L`arte del dialogo e del confronto
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L`arte del dialogo e del confronto
L’ ARTE DEL DIALOGO E DEL CONFRONTO Atti del convegno “Collaborare Dialogando” Assisi 11-15 novembre 1996 1.1. La relazione tra uguaglianza e diversità Il bisogno di comunicare e di stare con gli altri è per tutti sia una necessità che una difficoltà. Di volta in volta, la necessità nasce dal fatto che ogni individuo si aspetta dalla relazione una risposta almeno ideale in termini di protezione, aiuto, affetto, sostegno, informazione, stima e rispetto; al tempo stesso, tutti si rendono perfettamente conto delle innumerevoli difficoltà che si devono affrontare quotidianamente proprio per il fatto di trovarsi con altre persone. Dette difficoltà possono derivare da noi o dagli altri o da entrambi, ma tutte hanno in comune un modo errato di intendere la diversità umana. Il tema della diversità suscita quasi sempre reazioni di ansia e di preoccupazione, perché può evocare la negazione stessa dell’eguaglianza umana oppure l’esperienza di comportamenti pericolosi. Uguaglianza e diversità sono due caratteristi che specifiche e complementari per l’equilibrio umano; esse non devono ne annullarsi ne ostacolarsi ma integrarsi. Da un lato, tutti gli uomini in quanto persone, sono uguali ossia hanno pari dignità, sono soggetti di diritti e di doveri, nascono con un bagaglio privilegiato di possibilità, costituito dal cosiddetto potenziale umano, che è dato dall’insieme delle energie (linguaggio, pensiero,libertà, cultura, volontà…), che devono essere liberate e trasformate in capacità mediante il processo educativo ( Bassetti,87 ); dall’altro lato, ogni uomo, in quanto individuo, è originale e diverso sotto molti aspetti fisici e psicologici: corporeità, carattere, temperamento, reattività, abitudini, apprendimento, esperienze, ecc. . L’equilibrio tra le due caratteristiche si rompe, quando si esalta la diversità o quando la si nega. L’esaltazione della diversità, che può riguardare il singolo o un gruppo o una componente della macrosocietà, può essere riferita tanto agli aspetti corporei quanto a quelli psicologici ed estendersi a tutte le dimensioni personali e sociali : conoscenza, religione, etica, politica, cultura, affettività. Le conseguenze di ogni forma di esaltazione di una o più caratteristiche umane finisce col favorire il senso di superiorità, grazie al quale io ritengo di essere migliore di te e non nella singola caratteristica (il che è naturalmente scontato, essendo tutti diversi) ma sotto ogni aspetto; ciò significa ritenere di essere speciali e di valere più degli altri complessivamente, come uomini o come gruppo umano particolare. In ultima analisi, l’atteggiamento di superiorità, fondato sull’esaltazione della propria diversità, finisce col minacciare, indebolire o negare, a seconda della consistenza dello stesso, la dignità altrui.Infatti, ammettere due categorie di persone, quelle di serie A e quella di serie B, equivale a negare la “pari dignità” ossia a negare l’uguaglianza umana; un conto, quindi, è constatare che ogni individuo umano è diverso da tutti gli altri sotto molti aspetti ed un conto è confondere la diversità con la dignità, col fatto cioè di essere pur sempre uomini. Un applicazione, in ambito professionale sanitario, evidenzierà meglio la pericolosità di questo modo di intendere la diversità. E’ noto a tutti che il fine ultimo istituzionale della sanità è quello di promuovere la salute in tutti i cittadini e che detto obiettivo deve essere garantito dall’azione integrata delle diverse categorie di operatori. Ciascuna di queste (medici, infermieri, tecnici, specialisti, OTA, amministrativi, ecc. ) contribuisce al raggiungimento dell’obiettivo – salute agendo nel rispetto del proprio specifico professionale. Esemplificando: i medici promuovono la salute favorendo al meglio il benessere corporeo e questo è ciò che è richiesto dal loro ruolo e dal loro specifico professionale; gli infermieri, a loro volta, sono responsabili dell’assistenza globale del malato ossia devono rispondere, in modo adeguato, tanto ai suoi bisogni fisici che a 1 quelli psicorelazionali; gli OTA, invece, collaborano al mantenimento ed allo sviluppo della salute dei malati assicurando a questi ultimi le prestazioni alberghiere più confortevoli, e così via per tutte le altre categorie (Bassetti,1993). In sostanza, si può dedurre dall’esempio portato che tutte le categorie sanitarie sono necessarie ed indispensabili per dare una risposta, in termini di salute, ai cittadini di oggi e che nessuna di esse, da sola, può riuscire in questa impresa. Ciò non significa non riconoscere la diversità tra le stesse ed il fatto che, di volta in volta, una categoria possa essere più coinvolta rispetto alle altre. Come in una squadra di calcio, tutti i giocatori hanno un ruolo e una posizione differente e complementare e nessuno di loro può illudersi di vincere la partita sottolineando solo il proprio intervento, o peggio ancora ignorando il contributo degli altri giocatori, così nella sanità, tutte le categorie di professioni sono diverse e, allo stesso tempo, indispensabili, anche se una categoria, di fronte ad una particolare situazione, può essere più coinvolta e determinante di altre (ad es.: nella soluzione di un caso clinico, può essere richiesto soprattutto il coinvolgimento di un determinato professionista rispetto a quello degli altri, esattamente come in una partita di calcio può succedere che, in un’azione sotto porta, il terzino o il portiere siano più impegnati dell’attaccante). Si tratta, in conclusione, di riconoscere tanto la peculiarità o diversità di un professionista (ruolo, funzione, competenze) quanto la sua dignità o uguaglianza. La pari dignità professionale non nega la diversità dei ruoli e delle competenze ed ammette che, in determinate circostanze, vi possa essere un coinvolgimento più attivo di una categoria rispetto alle altre: ad esempio, quando un malato ha un problema prevalentemente medico o infermieristico o psicologico o di altro genere. La peculiarità professionale esprime la diversità tra le varie categorie; la necessità o essenzialità delle stesse ne evidenzia la pari dignità o uguaglianza; il coinvolgimento particolare,infine, manifesta la maggior attivazione di un ruolo solo rispetto al problema di salute da affrontare; ciò non significa che quel ruolo è centrale ossia superiore rispetto agli altri ruoli. Non ci sono categorie più importanti di altre; nessuna di queste può essere tolta senza compromettere l’equilibrio dei rapporti ed il risultato finale. Ogni operatore sanitario può dire ad un altro operatore: Tu sei importante come me, anche se in maniera diversa. In questo modo, vengono salvaguardate per tutte le categorie sanitarie tanto la tipicità (diversità) quanto la necessità (dignità o uguaglianza). Se, invece, una