteenth century, with a particular focus on the
Southern states and the comparison of two case studies.
“Da Covenant a Convention: riflessione sulle origini dell’esperienza costituzionale statunitense”, in Cahiers Adriana Petracchi. Quaderni di studi
storici, 2/2011, pp. 143–176.
This essays analyzes the concept of convention and its political development at the origin of the US institutional experience.
DAVIDE BORSANI
• La NATO e la guerra al terrorismo durante la presidenza di Bush, Roma,
A­racne editrice, 2012, pp. 304.
NATO entered the 21st century unprepared to tackle international terrorism. The 9/11 attacks showed its strategic weakness, while putting the US
on a revolutionary path. Washington started a “hyper-securitization” process, which was questioned by some allies in Europe. The loyalty of the UK
was guaranteed, but France and Germany opposed the militarization of
the US foreign policy. The Western cohesion was at risk and the repercussions on NATO were sounding. When the major combat operations ended
in Iraq and Afghanistan, the insurgencies revealed the US deficiencies to
tackle stabilization and reconstruction operations. Washington was forced
to ask for political and military support to Europe and, at the same time,
Paris and Berlin realized their national interests had the need of the US
support. Thus, the crisis was left behind. However, at the end of the Bush
years, differences between the allies remained about the role of NATO, its
commitments in the Middle East and the burden sharing effect.
• “L’inevitabile
declino?
L’ordine
occidentocentrico
alla
prova
dell’understretching”, in Geopolitica, 1/2013, pp. 65–76.
In Europe and the United States, the financial crisis has caused significant
effects on the organization of State finances and, as a consequence, on
the politics of power. Backed by the public opinion, the “welfare state” has
been privileged over the “warfare state”. Thus, the United States has started
48
•
a process of withdrawal from the international theatre, while Europe does
not seem to have the resources and the willingness to take on new geopolitical responsibilities. The bridge which connects the two sides of the
Atlantic rests on two unstable pillars. If not reversed, the flow of power exiting from the West, could then change the equation of the global balance
of power with radical consequences for the current world order.
“La politica estera degli Usa, la visione ‘reaganiana’ di Mitt Romney”, in Isti­
tuto per gli Studi di Politica Internazionali (ISPI) Analysis, 117/2012.
The most part of the US public opinion generally remembers the 80s as a
successful decade, characterized by a great economic recovery and the victory in the Cold War at the expense of the Soviet Union. Those years came
after the uncertain 70s, when the US weakness was particularly visible.
Many authors used to describe the President Ronald Reagan, as the leading “actor” of that patriotic renaissance. More than 30 years later, the ghost
of the US decline is back. Mitt Romney, the Grand Old Party candidate for
the presidential election to be held in November 2012, declared one of his
main goals is to reverse this widespread perception. What is his perspective
of the world politics? And, should he won the election, how would he act
on the international stage to defend the US and Western interests around
the globe? The article addresses these issues, focusing on the suggested
historical parallelism between Jimmy Carter and Barack Obama, and – as a
consequence – between Ronald Reagan and Mitt Romney.
FRANCESCA CADEDDU
• Tesi di Dottorato (2013): Democrazia e cattolicesimo negli Stati Uniti. La
libertà di religione e il pensiero di John Courtney Murray, Università di Bologna, Tutor: Tiziano Bonazzi, Dottorato in “Europa e Americhe. Costituzio­
ni, dottrine e istituzioni politiche – Nicola Matteucci”, Scuola di Scienze
Politiche, Università di Bologna.
The work analyses the thought of John Courtney Murray from the political and theological perspective. It focuses on the influences of Catholic
and non-Catholic intellectual circles on the categories used to interpret the
history of Catholicism and American Catholics, and the relevance of the
jesuit’s theory on freedom of religion for the integration of the Catholic
community in the American society.
• “Washington, 5/6/2012″, in Lettere internazionali, La rivista – il Mulino, 5
giugno 2012, http://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/
News:NEWS_ITEM:1632.
A brief contribution on the issue of religious freedom raised by the Unites
States Episcopal Conference to stop the so-called “birth control mandate”.
