Baccanti - Enricia.org
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Le Baccanti Penteo sbranato dalle Baccanti (Pompei, Casa dei Vettii) Ambientazione: Tebe, Grecia Composizione: 407 - 406 a.C. Prima assoluta (postuma): 405 oppure 404 o 403 a.C. Premio: Vittoria alle Grandi Dionisie. Personaggi: Dioniso Penteo, re di Tebe Cadmo, nonno di Penteo Agave, madre di Penteo Tiresia, indovino cieco Guardia Primo messaggero Secondo messaggero Coro di Baccanti. N.B.: la tragedia fu scritta mentre l'autore era a Pella alla corte di Archelao, re di Macedonia, tra il 407 ed il 406 a.C.; Euripide morì pochi mesi dopo averla completata, misteriosamente fatto a pezzi, proprio come Penteo. L'opera fu rappresentata ad Atene pochi anni dopo. Alla data tradizionale di rappresentazione (405) si oppongono le stesse considerazioni fatte per Edipo a Colono di Sofocle e messe bene in luce da Luciano Canfora nella sua Storia della letteratura greca: non si vede per quale motivo si sarebbero dovuti aspettare ben 5 anni per mettere in scena l'ultimo dramma del tragediografo più amato di Atene, appena morto: dramma oltre tutto particolarmente famoso, perché grazie ad esso Sofocle si era difeso in tribunale contro il figlio Iofonte che aveva cercato di farlo interdire. In secondo luogo, non si capisce né perché nel 405 debbano essere rappresentate le Baccanti (insieme con Igifenia in Aulide) di Euripide, morto anch'egli nel 406, né come siano risultate vincitrici, secondo quanto affermano le fonti: infatti nello stesso anno 405 trionfano nell'agone comico le Rane di Aristofane, che sono di fatto un attacco contro Euripide. Secondo il Canfora è quindi più probabile che nel 405 sia stato rappresentato Edipo a Colono, e che le Baccanti con Igifenia in Aulide siano state rappresentate nel 404 o nel 403, di fronte al pubblico dei Trenta Tiranni e dei loro sostenitori oppure nell'Atene dei Dieci: un pubblico esso sì in grado di apprezzare il messaggio antidemocratico euripideo. Il dramma fu rappresentato sotto la direzione del figlio (o nipote) dell'autore, chiamato anch'egli Euripide. La trilogia comprendeva anche Alcmeone a Corinto (oggi perduta) e Ifigenia in Aulide. Antefatto: Dioniso, dio del vino, del teatro, del piacere e dell'irrazionale in genere, era nato dall'unione tra Zeus e Sèmele, donna mortale. Tuttavia le sorelle della donna, Ino, Àgave e Autònoe, per invidia avevano messo in dubbio che il connubio fosse con un dio e avevano suggerito alla sorella incinta di chiedere all'amante di mostrarsi nel suo vero aspetto, ben sapendo che, se ciò fosse avvenuto, Semele sarebbe stata incenerita. E così infatti era avvenuto. Zeus aveva raccolto dalle ceneri fumanti della poveretta l'embrione immortale, praticandosi un taglio all'altezza dell'inguine e cucendovelo dentro con fibbie d'oro: compiuto il nono mese, aveva dato alla luce Dioniso, dio dell'ambiguità fin dalla nascita, in quanto nato da un padre-madre. Intanto le sorelle invidiose avevano sparso la voce che Semele aveva avuto una relazione con un comune mortale e che la storia del rapporto con Zeus era solo uno stratagemma per mascherare la "scappatella": proprio per questo, a detta delle perfide sorelle, Zeus sdegnato per la menzogna avrebbe incenerito Semele. In sostanza, quindi, esse negavano la natura divina di Dioniso, considerandolo un comune mortale. A questa tesi "blasfema" aderisce Pènteo, figlio di Agave e nuovo re di Tebe dopo l'abdicazione del vecchio Cadmo, uomo, al contrario di lui, pio e religioso. Trama: Nel prologo della tragedia Dioniso si presenta ed afferma di essere sceso tra gli uomini sotto falso nome, Lo Straniero, per convincere tutta Tebe di essere un dio e non un uomo. A tale scopo per prima cosa ha indotto un germe di follia in tutte le donne tebane, che sono dunque fuggite sul monte Citerone con le Baccanti seguaci di Dioniso a celebrare riti in onore di Dioniso stesso (diventando quindi esse stesse Baccanti: Bacco è un altro nome di Dioniso). Penteo, di ritorno da un breve viaggio, trova Tebe deserta di donne e sdegnato chiede dove siano finite: quando viene sapere che tutte (compresa la madre e le zie) sono sul monte Citerone con un bellissimo "Straniero", va su tutte le furie: invano Cadmo (nonno di Penteo) e Tiresia (l'indovino cieco), che nel frattempo si sono travestiti da Baccanti, tentano