Il potere di una Consorteria

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Il potere di una Consorteria
Cristina Baroncini
Il potere di una Consorteria:
I Ceroni della valle del Senio
(secoli XV - XVII)
presentazione del Prof. Andrea Padovani
Introduzione
Questo libro è nato come tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Bologna nel mese di marzo dell’anno 2005.
L’idea di affidare ad una dissertazione dottorale lo studio delle vicende che videro protagonisti i Ceroni mi era stata suggerita alcuni anni prima dall’amico Pier Giacomo, infaticabile animatore della ritrovata consorteria.
Il suggerimento, tuttavia, poteva sperare di prendere forma in un piano di ricerca ben strutturato ove avessi avuto in sorte di incontrare un giovane romagnolo - prossimo, pertanto, a biblioteche ed archivi sospetti di custodire materiale interessante - e comunque disposto a spendere molti mesi in una ricerca che si presentava, fin dall’inizio, sicuramente laboriosa.
Ricordo ancora che proposi l’argomento a Cristina passeggiando dalla sede del Dipartimento
Giuridico fino alla stazione ferroviaria. Lei accettò con entusiasmo ed io, strada facendo, le
indicai le prime letture.
Oggi, il proposito di affidare ad un libro la storia dei Ceroni è un obiettivo raggiunto. Le modifiche intervenute rispetto al testo della Tesi di laurea sono di poco conto e sono state condotte
di comune accordo dall’autrice e dal dott. Corrado Benatti al quale - sia detto per inciso - dobbiamo una raffinata edizione degli statuti del contado d’Imola del 1347.
Il merito della presente indagine consiste soprattutto nella raccolta del materiale oggi disponibile a stampa intorno ai Ceroni ed ai loro consorti o collegati.
Ciò che si potrà e si dovrà fare, in futuro, sarà la paziente raccolta e discussione dei documenti ancora dispersi negli archivi romagnoli: principalmente nei fondi notarili. Per questo, però,
occorreranno altre forze e sopra ogni altra cosa, tempo.
Lo sguardo proteso verso il futuro non può comunque essere distolto da ciò che abbiamo sotto
mano fin da oggi: un libro agile, di facile lettura, in grado di suscitare altre e più interessanti
questioni rispetto a quelle già poste.
Perché, al di là delle vicende interessanti un gruppo - come quello dei Ceroni - si pone altro e
ben più impegnativo problema storiografico: quello del crescere ed affermarsi di potenze familiari senza nobiltà e con modeste fortune, tuttavia in grado di esautorare le autorità locali e di
impacciare - addirittura - i rappresentanti di Roma e di Firenze insieme.
In una maniera o nell’altra, di tali cose dovremo pur tornare a parlare.
Prof. Andrea Padovani
Ordinario di Storia del Diritto italiano
Facoltà di Giurisprudenza - Università di Bologna
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Prefazione
Il periodo che va dal XIV al XVI secolo è caratterizzato nello Stato Pontificio da numerosi vuoti
del potere “istituzionale”. In Romagna approfittano di tale debolezza dell’autorità centrale famiglie più o meno nobili che esercitano sulla regione una sorta di potere “de facto”. Legati e presidenti si vedono, così, obbligati ad operare, almeno fino alla metà del Cinquecento, appoggiandosi ai gruppi di volta in volta dominanti, subendo l’esito delle lotte di parte ed adattandosi ai
cambiamenti intervenuti ai vertici politici delle comunità.
È in questo quadro storico, approfonditamente descritto nei primi tre capitoli della tesi, che si
inserisce il potere che la Consorteria dei Ceroni esercitò nella Valle del Senio.
L’interesse e la curiosità per la storia locale hanno guidato questa mia ricerca che, pur non
avendo la pretesa di esaurire o risolvere problematiche economiche e sociali così complesse,
mi auguro possa servire ad orientare e stimolare anche chi, come me, non è uno “storico” di
professione.
Si ringraziano:
Il professor Andrea Padovani, che mi ha guidata in questa ricerca con perizia e pazienza, suggerendomi le tematiche su cui indagare e gli obiettivi da perseguire.
L’ingegner Pier Giacomo Rinaldi Ceroni che mi ha messo a disposizione il suo archivio personale ed è stato sempre disponibile alle mie richieste.
Don Guerrino Ceroni, arciprete di Casola Canina, per l’estrema gentilezza con cui mi ha aiutata nella ricerca di manoscritti e testi antichi.
Lucio Donati, esperto di storia locale, che mi ha suggerito diversi testi e documenti inerenti a questo mio lavoro.
Renato Ceroni, appassionato cultore delle vicende storiche della sua famiglia, che mi ha permesso di consultare un suo testo ancora inedito sulla Consorteria.
II dott. Corrado Benatti per l’aiuto nell’apportare le modifiche dalla Tesi di Laurea al primo capitolo del libro.
Dott.ssa Cristina Baroncini
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Capitolo 1
1. Le regioni pontificie nel XV secolo.
Le vicende delle terre soggette al dominio pontificio e l’azione temporale del papato da Martino
V (1417-31) a Clemente VII (1523-34) si svilupparono in un quadro politico generale della
penisola caratterizzato dall’assenza di decisive ingerenze da parte delle potenze europee e dal
libero gioco degli interessi degli stati italiani1.
Le terre che riconoscevano l’autorità temporale della Chiesa, ampliatesi gradualmente nel corso
del Medio Evo, avevano raggiunto la loro definitiva estensione tra il XIII e il XIV secolo. Nel
loro insieme esse costituivano una fascia che tagliava trasversalmente la penisola, occupando
gran parte delle regioni centrali. Confinanti a nord con i domini veneziani e con quelli milanesi,
a ovest con le repubbliche di Firenze e di Siena, a sud e a est con il Regno di Napoli, si
estendevano tra l’Adriatico e il Tirreno. A questo nucleo centrale di terre ecclesiastiche si
aggiungevano le due enclaves napoletane di Pontecorvo e Benevento, il distretto avignonese e
il contado venassino in Provenza. I domini temporali della Chiesa raggruppavano, perciò, zone
tra loro profondamente diverse per condizioni geografiche ed economiche e per le vicende storiche
che avevano vissuto.
Nel corso del XIII secolo la Chiesa, incapace, di fatto, di esercitare un’unitaria ed efficace azione
di governo accentratrice sui potentati locali pur formalmente sottoposti al pontefice, aveva cercato
comunque di stabilire su quelle terre una sorta di struttura istituzionale omogenea, creando una
serie di circoscrizioni dirette da un rettore. In tale contesto i rappresentanti pontifici erano per
lo più rettori in spiritualibus et in temporalibus; i loro compiti si limitavano a un generico controllo
sul mantenimento della pace nelle loro terre e mai si estesero nel senso di limitare le potestà
di Comuni e di feudatari.
La debolezza di siffatta struttura istituzionale si accentuò ulteriormente in seguito al trasferimento
della Sede Apostolica ad Avignone agli inizi del XIV secolo e al progressivo rafforzamento in
chiave signorile degli ordinamenti municipali.
Gli anni dello Scisma d’Occidente, infine, vanificarono ogni possibilità di accentuare la
dipendenza dei domini pontifici dall’autorità temporale della S. Sede.
All’inizio del secolo XV le terre della Chiesa appaiono ben lontane dal costituire un insieme
1
L’intero capitolo è in gran parte il risultato della rielaborazione di M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, pp. 3-49.
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tendenzialmente omogeneo e ciascuna di esse risulta dominata da potestà locali che variano
da regione a regione.
1.1 Comuni e signorie in Romagna.
Se a partire dal secolo X troviamo, in Romagna, una diffusa feudalità, nel periodo più
propriamente comunale la zona appare caratterizzata da un fiorente sviluppo nei suoi centri più
importanti, quali Ravenna, Imola, Faenza, Forlì, Cesena e Rimini. Dominate da un attivo ceto
municipale, composto da proprietari di terre, commercianti ed artigiani, tali città erano riuscite,
tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo, ad imporsi sulla nobiltà della campagna e a dominare
vaste aree circostanti. Il monopolio del governo comunale era assicurato a questo ceto dagli statuti
comunali, che escludevano i nobili dalle magistrature municipali.
Nella seconda metà del tredicesimo secolo l’espansionismo economico di Venezia e la penetrazione
viscontea e fiorentina ridussero fortemente lo slancio commerciale del ceto mercantile romagnolo
e le varie città della regione si contesero il controllo della campagna. La nobiltà del contado, dal
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canto suo mai del tutto estromessa dall’agone politico, non mancò di prendere parte alle lotte tra
fazioni per il controllo del governo cittadino. Al vertice di ciascuna fazione si trovò, così, per lo
più un nobile, il quale in un primo tempo mantenne le forme istituzionali cittadine ma
successivamente ricevette dal Comune la legittimazione formale del suo potere, con il titolo di
capitano o di difensore della città.
La S. Sede si vide impotente a modificare tale stato di cose e per conservare, almeno formalmente,
l’autorità temporale sulle terre di Romagna, concesse ai vari signori, prima in via temporanea
poi a vita, il titolo di vicario apostolico, nonché il merum et mixtum imperium, il pieno potere,
cioè, fiscale, amministrativo e giurisdizionale sulle sue terre.
All’inizio del secolo XV, perciò, la Romagna era regione di vicariati: si segnalavano ad Imola
gli Alidosi, a Faenza i Manfredi, a Forlì gli Ordelaffi e a Ravenna i Da Polenta. Cervia, Rimini,
Cesena, Sant’Angelo, Mondavio e zone limitrofe erano, invece, sotto il dominio dei Malatesta.
All’interno dei loro stati i vicari erano sostenuti da un’oligarchia composta da famiglie dell’antica
nobiltà e dell’antico ceto municipale, le quali monopolizzavano gli uffici di governo e godevano
di particolari privilegi per le loro terre. Nel contado la restante nobiltà, pur esclusa dai benefici
dell’amministrazione, continuava a disporre di una salda consistenza economica che il signore
tendeva a non deprimere, per svolgere una funzione mediatrice tra i contrastanti interessi nel
suo dominio. La situazione economica di tali signorie era ben lontana da quella che nello stesso
torno di anni si trova a Milano, Firenze o Venezia. La produzione agricola era, in Romagna, limitata
dalla natura del terreno, in gran parte montuoso, mentre l’espansione commerciale e artigianale
veniva frenata dalla concorrenza esterna.
Sensibile era, poi, la dipendenza economica dai più forti stati limitrofi, accentuata dal fatto che
molti vicari, per risollevare le proprie precarie finanze, frequentemente accettavano condotte
militari da parte di quelli.
2. Lo scisma d’Occidente.
Dal 1378, e per trentanove anni, la Chiesa romana fu travagliata dalla lotta al vertice tra due
diversi successori di Pietro: in quell’anno, infatti, un gruppo di cardinali italiani sostenuti dal
Re di Francia Carlo V e dalla regina napoletana Giovanna I d’Angiò dichiararono illegittima
l’elezione del pontefice romano Urbano VI e, in un conclave tenutosi a Fondi nel settembre,
nominarono antipapa Roberto di Ginevra, che prese il nome di Clemente VII.
Il conflitto tra le due autorità scismatiche proseguì lungo gli ultimi decenni del secolo, recando
gravissimi danni al prestigio pontificio nell’intera Europa cattolica. Il sostegno fornito ai pontefici
da parte delle varie potenze era pagato con una limitazione dei diritti della S. Sede sui cleri
nazionali e delle sue pretese fiscali, a tutto vantaggio di signori e monarchi.
Dopo la morte di Clemente VII, nel 1394, Francia, Scozia, Spagna, Savoia e Regno di Napoli
riconobbero come pontefice Benedetto XIII mentre i cardinali italiani avevano eletto Bonifacio
IX. Per sedare lo scisma, la cristianità sgomenta preparò invano un incontro tra i due e la loro
rivalità produsse danni incalcolabili in tutto lo stato della Chiesa, in particolar modo in Emilia
Romagna2.
Bonifacio IX, di pessima reputazione per il suo nepotismo e la sfacciata vendita di indulgenze
e benefici, fu appoggiato da Baldassarre Cossa, divenuto Legato Papale sia a Bologna che in
Romagna nel 1403, il quale, col suo esercito intraprese la conquista dei territori nel frattempo
perduti.
2
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 308.
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Nel luglio del 1403 entrò ad Imola, dove l’Alidosi si era chiuso nella rocca, ed accordatosi con
quest’ultimo il 24 luglio riprese Casalfiumanese e il 27 Piancaldoli e Sassonero.
Nel 1404 Astorgio Manfredi gli cedette Faenza, dietro compenso di venticinquemila scudi. Questo
suscitò lo sdegno di Firenze, di Alberico da Barbiano e dei suoi congiunti della casa di Cunio,
che promisero di non danneggiare il pontefice e il cardinale Cossa, ma rivendicarono le spese
e le paghe che avevano affrontato in guerra per il legato. Essi conservarono il possesso di Lugo,
Barbiano, Zagonara, Cotignola, Granarolo, Castel Bolognese, Dozza, Riolo Secco, Mezzocolle,
Montecatone, Fiagnano, Pieve Sant’Andrea, Linaro e Tossignano e impedirono il vettovagliamento
a Bologna.
Nel febbraio del 1405, dopo una ulteriore confisca di grano diretto a Bologna, dove il popolo
imbestialiva3 per la fame, il cardinale e Alberico da Barbiano si incontrano presso il fiume Idice.
Non trovarono, tuttavia, un accordo, poiché Cossa rifiutava di cedere al condottiero Faenza e
Castel San Pietro.
Il 5 agosto 1405, fallito un ulteriore accordo con Alberico, iniziò la lotta. Al territorio della Chiesa
furono riconquistati Liano, Fiagnano, Pieve Sant’Andrea, Montecatone e Mazzocolle e, in seguito,
anche Granarolo di Faenza, Faenza e Forlì.
Il cardinal Cossa nello stesso anno, sempre con l’intento di combattere Alberico, concesse Faenza
e tutte le ville di Val d’Amone ad Astorgio Manfredi, per dieci anni. Ciononostante, il 20 ottobre
1405, credendo in un suo possibile tradimento, lo attirò a Faenza, raggirandolo con vane promesse,
e lo fece decapitare in piazza. Gian Galeazzo Manfredi, figlio di Astorgio, per questo divenne
irriducibile nemico del cardinale.