49
MICHELE CENTO
• Tesi di Dottorato (2013): Una grande narrazione del capitalismo: potere e
scienze sociali nel pensiero politico di Daniel Bell, Tutor: Maurizio Ricciardi,
Cotutor: Francesco Tuccari. Dottorato in “Europa e Americhe. Costituzio­
ni, dottrine e istituzioni politiche – Nicola Matteucci”, Scuola di Scienze
Politiche, Università di Bologna.
This dissertation deals with Daniel Bell’s political thought between the
post-war era and the Seventies. Bell’s political reflection appears to be,
to say it in the words of J.-F. Lyotard, a “grand narrative” of capitalism. It
points out the height of fordism by assuming the end of ideology, and then
highliths the post-industrial transformations of capitalism, emphasizing the
effects produced on power relations and the legitimacy of the socio-political system. In Bell’s view, capitalism is not only an economic system, but
a complex social system which places individuals in the power structure
by means of subordination and coordination processes. Therefore, “what
holds a society together?”, apparently a sociological question, is the political question that marks his intellectual path. The link between politics and
sociology marks Bell’s thought and shows how social sciences are assumed
to be the political theory of modernity, insofar as they analyze the political
side of social relations as well as the social element inherent to the workings of political institutions.
• “Tra ‘Old South’ e ‘Old World’: i ‘Southern Agrarians’ e la critica conservatrice del progresso americano”, in Ricerche di Storia Politica, 1/2012, pp.
3–23.
The essay deals with a lesser-known wing of American conservatism: antiprogressive and anti-industrial Southern Agrarian intellectuals, based at
Vanderbilt University of Nashville (Tn.). Between the 1920s and the 1930s,
they focused on a critical analysis of the self-representation of America as
a progressive nation, and affirm the primacy of a traditional and agrarian
Gemeinschaft over the modern and industrial society embodied by the
United States. Their view lied on a reevaluation of the Old South intellectual
heritage through the appropriation of elements of conservative European
thought. The essay thus emphasizes the influence of Europe in shaping the
Southern Agrarians’ vision of the traditional society. Such vision was markedly different from the conventional image conveyed by progressive and
industrial America. Overthrowing the usual exceptionalist separation between Europe and America, the Southern Agrarians joined the intellectual
struggle to redefine the American identity.
• “Dalla fine dell’ideologia alla società post-industriale: Daniel Bell sociologo
del potere”, in Scienza & Politica, 45/2011, pp. 81–99, http://scienzaepo50
litica.unibo.it/article/view/2716.
The essay aims at overcoming the usual representation of the American
sociologist Daniel Bell as the theorist – or the “ideologist” – of the end
of ideology. As The Economist put it in his obituary in February 2011, Bell
was one of the “great sociologists of capitalism”. In this essay I will make
clear why I prefer this definition, reevaluating Bell’s works published after
his famous book on The End of Ideology. Namely, I will focus on his reflections which stem from The Coming of Post-Industrial Society and The Cul­
tural Contradictions of Capitalism, where a clear analysis of the structural
changes in capistalistic economies and the shortcomings of the Welfare
State emerges. This analysis leads us to the political, economic and social
crisis of the contemporary world.
FRANCESCO CONDOLUCI
• “La ‘sociocrazia’ nell’America tra Otto e Novecento. Il pensiero politico e
sociale di Lester Frank Ward (1841–1913)”, in Annali della Fondazione Ei­
naudi, vol. XLVI (2012).
This essay deals with the political and social thought of Lester Frank Ward
(1841–1913). Ward was a relevant social and political thinker in the United
States during the Gilded Age and the first decade of the Progressive Era.
In his works, published between 1883 and 1906, and in a great number
of articles, he supported rational and conscious planning to improve the
condition of society, defended State interventionism against laissez-faire
and developed an ideal of “sociocracy”, which he considered the scientific
government of society by society. In this essay, I analyze Ward’s life in order
to contextualize his ideas in a historical and biographical framework, especially focusing on his views on “sociocracy”.
PAOLA CORDISCO
• Tesi di Laurea Magistrale (2011): La caduta del Muro di Berlino nella stampa
USA, Università Roma Tre, Tutor: Daniele Fiorentino.