di dissuaderlo e di fargli riconoscere Dioniso come un dio. Il re di Tebe li scaccia, ingiungendo loro di togliersi di dosso quel ridicolo travestimento, e fa arrestare lo stesso Dioniso (che si lascia catturare volutamente, porgendo le mani e sorridendo) per imprigionarlo con le Baccanti. Ha luogo un primo dialogo fra il re e il dio: quest'ultimo risponde sempre in modo vago ed elusivo alle precise domande del re, suscitando la sua collera. Penteo rifiuta di riconoscere un dio in Dioniso: lo considera una sorta di demone che ha ideato una trappola per adescare le donne, favorito dal suo aspetto seducente, e di conseguenza lo fa sbattere nella stalla. Il dio però scatena un terremoto che gli permette di evadere immediatamente, liberando anche le Baccanti. Penteo lo vede apparire contemporaneamente in tre luoghi diversi, ma neppure così si convince della sua divinità. Nel frattempo dal monte Citerone giungono notizie inquietanti: le donne che compiono i riti sono in grado di far sgorgare vino, latte e miele dalla roccia, e in un momento di furore dionisiaco si sono avventate su una mandria di mucche, squartandole vive con forza sovrumana. Hanno poi invaso alcuni villaggi, devastando tutto, rapendo bambini e mettendo in fuga la popolazione. Ha luogo un secondo confronto fra i due protagonisti: Penteo aggredisce verbalmente Dioniso, ma questi all'improvviso lancia un tremendo urlo che segna la metà quasi esatta della tragedia (siamo nel terzo episodio) e ne costituisce il punto di svolta: di qui in avanti, infatti, si assisterà al ribaltamento dei ruoli. Dioniso chiede a bruciapelo a Penteo se quello che desidera non sia in realtà vedere sua madre e le sue zie impegnate in (supposte) sconcezze. Il dio dell'irrazionale, trasparente simbolo della physis, sa leggere nell'irrazionalità umana come in un libro aperto e sa che Penteo, il presunto razionalista, è in realtà affetto da voyeurismo (= guardonismo) e da un evidente complesso di Edipo. Colto in contropiede, totalmente spiazzato, Penteo risponde subito di sì: si tratta di un processo ben noto agli psicoanalisti, detto "smascheramento", che comporta quasi sempre come reazione uno stupore inebetito da parte del soggetto smascherato, il quale, posto di fronte all'evidenza della sua reale natura, non riesce più a negare la verità ed appare di colpo svuotato della sua presunta forza, incapace di reazione. Da questo momento la partita passa saldamente in mano a Dioniso, il quale, com'era prevedibile, promette al re di soddisfare le sue voglie segrete. E Penteo, colpito nel punto più vulnerabile del suo essere, non oppone più resistenza. Dioniso riesce allora a convincerlo a mascherarsi da donna per poter spiare di nascosto le Baccanti. Nel memorabile quarto episodio il re appare in scena barcollante, come ubriaco, travestito da Baccante, completamente inebetito, pavoneggiandosi del suo abito femminile. Dioniso lo accompagna sul Citerone. Una volta che i due sono giunti sul monte, però, il dio fa salire Penteo sull'alto di un abete e poi scompare. Una voce dal cielo aizza le Baccanti contro Penteo. Furiose, credendo di vedere un leone di montagna, esse sradicano l'albero, si avventano su di lui e lo fanno letteralmente a pezzi. La prima ad infierire su Penteo, staccandogli di netto un braccio, è sua madre Agave, che poi gli taglia la testa e la infilza sul tirso (il bastone-giavellotto delle Baccanti). Questi fatti vengono narrati a Cadmo da un messaggero che è tornato a Tebe dopo aver assistito alla scena, in una rhesis fra le più belle della storia del teatro. Poco dopo arriva anche Agave, munita del bastone sulla cui sommità è infilzata la testa di Penteo. Cadmo, inorridito di fronte a quello spettacolo, riesce pian piano a far rinsavire Agave, rivolgendole lo sguardo verso il sole. Infine Agave si accorge con orrore di ciò che ha fatto e ne è sconvolta. A quel punto riappare ex machina Dioniso, che - questa volta senza alcun sorriso, ma con fredda brutalità - spiega di avere architettato questo piano per punire chi non credeva nella sua natura divina e condanna Cadmo e Agave ad essere esiliati in terre lontane, senza tenere alcun conto del fatto che Cadmo è completamente innocente. Con l'immagine di Cadmo e Agave che, commossi, si dicono addio, si conclude la vicenda. Interpretazione: L’opera è quasi completamente