categoria ritiene di essere quella centrale ossia più importante (e si comporta come tale) non rispetto ad un particolare problema di salute (il che, come appena ricordato, è del tutto legittimo) ma rispetto alle altre categorie, finisce col considerare queste ultime come “ausiliarie”, ancillari, secondarie e, in definitiva, meno importanti; così, essa non riconosce pari dignità alle altre categorie e non ammette, praticamente, che anche queste siano indispensabili al raggiungimento dell’obiettivo salute. Questo modo di fare fa sì che i professionisti, che lo mettono in atto, esaltino la loro tipicità e diversità o sul piano teorico e scientifico o su quello organizzativo o su quello operativo, ritenendo che la loro scienza o le loro prestazioni sono le migliori e che solo loro, in concreto, sono in grado di risolvere i problemi del malato. L’esaltazione della diversità di una categoria sanitaria (o professionale, in genere) sulle altre porta all’esaltazione dei moli, delle funzioni, delle prestazioni e dei professionisti (che la rappresentano); da qui hanno origine tutte la forme di corporativismo e di strapotere, che rivendicano esclusivamente i diritti per la propria categoria. Gli altri operatori sono considerati meno importanti, meno utili, meno preparati, meno colti e meno scientifici; per questo motivo, vengono sottovalutati, come fossero operatori di serie “B”. Se l’esaltazione della diversità finisce con l’alimentare il senso di superiorità e col creare 2 notevoli spaccature all’interno di qualsiasi organizzazione socio-professionale, anche la negazione della diversità, per motivi opposti, è altrettanto pericolosa e negativa. Negare la diversità tra le persone significa non riconoscerne le differenze esistenti, anche profonde, riferite ai limiti, alle capacità ed alle possibilità per la preoccupazione errata di salvaguardare la propria dignità. In realtà, questo atteggiamento porta, inevitabilmente, all’egualitarismo in tutti i settori della vita individuale e sociale, in forza del quale si pensa che non ci siano uomini più intelligenti, più onesti, più motivati, più competenti d altri e che queste qualità siano ininfluenti e comunque non significative rispetto alla dignità ossia al fatto di essere persone, che è la caratteristica che accomuna tutti gli individui. E’ evidente che così intesa la negazione della diversità professionali (l’egualitarismo) è fonte di malessere, di appiattimento e di demotivazione chi si comporta correttamente ed è impegnato viene trattato come chi è superficiale, irresponsabile, immaturo, assenteista e scansafatiche. Il livellamento colpisce al cuore lo scopo stesso della istituzione lavorativa perché la promozione della salute non può essere raggiunta automaticamente, ma è il risultato della concertazione e dell’impegno di tutte le categorie d operatori. Le riflessioni sin qui esposte hanno inteso dimostrare che la fonte principale delle difficoltà relazionali nasce dalla non integrazione tra la diversità l’uguaglianza, dal fatto cioè che una di queste mortifica o annulla l’altra. All’interno della non integrazione diversità - uguaglianza, vi sono molte espressioni, quantitative e qualitative, sia dell’esaltazione sia della negazione. In tanti contesti sociali, si possono incontrare persone caratterizzate d modelli culturali (convinzioni, atteggiamenti e comportamenti) che rispecchiano o l’esaltazione o la negazione della diversità e che sono la causa di profonde fratture tra familiari, tra professionisti, tra autorità e dipendenti, tra uomini di cultura, di scienza e di governo. E’ superabile, e come, il pericolo della non integrazione tra diversità ed uguaglianza? In altri termini, esiste la possibilità di impostare, sviluppare e proteggere le relazioni interpersonali ed il bisogno di comunicare e di stare con gli altri senza cadere negli errori del senso di superiorità e dell’egualitarismo? Cosa significa il rispetto della diversità e dell’uguaglianza? La risposta affermativa può essere trovata solo nella ricerca costante della capacità di dialogo e nell’educazione al confronto. 1.2 Conversazione - Dialogo - Confronto 1.2.1 Le vie relazionali Di fronte ad ogni problema relazionale, l’individuo ha tre alternative: — O decide di non intrattenere rapporti e di agire autonomisticamente (in questo caso, l’interessato non cerca punti d’incontro con alcuno) — O cerca di imporre agli altri la propria visione della vita e pretende che questi uniformino il loro modo di pensare e di agire al suo (l’interessato manipola e strumentalizza gli altri) — O, infine, contatta le altre persone, discute, propone, ascolta, rivede le proprie idee e convinzioni e cerca di trovare una soluzione soddisfacente per tutti (l’interessato considera il dialogo ed il confronto la strada maestra per le relazioni positive). Le prime due possibilità sono il risultato di una modalità non corretta di intendere la diversità. Nel primo caso, vi è la convinzione che dall’incontro con gli altri non vi è mai nulla di buono e di positivo da ricevere, per cui è meglio ignorare questi ultimi e farsi guidare solo dalla 3 bussola del proprio io, rappresentata dai propri pensieri, sentimenti, valori e identità. La presunzione porta l’uomo a fidarsi esclusivamente delle possibilità ed energie personali; gli altri, infatti, còsa hanno da offrirgli di più e di meglio che lui non abbia già? Nel secondo caso, risulta ancor più evidente l’esaltazione del proprio modo di operare al punto che non esiste altra soluzione, in un problema relazionale, che far si che gli altri accettino quanto noi si impone e si decide; se poi questo significa, in concreto, manipolazione, strumentalizzazione, perdita della dignità altrui, ciò diventa del tutto normale ed abituale. Secondo questo modo di vedere, in ogni relazione o si è vincitori o si è perdenti, e non esiste altra alternativa. TI dialogo, a differenza delle due ipotesi ricordate, capovolge la loro logica e, nel rispetto della dignità e della diversità umana, consente di affrontare i problemi relazionali con equilibrio e con soddisfazione per le parti in causa; esso, infatti, poggia su una comunicazione funzionale, consente di rivedere le proprie opinioni e convinzioni superando le forme di rigidità mentale e comportamentale, facilita ed arricchisce l’apprendimento, individua nuovi orizzonti per affrontare i problemi della vita e costituisce un modo diverso e più produttivo di porsi in relazione con gli altri. Il raggiungimento della capacità di dialogare è il frutto di un lungo e complesso processo educativo, che deve iniziare, possibilmente, nella famiglia di origine per estendersi ed approfondirsi con il contributo di tutte le al- tre agenzie formative: scuola, associazionismo e mondo del lavoro. Il dialogo è certamente la via privilegiata per le relazioni positive ma non la più rapida; per questo motivo, se in teoria viene presa in considerazione, in pratica, si preferiscono percorsi più veloci e spontaneistici. Ma che cos’è il dialogo? quali sono le sue caratteristiche principali, i suoi presupposti, le finalità che cerca di raggiungere, le condizioni e le difficoltà che comporta? Esistono strategie e tecniche per migliorarne l’efficacia? 