Dopo aver dato ordine che continuasse l’assedio di Forlì, il cardinale tornò trionfalmente a Bologna
il 21 novembre 1405 e continuò a governare la città anche negli anni successivi, in seguito alla
resa di Forlì, avvenuta il 29 maggio 1406. Nel 1408 il cardinale entrò pure a Castel Bolognese.
Alla morte di Alberico da Barbiano, infine, avvenuta nel 1409, Cossa tornò ad attaccare Barbiano,
che si arrese senza combattere. Conquistò poi Cotignola e Solarolo, cacciando così i Conti di
Barbiano dalla Romagna.
2.1 Il Concilio di Pisa. Il grande scisma.
Tra il marzo e l’agosto del 1409 i cardinali si indussero ad aprire il Concilio di Pisa. Qui si
incontrano Benedetto XIII - antipapa dal 1394 - e Gregorio XII - a sua volta consacrato nel 1406
- per porre fine allo scisma. I due papi vennero deposti e al loro posto fu eletto Alessandro V
che, venuto a Bologna col cardinale Cossa, vi morì improvvisamente, forse avvelenato dal Cossa
stesso4. Accadde dunque che il 17 maggio 1410 proprio Baldassarre Cossa succedesse ad
Alessandro V divenendo papa col nome di Giovanni XXIII.
Benedetto XIII e Gregorio XII, dal canto loro, non accettarono la deposizione e così i papi furono
contemporaneamente tre. La situazione si protrasse fino al 1414, anno in cui, in un nuovo Concilio
a Costanza, i tre pontefici scismatici furono deposti e, dopo una breve vacanza della sede papale,
nel 1417, venne eletto il romano Ottone Colonna, con il nome di Martino V.
2.2 Gli effetti dello scisma a Imola e Tossignano.
Gli effetti di questa rivalità fra i tre pontefici si ripercossero su tutta la cristianità e anche Imola
e Tossignano ne risentirono. Le due città si trovarono, infatti, schierate in campi opposti: Lodovico
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4
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 309.
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 311.
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Alidosi continuò a sostenere Giovanni XXIII, mentre Gian Galeazzo Manfredi, già ostile al
cardinal Cossa, si dichiarò naturalmente a favore del suo avversario, Gregorio XII, già spogliato
del titolo dal Concilio pisano. Tra i due pontefici si aprì, dunque, un aspro dissidio per il possesso
del territorio e dei luoghi sulle due rive del fiume Senio.
Gregorio XII aveva nominato Carlo Malatesta di Rimini suo Rettore di Romagna e con un Breve
inviatogli da Gaeta il 16 novembre 1410 gli ordinò di rimettere ordine nella provincia. Carlo
Malatesta, forte di tale presunta autorità, emise una sentenza il 6 novembre 1411 del tutto
sfavorevole all’Alidosi, considerato ribelle alla Chiesa.
Per controbattere il rivale, che si arrogava il diritto di legiferare sulla Romagna, Giovanni XXIII,
volendosi mantenere fedele l’Alidosi, il 15 ottobre 1412 da Roma ordinò al cardinal Lodovico
Fieschi, Legato di Bologna, di concedere a suo nome al signore d’Imola i castelli di Tossignano,
Dozza, Gaggio, Pieve Sant’Andrea, Riolo, il Castellaro dei Nobili di Aquavia e le ville di
Montecatone, Mezzocolle, Orsara, Prugno, Casola, Monte Fortino, Monte Oliveto, Belvedere,
Meldola, Pediano e Aguzzano con annessi e connessi, per dieci anni. Il 23 novembre dello stesso
anno l’Alidosi entrò in possesso delle località suddette, previo giuramento di obbedienza e fedeltà
a Giovanni XXIII, pagando un censo di venticinque fiorini d’oro l’anno e promettendo di agire
contro Angelo Correr, detto Gregorio XII, e Pietro da Luna, spagnolo, detto Benedetto XIII, papi
scismatici ed eretici, condannati dal Concilio di Pisa.
Con lui giurarono i suoi recommissi, cioè i vassalli della Bordella, i Sassatelli, i Baffadi e i Caccia
di Tossignano. I nobili di Baffadi, Sino di Guglielmo e suo figlio Cristoforo, uomo d’arme e di
ventura, avevano già stretto accordo con Lodovico Alidosi il 25 maggio 1411 a Tossignano, per
rogito del tossignanese Bernardino. L’Alidosi vide così crescere notevolmente le terre del suo
feudo.
Nel frattempo Gian Galeazzo Manfredi e i suoi sudditi si erano schierati contro il legato Fieschi,
il quale il 12 marzo da Bologna ordinò a Lodovico Alidosi di dimostrare la sua devozione
procedendo a guerra aperta entro un mese contro il signore faentino, nemico e ribelle della Chiesa.
Il 15 marzo l’Alidosi inviò un messaggero a Faenza, notificando al Manfredi che i loro rapporti
dovevano considerarsi incrinati per aver egli ospitato genti d’arme di stanza a Forlì, «che han
fatto un’incursione su Bagnara in contrasto con le disposizioni del Legato5» e per esser stato
ferito un suo suddito.Di guerra, peraltro, non si fece menzione.
Di lì a poco, tuttavia, il papa protettore dell’Alidosi si trovò a mal partito, a causa del Concilio
di Costanza, convocato per mettere fine al grande scisma. Per le gravissime accuse mosse contro
di lui, Giovanni XXIII fu costretto a fuggire travestito. Venne comunque imprigionato, processato
e infine deposto nel giugno del 1415. Anche Gregorio XII fu deposto, a Pisa il 5 giugno 1409
e così neppure Gian Galeazzo Manfredi poté più affermare di essere al servizio del papa legittimo.
A Costanza l’11 novembre 1417 venne eletto, come s’è detto, Ottone Colonna, con il nome di
Martino V, il quale rivendicò alla Chiesa tutte le terre di Romagna. Nello stesso Concilio vennero
fissati nuovi principi di governo nella Chiesa cattolica. Vi si stabilì, in particolare:
• la superiorità del concilio sul papa, che a intervalli fissati doveva convocare la massima
assemblea della cattolicità;
• l’obbligo del pontefice di impegnarsi, al momento della sua elezione, al rispetto dei diritti
del Concilio e del clero tutto;
• l’abolizione di una serie di diritti fiscali e giurisdizionali del papa sul clero degli stati europei,
a vantaggio dei signori.
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S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 313.
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Il papato usciva, dunque, dalla lunga crisi che lo aveva travagliato e dal Concilio stesso con
attribuzioni potestative fortemente limitate rispetto al passato. Fino ad allora la duplice natura
della sovranità del papa, in campo spirituale e in campo temporale, aveva consentito al pontefice
di beneficiare di entrate economiche di natura differente. Come capo della cristianità, infatti,
egli aveva imposto tasse di vario genere sul clero, anche se soggetto ad altri sovrani, e aveva
concesso grazie di tipo spirituale in cambio di prestazioni pecuniarie. Al contempo, in qualità
di sovrano temporale, riceveva da molti paesi europei censi annui, esattamente come facevano
i feudatari minori di territori adiacenti o interni ai domini pontifici dell’Italia centrale e
settentrionale6.
Ora, invece, le sue entrate spirituali risultavano decurtate, mentre accentuata era la sua
dipendenza da potenze europee e italiane, che lo controllavano non solo attraverso il sostegno
a lui fornito dai prìncipi - indispensabile per ricucire l’unità del mondo cattolico - ma anche
attraverso i potenti cleri nazionali.
In questa situazione il papato era necessitato a riprendere possesso delle sue terre italiane, che
gli garantivano il dominio irrinunciabile per svolgere una politica temporale e spirituale
indipendente dagli stati cattolici, oltre alla possibilità di riattivare le proprie finanze che, con
la limitazione delle entrate spirituali, dovevano basarsi ormai principalmente su quelle temporali.
Il nuovo pontefice optò per il rispetto delle oligarchie dominanti, garantendo loro una più efficace
difesa dalle aspirazioni espansionistiche, politiche ed economiche degli stati limitrofi, in cambio
di una più regolare prestazione dei diritti fiscali della S. Sede.
2.3 La fine della signoria di Lodovico Alidosi dopo il Concilio di Costanza.
Deposto l’antipapa al quale il signore d’Imola aveva dimostrato fedeltà, Lodovico Alidosi rischiò
di perdere il vicariato.
A questo riguardo si rivela assai significativo un atto del 30 dicembre 14177, nel quale, a
Tossignano, il governatore Sandro del fu Bartolo da Codronco convoca l’arengo perché i
Tossignanesi richiedano al papa di confermare il vicariato d’Imola all’Alidosi. E il vicariato fu,
in effetti, confermato, con le clausole già in vigore nel documento del 1399.
Nel 1418 un altro punto strategico si aggiunse al dominio di Lodovico Alidosi con l’annessione
del castello di Monte Battaglia. Ma il possesso di tale località generò ben presto conflittualità
tra la comunità di Tossignano e i comuni rurali di Valmaggiore, Posseggio e Mesola, coinvolti
in quella cessione, per il possesso di boschi e terreni sul crinale appenninico.
Il 25 settembre il signore d’Imola si recò a Tossignano col suo commissario Antonio Tartagni
per risolvere la vertenza, per render giustizia e imporre la pace in piazza a due famiglie di
Belvedere. È questa l’unica volta, in dodici anni di governo, in cui Lodovico fa visita ai suoi
sudditi di quell’importante castello.
Gli ultimi anni della Signoria Alidosiana a Tossignano furono tutt’altro che tranquilli: i confini
tra Alidosi e Manfredi erano sempre contestati e diversi sudditi di Casola e Mongardino e di
altre zone della valle del Senio risultano citati in giudizio a Imola. Ma anche tra famiglie rivali
di Tossignano stesso, di Orsara con quelli della Torricchia di Codrignano, di Villa San Giovanni
con quelli di Sant’Anastasio di Fontana continuavano uccisioni, odio e reciproche offese, a
dimostrazione che il contado e la città d’Imola erano in perenne subbuglio.
Con la morte di Giorgio Ordelaffi, signore di Forlì, avvenuta il 25 gennaio 1422, la situazione
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C. ALBONETTI, Finanza, p. 15.
Riportato per intero in S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 324.
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in Romagna subì un cambiamento radicale. Proprio quando la vedova Lucrezia Alidosi, tutrice
del figlio Tebaldo, pensava di potere governare la città di Forlì come reggente, ebbe inizio il
periodo conclusivo della signoria alidosiana su Forlì e su Imola.
Infatti il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, già nel 1421 aveva inviato truppe in Romagna
per impadronirsi della regione. La morte di Giorgio Ordelaffi affrettò i tempi dell’intervento
milanese, giacché il defunto aveva affidato in testamento il figlio Tebaldo alla tutela del Visconti.
In pochi mesi Filippo Maria Visconti riuscì a impadronirsi dei territori alidosiani. Lodovico Alidosi
il 2 febbraio 1424 perdette la signoria e la libertà.
Nello stesso mese i Tossignanesi, sollecitati per mezzo di un’ambasciata dalla moglie
dell’Alidosi, Taddea di Gilberto dei Pio di Carpi, stipularono con Luigi Crotti, commissario di Filippo
Maria Visconti, i capitoli che il duca di Milano era disposto a concedere loro in cambio della
sottomissione al suo dominio.
Nonostante l’opposizione di Firenze, che vedeva giustamente minacciati i suoi domini in Romagna,
i Milanesi, nell’estate del 1424, trionfarono a Forlimpopoli, Dovadola, Galeata, Palazzuolo sul
Senio, Brisighella, Solarolo, Granarolo, Gradara e Gabicce. Nella lotta erano impegnati i più
forti condottieri del tempo, come Nicolò Piccinino, Oddo di Braccio da Montone, Francesco Sforza,
Francesco Bussone detto il Carmagnola e Guidantonio Manfredi.
Le truppe viscontee dilagarono anche in val di Santerno; partendo dalla forte posizione di
Tossignano assoggettarono Valsenio e Casola il 24 e il 25 marzo 1424, con giuramento di fedeltà
degli abitanti nel monastero di San Giovanni Battista di Valsenio. Occuparono e presidiarono
Fontana con 680 fanti e attaccarono il forte castello di Gaggio di Lambertino di Uguccione
Sassatelli, il quale si era messo sotto la protezione dei Fiorentini ed aveva ambiziosamente esteso
il suo potere a Villa San Giovanni e a Sant’Anastasio di Fontana, a Monte Meldola, a Casale e
agli uomini di Mezzocolle, scontentando non solo Imola, ma anche Bologna.
Nello stesso anno era morto di peste a Montescudo di Rimini (mentre era ospite, con la madre, di
Carlo Malatesta) il giovane Tebaldo Ordelaffi, che aveva offerto il pretesto al Visconti di invadere
la Romagna.
Il 1425 si chiudeva in favore di Milano. Ma contro la strapotenza dei Visconti si allearono a
Firenze e Venezia gli Estensi di Ferrara, i Gonzaga di Mantova, il duca di Savoia e il marchese
del Monferrato. La loro lega fu firmata il 4 dicembre, affidando il comando delle truppe a
Francesco Bussone, detto il Carmagnola. Dalla parte milanese stavano Francesco Sforza e Nicolò
Piccinino. Di fronte alla minaccia di tanti avversari il duca di Milano richiamò in Lombardia
molte sue truppe dalla Romagna e, perduta Brescia il 17 marzo 1426 ad opera del Carmagnola
al soldo di Venezia, per non lasciare la Romagna nelle mani dei suoi avversari, ordinò al suo
commissario Crotti di consegnarla alla Chiesa, con l’intenzione tuttavia di riprendere la lotta
in seguito.
Così il 12 maggio il cardinale Lodovico de Alleman, legato di Bologna, inviò truppe al comando
dì Luigi di Sanseverino a prendere possesso di Forlì, mentre egli stesso entrò personalmente a
Imola il 14 maggio.