imperniata attorno allo scontro tra Penteo e Dioniso, ma nessuno dei due può essere definito un personaggio positivo. Il dio, infatti, come appena visto, è privo di qualsiasi scrupolo e pietà verso gli uomini, mentre il re Penteo, che vorrebbe apparire come una persona pienamente razionale, si comporta dapprima in modo tirannico ed ottuso, per poi ribaltarsi nel suo esatto opposto non appena Dioniso lo smaschera, rivelando pienamente l'inconsistenza delle basi su cui poggiava la sua presunta forza. I due personaggi di Dioniso e di Penteo non sono dunque realmente in contrasto l’uno con l’altro, ma speculari, come viene suggerito ironicamente verso la fine dell’opera, là dove i due si scambiano i ruoli: Penteo travestendosi da Baccante, Dioniso assumendo l’atteggiamento del despota. In ogni caso il vincitore indiscusso è Dioniso, la Natura, sede di pulsioni irrazionali di devastante potenza, di fronte alle quali nulla può il fragile schermo del lògos, la razionalità umana: perché nessun essere umano è così razionale da essere immune dall'irrazionalità, e ciascuno di noi ha un punto debole di cui spesso ignora l'esistenza: chi lo scopre ha in mano la nostra vita. Un'opera religiosa? Le Baccanti sono considerate una delle più grandi opere teatrali di tutti i tempi, ma anche una delle più ambigue e indecifrabili. Tradizionalmente quest'opera era sempre stata considerata un'opera religiosa, in pratica la tardiva "riscoperta" della religione da parte di un autore che per tutta la vita era stato considerato un laico, se non addirittura un miscredente. Questa interpretazione appare però oltremodo superficiale, come bene ha messo in luce la critica degli ultimi decenni. Innanzitutto è da notare che Dioniso si dimostra una divinità assolutamente spietata nel punire chi non aveva creduto in lui, al punto di sterminare i suoi stessi parenti ed esiliare i sopravvissuti, colpendo anche gli innocenti come Cadmo. E tutto questo per semplice vendetta. Quanto alle Baccanti, esse appaiono molto più intente a compiere azioni violente (invadere villaggi, squartare mandrie di mucche e lo stesso Penteo) che non a celebrare la gioia dei riti di Dioniso. La stessa Agave, dopo essere stata Baccante, si allontana dalla scena gettando a terra i paramenti del dio e augurandosi di non vedere mai più il Citerone. Per questo motivo alcuni critici arrivano a interpretare l'opera in senso del tutto opposto, considerandola anzi una dura invettiva contro la religione. Molto probabilmente non è né l'una né l'altra cosa, ma una definitiva presa d'atto dell'esistenza di una forza oscura (quello che Schopenhauer definirà Wille) al di sotto del mondo fenomenico: una forza che si esprime in natura attraverso lo scatenamento di pulsioni irrazionali incontrollabili, che possono portare indifferentemente verso la vita, come in una giornata di primavera, o verso la distruzione e la morte, come in occasione di un tornado o di un terremoto. Di questa forza è simbolo Dioniso, che dunque non è né positivo né negativo, ma è la somma di tutte le forze positive e negative della Physis. Se ciò può essere chiamato Dio, ebbene, è questo il Dio in cui crede Euripide, ed ha il volto del Saturno di Goya. Sophìa e Sophòn Platone, nel Fedro, afferma che la follia è superiore alla conoscenza, poiché quest’ultima è di origine umana, mentre la prima è di origine divina. Uno dei tipi di follia individuati da Platone è appunto quella iniziatica, riconducibile in questo caso al dio Dioniso. Nelle Baccanti è in effetti presente una netta differenziazione tra i termini sophía e sophòn: il primo è la sapienza, nel senso di verità rivelata, ottenibile mediante l'invasamento divino; il secondo è invece il sapere, la conoscenza razionale, che si può conquistare con lo studio. Secondo il coro delle Baccanti, possedere il secondo è inutile e stolto: il vero sapere è sempre rivelato: «Non è sapienza il sapere, l'avere pensieri superiori all'umano. Breve è la vita, chi insegue troppo grandi destini non gode il momento presente. Costumi stolti di uomini dissennati stiano lontani da me.» (vv. 395-402). Ora, il fatto che il coro la pensi così non implica affatto che Euripide ne condivida il giudizio: più spesso infatti, come abbiamo visto, il coro esprime un punto di vista quanto mai distante da quello dell'autore. Insomma, chi si