1.2.2 lI significato e le caratteristiche del dialogo Il dialogo può essere definito una comunicazione privilegiata nella quale i protagonisti, che interagiscono, prestano la massima attenzione tanto alla chiarezza del contenuto quanto alla correttezza della relazione. D’Amato (1996, p26) ha definito il dialogo “l’arte del pensare insieme”, con la quale gli interlocutori raggiungono una comprensione profonda e ricercano un significato comune alle rispettive opinioni mediante la creazione di un modello mentale condiviso, l’ascolto attivo ed il riesame delle proprie assunzioni. Dalle definizioni date, si può arguire come il dialogo non sia una semplice conversazione la quale può sfociare o nella condivisione della conoscenza o nella discussione polemica, che sancisce la vittoria di uno degli interlocutori sull’altro. La capacità di conversare, positivamente intesa, è oggi molto più apprezzata che in passato al punto che viene ormai considerata come una delle principali competenze richieste nel mondo del lavoro; infatti, “creare dialogo” è diventato il compito decisivo delle nuove organizzazioni e, secondo Alan Webber, anche il lavoro più importante della nuova economia (Ibi, p21). Il dialogo rappresenta, quindi, il canale privilegiato di comunicazione ed il modo attraverso il quale le persone condividono e creano ciò che conoscono; grazie ad esso, i nostri 4 interlocutori possono ricevere i nostri messaggi e rinviarci i loro, possono farci conoscere le loro reali esigenze, intenzioni ed aspettative, cogliere eventuali situazioni di disagio o di critiche, ed essere più informati sulle prospettive future. La conversazione, intesa come discussione polemica, invece, sottolinea la legge del potere del più forte che è caratterizzata dalla voglia di parlare più che di ascoltare, dalla ricerca di soluzioni rapide, superficiali ed emotive, che non risalgono alle radici dei problemi, e che si manifesta in un atteggiamento di lotta nei confronti dell’altro. La discussione (letteralmente = separare”, ‘dividere”) si caratterizza sostanzialmente come una disputa, una contesa, una controversia, una polemica, nella quale il comportamento difensivo prevale su quello aperto e la volontà di far prevalere le proprie idee, opinioni e decisioni diventa l’obiettivo principale; essa è guidata dalla logica dell’io vinco e tu perdi”. Il dialogo (termine greco composto da “dia’ e da “logos”; letteralmente: attraverso la parola o meglio il significato della parole) può essere definito come il “modo collettivo e continuo di approfondire, far emergere e domandare il perché delle convinzioni e delle certezze che compongono la nostra esperienza quotidiana” (Ibi, p26); esso è costituito da tre fasi complementari. La prima fase è quella della sospensione, che consiste nell’ascolto e nell’autoascolto, nel rispetto delle differenze di idee, convinzioni e modelli culturali, nello sviluppo della fiducia reciproca e nell’imparare a conoscersi meglio ed a,rispettare le opinioni altrui. “Non difendere le proprie opinioni a tutti i costi, ma analizzare le motivazioni profonde di tutte le opinioni consente al gruppo di muoversi verso il dialogo” (Ibi, p. 53). La seconda fase è quella più comunemente detta del dialogo; con essa non ci si propone, in prima istanza, di decidere o di agire ma di”cogliere il significato più profondo delle nostre assunzioni” e di far emergere i modelli mentali individuali e le regole sociali che caratterizzano le convinzioni, e si mira alla comprensione e alla condivisione dei pensieri, delle emozioni e delle azioni, favorendo così un’altra logica, quella dell’io vinco e tu vinci”. Alla presa di coscienza dei propri modelli mentali, alla sospensione delle proprie opinioni e certezze e alla messa in discussione delle stesse segue la terza fase detta del confronto o della “discussione qualificata”, che è caratterizzata: — Dal superamento completo dell’atteggiamento difensivo e dalla scoperta e ricerca di nuovi punti di vista, idee, proposte, assunzioni — Dalla esplicitazione ed esternazione dei sentimenti, delle sensazioni, degli stati d’animo e delle reazioni emotive degli interlocutori — Dalla capacità di costruire un terreno comune ossia di pervenire alla condivisione che si realizza non solo nella comunicazione non verbale ma anche nei processi taciti profondicomuni al genere umano. Nel confronto, “la comunicazione ed il pensiero hanno dei ritmi totalmente nuovi. Non occorrono più tante parole per capirsi. Spesso ci sono lunghi momenti di silenzio, che sono però ricchi di sigz4ficato compreso da tutto il gruppo. E’ il meta - dialogo, i signflcati comuni aleggiano nell’aria e fluiscono senza ostacoli. La comprensione profonda è raggiunta, e ora il gruppo è in grado di creare nuova conoscenza” (Ibi, p. 58). Il confronto ha lo scopo di aiutare le persone a decidere, ad agire ed a risolvere i problemi mediante il rispetto della identità personale e la disponibilità. Una corretta identità personale o psicologica comprende l’insieme delle caratteristiche di un individuo: il suo modo abituale di ragionare, di reagire, di decidere e di agire ossia il diritto alla difesa delle proprie credenze e convinzioni ma anche il rispetto delle convinzioni altrui; essa è legata al bagaglio delle conoscenze e delle esperienze di una persona e, quindi, alla sua intelligenza. 5 Sul piano relazionale e comportamentale, il confronto richiede la disponibilità ossia la capacità di”mediare” e di uscire dalle proprie rigidità (non dalle proprie convinzioni) per aprirsi alla collaborazione con gli altri; essa presuppone l’identità psicologica ma è il risultato del lavorio della volontà, Il confronto insegna a far tesoro delle esperienze proprie ed altrui, ad arricchire continuamente e criticamente le proprie conoscenze ed esperienze, e ad imparare ad imparare. Le condizioni, che meglio favoriscono il dialogo ed il confronto, sono quelle nelle quali gli attori fanno propri i seguenti comportamenti: a) Sicurezza, fiducia ed apertura: intese come possibilità di esprimere liberamente le proprie opinioni senza il pericolo di ritorsioni, di vendette, di critiche negative, di battute sarcastiche o di altro genere; deve essere garantita da ogni parte una sorta di immunità nelle conversazioni. Promuovere la presentazione di prospettive diverse e di innovazioni, inoltre, permette di ricercare il lato positivo e migliore in tutte le direzioni, senza farsi condizionare e bloccare dai pregiudizi e dagli stereotipi b) La pianificazione: specialmente nella prima fase del dialogo, occorre prevedere un tempo adeguato (di circa due ore) per consentire alla discussione di diventare produttiva e creativa. 