LORENZO COSTAGUTA
• “Marxismo, identità e nazione: la vita e il pensiero di Daniel De Leon”, in Pier
Paolo Poggio (ed.), L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero criti­co. Il
capitalismo americano e i suoi critici, vol. III, Milano, Jaca Book, (2013), pp.
375–390.
This essay discusses the life and thought of Daniel De Leon (1852–1914),
the leader of the Socialist Labor Party of the United States. De Leon was
born in Curaçao, a Dutch colony in the Caribbean Sea, and was educated
51
•
between American and Europe, before moving to the United States in the
1870s. After a period as a Lecturer of International Law at Columbia University, in 1890 he became the most prominent leader of the SLP, a position
he held until his death. The essay investigates De Leon’s thought from two
different angles: on the one hand, it discusses his biography in order to
consider the ways in which national and cultural influences shaped his intellectual production; on the other hand, it analyses writings and speeches
with the objective of reconstructing the developments of his thought during the various phases of his life (the growth of the SLP during the 1890s;
the failure of the Socialist Trade and Labor Alliance; the founding of the
Industrial Workers of the World).
“Social Norms and Legal Rules. A Comparison of the Theories of H. Hart,
J. Rawls and F. Hayek”, in Annali della Fondazione Einaudi, vol. XLVI (2012),
pp. 359–383.
This paper sets out to analyze a group of liberal theories that take a social
practice-based approach, namely those contained in The Concept of law by
Herbert Hart; Political Liberalism and Justice as Fairness by John Rawls; The
Constitution of Liberty and Law, Legislation and Liberty by Friedrich Hayek.
This essay focuses on the sources of Law and its role in a modern society.
It compares these theories in order to identify their negative and positive
aspects. It argues that, while Rawls’s project is a fruitful evolution of Hart’s
insights into legal jurisprudence, Hayek’s theory contradicts his own liberal
stance and ends up embracing a conservative point of view.
MATTEO DIAN
• Tesi di Dottorato (2012), The Politics of Asymmetry. The evolution of the
US-Japan Alliance, Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM), Tutor: Filippo
Andreatta.
• “The Shield and the Chrysanthemum. Missile Defense and the evolution of
the Japanese Security Strategy”, in WARning, 1/2013.
Japan is moving along a long-term trajectory to assume a “normal” security role, gradually eroding the self-binding prescriptions that have marked
its foreign policy identity during the Post War era. Recently, this process
has been accelerated by the emergence of new security threats in the East
Asian security environment. In the short-term, the North Korean nuclear
and ballistic program is the most immediate threat for Japan. In the longer
term, Chinese military modernization and the increasing power projection
capacity of the PRC represent the main strategic challenges. As a result
of these trends, Japan is moving away from its traditional post-war selfrestraint and is attempting to craft a more assertive security strategy in
52
•
•
response to what it perceives as newfound security realities. The development of the US-Japan Theatre Missile Defense represents a crucial step in
this direction. On the one hand, Japan’s participation in the Ballistic Missile
Defense system represents the de facto overcoming a considerable part
the legal and political underpinnings that had sustained the “Culture of
Antimilitarism”. On the other hand, it contributes to redefine the Japanese
role in the alliance with the United States, enhancing the interoperability
of forces and promoting a unified chain of command and control. These
developments are likely to encourage Japan to play a role of “hub nation”
and active junior partner in the US-led military apparatus in East Asia.
“No more a security consumer”, in ISPI Commentary, April 2013.
The American pivot to Asia, the increasing military capabilities of China’s
People’s Liberation Army (PLA) and the growing threat posed by the nuclear and ballistic program of the Democratic People’s Republic of Korea
(DPRK), have accelerated the evolution of the US-Japan alliance that had
started after the end of the Cold War. Even if Japan remains the cornerstone of the US engagement in the region, its bargaining power vis à vis
the United States has diminished within the evolving security environment.
This has forced Tokyo to rethink the main tenets of its security strategy.
“Japan and the US Pivot to Asia Pacific”, in LSE IDEAS Strategic Update, January 2013. (Republished also as ETH Zurich ISN Report in February 2013).