basa su elementi di questo genere non può che fallire nel tentativo di interpretare questa che, senza dubbio, è la più enigmatica tra le tragedie euripidee. Sarà quindi utile, in questo caso, offrire una carrellata dei principali orientamenti della critica. La critica delle Baccanti Di vera e propria critica delle Baccanti, esente da preconcetti e basata su valutazioni il più possibile oggettive, non si può parlare prima della fine dell'Ottocento. Queste le principali correnti critiche che si sono succedute o sovrapposte: 1. i primi ad occuparsi "scientificamente" della tragedia euripidea sono i filologi positivisti. Capofila è W. Nestle (1901), seguito a ruota da P. Masqueray e W. Verral. Per la prima volta ci si pone il problema delle Baccanti in questi termini: cosa intende comunicare Euripide con questa tragedia: la sua "conversione" o viceversa la sua risoluta condanna nei confronti della religio? 2. lo storicismo intanto, rappresentato in questo caso da Murray (1913), pone la tragedia in rapporto dialettico con le vicende dell'Atene coeva, cercandone qui la chiave interpretativa; 3. contemporaneamente il neo-idealismo, rappresentato da titani della filologia classica quali W. Jaeger, M. Pohlenz e A. Lesky, analizza con grande finezza la psicologia dei personaggi; A questo punto la questione può già essere posta con chiarezza in questi termini: esistono nell'interpretazione delle Baccanti tre aporìe irrisolte, e precisamente: a. La figura di Pènteo è condannata o viceversa esaltata? b. La valutazione del ruolo di Dioniso è positiva o negativa? c. Che senso ha la contrapposizione tra sofoén e sofòa, di cui si fa portavoce il Coro? E qual è perciò il ruolo del Coro? 4. sulla scia del decadentismo il grande studioso inglese E.R. Dodds pubblica intanto nel 1929 il suo fondamentale saggio I Greci e l'irrazionale, seguito da Euripides the 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. irrationalist, in cui fra l'altro mette in luce l'esistenza, se non la prevalenza, in Euripide di aspetti profondamente ambigui ed irrazionali; la storia delle religioni e l'etnologia danno intanto importanti contributi all'interpretazione della tragedia, evidenziando come essa non rifletta una reinvenzione fantastica del dionisismo, ma sia al contrario una testimonianza storicamente attendibile su di esso; ancora dal neo-idealismo (Perrotta, Lesky) viene il tentativo di risolvere tutte queste difficoltà interpretative considerando l'opera una sublime manifestazione artistica fine a se stessa; il Dodds pubblica però nel 1944 la sua edizione delle Baccanti, in cui mette in luce una volta per tutte che il rituale dionisiaco è assolutamente centrale nella tragedia, in particolare per gli elementi dello sparagmoév e della w\mofagòa; sulla sua scia si pone R.P. Winnington-Ingram. Né l'uno né l'altro però risolvono le aporìe cui si è fatto cenno sopra; e non lo fa neppure H. Jeanmaire nel suo pur mirabile saggio Dionysos del 1951, seguito da quelli di Gernet, Detienne e Girard; proprio Girard apporta alla critica delle Baccanti nuova linfa attraverso il contributo della psicoanalisi; lo storicismo intanto riprende vigore ed esprime attraverso V. Di Benedetto il suo contributo più importante: Euripide: teatro e società, del 1971, che spiega le apparenti contraddizioni euripidee alla luce della sua totale sfiducia nella politica ateniese a lui coeva; il "teatro della crudeltà" di A. Artaud intanto, negli anni '60-'70, contribuisce ad attirare l'attenzione del pubblico sulle inquietudini così "moderne" della tragedia euripidea; in questa direzione vanno anche i contributi di L. Squarzina con il suo saggio Il didatta e lo sciamano e di Ian Kott con The eating of the Gods: quest'ultimo contrappone il rituale salvifico della Pasqua cristiana al rito dionisiaco, che al contrario celebra la vittoria della morte sulla vita; ne scaturirebbe quindi un dramma dell'assurdo, una macabra celebrazione della follia autodistruttiva di un intero popolo; frattanto il mondo filologico produce i saggi di D.J. Conacher (1967) e J. Roux (1970-72): il primo analizza la struttura drammatica e gli effetti scenici della tragedia, il secondo mette in luce la contrapposizione tra sofoén e sofòa come due modalità antitetiche del conoscere; ancora la psicoanalisi, particolarmente in voga negli USA negli anni '80, produce diversi contributi, di cui il più significativo è quello di C. Segal, che mette in luce la polisemia delle Baccanti ed esclude la possibilità di un'interpretazione univoca; infine, in tempi recenti U. Albini (1987) si è avvalso di diverse metodiche critiche per arrivare a conclusioni non dissimili da quelle di Segal: in definitiva, a suo parere, le Baccanti non sono un dramma "a tesi", bensì un'opera profondamente e volutamente ambigua; ne sono spia e riflesso i continui scambi di ruolo (maschiofemmina, Penteo-Dioniso e, linguisticamente, attivo-passivo). BRANI GUARDIA Eccoci, Pènteo, l’abbiamo catturata, la tua preda, come avevi ordinato. La caccia non è andata a vuoto. Ma questa fiera fu mansueta con noi, non mosse piede per darsi alla fuga, anzi ci ha offerto le sue mani, senza resistenza: non è sbiancata e le sue guance, rosse come vino, non sono scolorite. Sorrideva e s’è lasciata legare e portar via, immobile, e ha reso facile l’impresa. E io allora, pieno di rispetto, gli dico: "O Straniero, non per mia volontà ti porto via, ma di Pènteo, che mi ha mandato, eseguo gli ordini". Ma le Baccanti che avevi catturato e fatte rinchiudere legate nella nostra prigione, loro sono lontane ormai, libere, su ai monti saltano e invocano Bromio dio: da sé a loro le corde si sono sciolte dai piedi e i chiavistelli hanno spalancato le porte senza che mano d’uomo li toccasse. Quest’uomo è qui a Tebe con molti miracoli. Al resto, tocca a te pensarci. PENTEO Sciogliete le sue mani. Nella rete com’è, non sarà poi tanto veloce da scapparmi via. (Gli gira intorno osservandolo) Però, il tuo corpo non è davvero fatto male, Straniero, almeno per le donne, e per le donne appunto sei venuto qui a Tebe: chioma fluente la tua (non certo di uno che ama la lotta!), riccioli che si spandono giù lungo le guance, pieni di desiderio; incarnato candido, che certo ti vuoi mantenere: non vivi, tu, alla luce del sole, tu vivi nell’ombra, a dài la caccia a Afrodite con questa tua bellezza. Ebbene, prima di tutto, dimmi di che razza sei. DIONISO Nessun vanto: facile dirti questo. Il fiorito Tmolo certo tu lo conosci di fama. PENTEO So dov’è: circonda tutto intorno la città di Sardi. DIONISO Da là vengo: la Lidia è la mia patria. PENTEO E perché mai porti questi misteri in Grecia? DIONISO Dionìso mi ha introdotto, il figlio di Zeus. PENTEO C’è là uno Zeus che partorisce nuove divinità? DIONISO No. È lo stesso che qui si unì in nozze con Sèmele. PENTEO E in sogno o da sveglio ti ha imposto la sua volontà? DIONISO Io lo vedevo, lui vedeva me, e così mi affidò i suoi riti. PENTEO E questi riti, di che specie sono per te? DIONISO Cose da non dire: non può sapere chi non è iniziato. PENTEO E che guadagno c’è per chi li celebra? DIONISO A te è proibito sentire, ma conoscerli merita. PENTEO L’hai rigirata bene tu, questa risposta, per mettermi la voglia di sapere. DIONISO I riti del dio odiano chi pratica sacrilegio. PENTEO E questo dio, dici di averlo visto bene: com’era? DIONISO Come voleva: io questo non potevo imporlo. PENTEO Di nuovo giri intorno proprio bene e non mi dici niente. DIONISO Chi dice cose sagge, di certo sembra stolto a uno stolto. PENTEO È Tebe la prima città dove vieni a portare questo demone tuo? DIONISO Già tutti i barbari celebrano questi riti. PENTEO Di certo! Sono più stolti di noi Greci. DIONISO Al contrario! Diversi sono i loro costumi. PENTEO E questi tuoi riti misteriosi, li compi di notte o di giorno? DIONISO Di notte, soprattutto: c’è qualcosa di sacro nelle tenebre. PENTEO Per le donne c’è solo inganno e marciume. DIONISO Se è per questo, la corruzione c’è chi la trova anche di giorno. PENTEO La devi pagare per questi tuoi sofismi maliziosi. DIONISO E tu per la tua stoltezza e, soprattutto, per la tua empietà. PENTEO Ma com’è audace il baccante! A parole se la cava bene. DIONISO Dimmi cosa devo subire? Che mi farai di tanto tremendo? PENTEO Prima di tutto ti taglierò codesta tua chioma delicata. DIONISO Sono sacri i miei capelli: li curo per il dio. PENTEO Poi mi darai questo tirso che ti tieni in mano. DIONISO Prenditelo da solo: è di Dionìso il tirso. PENTEO Il tuo bel corpo, lo terremo in custodia dentro il carcere. DIONISO Il dio stesso mi libererà, quando io lo vorrò. PENTEO Sì, quando lo invocherai in mezzo alle tue Baccanti. DIONISO Anche ora vede