Anche Tossignano e Fontana gli giurano obbedienza, sottomettendosi alla Chiesa e a papa Martino
V. Ma negli atti del notaio Nanne Zanelli di Tossignano, che era al servizio del commissario Crotti
a Poni, permangono tracce di fedeltà al duca di Milano da parte dei conti di Dovadola, di Cunio,
di Lugo e di Monte Battaglia, quasi che i Milanesi si riservassero di riprendere la guerra in
Romagna mantenendo alcune posizioni come punto di partenza per altre offensive, come avvenne
poi in realtà nella primavera del 1427. Per tutto il 1426, comunque, la Chiesa conservò il dominio
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di Forlì, di Forlimpopoli, di Imola e del suo contado.
Sul finire del suo pontificato Martino V era riuscito a pacificare tutte le terre pontificie e a imporvi
la sua autorità, anche se non ovunque in modo stabile. Allo scopo di unificare le terre
ecclesiastiche il papa aveva rimesso in vita l’ordinamento amministrativo previsto dalle
Costituzioni egidiane, apportando ad esse le modifiche rese necessarie dalla nuova situazione
storica delle regioni pontificie.
All’interno delle terre della Chiesa continuava a sussistere la distinzione tra quelle immediate
subiecte e quelle mediate subiecte. Delle prime facevano parte tutti i grandi comuni non signorili,
come Perugia, Bologna, Ancona e Macerata. Essi continuavano ad amministrarsi con governi
propri e ad evolversi secondo il libero gioco delle forze politiche interne, anche se dovevano
tener conto della giurisdizione dei funzionari provinciali del pontefice.
Le terre mediate subiecte erano invece sottratte alla jurisdictio di questi ultimi. Il potere pubblico
era esercitato soltanto dal vicario e dal feudatario e il collegamento tra queste terre e la S. Sede
viveva sulla base del rapporto personale tra il signore e il papa. In esse, dunque, la principale
autorità di governo risultava il signore, il quale amministrava le sue terre al di fuori di ogni
ingerenza da parte della S. Sede, verso la quale era tenuto solamente al versamento del censo
annuo e di altre contribuzioni in denaro, quale simbolo del suo riconoscimento dell’alta signoria
della Chiesa.
I vicariati comprendevano una o più città e i contadi di queste, ove si trovavano i comuni rurali,
proprietà feudali e allodiali. L’amministrazione interna dei vicariati non era uniforme, pur
presentando caratteristiche comuni. In genere mancava, agli inizi del quindicesimo secolo, una
struttura di governo centrale in senso burocratico. La corte del signore si occupava indistintamente
della gestione del vicariato e collaborava con quello. Un embrionale apparato di ufficiali
consentiva, poi, al signore, di imporre la propria autorità sulle sue terre. Qui esistevano ancora
forme di autonomia, città e feudi, che pure il vicario tendeva a ridurre a vantaggio del suo governo.
Alle città era sottratta l’amministrazione del contado; così i comuni rurali non giuravano più
fedeltà al comune dominante, bensì al signore8. Questi divideva, in genere, il contado in varie
circoscrizioni e le affidava a propri rappresentanti, i quali risiedevano in castelli dai quali potevano
controllare in modo adeguato le zone loro assegnate9.
Il vicario possedeva, in genere, a titolo personale, vaste proprietà che amministrava attraverso
ufficiali diversi da quelli incaricati di compiti di governo. Questo limitava la rendita dei feudatari
meno favoriti, a favore del signore e delle famiglie a questo più vicine.
La posizione dei vassalli della Chiesa, in particolare dei baroni delle regioni vicino a Roma,
era in tutto e per tutto assimilabile a quella dei vicari pontifici. Anche essi erano titolari di ampie
potestà di governo, che escludevano l’esercizio di poteri pubblici da parte della S. Sede nelle
terre loro assegnate. Sembra infine che fossero esenti da ogni onere fiscale verso la Chiesa e
tenuti soltanto a prestazioni simboliche, ad indicare la derivazione del loro potere dall’autorità
pontificia.
2.4 Il signore: tra storia e leggenda.
Scrive a proposito del signore e dell’aspetto politico del medioevo romagnolo Piero Zama,
riferendosi a un periodo che di poco precede quello preso da noi in considerazione:
«I dominatori di Romagna sono in realtà i suoi cento tiranni: arditi avvoltoi che hanno il loro
8
9
J. LARNER, Signorie, pp. 254-256.
J. LARNER, Signorie, pp. 246-256.
16
nido nelle rocche, nei castelli, entro le cittadine mura, nei palazzi guerniti a difesa, e che nelle
imprese delle armi e nel calcolo della politica procedono come se fossero guidati dalle forze
prepotenti e sicure di un istinto10.
Gli altri, e cioè i rettori pontifici, che Dante chiama lupi rapaci, non offrono alla plebe agitata
e sofferente né pace, né sicurezza, né pane. La plebe vede il suo padrone in chi sa anche
percuoterla, in chi sa tuttavia guidarla e dominarla; mentre i rappresentanti della Santa Sede
sono per quella plebe i gabellieri, i dazieri, i riscuotitori di tributi e di taglie, insomma gente
esosa, ladri che dissanguano senza misericordia, e senza gloria. La plebe preferisce a costoro
il tiranno che ha pure le sue glorie, lo spogliatore che ha pure le sue munificenze.
Tipica figura veramente quella del tiranno di Romagna. La storia e la leggenda ne dicono le
gesta rivaleggiando nel racconto fantastico. La tragedia fosca, la vendetta orrenda, il cinismo
ripugnante, la simulazione astuta, sono i motivi dominanti di quel racconto. […] Egli è pronto
alla strage come all’omaggio devoto, al furto e alla donazione, al sacrificio di sé, ed all’omicidio.
Nell’ora di una pubblica generale penitenza, o in quella in cui, per l’invocato intervento divino,
pare si debba consacrare un ravvedimento salutare, un universale perdono, il tiranno è in prima
fila col suo abito di religione. […] La plebe lo teme, lo odia, lo applaude. […] La Romagna
medioevale ha appunto la sua vita in quella tragedia dove il primo attore si chiama tiranno. L’altro
personaggio, ossia il rappresentante della Chiesa, recita una parte molto secondaria che lascia
il pubblico tra l’indifferenza e il disprezzo.
Così il tiranno fuori legge governa di fatto e rappresenta la Romagna, mentre il rappresentante
legittimo dell’autorità legalmente riconosciuta vocifera invano di fronte a quel vassallo ribelle.
L’arcidiacono Amerigo di Castel Lencio (di Chalux) Rettore di Romagna mostra di avere una
esatta nozione del suo povero ufficio quando il 23 febbraio 1321 scrive da Cesena al vescovo
di Marsiglia, camerlengo di papa Giovanni XXII, che nulla egli può fare contro le frodi e le
violenze dei tiranni e contro gli abusi dei magnati insolenti i quali colpiscono non solo i sudditi,
ma la stessa repubblica e lo stesso Rettore11» .
3. Il pontificato di Eugenio IV. Continui disordini in Romagna.
Oltre al sostegno di varie autorità interne, Martino V era riuscito a guadagnare al suo governo
anche quello di alcune delle principali potenze italiane, come i Visconti di Milano e la casa
regnante napoletana, mentre un sostanziale accordo lo legava alla repubblica fiorentina.
Questo equilibrio italiano dipendeva e si inseriva nel più ampio quadro riguardante la Chiesa
universale e il sistema dei rapporti tra il papa e il Concilio. Per il fatto di essere stato eletto
all’interno del Concilio di Costanza, Martino V si trovava ad essere espressione delle prevalenti
forze ecclesiastiche, che in lui si rispecchiavano. Il pontificato di Martino V corrispose, dunque,
sostanzialmente, ad un lungo periodo di tregua tra le opposte forze che si combattevano all’interno
della Chiesa.
Gli equilibri su cui era retto il governo di Martino V vennero invece a mancare al suo successore,
Gabriele Condulmer che, eletto papa il 3 marzo 1431, prese il nome di Eugenio IV. Nel 1433
il legato apostolico fuggì da Bologna, mentre, alla fine dell’anno anche Forlì si ribellò alla Chiesa,
dandosi ad Antonio Ordelaffi e il legato pontificio venne addirittura imprigionato il 26 dicembre.
Dal canto suo Faenza fu travagliata per diciotto mesi, dal 3 gennaio 1433, dalla rivalità tra i
10
11
P. ZAMA, Romagna, pp. 11-13.
P. ZAMA, Romagna, p. 15, cita “L. TONINI, Rimini nella signoria dei Malatesti, appendice di documenti al vol. IV, pg. 41 Fantuzzi, vol. V dei Monumenti ravennati, p. 391”.
17
fratelli Guidantonio e Astorgio Manfredi; parimenti a Imola si ebbero gravi dissidi tra Nordigli
e Sassatelli, col fallito tentativo di Almerico Nordigli di far insorgere la città contro la Chiesa.
La situazione romagnola così accennata si ripercosse anche nell’alto Santerno.
«Gravi contese si ebbero da ogni parte, in Romagna12. Si alternano in questi anni pacificazioni
e tregue a uccisioni e ferimenti a Fontana, Casale e Castel del Rio. […] Alla fine del 1433 la
situazione si presenta più che mai incerta e sarà affidata a grandi scontri d’armi, dai quali
emergerà in chiave locale la personalità di Guidantonio Manfredi, fiero e ambizioso sostenitore
di parte guelfa, fatto poi anche Signore d’Imola dal papa. […] Una lettera inviata il 25 ottobre
dal Vicario di Tossignano per la Chiesa, Giovanni Gibetti d’Imola, al luogotenente d’Imola
Cristoforo dei Ricignoli, rispecchia la gravità e la minaccia della situazione. Le sue espressioni,
in volgare, approssimate per chiarezza e per scarsa cultura, rivelano tuttavia un’ansia
incredibile…».
3.1 La signoria dei Manfredi di Faenza.
«Guidantonio Manfredi, detto Guidaccio, un uomo d’arme irrequieto, che aveva fatto dell’arte
della guerra un mestiere, svolse una funzione di predominio sul paese di Tossignano per quindici
anni, che si possono definire di fuoco dal 1433 al 144813. Dal padre Gian Galeazzo fu Astorgio,
morto di peste a Faenza nel 1417, i figli Guidantonio, Astorgio e Gian Galeazzo avevano ereditato
il titolo di Vicari della Santa Sede sulla città di Faenza.
Guidaccio e Astorgio si diedero a fare i condottieri di ventura al soldo di diversi signori, ora
con Filippo Maria Visconti duca di Milano, ora con Firenze, ora con Venezia, ora con la Chiesa
secondo i vantaggi economici e territoriali che speravano di ottenere.
Il 2 gennaio 1432 Guidaccio torna a Faenza dopo aver servito Venezia con 400 lance, mentre
suo fratello Astorgio è passato al soldo del Visconti con 400 cavalli; allora Guidaccio riprende
il servizio con Venezia e i due fratelli, da veri condottieri di ventura, militano in campi opposti
fino alla pace di Ferrara del 26 aprile 1433. Il 20 luglio Guidaccio è reduce alla sua Faenza e
crucciato per l’ascendente che vi prende Astorgio, riprende in mano il potere e caccia dalla città
tutti coloro che non erano guelfi, schierandosi con la Chiesa.
Proprio come campione del papato Guidaccio alla fine del 1433 viene in possesso di Tossignano
e di Dozza senza far guerra (alcuni scrivono per pacifico accordo con quei paesi rimasti fedeli
alla Santa Sede).
Dopo un fallito tentativo contro Antonio Ordelaffi restaurato a Forlì con 1’aiuto di
Filippo Maria Visconti, Guidaccio punta su Imola ribelle il 26 dicembre 1433, ma
gli Imolesi fanno resistenza e poi passano dalla Chiesa al Visconti il 21 gennaio 1434,
accogliendo 200 cavalli di Sagramoro e i fanti di Giovanni da Casale che stanziavano
a Lugo. […] In maggio Guidaccio non riesce e prendere Lugo, ma il 16 gli si arrendono
Sant’ Agata e Cantagallo e il 4 giugno sorprende Massalombarda i cui abitanti gli
consegnano la rocca per riavere i loro ostaggi, catturati nei campi.
In luglio però torna in Romagna l’abile e valoroso condottiero Nicolò Piccinino e con i rinforzi
ricevuti dal Visconti, mille fanti e 3500 cavalli, concentra le sue forze a Forlì, dove altri 2500
cavalli gli porta Bernardino Ubaldini della Carda e, passando all’offensiva si stanzia presso Castel
Bolognese, riprendendo Sant’ Agata e il 24 luglio Massalombarda, la cui rocca cade il 31. Anche
la Lega guelfa raduna in Romagna un fortissimo esercito per riprendere Imola e Forlì.
12
13
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 350.
S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 387-390.
18
In questa lotta che deve decidere le sorti d’Imola si schierano i più illustri uomini d’arme
dell’epoca; contro il Piccinino al soldo del Visconti, per Firenze, Venezia e il Papa stanno Erasmo
da Narni detto il Gattamelata, Giampaolo Orsini, Luigi dal Verme, Guidaccio Manfredi e più
tardi anche Francesco Sforza, fatto marchese d’Ancona dal Papa.
E lo scontro appare di tanta importanza che il 18 agosto Filippo Maria Visconti in persona venne
in Romagna. […] Il 25 agosto Niccolò Piccinino fa il tentativo di conquistare Tossignano, che
costituiva un pericoloso sostegno per le forze che assediavano Imola… […] Il 28 agosto (1434)
di sabato, festa di Sant’ Agostino, tre giorni appena dopo lo scontro di Tossignano, il Piccinino
si prese una grande rivincita. Movendo al soccorso d’Imola assediata i Milanesi evitano Faenza
e Castel Bolognese dove erano accampati i Capitani della Chiesa e puntano su Imola. Il Piccinino
con le brigate capeggiate dal Rosmino, Sagramoro, Bernardino Ubaldini della Carda, in tutto
circa tremila cavalli e non molti fanti, si scontra con l’esercito della Lega al rio Sanguinario,
tra Imola e Castel Bolognese, dove lo aspettavano il Gattamelata, l’Orsini, Nicolò da Tolentino,
Astorgio Manfredi e Guidaccio, Taddeo d’Este figlio del marchese di Ferrara, Luigi dal Verme
con circa quattro mila cavalli e un numero imprecisato di fanti.