1.2.3 Il metodo del dialogo e del confronto Per evitare che la conversazione sfoci in una discussione sterile, in cui tutti vogliono far prevalere il proprio punto di vista, impedendo così di pervenire ad una decisione, è opportuno tendere ad un equilibrio tra ricerca e propugnazione (Ibi, p100 e segg.). La ricerca è la capacità di ascoltare le opinioni altrui, di accoglierle criticamente, in modo da riuscire ad “elaborare, insieme, nuove soluzioni”; essa presuppone la capacità di esprimere i propri “ processi mentali” (modo di ragionare, comprensione delle motivazioni, aspettative), e di aiutare gli altri a far altrettanto, e l’abitudine a confrontare (richiesta di ulteriori informazioni e spiegazioni, controllo della comprensione, presentazione di nuovi punti di vista, proposte e mediazioni) le proprie idee e convinzioni con quelle di questi ultimi. La propugnazione consiste nello spiegare adeguatamente il proprio punto di vista o meglio nel rendere chiaro e visibile anche agli altri il proprio pensiero (presentazione degli argomenti a sostegno delle proprie tesi, spiegazioni aggiuntive, conseguenze delle proposte, esemplificazioni, attenzione alle reazioni altrui) e nel consentire che le proprie asserzioni, proposte, iniziative e conclusioni siano testate ossia vagliate criticamente dagli altri, offrendo a questi la possibilità di capire realmente le nostre posizioni. Il dialogo e il confronto richiedono, oltre all’equilibrio tra ricerca e propugnazione, anche il rispetto delle seguenti strategie e tecniche: — La consapevolezza e l’esplicitazione. del fine che ci si propone di raggiungere con la conversazione — La disponibilità ad imparare dalle conoscenze e dalle esperienze altrui — La precisione nell’utilizzo dei termini e la ricerca di significati condivisi — l’autocoscienza come risorsa per prendere atto dei sentimenti (irritazione, preoccupazione, confusione, attese) che si provano nel momento dell’incontro — La comprensione del disaccordo e la ricerca delle sue cause mediante l’analisi dettagliata dei fatti, obiettivi, metodi e valori. 1.2.4 I presupposti Il dialogo, proprio perché affonda le proprie radici sul valore della dignità umana e sul 6 rispetto delle diversità personali, richiede: — Il possesso di un atteggiamento prosociale caratterizzato dalla fiducia in se stessi e negli altri, che si traduce nella consapevolezza che ogni uomo ha dei limiti o punti deboli ma anche molte capacità e possibilità (pregi) — L’attivazione di comportamenti positivi e non reattivi; la salvaguardia dei diritti propri ed altrui mai disgiunta dal riconoscimento dei propri doveri; la capacità di comunicare correttamente e non solo chiaramente — La capacità di adattarsi all’interlocutore, al suo stile comportamentale, ai suoi canali percettivi privilegiati e la prontezza nel cogliere le cause impedenti la comunicazione funzionale (BelIMekenzie, p114 e ss.) — La serendipità o “capacità di osservare e di comprendere il linguaggio delle cose mute” mediante la lettura e l’interpretazione di ogni particolare senza farsi traviare dai pregiudizi e dalle stereotipie (O. S., anno VI, n. 48, sett/ott. 1995) — La cultura aperta intesa come ricerca sistematica di ciò che vi è di positivo e di costruttivo in ogni persona ed in ogni situazione, finalizzata al- l’arricchimento ed alla promozione personale; ciò è possibile solo se l’interlocutore difende la sua capacità di autocritica e non si fa dominare dalle varie forme di pressione sociale — La consapevolezza ed il controllo dei vincoli cognitivi, egocentrici ed affiliativi (Janes, 1992). I primi comprendono tutti i fattori esterni, che limitano od ostacolano l’entrata delle informazioni (es. carenza di risorse organizzative per la raccolta e l’analisi dei dati), e l’insieme dei fattori interni (es. mancanza di competenza) che impoveriscono, in quantità ed in qualità, l’attività mentale e la capacità decisionale. I secondi abbracciano i motivi, gli interessi personali, i bisogni emotivi (es.: protezione dell’autostima, autorealizzazione, sensi di colpa, paure). I vincoli affiliativi, infine, si riferiscono a tutti i tipi di bisogni derivanti dal fatto di appartenere a quel gruppo sociale o a quella particolare organizzazione. 1.2.5 Le condizioni Una prima condizione per dialogare riguarda l’utilizzo del medesimo linguaggio o l’attribuzione alle parole dello stesso significato denotativo (significato primo e convenzionale) econnotativo (significato aggiuntivo e simbolico); spesso, il verbalismo (o utilizzo di termini di cui non si conosce pienamente il significato) o la superficialità o la fretta fanno si che non vi sia un preliminare chiarimento terminologico con la conseguenza che si discute inevitabilmente e a lungo su concetti diversi. Le difficoltà, in tal senso, vengono accentuate ancor più quando i termini provengono da linguaggi scientifici o tecnici differenti, nei quali le denotazioni vengono così modificate dalla cultura professionale da essere conosciute solo nell’ambito di un contesto sociale ristretto. Una seconda condizione riguarda l’invito ossia il fatto che le persone non possono essere obbligate a partecipare al processo del dialogo (1b1, p. 65), pena il fallimento dello stesso. In questo senso, la proposta di partecipazione, almeno a livello sperimentale, può convincere l’interlocutore dei vantaggi possibili e dei miglioramenti eventuali che riceverebbero le relazioni; risulta così preliminare la volontà personale di partecipare al confronto - Una terza condizione è rappresentata dalla pratica addestrativa al dialogo, che deve avvenire in gruppi guidati da esperti agevolatori, nei quali ogni componente ha la possibilità di esperimentarsi, di 7 mettersi in discussione, di confrontarsi in modo chiaro e corretto, di analizzare le reazioni emotive proprie ed altrui e di imparare a riesaminare le opinioni e le convinzioni personali. 