la mia passione: lui è qui, vicino. PENTEO E dov’è? Questi occhi miei non lo vedono. DIONISO È qui con me: tu sei un empio, per questo non lo vedi. PENTEO Prendetelo! Costui non rispetta né me né la città di Tebe. DIONISO E io vi dico di non legarmi, io che sono saggio a voi pazzi. PENTEO E io, invece, dico di legarti, io che sono il più forte! DIONISO Tu non sai perché vivi, né che fai, né chi sei. PENTEO Io sono Pènteo, figlio di Agàve e di mio padre Echìone! DIONISO E proprio nel tuo nome sta scritto il tuo pentimento e patimento, Pènteo. PENTEO Vattene! E voi rinchiudetelo nelle stalle qui accanto, perché veda bene, lui, laggiù nelle tenebre oscure. E laggiù balla! E queste donne che ti tiri dietro, complici del tuo male, le venderemo schiave, le farò smettere io di far baccano con i loro tamburi e le terrò ai telai a farmi da serve. DIONISO Me ne andrò: ciò che non è destinato, sta’ sicuro io non dovrò patirlo. Ma, attento: verrà Dionìso, quel dio che tu dici non esiste, e ti farà pagare le tue violenze: tu fai ingiustizia a me, ma è lui che getti in carcere. […] PENTEO A me le armi! E tu, basta parlare! DIONISO Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah! Le vuoi vedere, le donne, sdraiate tutte insieme, sul monte? PENTEO Sì, sì lo voglio! Pagherei a peso d’oro per vederle! DIONISO E com’è che ti è presa questa gran voglia? PENTEO Sarà un dolore, ma le voglio vedere ubriache. DIONISO Allora ti vuoi godere uno spettacolo che ti farà male? PENTEO Sì, voglio vedere: starò in silenzio, nascosto tra gli abeti. DIONISO Ma ti scoveranno, anche se ti avvicini di nascosto. PENTEO E allora andrò allo scoperto: questa volta hai ragione. DIONISO E allora ti farò da guida: vuoi metterti in cammino? PENTEO Guidami, presto! Non perdere più tempo! DIONISO Avvolgi il tuo corpo in vesti di lino. PENTEO E perché mai? Io, uomo, travestito da donna? DIONISO Perché non ti uccidano, se là ti fai vedere uomo. PENTEO E hai ragione anche questa volta: sei furbo tu, l’ho capito da un pezzo. DIONISO Dionìso ci ha ispirato questa idea. PENTEO E come metterò in pratica i tuoi buoni consigli? DIONISO Ma sarò io a vestirti, là dentro alla reggia. PENTEO Con quale veste? Da donna? Mi vergogno. DIONISO Ecco, ora non hai più voglia d’essere spettatore delle Menadi. PENTEO Quale veste dici che dovrò indossare? DIONISO Anzitutto sulla tua testa metterò una parrucca di capelli fluenti. PENTEO E poi quale sarà il mio travestimento? DIONISO Sarà un peplo, lungo fino ai piedi. E sul capo una mitra. PENTEO E poi, oltre a questo, come mi farai bello? DIONISO Con un tirso e una pelle screziata di cerbiatto. PENTEO Ma non posso, non ce la faccio proprio a travestirmi da donna! DIONISO E allora dovrai versare sangue e affrontare in battaglia le Baccanti. PENTEO È vero: prima devo andare a spiarle. DIONISO Certo, è più prudente che cacciarsi nel male con il male. PENTEO E come farò ad attraversare la città di nascosto ai Cadmei? DIONISO Per vie traverse andremo e io sarò la tua guida. PENTEO Va bene tutto, purché le Baccanti non se la ridano di me. Ora entriamo in casa e… là deciderò. DIONISO Fa’ pure: da parte mia, io sono sempre a tua disposizione. PENTEO Allora io vado: o andrò là sul monte, armato, oppure darò retta ai tuoi consigli. DIONISO Donne, l’uomo ormai è caduto nella rete: andrà dalle Baccanti e lì pagherà la sua pena con la morte. Dionìso, ora è compito tuo: tu non sei lontano. Ci vendicheremo. Per prima cosa fallo diventar pazzo, infondi in lui una leggera follia, perché, se resta in sé, non sarà mai disposto a travestirsi da donna, ma, se lo fai uscire di senno, si travestirà. Farò di lui l’oggetto dello scherno dei Tebani e, trasformato in donna, me lo porterò a spasso per tutta la città, lui che prima, con le sue minacce, sembrava così tremendo. Ora vado a far bello Pènteo e così agghindato se ne andrà all’inferno, sgozzato dalle mani di sua madre. Saprà chi è Dionìso, il figlio di Zeus, saprà la sua natura di dio vero, terribile, sì, ma il più dolce per gli uomini. [...] DIONISO Tu, che hai tanta voglia di vedere cose che vedere non devi, e hai fretta di cercare cose che cercare non devi, a te dico, Pènteo, esci dal tuo palazzo e lascia che io ti ammiri con la tua veste da donna, da Baccante, da Menade: sei pronto ormai a spiare tua madre e il suo corteo. Oh, assomigli