La battaglia che fu detta del Ponte di San Lazzaro, si combatté da ore 19 a ore 21, coinvolgendo
una massa imponente di uomini e di cavalli e le forze della Lega andarono in rotta lasciando
prigionieri sei capi: Nicolò da Tolentino, Gian Paolo Orsini, Astorgio Manfredi, Cesare da
Martinengo, Lodovico da Forlì, Giovanni del Mostarda.
Guidaccio riuscì a fuggire a Faenza e il Gattamelata e Taddeo d’Este si salvarono a Castel
Bolognese. Scampò Baldovino di Nicolò da Tolentino con 450 cavalli, riparando a Modigliana
e a Castrocaro e circa 500 cavalli di Gian Paolo Orsini furono tenuti in ostaggio a Forlì fino al
3 settembre, pagando ben 5.020 fiorini di riscatto.
Moltissimi furono i prigionieri, il carriaggio fu tutto perduto, tutta la strada era ingombra di roba,
il popolo, uomini e donne, accorse da Imola a far preda, un frate minore d’Imola prese un valente
uomo d’arme a cavallo, facendolo arrendere addirittura a San Francesco.
Sfruttando il successo il l° settembre il Piccinino attacca e prende Castel Bolognese e dopo otto
giorni ne espugna la rocca, conquista Bagnara il 12 settembre e la salva dal saccheggio in cambio
di una taglia di duemila fiorini e cinquecento staia di grano, obbligando gli abitanti a tornare
sotto Imola. Il 30 settembre ottiene la resa di Granarolo, che promette di riscattarsi con tremila
fiorini e cinquemila staia di grano, però il 7 ottobre il castello andò a fuoco e fu evacuato, ma
Guidaccio mandò dodici fanti a presidiare una rocchetta che si era salvata.
Il 25 ottobre il condottiero visconteo si presenta sotto le mura di Castel San Pietro attacca e
conquista a forza Dozza il 26 e il 31 ottiene la resa di Castel San Pietro, i cui abitanti gli
consegnano il Vicario fiorentino lasciatovi di presidio con 300 fanti e promettono il pagamento
di 12.000 ducati.
Però in novembre il conte Francesco Sforza da Cotignola entra al soldo del Papa con mille lance
e 800 fanti rafforzando la Lega e il Piccinino dopo aver assediato inutilmente Castelfranco per
diciotto giorni si reca a svernare in Lombardia, dopo aver promesso a Bologna di tornare in suo
aiuto a primavera.
Imola è sempre presidiata da truppe milanesi, che la proteggono dalle incursioni di Guidantonio
Manfredi, in armi con 800 cavalli e 500 fanti.
Alla ripresa delle operazioni militari nel 1435 Francesco Sforza riprende Imola per il Papa e
il 27 marzo è in città. Guidaccio Manfredi vien fatto Capitano generale in Romagna per conto
di Venezia e fa altri tentativi per prendere Lugo e attaccare Bologna, ma fra le parti in lotta
19
promuove un accordo Nicolò d’Este e così si concluse la pace a Firenze il 10 agosto 1435.
Tutte le città di Romagna tornarono alla Chiesa e anche Bologna trattò la pace col Papa il 27
settembre.
Guidantonio Manfredi, che aveva sperato d’ingrandire il suo dominio, dovette restituire alla Chiesa
i castelli da lui occupati, cioè Tossignano, Monte Battaglia, Riolo, Baffadi, Sassatello, Belvedere».
4. Nuovi equilibri sotto Niccolò V.
Gli ultimi anni di Eugenio IV avevano visto la progressiva affermazione del potere pontificio
sulle forze del Concilio di Basilea. Tale processo proseguì sotto il suo successore, Tommaso
Parentucelli, eletto il 6 marzo 1447 col nome di Niccolò V. Questo portò in pochi anni alla
conclusione delle scisma con la riunione di tutta la cattolicità sotto il papa14.
Dopo i lunghi anni del grande scisma e quelli della lotta contro il Concilio di Basilea, la S. Sede
con Niccolò V cominciò a decurtare in maniera sensibile le proprie pretese sulla cristianità
europea, contenendo in parte i diritti vantati sulle terre e sul clero dei vari stati cattolici15.
Rinunciando, a favore dei prìncipi, a molti benefici e a molti diritti fiscali, ottenne in cambio
il sostegno di quelli alla propria politica temporale. Tale politica indusse il papato ad accentuare
il proprio interesse per le terre italiane della Chiesa.
Anche per le città di Imola e di Faenza si verificarono dei cambiamenti in seguito alla morte
di Guidaccio, avvenuta nel giugno del 1448. Astorgio Manfredi gli subentrò a Faenza, lasciando
al giovane nipote Taddeo, di soli diciassette anni, il dominio di Imola, il 27 giugno 1448.
4.1 La signoria di Taddeo Manfredi a Imola.
I rapporti tra Astorgio e Taddeo Manfredi, inizialmente buoni anche per la doppiezza di Astorgio
e la timidezza di Taddeo, si andarono velocemente logorando quando Astorgio mantenne Faenza
come proprio dominio personale. Per questa usurpazione seguirono contrasti a non finire tra i
due e aperta ostilità tra le città di Imola e di Faenza16.
Nel settembre del 1449 Taddeo, per fronteggiare lo zio Astorgio, provvide a fortificare la rocca
di Monte Battaglia, ma i confini lungo le rive del Senio erano più che mai incerti.
«Il marchese di Mantova Carlo Gonzaga aveva sposato nel 1445 Rengarda sorella di Taddeo e
il 23 ottobre 1448 il suo segretario Giovan Bernardo dei Mondadori di Parma aveva provveduto
a consegnare la rocca di Tossignano a Giacomo di Giovanni da Rontana di Val d’Amone, destinato
a custodirla per Taddeo17. […] A quanto pare la sorella Rengarda e il marchese Gonzaga, detto
Commissario di Romagna, esercitavano una vera tutela sul giovane Taddeo. […] Ai governatori
Baldassarre da Baffadi e Giovanni dei Breghenzoni d’Urbino che lo sostituì 1’11 settembre 1449
Taddeo affidò la responsabilità di governare da Tossignano un vasto territorio, comprendente
tutte le località già appartenute a suo padre, come Monte Battaglia e i suoi Comuni di
Campalmonte, di San Ruffillo, di Castel Collina, di Monte Oliveto, di Montefortino, di Riovalle;
di Fontana e i suoi dintorni con Montepieve, Gesso, Sassatello, Castiglioncello; di Gaggio con
Fornione, Cantagallo, Valmaggiore, Paventa; di Riolo con Casola dei Casolani, Sassoletroso, Trarìo,
Cestina, Castel Pagano e Baffadi».
È questo un periodo di grandi difficoltà economiche per il signore di Imola, che si vede costretto
M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 65.
M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 67.
16
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 418.
17
S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 418-420.
14
15
20
in più occasioni a privarsi di poderi e a concedere in affitto castelli, come accade per il castello
di Cantagallo nel 1450.
«Anche con i suoi squadreri d’arme capitavano vertenze di stipendio, risolte per intervento di
Malatesta Novello dei Malatesta18. Subito nel gennaio 1451 invia un suo uomo d’arme a Venezia,
Marchese fu Romagnolo da Baffadi, per farsi riconfermare al servizio della Signoria come
stipendiario di fanti e di cavalli, ma nella lotta che si era accesa tra Venezia e Milano non è
fortunato perché suo cognato Carlo Gonzaga dei Marchesi di Mantova, sposo di sua sorella
Rengarda, è caduto prigioniero e suo fratello Lodovico per poterlo riscattare deve chiedere a
Firenze un prestito di ottantamila ducati, che Taddeo garantisce per diecimila da rimborsare
in dieci anni. E urgeva pure rinnovare il censo del Vicariato d’Imola, Distretto e Contado presso
papa Niccolò V al quale Taddeo invia messer Marino fu Nicola dei Vecchi di Tagliacozzo. […]
Nella guerra tra Alfonso V d’Aragona re di Napoli e la Repubblica fiorentina di Cosimo dei Medici,
Astorgio entrò al soldo del re con 1500 cavalli e molti fanti, mentre Taddeo si schierò con Firenze
con una condotta di 1200 cavalli e 200 fanti, perciò ebbero motivo di affrontarsi. Infatti Astorgio
ne approfittò subito per impadronirsi della forte posizione di Monte Battaglia.
Il 20 agosto 1450, a ore cinque di notte l’armigero Alfonso Hispano, al soldo del re di Napoli,
forza la rocca in nome di Astorgio e il 22 si arrendono gli uomini di Monte Battaglia, di Casola,
di Stifonte, Fontana Moneta e Baffadi e giurano fedeltà ad Astorgio. Il 23 gli si arrende anche
Riolo Secco, e il 25 muove contro Imola, ma fu incontrato per via da due maggiorenti, Guido
Vaini e Domenico Pieravenali, che offrirono un compromesso a nome di Taddeo, pena ventimila
scudi, affidandosi al lodo di Francesco Sforza e di Cosimo dei Medici, con facoltà di sentenza
entro due mesi e a garanzia diedero in ostaggio Filippo di Baldassarre Garatoni e Biagio di Bettino.
Ma i due illustri pacieri, che nutrivano ambiziosi progetti sulla Romagna, trascinarono a lungo
il carteggio con i contendenti senza raggiungere una pacificazione».
Taddeo si rivelò molto debole anche nelle questioni interne19. Per questo motivo la moglie
Marsibilia si vide costretta a sostituire il marito sia nella gestione finanziaria che in quella
politica20.
4.2 Nuovi contrasti tra Taddeo e Astorgio Manfredi.
Nel 1460, sotto il pontificato di Pio II, eletto nel 1458, scoppiò un’altra crisi tra Taddeo e Astorgio
Manfredi. Il 16 gennaio Astorgio si alleò con i fiorentini e Taddeo venne assoldato per tremila
fiorini da Francesco Sforza, che manteneva su Imola una vera e propria tutela.
Cornelia, sorella di Taddeo, aveva sposato Tiberio Brandolini, condottiero al soldo del duca di
Milano. Con quelle milizie «Taddeo cavalca contro Faenza la notte del 6 maggio, mentre Astorgio
era assente21. […] Respinto con disonore a Solarolo, dove fu catturato un suo armigero dell’antica
famiglia dei Garatoni di Brisighella, consegnato ad Astorgio, Taddeo e gli Imolesi furono messi
in bando come ribelli.
Il Duca di Milano dovette scusarsi con Astorgio perché un manipolo di truppe sue aveva
partecipato a quell’aggressione e fingere di rimproverare Taddeo; fra i due si professava amico
di entrambi, ma in realtà favoriva la loro inimicizia e affermava che il loro problema spettava
alla Santa Sede e al Legato di Bologna».
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 419.
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 422.
20
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 422-427.
21
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 428.
18
19
21
Continuarono in quegli anni rappresaglie e saccheggi su tutte le terre dei due parenti. «La pace
si fece solo nel 1463: Astorgio restituirà Pediano, Mezzocolle, Monte Meldola, Piovego, Torricchia
di Codrignano e i pozzi di sale di Mongardino, rimettendo a Taddeo tutti i diritti che ha su Imola
mentre il nipote rinuncerà ai suoi diritti su Faenza e si adopererà perché Angelo Gherardini,
Commissario pontificio in Romagna, non trovi difficoltà a concludere la vertenza22. Ma il problema
fu rinviato perché Monte Battaglia e Riolo Secco, pomo della discordia, furono dati in consegna
ai Malatesta e poi saranno affidati a Carlo e a Giangaleazzo Manfredi.
Le due terre perdute da Taddeo riaprirono il dissenso tra i due Manfredi, che Francesco Sforza
garante di quella pace favoriva col suo contegno ambiguo. La sua influenza sul debole Taddeo
era così evidente che il Consiglio comunale d’Imola, avuta notizia del compromesso da lui fatto,
si riunisce il 4 dicembre 1463 in San Cassiano e decide di protestare perché non vogliono che
il Duca s’intrometta nella giurisdizione e sui diritti e sui beni del Comune, lamentando tutte le
azioni fatte in pregiudizio del loro Comune. E l’intenzione loro e degli Imolesi è stata già
manifestata a voce e con oratori al Sommo Pontefice.
A Francesco Sforza, morto nel 1466, succede a Milano il figlio Galeazzo Maria, che usa metodi
più duri e brutali con Taddeo. Scomparso anche Cosimo dei Medici (1464) la politica
dell’equilibrio fra i cinque Stati Italiani finì».
5. Galeazzo Maria Sforza a Imola.
Nel 1467, divenuto papa nel frattempo Paolo II, Milano, Firenze e Napoli formarono una lega
in reazione al tentativo di Venezia di rovesciare la signoria medicea in Romagna.
Astorgio Manfredi, resosi conto che si sarebbe combattuto nel suo Stato, passò ai Veneziani con
la promessa di avere Imola. Sconfitto, però, dal duca Federico, fu costretto a chiudersi a Rontana.
Fattosi ancora più pericoloso l’esercito della lega, «ingrossato da seimila uomini al comando
di Galeazzo Maria Sforza e da rinforzi di Fiorentini e Napoletani23» Bartolomeo Colleoni, al servizio
di Venezia, desistette dall’assediare Imola e si ritirò tra Faenza, Cotignola e Castel Bolognese,
continuando però ad avere in mano il contado della città.
«Temendo un voltafaccia di Taddeo Manfredi, Galeazzo Maria Sforza sta di guardia al Bolognese,
mentre gli avversari si spingono a Cantalupo, saccheggiando i dintorni di Medicina e di Castel
Guelfo24. Un tira e molla vero e proprio, prodotto da sospetti e paure reciproche, che alla fine
si concretizzò in uno scontro alla Mezzolara (Molinella) il 25 luglio, con molti feriti da entrambe
le parti, ma senza esito conclusivo. Per parare una minaccia di Venezia in Lombardia, Galeazzo
Maria Sforza lascia il comando al Duca d’Urbino, il Colleoni ammalato va ad Argenta e il suo
esercito si fortifica a Mordano. Quando la Lega attacca Riolo Secco e Val di Lamone, Astorgio
accorre a difendere le sue terre, ma in una scaramuccia subisce gravi perdite e ripara a Rontana.