This paper analyses the consequences of the US pivot to Asia on the USJapan alliance and on Japanese foreign and security policies. On the one
hand, the US pivot is reassuring for Tokyo, since it seeks to “rebalance”
Chinese military ascendency and to strengthen extended deterrence in the
region. On the other hand, it contributes to the acceleration of the “normalization” of Japanese security policies, speeding the process of overcoming the institutional self-binding prescriptions that underpinned Japan’s post-war pacifism. This process, inaugurated by the first post-Cold
War renewal of the US-Japan Alliance in 1997 and culminating with the
adoption of the “dynamic defence concept” in 2010 and the relaxation of
the Three Principles of Arms Control in 2012, created a vicious cycle for Japan. During the post-war era, pacifist self binding prescriptions functioned
as “anti-entrapment devices” preventing Tokyo from becoming involved in
the conflicts that marked the Cold War in Asia. Today an increasingly “normal” Japan is no longer able to resist US pressure for a more active role in
the alliance and less unequal burden sharing. Moreover, China’s military
rise renders Tokyo ever more dependent on US forces. These trends compel Japan to accept further integration into the US military apparatus in the
region and to take additional steps towards the definitive abandonment of
53
•
•
Japan’s pacifist identity.
“State Capitalism: Can it Work?”, in Aspenia, July 2012.
The Recent crisis has reawakened the battle of ideas between free market
capitalism and alternative models. While the West seems to have no immediate answer to the question of how to rethink the relationship between
real economy, finance and politics, Chinese state capitalism is looking like a
possible option in terms of efficiency and growth. But behind the challenge
to global governance posed by Beijing lurk many risks.
“Hosts and Hostilities. Base Politics in Italy and Japan” in Silvio Beretta, Fabio Rugge, Alex Bekofsky, Italy and Japan. How Similar Are They?, London,
Springer, 2013.
One of the characteristic post war Japan and Italy share is the presence of
a vast network of American bases on their sovereign territory. The aim of
these bases varied since their edification. During the early postwar period
they contributed to keep under control the former enemies. During the
Cold War, they were essential elements of a “double containment” policy.
After the Cold War they become fundamental enablers of the American
“command of the commons”. Even if the purpose of the US bases has been
someway similar, “base politics” has had a very different impact on domestic and foreign policies of the two countries. In Japan the opposition has
been constant and intense, while in Italy the American presence has been
almost welcome. I will highlight how dynamics related to local, domestic and international politics determined these different approaches to the
presence of the bases.
CARLA KONTA
• “Antiamericanismo e titoismo: gli anni Cinquanta e la ‘zona grigia jugoslava’” in Contemporanea, 1/2013, pp. 65–86.
After the breaking of the Tito-Stalin political alliance in 1948, the Yugoslavian regime reviewed its national and foreign policy. It established the
strategy and goals of the non-alignment movement and, at same time, an
ambivalent Yugoslavian-American partnership. Anti-Americanism in Yugoslavia followed this political evolution; therefore the anti-American propaganda, shaped on the Soviet example in the 1940s, echoed the proclamations of the non-alignment international movement. For the Communist
party and in particular for its leaders, anti-Americanism was an instrument
to confirm the loyalty to the world-wide socialist cause, and legitimate their
power in front of the public opinion. Furthermore, Anti-Americanism was
meant to give evidence of Yugoslavian independence in front of western
allies and to offer the example of a non-alignment foreign policy. Through
54
the analysis of the Yugoslavian press, the government policies, and the
documents of the US Department of State (the Foreign Relations of the
United States), the author has examined the phenomenon of the Yugoslavian anti-Americanism as a key to reach a better historical understanding
of the “Yugoslavian grey zone”.
FULVIO LOREFICE
• Tesi di Dottorato (2012): For God’s sake! Lift the embargo to Spain.
L’amministrazione Roosevelt, i liberal e la guerra civile spagnola, Università
di Bologna, Tutor: Mario Del Pero.
• “La politica del governo degli Stati Uniti nella Guerra civile spagnola”, in
Ricerche di Storia Politica, 2/2013, pp. 183–198.