davvero a una figlia di Cadmo! PENTEO Ecco, mi pare di vedere due soli… e doppia mi pare Tebe: due città, vedo, dalle sette porte. E tu, che mi guidi, mi sembri un toro, e sulla tua fronte sono spuntate corna. O forse già da prima tu eri una bestia? Ora, sei un toro. DIONISO Il dio è nostra guida: lui, prima, non ci era propizio, ma ora ha stretto con noi un’alleanza, e ora tu vedi le cose che devi vedere. PENTEO Come ti sembro? Non ti sembro il ritratto di Ino o di Agàve, mia madre? DIONISO Proprio loro mi sembra di vedere, quando guardo te. Ma, ecco, questo ricciolo t’è andato fuori posto: eppure sotto la mitra l’avevo accomodato così bene! PENTEO È che prima, là in casa, scuotevo la testa avanti e indietro, per danzare come una Baccante, e il ricciolo è uscito di posto. DIONISO Se è per questo, lo aggiusteremo noi: sta a cuore a noi servirti. Su, tieni dritta la testa. PENTEO Ecco, fammi bello: io mi rimetto nelle mani tue. DIONISO Ti s’è allentata anche la cintura e le pieghe del peplo non cadono bene a piombo fino alle caviglie. PENTEO Sì, pare anche a me, qui sul piede sinistro. Da questa parte, invece, il peplo ricade proprio bene. DIONISO Certo sarò per te il primo dei tuoi amici, quando, con tua grande sorpresa, vedrai le Baccanti in tutta la loro composta armonia. PENTEO E il tirso? Come somiglierò di più a una Baccante, se io lo tengo con la mano destra o con questa? DIONISO Con la destra, si deve, e sollevarlo, a tempo, insieme al piede destro. Bravo! Ti meriti un elogio, perché hai mutato la tua mente. PENTEO E ora potrò caricarmi sulle spalle il Citerone con sopra le Baccanti tutte insieme? DIONISO Lo potrai, se vorrai. Prima la mente, non l’avevi sana: ora ce l’hai come devi averla. PENTEO Portiamo delle leve? Oppure solleverò la montagna con le mani, solo a forza di braccia e di spalle? DIONISO Basta che tu non mi distrugga la sede delle Ninfe e i luoghi dove Pan suona la sua zampogna. PENTEO Hai detto bene: non ci vuole la forza per vincere le donne. E io me ne starò nascosto tra gli abeti. DIONISO Sì, ti nasconderai: e in un nascondiglio dove bisogna che stia ben nascosto, chi viene a spiare le Menadi di nascosto. PENTEO Ecco, mi pare di vederle, là tra le macchie, già tutte prese nelle reti dei loro dolci nidi, come uccelli in amore… DIONISO Proprio per questo tu vai in esplorazione. E le prenderai, forse, se prima non sarai preso tu. PENTEO Accompagnami per la terra di Tebe: io, tra tutti, sono l’unico uomo che ha il coraggio di osare. DIONISO Tu solo ti sacrifichi per questa città, tu solo: per questo ti aspettano le prove che tu devi aspettarti. Ma ora seguimi. Sono io la tua guida per la tua salvezza. Di là poi qualcun altro ti riporterà qui. PENTEO Di certo la donna che mi ha partorito! DIONISO Sarai un segno visibile per tutti. PENTEO Per questo vado. DIONISO E tornerai, trasportato… PENTEO Un lusso grande! DIONISO …tra le braccia di tua madre. PENTEO Mi costringi a godere! DIONISO E che gioia! PENTEO Quella che mi merito. (Penteo esce) DIONISO Sei terribile tu, terribile davvero. E vai a prove terribili: e troverai una gloria che arriva fino al cielo. Tendi le braccia, Agàve, e voi, figlie seminate da Cadmo: guido questo ragazzo ad una prova grande, e sarò io il vincitore, io e Bromio. Il resto, saranno i fatti a dirlo. […] SECONDO MESSAGGERO Ci lasciammo alle spalle le ultime case di questa terra di Tebe, risalimmo le correnti dell’Asòpo e poi si prese su per ripidi sentieri che vanno al Citerone, Pènteo, io – che seguivo il mio padrone – e lo straniero, la nostra guida in quella spedizione. Prima una sosta in un prato erboso, attenti a soffocare il rumore dei passi ed il respiro, per vedere senza essere visti. C’era una conca tra pareti di roccia, scavate da sorgenti, ombreggiata dai pini: le Mènadi erano là, tutte prese in piacevoli fatiche: alcune coronavano d’edera il loro tirso che aveva perduto la sua chioma; altre, come puledre liberate dai gioghi variopinti, facevano risonare a voci alterne un canto a Bacco. Pènteo, quell’infelice, non riusciva a vedere la schiera delle donne. E allora disse: "Straniero, io da qui, non arrivo a vederle, quelle Menadi false. Ma lassù dalle rocce, se salgo proprio in cima ad un abete, le vedrei bene, le loro sconcezze". A questo punto, ecco, vedo il miracolo dello Straniero: afferra la