In ottobre per la pessima stagione e la pestilenza i due eserciti tornano alle loro basi e il Duca
d’Urbino sverna a Imola, in cui stava Taddeo stipendiario di Firenze ».
Il 25 aprile 1468 si stipulò la pace che sanciva la fine delle ostilità in tutta Italia, dopo sette
mesi di lotta. Pochi giorni dopo Astorgio Manfredi morì, lasciando i figli Carlo proclamato
successore, Galeotto e Federico.
«Galeazzo Maria ormai dirigeva tutte le mosse della politica imolese, sia con le truppe di presidio,
che accordando sua sorella naturale Fiordalisa in moglie a Guidaccio figlio di Taddeo, sia fingendo
S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 428-429.
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 430.
24
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 430.
22
23
22
di ascoltare le molte lagnanze del Manfredi, sempre in urto con la Camera Apostolica per
l’investitura che andava rinnovata ogni dieci anni e che temeva di perdere, e soprattutto in urto
con la terribile Marsibilia che non gli perdonava di avere un’amante, e lo aveva abbandonato
recandosi a Forlì da Pino Ordelaffi, marito di sua figlia Zaffira25.
Questa situazione fu sfruttata dal Duca di Milano, che poteva temere un accordo tra l’Ordelaffi
e Marsibilia per togliere la rocca d’Imola a Silvestro da Viarana suo fedele, quindi cominciò ad
inviare truppe nel territorio e a prestare ascolto al suo segretario Cicco Simonetta per il quale
Guidaccio, approfittando del malumore degli Imolesi, cospirava per sostituirsi al padre.
Il 9 novembre 1471 l’emissario dello Sforza s’incontrò con Nicoletto Tartagni che trattava per
togliere Imola a Taddeo, ma lo Sforza voleva Imola per sé, non per Guidaccio.
A Imola la rivolta scoppiò il 13 dicembre, col favore di Antonio Vaini, di Nicoletto Tartagni, di
Marco Broccardi e quarantaquattro altri della nobiltà e del popolo. Guidaccio, istigato dalla madre
Marsibilia, depose il padre chiudendolo nella rocca insieme alle sorelle, all’amante e al Podestà
Nicolò da Ferrara. L’azione di Guidaccio non fu gradita al Duca, che all’inizio del 1472 convocò
a Milano prima Taddeo e poi Guidaccio per delle trattative che si prolungarono fino al 21 aprile
1473.
In seguito all’accordo l’ex Signore d’Imola riceve in dominio la città di Tortona in Piemonte,
mantiene i suoi diritti su Faenza e riscuote duemila ducati per le munizioni e provvigioni che
si trovano nelle rocche e nei castelli del Vicariato d’Imola, insieme alle entrate stabilite dalle
sentenze e dalle condanne fino al 31 dicembre 1473. I possessi personali di Taddeo e delle sorelle
in territorio imolese sono rispettati e considerati esenti da tasse. Dal 1° gennaio 1474 il Duca
di Milano pagherà il Podestà di Imola, mentre Taddeo pagherà quello di Tortona. Guidaccio,
che non si oppose, sposò ed ebbe la dote di Fiordalisa figlia naturale del Duca e si stabilì a
Milano, dove morì nel 1478. […] Il 25 ottobre 1472 l’ingannato Taddeo Manfredi, sollecitato
a cedere tutti i fortilizi al Duca, scrisse al Castellano di Valmaggiore pregandolo di cedere la
rocca alle sue sorelle, giacché aveva perso il contrassegno di consegna. […] Quattro mesi dopo,
avendo già combinato con Sisto IV (eletto nel frattempo successore di Paolo II) le nozze della
figlia illegittima Caterina Sforza con Girolamo Riario, il cardinale Pietro Mario fratello dello
sposo giunse a Milano il 12 settembre e in pochi giorni concluse le trattative col Duca, tanto
che ripartì il giorno 20. Imola, venduta per quarantamila fiorini, costituì la dote di Caterina e
il 7 novembre 1473 il Papa emanò la Bolla d’Investitura d’Imola a suo nipote il conte Girolamo
Riario.
Il 10 febbraio 1474 Giovanni Avogadro, Commissario ducale, consegnò la città e la sua rocca
a Giovanni Mella e a Lorenzo Giustino inviati dal conte Girolamo Riario a prenderne possesso,
come avvenne per Dozza il giorno 11, per Tossignano e Codronco il 12, e per Bagnara e Mordano
il 13. E dal 15 marzo 1474 Lorenzo Giustino da Città di Castello governò Imola e il suo Contado
per il Riario.
Taddeo Manfredi fu spodestato anche di Tortona, ricevendo in cambio le terre del Bosco di
Alessandria col titolo di conte, ma solo come alto dominio perché anche quel territorio entrò
poi a far parte della dote di Caterina. Di Taddeo stabilitosi a Milano, sempre in rotta con Marsibilia,
si sa solo che era caduto molto in basso e s’ignora perfino la data della morte.
Ma anche il crudele e violento Galeazzo Maria Sforza incontrò la morte, assassinato il 26 dicembre
1476 dai congiurati nella chiesa di Santo Stefano a Milano dopo dieci anni di potere».
25
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 431.
23
6. La signoria di Girolamo Riario e Caterina Sforza.
Tra il 1478 ed il 1484 ci furono gravi dissidi tra il pontefice Sisto IV e la casata de’ Medici.
Della sfavorevole situazione in cui si era venuta a trovare la repubblica toscana tentò di
approfittare Girolamo Riario.
Con la pace di Bagnolo, tuttavia, conclusa 1’11 agosto 1484, come visto, si ristabilì la situazione
italiana configuratasi a seguito della pace di Lodi, senza vantaggi per Girolamo Riario e per
Sisto IV, morto il giorno dopo, 12 agosto.
«Nei soliti tumulti che seguivano a Roma ogni morte di Papa, Girolamo fu ospite degli Orsini
fuori città, mentre Caterina si chiuse in Castel Sant’Angelo e il loro palazzo venne posto a sacco26.
Avendo poi Girolamo ceduto alla volontà dei cardinali, Caterina sgombrò Castel Sant’Angelo
il 25 agosto e il nuovo papa Innocenzo VIII eletto il 29 agosto, riconfermò al Riario il Vicariato
d’Imola e Forlì e i due sposi partirono per il loro Stato il 4 settembre.
Trovarono però un ambiente ostile, sia da parte dei sudditi che di nemici esterni. Nell’infida
Forlì i Manfredi di Faenza opponevano i diseredati Ordelaffi, i Bolognesi padroni della Bastia
di Codronco stabilivano le decisioni da prendere a Codronco e a Carseggio, e Sassoleone sotto
la loro influenza si rifiutava di pagare le decime al Vescovo d’Imola. Un colpo di mano tentato
dai Manfredi su Imola fallì, col risultato che tredici Imolesi furono impiccati dal Riario.
Girolamo aveva ritenuto di accattivarsi l’animo dei cittadini con elargizioni in grano, abolizione
di dazi ed esenzioni fiscali, ma non aveva più le entrate garantite dallo zio Sisto IV e le spese
eccessive fatte nei dieci anni che andarono fino alla morte del papa e quelle che si aggiunsero
nel 1485 provocarono l’abolizione delle concessioni fatte a partire dal gennaio 1486. […] Ogni
famiglia a Imola dovette sborsare lire 20 per portare da cento a quattrocento i cavalli della guardia
di Girolamo, il cui regime divenne intollerabile anche a Forlì. […]
Caterina nell’aprile 1487 cercò dai suoi parenti di Milano un appoggio contro le minacce dei
nemici esterni e tornò in maggio per la malattia del marito Girolamo, ma tre mesi dopo dovette
affrontare la difficile situazione che si era creata a Forlì. Il 12 agosto Innocenzo da Codronco,
capo delle guardie di palazzo, con altri cinque del Contado d’Imola aveva ucciso il castellano
Melchiorre Zocchi da Savona per vendicarsi di un oltraggio e si era impadronito della rocca di
Ravaldino, con intenzioni non ben precisate. Solo l’intervento deciso della Contessa valse a fargli
restituire la fortezza dove fu nominato quale nuovo castellano Tommaso Feo.
Tornata a Imola in compagnia del Codronchi, Caterina si recò poi a Forlì il 2 novembre con il
marito […] ma non poté impedire il processo-vendetta fatto ai Raffi per un’altra sommossa,
conclusosi con sei impiccati e squartati. E di lì a poco Girolamo Riario pagò con la vita la violenza con cui voleva esercitare il potere: la sera del 14 aprile 1488 fu ucciso a quarantacinque
anni d’età da una congiura tramata dalla famiglia degli Orsi, nel suo palazzo di Forlì e il suo
cadavere per maggior offesa fu scaraventato in piazza dalla finestra. […] Il popolo di Forlì,
appoggiando l’assassinio insorse, imprigionando Caterina con sei figli, la madre e la sorella, ma
la rocca non si arrese e Caterina col suo contegno entrò immediatamente nella storia e nella
leggenda. Con la scusa di parlamentare col suo castellano Tommaso Feo, lasciò in ostaggio i
figli ai Forlivesi e riuscì a farsi ricevere in rocca, ma solo per mantenersi libera e provocare
soccorsi, minacciando terribile vendetta se gli avessero ucciso i figli. Se avessero commesso tale
misfatto, gridava, essa era in grado di partorirne altri, ma i Forlivesi se ne sarebbero pentiti.
[…] Essa ebbe subito il soccorso del fratello Gian Galeazzo duca di Milano, che inviò contro
Forlì Giovanni Bentivoglio al suo servizio con otto squadre di cavalleria pesante, duecento cavalli
26
S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 586-587.
24
leggeri e duemila fanti con il conte Nicolò Rangoni, truppe che incontrarono a Forlì Galeazzo
da Sanseverino, capitano milanese con quattordici squadre di uomini d’arme e quattrocento fanti
con i quali assediarono la città. I congiurati insorti, abbandonati da papa Innocenzo VIII e da
Lorenzo dei Medici, fuggirono a Città di Castello e il 30 aprile Milanesi e Bolognesi diedero a
Ottaviano, figlio dell’ucciso Girolamo, ancor fanciullo, la Signoria di Forlì, affidandolo alla madre
Caterina e a Giovan Pietro Bergamini, ufficiale dello Sforza di Milano. […] Il 30 luglio 1488
papa Innocenzo VIII diede a Ottaviano l’investitura del Vicariato di Forlì e d’Imola, ma in realtà
governava sua madre Caterina27»
6.1 Il Contado di Imola dopo la morte di Girolamo Riario.
«Gli abitanti di Monte Battaglia alla notizia della morte di Girolamo riuscirono ad occupare la
loro rocca, dove era castellano Pietro Spinola con la moglie Maria e gli armati Gregorio Florio,
Stefano Bianchi e suo figlio Giacomo, tutti di Savona, e la offrirono a Galeotto di Astorgio Manfredi
di Faenza, il quale la rifiutò per timore di Gian Galeazzo Sforza e delle truppe che erano state
mandate in aiuto di Caterina28. Fallito il tentativo il nuovo castellano catturò i responsabili della
ribellione. Gli altri abitanti riunitisi in arengo il 12 maggio col massaro Zanone fu Pirazzolo da
San Ruffillo in numero di trentacinque promisero obbedienza a Ottaviano Riario e inviarono
Matteo di Giovanni Landi e Domenico di Giovanni Nanni a prestare giuramento di fedeltà. […]
Tossignano, dove era Capitano il dottore in legge Annibale da Verona rimase tranquillo, nonostante
la notizia data dai congiurati per Lorenzo il Magnifico; Cantagallo col massaro Giovanni di Viso
e Valmaggiore col massaro Baco di Bitino giurarono obbedienza a messer Bertino luogotenente
di Ottaviano Riario e così fecero anche Belvedere, Riolo, dove era castellano Corradino Feo di
Savona, Valsenio e Casola. Casale e la sua Podesteria con Croara e Sassoleone rimasero di
Giovanni Bentivoglio e Castel del Rio restò ancora in Vicariato di Firenzuola, sotto Firenze, anche
se gli Alidosi fecero di tutto per riaverlo. E ci riuscirono il 9 gennaio 1494 per intervento di
Giuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, presso i Priori della Libertà di
Firenze29».
6.2 Caterina al governo di Forlì e di Imola.
«Dopo la morte del marito, Caterina governò subito con gran decisione, superando situazioni
difficili, avendo solo venticinque anni30. […] La resistenza opposta dalla rocca di Ravaldino a
Cesare Borgia e ai francesi per ventiquattro giorni dal 19 dicembre 1499 al 12 gennaio 1500
è diffusamente narrata da tanti e diversi storici, tutti con animo di magnificare le doti di Caterina
Sforza, donna guerriera tra le più grandi della Storia.
Prigioniera finché il papa non la costrinse a rinunciare al suo Stato il 30 giugno 1501, la Contessa
di Forlì divenne una vera e propria leggenda, anche dopo la sua morte avvenuta a Firenze il 29
maggio 1509, a quarantasei anni. […] Gli Imolesi la temettero, non l’amarono e le furono
particolarmente ostili Giovanni Sassatelli e Guido Vaini, i cui padri erano stati uccisi da lei.
Tuttavia, come dice Machiavelli, «gli uomini si dimenticano più presto la morte del padre che
la perdita del patrimonio» e Sassatelli e Vaini, con Broccardi, Tartagni, della Bordella, della
Volpe, Ettorri, Orsolini, Cantagalli, Ferreri, Ferri, travagliati dai Riario anche dopo la morte di
S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 588-589.
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 587.
29
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 588.
30
S. BOMBARDINI, Tossignano, p. 598.
27
28
25
Caterina, non rinunciarono ad inoltrare un Memoriale nel 1513 al nuovo papa Leone X,
rivendicando un danno per l’incredibile somma di 100.300 ducati d’oro, arrecato alle loro famiglie
da Caterina, foemina sanguinaria».
7. Cesare Borgia in Romagna. La lotta contro Caterina Sforza.
Il 12 gennaio 1500 Cesare Borgia costrinse, come detto, Caterina Sforza a capitolare e la
imprigionò. Dopo la rivolta antifrancese di Milano, che sottrasse per qualche mese a Cesare Borgia
l’appoggio degli eserciti di Luigi XII, in ottobre il duca Valentino mosse contro Pesaro e Rimini,
i cui rispettivi signori, Giovanni Sforza e Pandolfo Malatesta, preferirono fuggire anziché affrontare
l’esercito pontificio.