The article discusses the historiographical debate on the policy of the United States government toward the Spanish Civil War. The essay focuses on
two crucial issues. The first are the reasons of the “non-intervention”, which
resulted in a series of legislative measures such as the “moral embargo” of
August 1936, the Joint Congressional Resolution of January 1937, and the
Neutrality Act of May 1937. The second issue are the reasons that rendered
the Roosevelt Administration “deaf” to the requests of politicians and exponents of civil society to extend, at first, the embargo to Germany and Italy,
and to eventually lift it at a later time. In particular, the author discusses the
historiographical interpretations on Roosevelt’s behavior during the Civil
War and compares the US and the Spanish historiographies.
ANASTASIA MASSA
• Tesi di Laurea Magistrale (2011): Ida B. Wells e la Lotta contro i Linciaggi
negli Stati Uniti d’America, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, Tutor: Elisabetta Bini.
The main aim of my thesis is to verify how influential the figure of Ida B.
Wells was. She was one of the most important black activists during the
end of nineteenth century in the United States of America. She began her
activity for her community as a journalist trying to push the African-Americans to fight for their rights and to fight against the pressure of the white
southerner. Wells, in 1892, decided to write Southern Horrors in which she
described the horrors of lynchings and at the same time gave voice to the
helpless black people.
MARCO MORINI
• Gli Spot Elettorali nelle Campagne Presidenziali Americane: Forme, Immagi­
ni, Strategie, Torino, Otto Editore, 2011, pp. 246.
55
•
•
•
In a media-saturated environment in which news, opinions, and entertainment surround us all day on our television sets, computers, and cell phones,
the political ad remains the one area where presidential candidates have
complete control over their images. Political commercials use all the tools
of fiction filmmaking, including script, visuals, editing, and performance, to
distill a candidate’s major campaign themes into a few powerful images.
Ads elicit emotional reactions, inspiring support for a candidate or raising doubts about his opponent. While commercials reflect the styles and
techniques of the times in which they were made, the fundamental strategies and messages have tended to remain the same over the years. This
research analyzes the political ads realized for TV and the Internet by the
official campaigns of the four main candidates of the 2008 American primaries and presidential elections and the TV spots released by the political
action committees (PACs).
con Fabrizio Tonello, “Le elezioni di medio termine”, in Acoma. Rivista Inter­
nazionale di Studi Nord-Americani, 1/2011, pp. 9–18.
The outcome of the 2010 congressional elections confirmed the expected
political realignment. The Republicans won control of the House of Representatives, having gained 64 seats and surpassing the 52 it won when Bill
Clinton took a midterms drubbing in 1994. Democrats held enough seats
to keep the Senate but failed to make any pick-ups and lost six seats. 54
Tea Party candidates will be heading to Washington DC: alongside new
members of the House of Representatives, Marc Rubio in Florida, Rand
Paul in Kentucky and Mike Lee in Utah will be joining ultra-conservative Jim
DeMint of South Carolina in the Senate. Republicans also won 8 governors
in states that were administered by Democrats.
“Uno Studio sulle Presidenziali Americane: L’Economia Conta?”, in Historia
Magistra, 9/2012, pp. 41–56.
The economy matters. This is one of the dogmas taught us by those who
have studied the history of the American presidential elections. It is widely
believed that the higher the unemployment rate is in November 2012, the
more difficult it will be for Obama to gain re-election for a second term.
But is this collective perception of the influence of economic data on individual electoral behaviour confirmed by statistical analysis of the history
of presidential elections? This study shows that the most commonly used
economic indicators are poor predictors of election outcomes, and also
that variation in the approval rating of the incumbent president is a variable independent from the real economic data.
“La rielezione di Obama. Un’analisi del voto presidenziale 2012”, in Qua­
derni dell’Osservatorio Elettorale, 68/2013, pp. 67–103.
56
•
This article analyzes the 2012 American Presidential election. It is divided
into five sections. The first one is focused on data and numbers of the
electoral result. The second reflects upon the nature of the Electoral College. The third section examines in depth the vote of women and minorities, which are the two factors that mostly contributed to Barack Obama’s
re-election. Then, there is a section that scrutinises the electoral campaign,
describing the issues, the candidates’ strategy and the media coverage received by Obama and Mitt Romney. The fifth part concerns the two candidates’ fundraising and expenses. Finally, we resume the previous analyses
and we formulate the hypothesis that a new electoral bloc is currently under formation: the idea is that there is a political realignment that is going
to favour the Democratic Party.