cima, alta fino al cielo, di un abete e lo piega giù, lo piega giù, lo piega giù fino alla terra nera. E l’abete si curva, come un arco o un legno che il tornio modella a forma di ruota. Proprio così lo Straniero, con le sue mani, teneva quell’albero di montagna e lo piegava giù fino a terra: e questa impresa niente aveva di umano. Poi fa sedere Pènteo sui rami dell’abete, si fa scorrere il tronco diritto tra le mani, piano piano, attento che lui non sia disarcionato: dritto ora l’albero svettava su, nell’alto del cielo, e si portava, seduto sulla cima, il mio padrone. E fu visto, piuttosto che vederle, lui, le Menadi. Non era ancora bene in vista, appostato lassù in alto, che lo Straniero non si vide più. Ma dal cielo una voce - Dionìso credo - levò il grido: "Ragazze, vi porto chi ha riso di voi, di me e dei miei riti: punite l’uomo!". Mentre così parlava, tra cielo e terra si stagliava una luce di fuoco divino. Silenzio nell’aria, silenzio tra le fronde del bosco e nella valle, silenzio le voci delle fiere. Ma quelle non udirono chiara la voce del dio e si alzarono ritte e volsero attorno gli occhi. Lui di nuovo gridò: quando udirono chiaro il comando di Bacco, le figlie di Cadmo si lanciarono più veloci di colombe, mossero i piedi in corsa vorticosa la madre Agàve e con lei le sorelle, nate dal suo stesso seme, e tutte le Baccanti. E a balzi per la valle solcata dai torrenti e tra i burroni corsero, invasate dallo spirito del dio. Quando poi vedono il mio padrone nascosto sull’abete, s’arrampicano su una roccia che stava di fronte a lui come una torre, scagliano pietre a tutta forza e rami d’abete come fossero lance. Altre facevano balenare nell’aria i loro tirsi contro Pènteo, ormai solo un misero bersaglio, ma senza colpirlo. Quell’infelice, in preda alla paura e senza scampo, era troppo in alto, fuori portata dalla loro furia. Alla fine, schiantano come fulmini i rami dalle querce e si mettono a scalzare le radici; ma quelle leve non erano di ferro e i loro sforzi furono tutti vani. Allora Agàve disse: "Avanti, Menadi, tutte qua in cerchio, afferrate il tronco, prendiamo la bestia salita lassù, perché non sveli le danze segrete del dio!". Mille mani abbrancano l’abete, lo strappano dalla terra e da lassù, dall’alto a precipizio, s’abbatte a terra, Pènteo, tra grida di terrore: capisce di essere vicino alla rovina. Fu sua madre, per prima, ad iniziare, sacerdotessa di un rito di sangue, e gli si avventa contro. Lui si strappa via la mitra dai capelli, perché Agàve, anche lei infelice, lo riconosca e non lo uccida, carezza il viso di sua madre e dice: "Io, madre, sono figlio tuo, Pènteo, partorito da te nella casa di Echìone. Pietà, madre, abbi pietà di me, per le mie colpe non ammazzarlo, questo figlio tuo!". Ma quella, con la bava alla bocca, torceva le pupille stravolte, era fuori di sé, non intendeva: posseduta da Bacco, lei non l’ascoltò. Gli afferra il braccio sinistro con le mani, punta i piedi sui fianchi di quel disgraziato e gli stacca la spalla, ma non con la sua forza: il dio dava vigore alle sue braccia. Dall’altra parte compie il suo scempio Ino e squarta le carni, poi s’accanisce Autònoe e poi le Baccanti in branco tutte insieme. Era tutto un gridare confuso: lui urlava di dolore finché ebbe ancora un po’ di fiato, loro urlavano grida di vittoria. Una portava un braccio, l’altra un piede ancora col calzare, le costole messe a nudo erano sbranate e con le mani grondanti di sangue le Baccanti si lanciavano, come una palla, i brandelli di carne di Pènteo. Ora il suo corpo giace, fatto a pezzi, qua e là: un pezzo sotto rocce scoscese, un pezzo tra le macchie del bosco, e non sarà facile trovarli. La misera testa, se l’è presa sua madre: l’ha piantata sulla cima del tirso e la porta in trofeo giù per il Citerone, come fosse la testa di un leone montano. Ora ha lasciato le sorelle tra i cori delle Menadi e lei, fiera di questa preda disgraziata, avanza verso le nostre mura e invoca Bacco, suo alleato, suo compagno di caccia, il grande vincitore: e a lui porta il trofeo di una vittoria fatta di lacrime. Ma io voglio stare lontano da questo orrore, e me ne andrò prima che Agàve arrivi qui a palazzo. Essere saggi e venerare gli dèi è la cosa più bella: e credo anche che sia la più sensata e, per noi mortali, un bene prezioso, se lo mettiamo in pratica.