Si volse poi contro Faenza: qui Astorre III Manfredi, con l’aiuto di Giovanni Bentivoglio, riuscì
ad organizzare una efficiente difesa e seppe resistere fino al 25 aprile 1501, giorno in cui fu
imprigionato. Ottenuta dal Bentivoglio la cessione di Castel Bolognese, il Borgia si trovò in
possesso dell’intera regione e il pontefice gli conferì il titolo di duca di Romagna31.
Egli, tuttavia, non promosse nelle sue terre una politica accentratrice: si limitò a istituire a Cesena,
capitale della nuova signoria, un tribunale centrale d’appello, la Rota, competente per tutto il
ducato, e a dividere quest’ultimo in province, al vertice delle quali era un governatore32. Conservò,
per il resto, le autonomie comunali, senza tentare di limitarle. Così, alla metà del 1503, i Borgia
erano in grado di controllare tutte le regioni pontificie.
All’apice del successo, Alessandro VI il 18 agosto 1503 moriva a Roma. Il suo pontificato aveva
trasformato l’assetto politico che da tempo si era affermato all’interno delle terre della Chiesa.
Egli si era avvalso del crollo degli equilibri italiani e delle lotte accesesi tra potenze europee
per il dominio di alcuni Stati della penisola al fine di eliminare antichi vicariati ed espropriare
feudi di grandi famiglie baronali.
Il sistema politico da lui realizzato con l’aiuto del figlio Cesare si basava, però, essenzialmente
sulla forza della famiglia Borgia, sul sostegno che questa riceveva dalle potenze straniere e non
già sul consenso sicuro delle oligarchie dominanti nelle varie regioni: di qui il suo rapido crollo
alla morte del papa.
Alla fine di agosto e nei primi giorni di settembre del 1503, infatti, Urbino, Camerino, Pesaro
e Rimini tornarono ai loro antichi signori, che Venezia sosteneva. I Riario, gli Ordelaffi e i Manfredi si apprestavano a rientrare nelle loro città.
In poco tempo al duca Valentino rimasero solo alcune rocche del suo ducato. Egli si mostrò allora
disposto a trattare col collegio dei cardinali ed ottenne, dietro giuramento di fedeltà allo stesso,
la conferma della sua carica di gonfaloniere della Chiesa.
8. L’elezione di Giulio II e la penetrazione veneziana in Romagna.
Il 10 novembre 1503 il cardinale della Rovere era eletto papa e assumeva il nome di Giulio
II. I problemi che questo si trovava davanti erano i medesimi che aveva dovuto fronteggiare
Pio III, suo predecessore, con l’aggravante di una più accentuata penetrazione veneziana in
Romagna.
Agli inizi di ottobre Pandolfo Malatesta aveva lasciato Rimini e ne aveva ceduto la signoria a
Venezia, la quale durante il brevissimo pontificato di Pio III si era già impadronita di Fano e
Monfiore. Alla metà di novembre dello stesso anno anche Faenza passò in mano veneziana, mentre
31
31
M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 155.
M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 156.
26
sempre più decise si facevano le aspirazioni della Serenissima su Imola, Cesena, Forlì ed altre
città romagnole.
L’elezione di Giulio II aveva indotto i cittadini di Fano a ritornare al governo della Chiesa, ma
ciò non pareva ostacolare il progetto veneziano di conquista della Romagna.
Il pontefice non poteva contare su un esercito in grado di contrastare l’avanzata veneziana,
né di eliminare la presenza in quella regione di Cesare Borgia, le cui truppe erano ancora in
possesso dei castelli di Forlì, Cesena e Bertinoro. La presenza in Romagna, inoltre, forniva
a Venezia il pretesto per espandere i propri possedimenti nella regione: il governo lagunare
dichiarava, infatti, di aver occupato le città romagnole proprio per evitare il risorgere della
potenza di Cesare, perniciosa anche per la Chiesa, e chiedeva di tenerle, in qualità di vicario
apostolico.
Giulio II procedette per gradi, cercando di riaffermare in primo luogo la sovranità della Chiesa
nelle zone ancora libere dal dominio di Venezia. Con quest’ultima mantenne un atteggiamento
duro, specialmente dopo la conquista da parte della Serenissima, alla fine del 1503, di Verrucchio,
Tossignano, Russi e Santarcangelo, escludendo ogni possibilità di accordo fino a che la stessa
33
non avesse restituito le terre occupate .
Non essendo in grado, peraltro, di opporsi alla conquista veneziana indirizzò la sua azione verso
il recupero dei castelli borgiani, sostenendo nel contempo quelle oligarchie cittadine che non
desideravano né richiamare gli antichi signori, né passare al dominio veneziano.
Imprigionato Cesare ad Ostia, il pontefice lo fece venire a Roma nel novembre 1503 e trattò
con lui per cinque mesi la restituzione dei castelli, offrendogli come contropartita la liberazione.
Nella primavera del 1504 Cesena e Bertinoro tornarono alla Chiesa, seguite poco dopo da Forlì.
Dal canto suo, Cesare il 19 aprile lasciò Roma per recarsi a Napoli e subito dopo Giulio II ottenne
anche il passaggio al dominio diretto della Chiesa della città di Imola, consegnata nelle mani
del cardinale Raffaele Riario il 21 luglio.
Vista l’impossibilità di risolvere il problema romagnolo per via diplomatica, Giulio II cercò di
costituire una coalizione antiveneziana attraverso la quale svolgere pressioni su Venezia per
giungere ad un accordo. Ad esso si arrivò nel marzo del 1505, quando Venezia restituì le città
e le terre minori, restando in possesso di Rimini e Faenza per le quali, però, il pontefice rifiutò
34
di concederle il vicariato .
Prima di compiere ulteriori passi verso la riconquista della Romagna, il pontefice cercò di
garantirsi la tranquillità nelle terre della Chiesa, al fine di prevenire l’insorgere di opposizioni
che avrebbero indebolito la sua azione antiveneziana. Rinsaldò così i vincoli con le famiglie
baronali romane e il 26 agosto 1506 lasciò Roma per sottomettere Perugia e Bologna, col consenso
del re francese Luigi XII. Agli inizi di settembre, infatti, Perugia era conquistata.
Rinnovata poi l’alleanza con la Francia, Giulio II mosse contro Bologna, dove entrò trionfalmente
l’11 novembre 1506, cacciandone il Bentivoglio. Il papa si fermò nella città durante l’inverno
1506-1507 e riformò il governo comunale in modo da consolidare il controllo da parte dei
funzionari pontifici e imporre l’esclusione dei bentivoglieschi dalle magistrature cittadine, con
la conseguente più ampia partecipazione alle stesse degli ottimati schieratisi a favore della S.
Sede.
Nel febbraio 1510, di fronte ad una nuova sconfitta veneziana alla Polesella e al rinnovato accordo
tra Francia e Spagna, le trattative veneto-papali si conclusero: Venezia restituì tutte le terre
34
35
M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 167.
M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 168.
27
romagnole, rinunciò al vis-dominato su Ferrara, al diritto di appellarsi al Concilio contro il papa
e a ogni diritto fiscale sugli ecclesiastici. Consentì, inoltre, al pontefice la piena libertà
nell’attribuzione dei benefici e riconobbe la libertà di navigazione nel golfo ai sudditi della Chiesa.
Nasceva cosi un’alleanza tra il papa e Venezia: i due contraenti speravano di creare le basi per
una più ampia lega italiana contro la Francia35.
35
M. CARAVALE - A. CARACCIOLO, Lo stato, p. 172.
28
Capitolo 2
1. La Romagna: territorio e società nel secolo XV.
Nel corso del Cinquecento il dominio diretto dei pontefici sulla Romagna si stabilì all’interno
di un’articolazione di rapporti con le comunità che concedeva ampi spazi ai particolarismi locali:
le libertà confermate mantenevano, in diversa misura caso per caso, i diritti di autogoverno ed
attribuivano agli organismi delle comunità l’esercizio di funzioni amministrative, economiche,
fiscali e giurisdizionali1.
1
C. CASANOVA, Comunità, p. 11.
29
Sopravvissero, poi, per tutto il secolo, accanto ai poteri e privilegi politici, economici e sociali
delle comunità cittadine, delle comunità castrensi e borghigiane, molti centri di giurisdizione
feudale che rappresentavano, in continuità con il passato, aggregazioni di forze e di interessi
delle quali il governo pontificio dovette tener conto.
Particolare fu l’abilità con la quale il governo pontificio riuscì a consolidarsi sfruttando le divisioni
e gli antagonismi della società romagnola, orientando le scelte istituzionali alla ricerca di accordi
e compromessi con ristretti gruppi dominanti all’interno dei consigli cittadini, confermando, e
spesso ampliando, i privilegi dei proprietari terrieri a danno delle numerose libertà delle comunità.
1.1 Vie di comunicazione e contrabbando.
Secondo una nota Descrizione della Romagna2 dei primi decenni del XVII secolo, la fama di
relativa prosperità della provincia romagnola si estendeva anche alla montagna.
Dietro la pretesa abbondanza di ghiande, marroni, di buonissime carni, cosciotti, lane e legumi3
sono invece riconoscibili, più che altro, i magri prodotti di un’economia di sussistenza4.
La molteplicità delle giurisdizioni, insieme con la diffusione della piccola e piccolissima proprietà,
contrassegnava le comunità appenniniche più di quelle della collina e della pianura.
«Il peso economico della montagna nei confronti del resto del territorio sembra essere stato,
tuttavia, in proporzione, maggiore dell’attuale, come maggiore pare fosse la densità relativa della
popolazione5. […]
Decisamente prospera era […] la valle del Lamone, favorita dalla mediocre altezza delle montagne
che la mettevano in comunicazione con la Toscana e da un clima abbastanza mite. Di qui,
attraverso l’Appennino passavano, legalmente o illegalmente, canapa, olio, bestiame, gesso, ma
soprattutto seta, pregiata e richiesta sul mercato di Firenze, tanto che, nel 1560, il senato
bolognese tentò di ostacolarne l’esportazione. […]
I prodotti della montagna e gli oggetti dell’artigianato locale rifornivano i più grossi mercati
romagnoli ma, probabilmente, la parte maggiore passava i confini, spesso senza controllo, spesso
grazie alla protezione dei signori feudali, attraverso una rete di mulattiere che per le autorità
era difficile, se non impossibile, sorvegliare6.
Il contrabbando dei grani era praticato particolarmente nel territorio imolese e a Castel
Bolognese, enclave, questa, di giurisdizione della legazione confinante, verso Bologna; ma anche
da Brisighella, Faenza e Forlì se ne inviavano grosse quantità verso la Toscana».
Per quanto riguarda l’esportazione illegale di altri prodotti agricoli e del bestiame, erano
soprattutto Imola, Faenza e Brisighella a inviarli nel Fiorentino, nel Ferrarese et ne’ luochi de’
baroni. Da Meldola, Mercato Saraceno e luochi del marchese di Bagno et altri baroni si facevano
l’incette de’ bestiami et della grascia7 che da lì passavano i monti.
Queste attività erano facilitate dal disinteresse delle autorità per il mantenimento di una rete
di collegamento stradale su tutta la legazione8. In montagna la manutenzione delle vie di transito,
particolarmente gravosa per la frequenza di frane e smottamenti, era affidata alle singole comunità.
È difficile ritrovare le direttrici dei percorsi appenninici, perché la loro agibilità dipendeva dalle
Descrizione, in M. BERTI, Una regione, pp. 127-144.
Descrizione , in M. BERTI, Una regione, p. 128.
4
C. CASANOVA, Comunità, p. 19.
5
A. METELLI, Storia, pp. 271-272.
6
C. CASANOVA, Comunità, p. 22.
7
Questo ed i due precedenti riferimenti da Descrizione, in M. BERTI, Una regione, p. 142.
8
C. CASANOVA, Comunità, pp. 22-23.
2
3
30
condizioni atmosferiche e dai rapporti che, di volta in volta, si venivano organizzando tra i vari
centri. Si sa, tuttavia, che esse toccavano le principali città sedi di mercato e di organismi
comunitativi e di governo.
«Qui come altrove (comunque) le risorse del commercio e del contrabbando non affrancavano
gli abitanti dalla necessità dell’emigrazione stagionale, e la montagna romagnola, la
Valdamone in particolare, fu per tutto il secolo [XVI] la tradizionale riserva delle milizie venete9.
[…]
Più che dai frutti di una stentata agricoltura, gli abitanti della montagna romagnola, soprattutto
forlivese e cesenate, traevano le maggiori risorse dall’utilizzazione dei prodotti del bosco e
dell’allevamento. […]
Lo spostamento del bestiame da una valle all’altra e dalla pianura ai pascoli montani, tanto più
quando si dovevano attraversare frontiere tra stati, ha offerto per secoli motivo ricorrente a liti,
a contestazioni, a reiterate regolamentazioni.
Le guerricciole feudali, protrattesi nella montagna ben oltre il medioevo, fra villaggi feudali, divisi
talvolta da tenacissime rivalità, si concretizzavano quasi sempre nella cattura di greggi e armenti
appartenenti al signore o al villaggio nemico.
Nella stessa delinquenza comune occupava un posto notevole il furto di bestiame10. […]
Preoccupazioni di sicurezza e attività economiche prevalenti spiegano la persistente faziosità
delle famiglie montanare11. Si può dire che solo nel XVII secolo nelle comunità appenniniche
tali rivalità venissero attenuandosi, ed è significativo che solo allora si cominciassero a trascurare
le onerose opere di manutenzione delle mura dei castelli».
La zona pedemontana e collinare, insieme con la fascia di pianura più prossima alla via Emilia,
dove l’inclinazione del terreno consentiva un buon deflusso delle acque dei numerosi torrenti
12
e fiumi che scendevano dall’Appennino, costituiva la parte migliore e più fertile della provincia .