1.2.6 Le difficoltà Molte sono le barriere che possono ostacolare il dialogo; in generale, si possono ricordare: le differenze di personalità, il giudizio duro e negativo nei confronti degli altri, la giustificazione delle proprie azioni, le differenze culturali, le diverse aspettative ed i problemi legati all’attività professionale. D’Amato (Ibi, pp. 31-48), in particolare, ricorda le trappole cognitive costituite sia dai modelli mentali sia dalle illusioni della mente. I modelli mentali sono “griglie personali” precostituite, istintive ed elaborate dalla mente con le quali si affrontano, si osservano e si interpretano i fatti della realtà e dell’esperienza. Essi hanno il vantaggio di non farci ricominciare da capo ogni volta che ci si imbatte in un problema esistenziale e, quindi, ci permettono di pervenire ad una visione personale del mondo;allo stesso tempo, essi possono rappresentare delle trappole, in quanto si è portati facilmente a confrontare la propria visione, necessariamente settoriale e parziale, con la visione,completa e perfetta, della realtà. Per questo motivo, il mondo corrisponde a ciò che di esso conosce, Osserva e comprende la nostra mente e, sulla base di questa conoscenza e di questo giudizio, si decide e si pretende che anche gli altri arrivino alla medesima visione e alle medesime conclusioni. Come afferma Robert Pirsing (Ibi, p. 31), “noi prendiamo una manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni e la chiamiamo mondo”. I modelli mentali sono condizionati da vari fattori: a) L’abitudine a etichettare ogni cosa o persona o fatto in categorie ci porta, specie nelle situazioni complesse, ad assimilare ed a confondere tra loro realtà molto diverse, per cui con lo stesso termine generale indichiamo fenomeni particolari, molto dissimili fra loro e, cosi facendo, non ne cogliamo le differenze rischiando, sul piano operativo, di effettuare applicazioni errate. b) La percezione selettiva ci consente di selezionare fra gli innumerevoli stimoli, che ci provengono soprattutto dall’ambiente esterno (essendo impossibilitati a registrarli tutti), solo quelli che hanno una particolare rilevanza secondo le conoscenze e le esperienze già acquisite; ma la rilevanza delle informazioni è valutata proprio sulla base dei modelli mentali già posseduti. Poiché, generalmente, il processo percettivo avviene a livello inconscio, si finisce col credere che la propria visione, necessariamente limitata e settoriale, rappresenti la realtà nella sua totalità ed obiettività. Solo attraverso un’abitudine a riflettere e ad analizzare criticamente il proprio processo percettivo si è in grado di coglierne la selettività e la frammentarietà. c) Il radicamento delle convinzioni rappresenta un baluardo ed una difèsa che protegge le nostre idee e le esperienze passate dall’attacco delle novità e delle innovazioni; da qui hanno origine moltissime incomprensioni in ambito familiare e professionale, perché quello che è chiaro per noi, grazie al nostro modello mentale, non lo è altrettanto e necessariamente per i nostri interlocutori. Rimettere in discussione il proprio modello mentale diventa, quindi, una necessità per 8 potersi meglio relazionare con gli altri e per affrontare correttamente le situazioni della vita; infatti,‘non si tratta di stabilire se un modello mentale è giusto o sbagliato ma piuttosto se è adeguato ai tempi” (Ibi, p. 34). d) Le illusioni cognitive sono l’equivalente, a livello mentale, delle illusioni ottiche; esse si presentano come “sistematiche alterazioni della nostra percezione della realtà di cui generalmente non ci rendiamo conto: derivano dall’utilizzo di regole semplici ed intuitive per risolvere i problemi che ci fanno commettere errori a volte grossolani” (Ibi, p. 35). Tra queste, si possono ricordare sia quelle, che derivano dalla modalità abituale di approccio per risolvere i problemi, sia quelle che hanno origine dai fattori di distorsione, che influenzano le decisioni. e) L’incorniciamento è l’accettazione acritica e supina di una proposta, di una decisione o di una soluzione di problemi, fatta da altri, che ci impedisce di considerare contemporaneamente più punti di vista e ci costringe a soffermarci su quello particolare o sull’angolatura con cui è stato presentato, dimenticando così il peso dell’influenza esercitato dai modelli mentali del nostro interlocutore. Per ovviare a questo pericolo, è bene riformulare sempre un problema o una soluzione, quando ci vengono proposti. -. f) La disattenzione per la frequenza di base sottolinea il pericolo in cui si incorr e, quando, nel prendere una qualsiasi decisione, ci si concentra esclusivamente sul caso che si sta esaminando, ignorando le probabilità più frequenti ed abituali, il peso di molti altri fattori e la necessità di raccogliere abbondanti informazioni. g) L’asimmetria della propensione a rischio è la tendenza irrazionale a scegliere il rischio quando vi è la possibilità di perdere e, viceversa, a non preferirlo quando sembra che la scelta sia tra un vantaggio certo ed uno incerto, anche se, ad un esame attento, le possibilità risultano, invece, identiche. h) La sicumera è la tendenza a riporre una fiducia indiscussa nei propri giudizi e nelle proprie decisioni ed a sovrastimare l’esattezza delle proprie risposte, soprattutto quando queste sono riferite all’area della propria competenza. Il rapporto tra la sicumera delle risposte date e l’esattezza delle stesse, tuttavia, non è sempre giustificato, specialmente quando dette risposte “non possono essere classificate come giuste o sbagliate”ma sono da considerare come più o meno adeguate, perché risultano essere il frutto di un giudizio, per lo più, soggettivistico. i) La tendenza alla conferma è la ricerca spontanea di nuove giustificazioni, spiegazioni e di nuovi elementi di supporto alle nostre ipotesi piuttosto che la disconferma di queste, che rappresenterebbero una rottura difficile da accettare; d’altra parte, numerosi esperimenti e ricerche hanno dimostrato come l’uomo sia, in moltissime situazioni, un “verificatore” spontaneo e non un ‘falsficatore”, abitudine che spesso gli impedisce di percepire gli elementi che non supportano le sue idee (Ibi, p. 49). Questo modo di procedere ci porta a decidere sulla base di ipotesi o di convinzioni non adeguatamente e criticamente analizzate e verificate. Accanto ai fattori ricordati, ve ne sono altri che influenzano in modo di- storto le decisioni, come: l’asimmetria dei fattori pro e contro, l’ancoraggio, il senno di poi (Ibi, pp. 29-49). L’abitudine e l’educazione al dialogo aiutano la persona a non cadere nelle trappole cognitive, sviluppando e migliorando le capacità di pensare e di apprendere in gruppo, facendo emergere i processi mentali sottesi e le regole sociali che, distorcono, a livello inconscio, le nostre relazioni ed il nostro comportamento. 