“I risultati delle elezioni per il rinnovo del Congresso. Le variabili pre-elettorali e la polarizzazione ideologica del nuovo parlamento”, in Acoma. Rivista
Internazionale di Studi Nord-Americani, 2013, pp. 55–66.
Democrats are clear winners of the 2012 elections: they won the Presidency, they have more seats in the Senate and they reduced their gap in
the House. The reasons for this satisfaction have to be interpreted in light
of the negative opinion polls that were released in the months prior to the
elections and because of the redistricting, which was mostly controlled by
the Republicans. The 113th Congress is the most racial and ethnic diverse
ever, but the representation of the minorities is not in direct ratio to the
population yet. On the conservative side, Tea Party members performed
very well and it is possible to predict that the new parliament will be again
highly radicalized.
MARCO REGLIA
• “La mascolinità fascista e la repressione della sua devianza: l’originalità della Venezia Giulia” in Acta Histriae, vol. 20, 2012, pp. 351–366.
This paper suggests an approach to the masculinity as an idealized representation in contrast with the stereotypical representation of the homosexuality as the typical opposite of virility. We based our approach on the
thesis of George Mosse, concerning the role of the ideal type and anti-type
during the nation building process between the nineteenth and twentieth
centuries. Thanks to new evidences derived from archive sources, which
support a recent historiography about the relation between the idea of
masculinity and the fascist ideology, this paper proposes a general scheme
about the idea of masculinity in a specific area. This study considered the
area of the former “Venezia Giulia”, a region at the center of a conflictual
nation building process. Previously named “Litorale Austriaco”, the current
57
“Venezia Giulia” assumed this denomination after First World War. At the
same time homosexuality became legal; but the repression was continuing
in other manner. This paper try to propose the new approach that Italian
Kingdom used against homosexuality.
FABRIZIO RIBELLI
• Tesi di Laurea Magistrale (2012): L’icona di Ronald Reagan. La costruzione di
un presidente, Università degli Studi di Roma Tre, Facoltà di Scienze Politiche
e Relazioni Internazionali, Tutor: Daniele Fiorentino, Cotutor: Giordana Pulcini.
FRANCESCA SALVATORE
• “Il ruolo della Teoria dei Giochi nel neorealismo strategico di Thomas C.
Schelling”, in Eunomia, Rivista Semestrale del Corso di Laurea in Scienze
Politiche e delle Relazioni Internazionali, Università del Salento, 1/2012,
pp. 243–265, http://siba-ese.unisalento.it/index.php/eunomia/article/
view/12245/10955.
Nowadays in the world there are a lot of game theory fans among politicians, economists, mathematicians and psychologists: also a “pure” economist like Thomas C. Schelling was charmed by game theory and in 1994
his studies, shared with Robert Aumann, led him to win the Nobel Prize for
Economics. His masterpiece, The Strategy of Conflict, published in 1960,
was the first study in the world about strategic behavior and is considered now as one of the most important books that influenced Western
culture after 1945. With The Strategy of Conflict Schelling inaugurated a
new stream of international relations known as “strategic neorealism”. In
this essay, that explains the link between international relations and maths,
there is a reflection about Cold War and nuclear deterrence: the study of
game theory highlights how weapons of mass destruction (this is the paradox of the atomic age) avoided, at the same time, the nuclear destruction
of the planet.
ANTONIO SOGGIA
• La nostra parte per noi stessi. I medici afro-americani tra razzismo, politica e
riforme sanitarie (1945–1968), Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 432.
The National Medical Association (N.M.A.), the organization of AfricanAmerican physicians, was born in 1895 from the American Medical Association’s refusal to accept black professionals in its ranks. The N.M.A. had
a dual identity: it was both a professional group and a racial organization;
consequently, black physicians’ profiles resulted from a permanent nego58
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tiation between class and race demands. During the 1950s and the 1960s,
among the frequent tensions produced by this ambiguity, the conflict
around separation and integration was of special importance, representing
a constant in the black medical community’s history during the post-war
era. Furthermore, while the N.M.A. mostly supported progressive efforts
for health care reforms, it was divided within its ranks on the federal role in
health care.