Caratteristiche che, insieme con la facilità delle comunicazioni con i maggiori centri, contribuirono
a rendere qui più diretto e oppressivo lo sfruttamento da parte dei ceti privilegiati, più pesante
l’aggravio fiscale, più facile l’esecuzione delle rappresaglie dei tesorieri e dei commissari pontifici
contro il bestiame e gli averi dei contadini indebitati e più frequenti, infine, le razzie e i saccheggi
dei banditi e degli eserciti di passaggio.
In questa zona si trovavano anche i feudi migliori: Dozza, nell’imolese, che produceva olio e
13
14
ottimi vini , Meldola, nel forlivese, terra piena di abitatori e di molto concorso e altri nel cesenate
15
e nel riminese, ricchi di olivi, vigne (e) frutti bellissimi, a guisa di vago giardino .
Non a caso, con la revisione dei titoli di concessione dei feudi, negli ultimi decenni del
Cinquecento, i pontefici mirarono soprattutto al recupero di grosse giurisdizioni della zona
pedemontana16.
«La subordinazione dei villaggi della pianura era più diretta, sia in relazione alle esigenze di
approvvigionamento dei centri maggiori, sia perché le normative riguardanti la difesa delle
Si vedrà, in seguito, che anche diversi appartenenti alla famiglia Ceroni sono stati importanti capitani al servizio ora della
Repubblica Fiorentina, ora della Serenissima.
10
G. CHERUBINI, La montagna, p. 128.
11
Caratteristica costante, questa, anche all’interno della Consorteria qui in oggetto di studio.
12
C. CASANOVA, Comunità, pp. 24-25.
13
G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 33.
14
Descrizione, in M. BERTI, Una regione, p. 132.
15
Descrizione, in M. BERTI, Una regione, p. 133.
16
C. CASANOVA, Comunità, p. 25.
9
31
campagne dalle acque e la manutenzione della rete idrica costituirono sempre gran parte del
sistema organizzativo e degli ordinamenti statutari delle città e delle circoscrizioni rurali comprese
nei loro contadi, al fine di ripartire sul territorio i compiti di sorveglianza, attraverso gli acquaroli
delle comunità, e i lavorieri, cioè quegli interventi, ordinari e straordinari, decisi dalle
congregazioni dei proprietari ed eseguiti dai contadini, per i quali costituivano una prestazione
d’opera obbligatoria e gratuita17. […]
La mezzadria, la forma di conduzione più diffusa in Romagna, caratterizzò in particolare
l’economia della pianura. Tale rapporto contrattuale garantiva al proprietario la percezione di
una rendita relativamente costante con un impiego minimo di capitali.
Essa consentiva, altresì, di controllare, attraverso la determinazione degli obblighi e delle
prestazioni del contadino, la gestione del podere e per questo rappresentò la massima espressione
della subordinazione del contado agli interessi dell’aristocrazia cittadina proprietaria terriera».
2. Potere pontificio e poteri “locali”.
2.1 Il governo della provincia.
«Nel Cinquecento l’amministrazione provinciale dello Stato pontificio si articolava essenzialmente
in due attività: quella giudiziaria, civile e criminale, e quella tributaria e fiscale18.
A capo della prima era il governatore provinciale o rettore della provincia, a cui erano sottoposti
i governatori e i podestà che reggevano i vari centri sparsi nel territorio.
L’amministrazione tributaria, invece, era di competenza del tesoriere provinciale che limitava,
in questo campo, la generale autorità del governatore, da cui era autonomo.
Attraverso la giudicatura, il governo centrale faceva pesare la propria presenza politico amministrativa a livello locale: il governatore provinciale, di nomina pontificia, era il vertice
della gerarchia amministrativa del territorio.
I governatori delle varie province costituivano il nerbo dell’amministrazione periferica pontificia,
essendo direttamente responsabili delle aree che dirigevano e del coordinamento dei giusdicenti
e dei militari alle loro dipendenze.
I compiti dei governatori provinciali erano essenzialmente quattro: assicurare la giustizia
controllando l’operato degli ufficiali pontifici, occuparsi dell’Annona facilitando l’esecuzione dei
lavori agricoli e controllando l’andamento dei raccolti, assicurare il vettovagliamento della
provincia in caso di carestie (vietando le esportazioni di grani e cercando di procurare derrate
alimentari), tentare di eliminare i disavanzi di bilancio e di alleggerire il carico fiscale. I governatori
provinciali dovevano poi sorvegliare i confini, attendere all’esecuzione dei lavori pubblici e alla
messa a coltura di terre incolte o paludose e, non ultimo, garantire la pace sociale, cercando
di mantenere inalterati i precari equilibri politici e di eliminare le bande armate che, in quel
tempo, infestavano le campagne.
Il governatore provinciale assumeva l’incarico, di durata triennale, nelle vesti di legato o
presidente19.
I poteri conferiti a legati o presidenti erano, però, sostanzialmente i medesimi20.
Fino al 1648 legati e presidenti si alternarono al governo della provincia di Romagna con una
C. CASANOVA, Comunità, pp. 26-27.
C. ALBONETTI, Finanza, pp. 42-46.
19
La differenza tra queste due figure si riferiva essenzialmente alla dignità dell’incaricato, poiché, mentre la carica legatizia veniva concessa esclusivamente ai cardinali, quella presidenziale riguardava vescovi, monsignori, o, più raramente, laici.
20
La carica legatizia godeva, però, di maggior prestigio e percepiva, in genere, un compenso notevolmente superiore.
17
18
32
prevalenza però dei secondi, tanto che la circoscrizione amministrativa si chiamò più spesso
presidenza che governo; dopo tale data cominciò invece una ininterrotta successione di legati
o vicelegati21.
Il governatore provinciale rappresentava l’autorità pontificia nella provincia e rendeva conto
dei casi più gravi direttamente al papa o alla Sacra Consulta. Era giudice supremo e poteva
avocare a sé le cause che voleva o invece affidarle ad altri. Aveva il diritto di concedere la grazia
e a lui spettava il giudizio di appello per tutte le sentenze emesse dai giudici della provincia,
eccetto che per le cause minori relative ad una somma compresa tra i 10 e i 25 scudi.
Il governatore poteva, poi, nei casi più scandalosi e pregiudizievoli22, emanare disposizioni anche
in contrasto con gli statuti delle località della provincia e con i privilegi concessi dallo stesso
pontefice.
Alle dipendenze del governatore provinciale erano due giudici, uno per il criminale e uno per
il civile.
Il luogotenente criminale aveva alle sue dipendenze l’uditore cavalcante che andava a rendere
giustizia nella provincia.
Al luogotenente criminale erano affidate le cause relative ai delitti più gravi et atroci ch’occorreno
per la provincia23, quando si giudicava che queste fossero sottratte alla competenza del governatore
locale per l’efferatezza del crimine o l’importanza dei personaggi implicativi.
Per dare luogo a tali processi era uso tenere ogni giovedì, dopo pranzo, una Congregazione presieduta dal legato a cui prendevano parte i due luogotenenti, il governatore di Ravenna, l’uditor
cavalcante e altri ministri della provincia tra cui l’avvocato fiscale, nominato dal tesoriere
provinciale; in questa sede «si discorrevano gli indizi e si prendevano le risoluzioni necessarie24»
relativamente ai più importanti dibattimenti.
Delle questioni minori si occupava direttamente il luogotenente «con farne però parola col legato
o vicelegato25».
Le cause civili erano di competenza del luogotenente civile in prima istanza ma, in seguito, ci
si poteva appellare al legato che affidava le cause al suo uditor di Camera o ad un altro dottore.
Luogotenente e uditore civili erano competenti anche, per le cause in seconda e terza istanza.
Il controllo esercitato dal governo centrale e i poteri concessi ai governatori provinciali,
formalmente molto ampi, erano in realtà limitati da poteri contrastanti concessi ad altri ufficiali
camerali (i tesorieri in primo luogo) o dalla tolleranza verso i maggiori feudatari, che rimasero
sostanzialmente autonomi dal punto di vista amministrativo e fiscale per tutto il Seicento.
Il governatore provinciale «commanda ancora a tutti feudatari [...] ma si astiene dal por mano
nelle cause de’ sudditi de feudatari, per li privilegi che ne hanno dalla Sede Apostolica nelle
loro investiture26».
La possibilità di intervenire in materia giurisdizionale nella pratica, quindi, si riduceva ai casi
in cui fossero gli stessi feudatari a richiedere tale intervento. Spesso, inoltre, le competenze giurisdizionali del governatore provinciale venivano disconosciute anche dalle Comunità, che
malvolentieri sottostavano ad una autorità percepita come lesiva delle loro prerogative
autonomistiche. Questa è anche la ragione dei frequenti ricorsi ai tribunali romani, con lo
S. BERNICOLI, Governi, p. 72.
C. CASANOVA, Comunità, p. 237.
23
G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 45.
24
G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 45.
25
G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 45.
26
G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 45.
21
22
33
scavalcamento di quello provinciale.
Tra i funzionari periferici, nominati direttemante dal papa nello Stato pontificio, il presidente
di Romagna era secondo per importanza solo al legato di Bologna, e percepiva, al tempo di Sisto
V, quindi tra il 1585 e il 1590, un emolumento di 1.340 scudi circa27, mentre dopo il 1640 tale
compenso salì a 2.195 scudi e 45 baiocchi.
Il presidente o il legato aveva inoltre diritto di usufruire di carreggi per legna, vino, biade [...],
paglia per cavalli e del sale necessario28 e godeva della protezione di una scorta composta da 20
guardie svizzere, la cui retribuzione era a carico delle Comunità che vi provvedevano con una
apposita tassa29.
La durata triennale della carica veniva raramente rispettata e gli avvicendamenti risultarono
in genere molto più frequenti; nel caso, poi, in cui il personaggio nominato fosse
impossibilitato30 a ricoprire l’incarico di persona, poteva designare un vicelegato, a cui
generalmente conferiva pieni poteri e al quale concedeva una parte delle sue entrate».
2.2 Governatori e podestà locali.
Eccettuati i feudi, i vari centri della provincia erano sottoposti al governatore provinciale tramite
governatori o podestà locali, il cui compito principale era l’amministrazione della giustizia civile
e criminale nelle Comunità.
Questi ufficiali locali si curavano della correzione delle ingiustizie e degli abusi più gravi, della
salvaguardia dell’ordine e della fedeltà a Roma, oltre che della supervisione della gestione politico
- amministrativa, attuata tramite l’intervento nelle riunioni dei Consigli e delle magistrature delle
Comunità stesse.
Le città principali, Ravenna, Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Rimini e Bertinoro, ricevevano un
governatore nominato per breve pontificio che percepiva un emolumento di 10 scudi al mese31
e aveva alle sue dipendenze cinque sbirri a cavallo e quattro a piedi32.
Vi erano poi i giusdicenti delle località subordinate alle città principali. Si trattava di ufficiali
inviati dalle stesse città, benché nominati dalla Sacra Consulta.
Questi ufficiali avevano, tuttavia, una giurisdizione limitata alle sole cause civili mentre le cause
criminali spettavano al governatore della città dominante33. La giurisdizione sulle Comunità del
contado era stata, infatti, una delle prerogative più gelosamente difese dai ceti municipali all’atto
della sottomissione al papa, agli inizi del secolo.
La rinuncia del governo centrale alla sostituzione dei giusdicenti inviati dai Consigli cittadini
nei capitanati, nei vicariati e nelle podesterie rurali, con giusdicenti dipendenti dal centro,
G. CAROCCI, Lo Stato, pp. 166-184.
L. DAL PANE, La Romagna, p. 60.
29
G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 63.
30
Descrizione più ampia e completa in C. ALBONETTI, Finanza, pp. 44-46. Ivi si legge che «spesso il governatore provinciale, come altri funzionari statali, non risiedeva sul territorio da lui amministrato ma si limitava a ricevere le entrate a cui la
carica dava diritto, impegnato come era nella scalata al potere entro la curia romana; la stessa carica di presidente o di legato era infatti vista, in primo luogo, come un importante passo in avanti verso i massimi vertici di questa scalata e l’amministrazione dello Stato era, in questo senso, uno strumento per l’ascesa politica e sociale delle principali famiglie della
nobiltà romana da cui in genere i funzionari periferici provenivano. Non stupisce perciò l’assenteismo e il sostanziale disinteresse di questi importanti ufficiali papali verso i territori da loro amministrati; d’altro canto la presenza di un funzionario di origine locale avrebbe potuto rappresentare un pericolo per il governo di Roma, interessato a mantenere inalterati i
precari rapporti di forza istauratisi nella provincia».
31
Descrizione, in M. BERTI, Una regione, p. 128.
32
G. P. GHISLIERI, Descrizione, pp. 45-46.
33
Descrizione, in M. BERTI, Una regione, p. 128.
27
28
34
dimostra che non vi fu alcuno sforzo reale per accentrare funzioni e competenze esautorando
gli organi e le magistrature cittadine34.
Il compito dei governatori locali era, nei fatti, quello di mantenere il buon governo e far accettare
l’ordine costituito; ogni loro iniziativa era subordinata all’autorizzazione della Consulta o del
presidente della provincia, che doveva essere minutamente informato di ogni questione di
carattere amministrativo o finanziario, inerente alla Comunità.
I governatori, in genere prelati, avevano il mero imperio nelle cause criminali ma, nella realtà,
si occupavano solo dei reati minori, essendo i più gravi trattati dal presidente della provincia.
Per le cause civili i governatori erano competenti in prima istanza nonostante le città nominassero
ancora i podestà, figura affermatasi nei secoli precedenti e a cui rimanevano ormai solo le cause
minime35.
I governatori concedevano ogni giorno udienza, per una rapida soluzione delle controversie che
coinvolgevano le fasce più deboli della popolazione. Spesso, tuttavia, questi giudici non erano
del tutto imparziali, favorivano i nobili e prolungavano le cause oltre il tempo dovuto, al solo
scopo di ottenere un maggior profitto36.
Nonostante la presenza dei governatori, le scelte economiche e finanziarie e, in particolare, il
controllo degli istituti annonari e le modalità dei riparti degli oneri fiscali, rimasero di competenza
dei Consigli e dei Magistrati locali.
I poteri discrezionali dei governatori di modificare le leggi e gli ordinamenti delle comunità
vennero, dunque, usati di rado, per non contrastare troppo apertamente con le autonomie statutarie
delle città, alle quali i governatori si dovevano, in sostanza, adattare.