9 1.3 Le competenze per il dialogo ed il confronto 1.3.1 L’importanza della credibilità personale In ambito lavorativo, il potere dipende soprattutto da tre fonti: la posizione gerarchica, la competenza tecnica e la credibilità personale e quest’ultima, oggi, è considerata la più decisiva ed importante (Gillen, 1996). Si tende sempre meno, infatti, a privilegiare i moli formali, diminuisce il peso della posizione gerarchica e si stabiliscono rapporti più liberi e più critici verso l’autorità; inoltre, poiché la diffusione dell’informazione viene assicurata sempre più dai multimedia, anche la competenza tecnica registra un calo di importanza. Al contrario, sale l’importanza della credibilità personale, che non va confusa con un titolo né con la conoscenza approfondita di una materia di studio; essa è qualcosa che la gente avverte nei nostri confronti. Il fatto di essere percepiti come soggetti credibili dipende anzitutto dal nostro comportamento abituale. Nel mondo del lavoro, in particolare, il passaggio dal modello organizzativo tradizionale a quello nuovo ha comportato una vera rivoluzione anche nei rapporti aziendali ed interprofessionali passando dalla visione gerarchica e piramidale a quella circolare, nella quale il beneficiario risulta essere il centro. “Nell’organizzazione del vecchio tipo i manager avevano bisogno di imparare a comandare ed a controllare, a motivare, a prendere decisioni ed a risolvere problemi perché queste attività erano loro esclusivo appannaggio; i dipendenti avevano bisogno solo di addestramento tecnico (in altre parole, di imparare a mettere giù la testa ed a far bene il loro lavoro). Nell’organizzazione moderna, invece, tuffi devono possedere le competenze che consentono loro di lavorare in gruppo, di risolvere problemi e di prendere decisioni in comune, di essere creativi e, soprattutto, di comunicare” (Ibi, p. 20). La nuova società dell’informazione comporta trasformazioni radicali e repentine tanto nell’organizzazione del lavoro quanto nelle competenze richieste nelle aziende e nei professionisti; in particolare, il cambiamento riguarda il potenziamento in tre aree di competenze essenziali: — La capacità di apprendere professionalmente dalla propria attività lavorativa, dall’organizzazione e nell’organizzazione(Leaming abili(y) — La capacità di lavorare in gruppo e in équipe (team work) — Le capacità relazionali e comunicative (relationship) ossia l’insieme delle abilità che permettono di mettere in comune e di scambiare conoscenze per facilitare soluzioni e comportamenti più adeguati e veloci (Odoacri, 1996) 1.3.2 I principi relazionali di base Ala base delle diverse qualità, che permettono di migliorare la comunicazione, di influenzare correttamente gli altri e di comprendere meglio se stessi, vi sono i seguenti principi relazionali di base (Gillen, 1996, pp. 28-56): a) L’esercitare una delicata pressione nei confronti del ritmo altrui è più produttivo della spinta o della costrizione ad adeguarsi ai nostri ritmi b) Il non fermarsi ad un atteggiamento passivo ma tendere al coinvolgimento 10 attivo garantisce risultati relazionali migliori perché consente di creare un dialogo a “due vie”, uno scambio dialettico e non un monologo unidirezionale, di stimolare le persone a riflettere a fondo sulle nostre idee e proposte cosi da avvicinarle alle nostre conclusioni c) La persuasione, basata sull’onestà e sulla trasparenza, è migliore della strumentalizzazione o manipolazione, che si serve di approcci non rispettosi e che si fonda su una logica strumentale, sulla tecnica esclusiva delle domande chiuse e sul trucco di far esprimere agli altri parole o giudizi che poi saranno addotti come prove contro di loro d) Il comportamento è il miglior punto di partenza e di analisi per influenzare positivamente gli individui, a differenza delle “congetture” sulla personalità altrui, con le quali si tende a etichettare le persone (come pigre, testarde, cattive, egocentriche) solo sulla base di supposizioni. “Gli atteggiamenti negativi degli altri non hanno importanza finché non si traducono in comportamenti; i loro atteggiamenti non ci toccano finché loro non agiscono... Mettereetichette che descrivono la personalità degli altri non sarà mai utile come descrivere il loro comportamento” (D’Amato, Ibi, p. 48). Il comportamento, infatti, è il necessario anello di congiunzione tra le intuizioni ed i risultati; se manca o se viene sottovalutato, la teoria non si traduce in azione e) Cercare prima di capire e, solo successivamente, di farsi capire. Ogni persona elabora, negli anni della sua formazione, molte informazioni trasformandole in giudizi e convinzioni su disè, sugli altri e sulla realtà esterna (Satir, 1979) che, radicate nel profondo e spesso inconsce, sono alla base dei suoi comportamenti; dette giudizi e convinzioni variano da individuo ad individuo e si differenziano ancor più nei momenti di profondi cambiamenti storico-sociali. Nelle divergenze con gli altri, se non ci si abitua a riflettere ed a riesaminare attentamente quanto viene espresso da questi, non si possono comprendere i vari nodi del dissenso e diventa praticamente impossibile influenzarli positivamente. 1.3.3 Le competenze relazionali Ciascuno dei principi di base, appena richiamati, deve essere accompagnato da cinque abilità che permettono di migliorare notevolmente la capacità di persuadere; esse sono: a) L’indagine e l’ascolto che sono due competenze inseparabili; infatti, non vi è ascolto attivo senza saper indagare e viceversa. Poiché interrogare è un’arte, occorre conoscere le diverse tecniche indagatorie (domanda riflessiva, ipotetica, chiusa, aperta, a soluzione obbligata) e saper applicare almeno alcuni tra i principali stili di indagine: concreto, inquisitivo, dichiarativo, introduttivo, ipotetico, alternativo, conclusivo (cfr. Burley - Mlen, 1991, p168) b) 11 saper mettersi sulla stessa lunghezza d’onda: significa creare una sintonia con i propri interlocutori; ciò accelera il dialogo ed evita fraintendimenti soprattutto durante i lavori di gruppo, nei quali possono insorgere con facilità incomprensioni o reazioni emotive negative in tempi diversi c) La capacità persuasiva (che non va confusa con forme manipolatorie): consiste nel saper influenzare gli altri senza trucchi e nel lasciar decidere.a loro, dopo aver presentato i benefici oggettivi di una determinata proposta o innovazione o prodotto d) La consapevolezza del linguaggio corporeo: richiede di prestare attenzione ai numerosi messaggi che si inviano col corpo e di controllare la loro congruenza e funzionalità con le parole e) L’assertività intesa qui non solo come strategia per rafforzare l’autostima e per affrontare adeguatamente le difficoltà che nascono dalla quotidianità ma anche, e soprattutto, come lacapacità di ragionamento dialettico. 