Gradually the N.M.A.’s political role prevailed on professionals’ self-interest;
during the 1960s, the N.M.A. evolved as a militant group, attracting progressive physicians of all races interested in health problems of black and
underprivileged masses. Nevertheless, the association was not effective
in criticizing the 1960s public policies’ categorial and residual approach,
which created different kinds of recipients and undermined any idea of
universalism.
“In nome del cambiamento: la riforma sanitaria di Obama”, in Passato e
Presente, a. XXIX (2011), n. 82, pp. 103–114.
Obama’s health care reform sets a tripartite policy: regulation of private
insurers in the new market called “the Exchange”, mandated coverage for
individuals and businesses, and broader public intervention in health care
(especially through Medicaid and Medicare’s overhaul and subsidies). The
meaning of Obama’s reform can be understood only taking into account
the special history of health care in the United States: the privileged status conferred to private interests, the absence of an idea of social citizenship, the distinction between insurance and assistance in social policies,
the market’s centrality, and the residual role of public policies have been
fundamental in shaping the current reform.
“Their Own Society. Razza, classe e politica tra i medici afro-americani”, in
Contemporanea, a. XIV, n. 3, luglio 2011, pp. 421–455.
The National Medical Association, the organization of African-American
physicians, was born in 1895 from the American medical association’s
refusal to accept black professionals in the Southern states. In different
phases, the association represented a kind of adaptation to segregation,
a concrete means of resistance against racism in medicine and a separated organization (although not formally segregated). The NMA had a dual
identity: it was both a professional group and a racial organization; consequently, black physicians’ profiles resulted from a permanent negotiation
between class and race demands. The dual identity caused internal conflicts
and originated contradictory attitudes towards social reforms which dealt
with black masses’ welfare; consequently, the NMA was divided within its
ranks on the federal role in health care, and until the second world war’s
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aftermath strongly opposed a public health insurance. Gradually the NMA
political role prevailed on professionals’ self-interest; during the 1960s, the
NMA evolved as a militant group, attracting progressive physicians of all
races interested in health problems of black and underprivileged masses.
UMBERTO TULLI
• “‘Boicottare le Olimpiadi del Gulag’. I diritti umani e la campagna contro le
Olimpiadi di Mosca”, in Ricerche di Storia Politica, 1/2013, pp. 3–24.
In the four-year period leading up to the 1980 Moscow Olympic Games, a
growing controversy developed in the United States and to a lesser extent
in many Western countries on the appropriateness of having the Olympics
in Moscow, given the blatant violations of human rights and the repression
of political dissent. The article intertwines Cold War history, the rise of human rights in international relations during the Seventies and the history
of the Olympic movement. It argues that the Olympic movement was an
important field for the new dialogue then promoted between the United
States and the Soviet Union, as well as a tool to criticize and oppose the bipolar dialogue. In its conclusions, the article suggests that the controversy
contributed to Carter’s campaign to use the Olympic boycott to punish the
Soviets for their aggression against Afghanistan.
• Tra Diritti Umani e distensione. L’Amministrazione Carter e il dissenso in
URSS, Milano, FrancoAngeli, 2013, pp. 256.
The book concentrates on Jimmy Carter’s human rights policy toward the
Soviet Union. It argues that an ambiguous political consensus shaped the
rise of American foreign policy since the early Seventies: for conservatives,
human rights were meant to challenge the Soviet Union; for liberals, they
were a tool to go beyond the Cold War dichotomies. Once in office, Carter
tried to operate a synthesis between the two different perceptions. Since
his early months in office, he tried to promote his human rights agenda
through open diplomacy with the Soviets, in order to placate domestic
conservative critics. Such a choice proved nevertheless unacceptable for
the Soviets and jeopardized Carter’s attempt to revive détente. Soviet reactions forced the administration to modify its approach – which shifted from
open to quiet diplomacy – and created broad room for domestic criticism,
coming from liberals and conservatives alike.
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