11 1.3.4 Gli stili comportamentali Ogni individuo, grazie al modello educativo ricevuto in famiglia, alle caratteristiche personali e alla complessità delle esperienze, acquisisce un proprio modo abituale di comportarsi verso gli altri (stile) che lo contraddistingue, anche se non in modo esclusivo. In genere, il nostro modo di comportarci, in situazioni normali ma più ancora in quelle conflittuali, può essere aggressivo o remissivo o assertivo Lo stile aggressivo è caratterizzato dalla tendenza a dominare ed a vincere ad ogni costo sugli altri (logica dell’Io vinco e tu perdi”), dal credere di essere il depositano esclusivo della verità (conta solo quello che penso, voglio e dico io), dall’utilizzo del linguaggio corporeo a sostegno di atteggiamenti intimidatori, prepotenti ed arroganti. Il ricorso abituale al comportamento aggressivo porta sempre a conseguenze negative; nella misura in cui le persone vengono manipolate e trattate come oggetti, queste si sentono frustrate, tradite, umiliate e non sono disponibili a collaborare. Lo stile remissivo o passivo, al contrario di quello aggressivo, è caratterizzato dall’intento di evitare ogni possibile conflitto o scontro (logica dell’ ”Io perdo e tu vinci”), dal credere di avere meno diritti degli altri e di considerare il cedimento la soluzione migliore. Insicurezza, timori, ansie, sensi di colpa, scarsa autostima e debole fiducia in sè contraddistinguono la persona remissiva; il suo linguaggio corporeo privilegia le posture chiuse e riduttive. Come risulta evidente, anche lo stile remissivo, se abituale, diventa negativo perché non chiedendo impegni e comportamenti coerenti all’interlocutore, questi si fragilizza sempre più e tende ad accampare solo diritti e autonomie senza accettare doveri e responsabilità. Lo stile assertivo, infine, salvaguarda i diritti di tutti gli interlocutori: la difesa delle proprie ragioni non impedisce il rispetto delle opinioni e convinzioni altrui, l’affermazione dei propri diritti non viola i diritti degli altri. L’assertivo ascolta e si fa ascoltare, non si lascia intimidire, ed è franco, diretto ed onesto; il suo linguaggio non verbale è caratterizzato dall’espressività del volto e dai gesti ampi e cordiali; il comportamento è riflessivo, realistico nelle aspettative e responsabile; egli sa ascoltare con attenzione ed esprimere con chiarezza sentimenti e desideri (Burley-Allen, 1991). 1.3.5 L’assertività L’assertività è una competenza relazionale, che si esprime e concretizza nella “capacità di presentare, in modo chiaro ed aperto, le proprie impressioni, i pensieri ed i sentimenti, senza diventare aggressivo o porsi sulla difensiva” (Denny, 1994, p. 47) e nell’abilità di “avanzare richieste e di contro saper rifiutare richieste ritenute inaccettabili”. 12 L’assertività pervade tutti gli aspetti della comunicazione interpersonale e permette di influenzare gli altri senza manipolarli; secondo Burley-Allen (1991, pp. 29-55). Essa è il risultato di otto abilità: 1. Sviluppare una corretta autostima 2. Ascoltare attivamente 3. Assumere rischi 4. Saper dire di no, quando occorre 5. Gestire gli interventi con la critica costruttiva (che viene espressa in termini precisi, è rivolta al comportamento e non alla persona, è frutto di Osservazione di dati oggettivi e non di accuse gratuite o di giudizi emotivi, è finalizzata all’aiuto promozionale dell’interlocutore e non alla sua umiliazione) 6. Ricevere le critiche senza assumere atteggiamenti difensivi e senza lasciarsi travolgere dalla propria suscettibilità 7. Saper lodare, incoraggiare ed apprezzare gli sforzi ed i meriti altrui 8. Identificare gli obiettivi (conoscere la situazione nella quali si opera, programmare, preparare i piani di lavoro, essere costanti ma anche flessibili). Il comportamento assertivo presenta numerosi vantaggi: rende più persuasivi, focalizza l’attenzione sui comportamenti evitando il pericolo delle generalizzazioni e delle etichettature, aumenta la tolleranza (l’interazione sociale non viene concepita né attuata come un gioco di forza), permette soluzioni reciprocamente produttive, riconosce e rispetta le differenze individuali, attribuisce la giusta importanza al piano affettivo; infine, esso protegge dai tentativi manipolatori nei confronti degli altri, evitando le modalità subdole che hanno lo scopo di risvegliare l’emotività deviandola verso atteggiamenti aggressivi o passivi e frapponendo un cuneo tra la comunicazione verbale degli altri ed i loro sentimenti (Gillen, 1996). Lo stile assertivo è la sintesi di quattro elementi o componenti (BurleyAflen, 1991, pp. 7483): — La componente verbale riguarda l’utilizzo delle parole e delle espressioni che vengono scelte in modo da garantire all’interlocutore tanto la chiarezza quanto la correttezza comunicativa; per questo motivo, vengono evitate espressioni offensive e giudizi categorici o censori; — La componente cognitiva comprende i pensieri e le convinzioni caratterizzanti la persona assertiva che, partendo dal positivo concetto di sè ossia dalla fiducia nelle proprie capacità e potenzialità, sviluppa un’immagine di sè altrettanto positiva arrivando così a comportamenti adeguati e a sentimenti coerenti; — La componente non verbale abbraccia tutte le espressioni corporee (gesti cordiali ed aperti, contatto visivo diretto e costante, postura rilassata, tono di voce adeguato al contesto) che rafforzano il linguaggio verbale — La componente emotiva commisura il tono ed il volume della voce alla situazione e non cade in atteggiamenti paternalistici o di autosufficienza. Gillen (1996, pp. 122-128) ne ricorda le principali tecniche: 13 — L’asserzione di base, che costituisce il contenuto della relazione ossia l’informazione e le risposte da richiedere o da dare all’interlocutore, deve essere chiara, concreta, concisa ed essenziale — Il disco rotto consiste nel ribadire il proprio pensiero ad ogni tentativo di manipolazione o di fraintendimento senza sentire il dovere di fornire scuse, giustificazioni o spiegazioni e senza essere scortesi — La segnalazione di uno sfasamento aiuta ad arrivare al nodo del problema o della questione in modo non accusatorio, confrontando gli accordi intercorsi, la situazione difforme e la motivazione. “In base ai nostri accordi avrebbe dovuto accadere questo, invece succede quest’altro. Perché?” (Ibi, p125) — La relazione causa - effetto è sostanzialmente la prospettazione all’interlocutore di eventuali conseguenze (che deriverebbero a noi dal non rispetto di determinate condizioni o impegni da parte sua), espressa, verbalmente e con la mimica, in modo non minaccioso. 1.3.6 La gestione dei conflitti Si è già detto che la capacità di dialogare e di confrontarsi è alla base di tutte le relazioni corrette e produttive ed è anche la strada privilegiata per la gestione dei conflitti. Occorre precisare che il conflitto nelle relazioni umane è un fenomeno del tutto naturale, originato dalle diversità indivìduali, e che, in sè e per sè, esso non è negativo, ma lo diventasolo in presenza di sistematici irrigidimenti psicologici, atteggiamenti oppositivi, difese ad oltranza delle proprie idee, opinioni e convinzioni, incapacità di trovare mediazioni accettabili per tutti; negli altri casi, il conflitto, gestito correttamente, costituisce una risorsa preziosa e non una minaccia. Poiché in una relazione conflittuale gli attori sono almeno due, è necessario, anzitutto, cercare di capire “chi ha il problema” per poterlo, in seguito, risolvere. D’Amato (1996, pp. 75-89) ricorda le più comuni tecniche per il superamento del conflitto: la tecnica dell’ascolto attivo, la tecnica degli I-messages e il metodo “io vinco tu vinci 1.3.6.1 La tecnica dell’ascolto attivo L’ascolto attivo è il metodo d’intervento migliore a disposizione di un dirigente o di un formatore (genitore, docente) per aiutare un collaboratore o un subalterno, che ha un problema o espresso verbalmente o visibile nei suoi comportamenti intervenire non significa sostituirsi all’altro e risolvergli il problema, ma “guidare il collaboratore nel processo di soluzione, lasciando comunque che sia lui a trovare una soluzione”(Ibi, p. 77). L’ascolto attivo assicura molti vantaggi, in quanto consente di verificare se il messaggio del collaboratore è stato correttamente ricevuto ed inteso dal dirigente, evitando così il pericolo del fraintendimento, di essere attento ai suoi interessi, di accettano, di recuperare l’approccio razionale, che riduce le resistenze, corregge senza mortificare e perviene ad accordi anche su problemi difficili. L’ascolto attivo non è immune da pericoli; tra questi i più frequenti sono rappresentati da coppie di comportamenti inadeguati: esagerare e minimizzare - aggiungere qualcosa di 14 nostro o sottrarre aspetti rilevanti - restare indietro cioè ritornare su argomenti già affrontati o correre avanti (anticipare l’interlocutore) - analizzare i] perché di una frase detta e fare i pappagalli (anziché accertarsi c aver compreso una risposta senza ripeterla tale e quale). 1.3.6.2 La tecnica degli 1- messages L’I - message è una tecnica per risolvere i problemi sollevati dai comportamenti dei collaboratori che il leader non può e non deve accettare Esso è costituito da tre parti essenziali: a) La descrizione del comportamento inaccettabile e non colpevolizzante che ha lo scopo di riferire solo i fatti in modo che il collaboratore interessato conosca con chiarezza il problema sollevato dai suoi comportamenti che il leader non può accettare, se vuole rispettare la sua funzione; nel presentare il problema, questi deve usare la massima attenzione per non mettere l’altro sulla difensiva b) La presentazione delle conseguenze pratiche e tangi bili sottolinea i motivi reali, dei quali il leader ha esperienza diretta, che rappresentano un ostacolo per l’esercizio del suo ruolo e per il raggiungimento delle finalità dell’istituzione alla quale appartiene c) La manifestazione delle sensazioni esprime i sentimenti autentici che il leader prova in quel momento; in questo modo l’i-message risulta meno astratto e più efficace. La tentazione più comune è, invece, quella di sottovalutare l’importanza e la difesa dell’autostima dell’interlocutore; non è, infatti, sufficiente precisargli chiaramente il proprio parere o desiderio, è altrettanto importante saperlo fare col dovuto rispetto e senza aggressività. 1.3.6.3 Il metodo “Win - win” Il metodo “Win-win” è adatto nelle situazioni in cui le differenze di opinione, di convinzioni e di valori tra due o più persone rischia di portare ad un conflitto negativo, nel quale ognuno cerca di imporre il proprio volere e le proprie decisioni. Questo metodo vale per tutte le situazioni: sia per quelle in cui un interlocutore ha una posizione di superiorità o per l’esperienza (es.: genitore o formatore) o per le conoscenze (es. docente) o per le abilità (es.: professionista) e l’altro interlocutore di dipendenza (es.: figlio - alunno - beneficiano) come nel caso della comunicazione complementare, sia nella comunicazione speculare, nella quale i dialoganti hanno una posizione uguale (es.: due genitori, due fratelli, due professionisti). Normalmente, a fronte di convinzioni diverse, generanti un conflitto, l’uno dei due interlocutori cerca di prevalere sull’altro; questo modo di porsi porta sempre a due risultati insoddisfacenti, che si traducono o nel metodo dell’ Io vinco e tu perdi” o in quello opposto del “Tu vinci ed io perdo”. Se colui che dirige, ad esempio, cerca di risolvere il contrasto facendo valere la sua autorità ed il suo potere, il collaboratore si sentirà costretto e vivrà la decisione come una imposizione;al contrario, se il leader, per il quieto vivere o per debolezza, è passivo e rinuncia all’esercizio delle sue funzioni, ciò inevitabilmente si rifletterà 15 negativamente su tutta l’attività professionale e/o formativa o didattica perché non rispetterà né se stesso né i subalterni e finirà per farsi inghiottire da questi ultimi e per creare insoddisfazione e scoraggiamento. La soluzione consiste nel superamento dei due metodi, legati a logiche negative, attraverso il metodo “Win-win”, che è ancorato alla logica assertiva o del confronto, nella quale i due interlocutori risultano entrambi vincenti e che può essere così sintetizzata: “Tu ed io ci troviamo in una situazione di conflitto. Io rispetto le tue necessità, ma devo rispettare anche le mie. Non userò il mio potere su dite in modo da vincere mentre tu perdi, ma non posso cedere e lasciarti vincere a mie spese. Quindi cerchiamo una soluzione che viene incontro alle tue necessità come alle mie, cosi nessuno perde” (D’Amato, Ibi, p. 86). Si tratta di interpretare correttamente il confronto difendendo il diritto alle proprie convinzioni e rispettando quelle degli altri e, allo stesso tempo, ricercando mediazioni comportamentalivantaggiose per tutti. I benefici del metodo “Win-win” risultano facilmente evidenti: — Miglioramento qualitativo delle relazioni interpersonali — Miglioramento della competenza decisionale: il coinvolgimento di tutti gli interessati nelle scelte sviluppa maggiori responsabilità, favorisce la creatività, permette un’abilità superiore nella soluzione dei problemi perché valorizza la ricchezza delle esperienze, e fa sì che il dirigente superi la tentazione di impone, dall’alto, le decisioni o le innovazioni o di effettuare un lungo e logorante braccio di ferro coi propri subalterni. Il processo assertivo, conseguente all’applicazione del metodo “win-win”, si sviluppa attraverso le seguenti fasi: I. L’identificazione e la definizione del problema 2. La ricerca e la valutazione di soluzioni alternative 3. La decisione e l’attuazione solutiva 4. La valutazione dei risultati ottenuti attraverso il dialogo ed il confronto. Conclusione Conclusione Sì è dimostrato, in questo capitolo, che il rispetto e l’integrazione delle due caratteristiche umane complementari, la diversità e l’uguaglianza, favoriscono relazioni produttive e benessere psicofisico. L’esaltazione della diversità, al contrario, è sempre fonte di tensioni, di conflitti negativi e di difese corporativistiche in ambito professionale, mentre la negazione della diversità, a sua volta, conduce all’appiattimento generale e alla negazione di ogni ruolo sociale o professionale. L’integrazione ed il rispetto dei principi della diversità e dell’uguaglianza sono possibili e sono il frutto, oggi più che mai, dell’educazione al dialogo e al confronto; questa permette di sviluppare, nell’Era della conoscenza, che ha modificato radicalmente gli aspetti organizzativi e relazionali del nostro modo di vivere e di lavorare, la credibilità personale divenuta la fonte di potere più importante e rassicurante. 16