Questi funzionari avevano anche competenze relative all’Annona, al commercio dei cereali e
alla lotta al contrabbando37.
Era loro compito stabilire le date della mietitura e della vendemmia e dovevano, inoltre, preoccuparsi, in caso di scarsità dei raccolti, di garantire la sussistenza della popolazione, nonostante,
spesso, fossero loro stessi implicati in speculazioni e traffici irregolari, a loro esclusivo vantaggio.
La Bolla De Bono Regime del 1592 stabilì poi che i governatori sottoscrivessero e controllassero
i bilanci annuali preventivi (detti tabelle) relativi alla gestione finanziaria che le Comunità dovevano inviare alla Sacra Congregazione del Buon Governo per il controllo che questa pretendeva
di esercitare sull’amministrazione finanziaria a livello locale38.
2.3 I funzionari camerali della provincia. Il bargello.
«I funzionari camerali della provincia, che, a differenza dei governatori e dei podestà, risultavano
autonomi dal governatore provinciale (legato o presidente che fosse), erano vari; si trattava in
genere di cariche affidate dal governo centrale a mercanti e banchieri titolari di appalti relativi
alle cariche stesse, che potevano in seguito venire da costoro concesse ad altri in sub-appalto39.
Oltre al tesoriere provinciale c’era il fiscale della provincia, coadiuvato da un vicefiscale; al fiscale
provinciale erano sottoposti i fiscali di ciascuna Comunità.
Altri ufficiali provinciali erano: il cancelliere, il prigioniero (funzionario addetto alle prigioni),
il segretario ed il bargello provinciale (scelto però dal governatore) responsabile dell’ordine e
C. ALBONETTI, Finanza, p. 44.
C. CASANOVA, Comunità, p. 218.
36
C. CASANOVA, Comunità, p. 218.
37
C. CASANOVA, Comunità, p. 254.
38
C. CASANOVA, Comunità, p. 216.
39
C. ALBONETTI, Finanza, p. 45.
34
35
35
della pubblica quiete nelle campagne.
Il bargello provinciale governava sulla corte di campagna con 20 sbirri a cavallo e a lui erano
sottoposti i bargelli dei contadi delle varie Comunità, che battevano i confini contro i banditi
e contrabbandieri avvalendosi dell’aiuto di sbirri loro sottoposti.
Essendo sottopagati, gli sbirri approfittavano della loro autorità per alloggiare nelle case dei
contadini, rubando e danneggiando i raccolti e pretendendo cibo e alloggio per i cavalli; si trattava
in genere di individui violenti, forestieri, assoldati come mercenari e pronti a tutto per far denaro.
Erano odiati dalla popolazione, che li temeva molto».
Oltre al controllo dei confini, gli sbirri scortavano i rei alle galere pontificie o ai vari tribunali,
eseguivano le sentenze dei condannati a morte e le torture, non disdegnando, però, di favorire
coloro che avendone i mezzi potevano corromperli con denaro, spartizioni di refurtive e promesse
di impunità40.
Gli abusi degli ufficiali camerali, a tutti i livelli della gerarchia amministrativa territoriale, furono
una delle cause principali della mancata realizzazione dell’accentramento istituzionale e
amministrativo e del buon governo pontificio, impedendo lo sviluppo di una efficiente rete
burocratica capillarmente diffusa sul territorio41. Ciò contribuì, assieme al riconoscimento del
privilegio nobiliare ed ecclesiastico, a determinare la stasi e le disastrose condizioni economiche
e sociali che caratterizzarono il XVII secolo.
3. Il contado di Imola nel XV secolo.
«Il contado comprendeva numerose località, dividendosi in undici borghi (Spuviglia, Lone, S.
Cassiano, Piolo, S. Cristina, S. Giorgio, S. Spirito, Buore, Campo di Mezzo, Croce in Campo, Noia),
in diciannove comuni (Cantalupo Fiume, Cantalupo Selice, Sesto, Trentola, Selustra, Casola
Canina, Farneto, Ortodonico, Vidiuno, Fiebano, Chiusura, S. Prospero, Tomba, Zello, Filuno,
Ghiandolino, Bergullo, Zelonzega, Goggianello), in sei ville (Pediano, Monte Meldola, Linaro,
Mezzo Colle, Monte Catone, Pieve S. Andrea) e in cinque castelli (Casola Valsenio, Riolo, Bagnara,
Mordano, Bubano); i diciannove comuni formavano complessivamente il distretto ossia la zona
più strettamente controllata dalla città42. […]
Borghi, comuni, ville, castelli, avevano un diverso grado di subordinazione alla città rendendo
assai vario il regime amministrativo del territorio imolese nei secoli XVI e XVII.
Comuni e borghi erano la parte più direttamente controllata dalla città; le ville erano invece
particolarmente autonome, soprattutto dal punto di vista finanziario (tanto che il nuovo catasto
del 1637 non le comprese nella superficie censita); come i castelli, esse avevano poi la prerogativa
di governarsi da sé in materia annonaria, senza essere costrette a portare alla città il raccolto;
tuttavia le note di questi raccolti rientravano in genere nelle registrazioni annuali effettuate dalla
Comunità.
Le sei ville del contado imolese eleggevano annualmente un unico massaro mentre i comuni
ne eleggevano uno ciascuno; la principale funzione del massaro era la riscossione delle imposte
camerali e comunitative per la sola parte colonica (relativa cioè ai contadini non proprietari)
mentre la parte dominicale (relativa cioè alla proprietà) restava di competenza del depositario
generale imolese.
I castelli principali - Casola Valsenio, Riolo e Mordano - erano luoghi distrettuali, soggetti alla
S. BOMBARDINI, Archivio, p. 109.
C. ALBONETTI, Finanza, p. 46.
42
C. ALBONETTI, Finanza, p. 49.
40
41
36
giurisdizione della città ed avevano giusdicenti eletti ogni anno dal Consiglio generale di Imola
i quali governavano come vicari (Mordano), come commissari (Casola) o come capitani giudici
(Riolo). Le loro competenze consistevano nell’amministrazione della giustizia (collaborando col
podestà e con il governatore di Imola) ma riguardavano anche la gestione economica e politica.
I castelli del contado imolese tentarono spesso di liberarsi dal controllo che la città esercitava
attraverso il proprio giusdicente, ma invano; essi erano “soggetti et uniti” alla Comunità “con
unione accessoria, formando assieme un sol corpo mediante una società e reciproca comunione
civile, con vivere sotto li medesimi statuti, senza distinzione di territorio legale, in modo che (...)
assumono la natura, privilegii, consuetudini e qualità della città43” .
3.1 La giurisdizione dei castelli del contado.
«Esistevano, nel XVI secolo, appositi accordi tra i castelli e la Comunità di Imola in base ai
quali venivano regolate varie materie: l’elezione del castellano, la riscossione delle imposte, il
commercio e altre questioni.
I castelli, come le altre zone del contado, dovevano versare alla città la quota di imposte camerali
che la Comunità ripartiva su di essi, tuttavia amministravano liberamente le loro entrate ed erano
autonomi nella redazione dei bilanci.
Gli abitanti di ciascun castello eleggevano il proprio consiglio, i propri ufficiali e disponevano
di proprie milizie di soldati contadini; in particolare i castelli di Riolo e Mordano avevano i propri
statuti e ricorrevano a quelli di Imola solo in rari casi.
Dal 1680 i castelli mandarono le loro tabelle (bilanci preventivi) direttamente a Roma; la comunità
imolese pretese tuttavia di correggere, approvare e sottoscrivere queste tabelle44.
Il castello di Bagnara, pur appartenendo al contado imolese, era da secoli contea del Vescovo
della città; tuttavia, dal 1562, un consigliere imolese vi fu inviato in veste di commissario per
amministrare in materia civile e criminale. I proprietari imolesi potevano estrarre frumento ed
altri prodotti dai loro possedimenti situati nel territorio del castello chiedendone semplicemente
licenza al Vescovo; in cambio, gli abitanti di Bagnara potevano utilizzare i mulini imolesi, estrarre grani in caso di eccesso rispetto al fabbisogno locale e rifornirsi liberamente alle salare
cittadine. Il Vescovo, da parte sua, si impegnò a non concedere mai il castello in feudo o enfiteusi.
Nonostante questi accordi nel Settecento il Vescovo aveva completamente esautorato il
commissario imolese, che non poteva più ingerirsi in alcuna cosa45.
Bagnara era senza dubbio il castello maggiormente svincolato dal controllo della città proprio
in quanto era retto dal Vescovo; ciò è testimoniato dal fatto che nella nota delle bocche del 1586
e nel Discorso reale sopra l’Abbondanza del 1600 sono citati solo gli altri quattro castelli.
Soffermandosi principalmente sulla questione fiscale e sui gruppi sociali dominanti a Mordano,
Bellettini46 osserva che questo castello pagava a quote mensili i tributi statali al Depositario
imolese, il quale, ogni anno, trasmetteva a Mordano il cosiddetto foglietto riportante l’indicazione
della quota dei tributi statali imolesi che la città addossava sul castello. La contabilità pubblica
di Mordano era organizzata in un sistema di casse molteplici. Le principali casse erano: la Cassa Comunitativa o Generale, la Cassa Fiume o Acque, relativa alle spese per l’argine del Santerno
e la regolazione degli scoli, la Cassa dell’Annona, cioè dell’Abbondanza frumentaria.
C. CASANOVA, Città, p. 30.
C. CASANOVA, Comunità, p. 180.
45
C. CASANOVA, Città, p. 31.
46
P. BELLETTINI, Mordano, p. 93.
43
44
37
Relativamente agli aspetti sociali Bellettini rileva che la classe dirigente locale non era costituita,
come ad Imola, da nobili, ma era invece formata da una borghesia rurale saldamente ancorata
alla terra e all’amministrazione del castello. Il mantenimento del monopolio amministrativo era
fondamentale per la sopravvivenza di questa classe dirigente che, dunque, difese in ogni modo
la propria autonomia amministrativa dall’ingerenza della comunità imolese.
3.2 Il Castello di Casola.
Castrum Casule faceva parte del contado di Imola fin dal 1126.
All’inizio del XIII secolo cadde però soggetto al Comune di Faenza, ma su istigazione degli
imolesi, nel 1215 si ribellò e l’anno seguente i faentini l’espugnarono distruggendolo per sempre.
«Prima del 1216 Casola era composta da due distinti castelli, che formavano due distinte
parrocchie dette di S. Michele di Monte Fortino una, di S. Maria Assunta l’altra, ambedue
situati nel Monte, uniti ad un Sobborgo situato nel piano presso al Senio, che è l’attuale
Casola47. Distrutti questi […] gli abitanti parte andarono ad abitare nei circonvicini castelli,
e parte si restrinsero nel Sobborgo, eriggendovi da’ fondamenti la Chiesa di S. Lucia ed
ingrandendo i fabbricati per renderli decenti al loro soggiorno».
«Una carta del 1292 rivela però che congregati homines terre Casule de Casulensibus giurarono
fedeltà al Comune di Imola e l’atto era datato in Castro Casule; ciò indicherebbe che il castello
esisteva ancora48. Ma è più probabile fosse così nominato per motivi di prestigio dacchè il borgo
non disponeva di fortificazioni. […]
Nel 1371 Casola viene nominata unita a Ceruno: contavano insieme quarantadue fumanti. Le
famiglie potevano essere però più di quarantadue, perché fumanti venivano considerate soltanto
quelle che erano in condizioni tali da poter pagare le tasse».
«Nella Valle del Senio la supremazia imolese tardò più che altrove ad essere riconosciuta49. Questa
valle era infatti dominata dalla potente famiglia Ceroni, insediata a Casola; solo nel 1563 questa
famiglia fu definitivamente sottomessa50.
Nel 1566 furono stipulati i capitoli tra Imola e il castello di Casola i quali stabilivano che il
governo della valle fosse affidato a un consigliere imolese, col titolo di capitano; nello stesso
anno anche Riolo accettò la definitiva sottomissione a Imola.
I rapporti tra Casola e la comunità di Imola si rivelarono ben presto problematici in quanto gli
abitanti del castello non intendevano sottostare all’autorità del governatore imolese; questi
contrasti sono ben evidenziati da una “Istruzione data (dal Magistrato) al Segretario e Consigliere
Francesco Bandino”, datata 30 luglio 1603. Il Bandino doveva recarsi a Faenza, in visita al legato,
allo scopo di illustrargli la situazione in cui versava la Comunità imolese; il primo problema
affrontato dalla istruzione era quello riguardante il castello di Casola: “...Informerete come si è
presentito dal signor Domenico Annibali, nostro cittadino che ora si trova offitiale a Casola di
Valli di Senio, che tre o quattro di quegli heroi vadino instigando et sollevando gli altri a querelarsi
dalla Città et dal Signor governatore per no’ essere sottoposti a questo governo et giurisdizione
per ottenere un giudice appartato, et così di smembrarsi affatto dalla Città, come pure tentarono
di fare un’altra volta, si ben poi ne furono pentiti in breve, et ritornarono come prima. Et informerete
Sua Signoria Illustrissima della qualità di quegli huomini et del fine, perché si muovono, quale
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 7-8.
M. ZAULI, Note, p. 13.
49
C. ALBONETTI, Finanza, p. 51.
50
Oggetto del presente studio, come si è detto, è proprio la famiglia Ceroni, che detenne de facto il potere a Casola Valsenio
e zone limitrofe nei secoli XV e XVI.
47
48
38
non è se non per poter tiranneggiare a loro modo, havendo un giudice di poca portata, che gli
governi a volontà loro, essendo massime gli istigatori huomini sospettissimi per tutti i rispetti et
de’ parentado de’ Ceroni...51”.
Nel 1618 il castello di Casola tentò di rendersi nuovamente indipendente, sottraendosi alla
giurisdizione di Imola, ma tre anni dopo il governo centrale riconfermò la sua dipendenza “nel
criminale, dal governatore d’Imola e restando a Casola solo la giurisdizione civile ed economica52”.
Nel Seicento, tuttavia, Casola ottenne, dopo una lunga serie di ricorsi in giudizio, che gli oneri
del castello fossero assegnati separatamente da quelli imolesi.
Nel corso del XVII e XVIII secolo i tentativi di affrancamento dei castelli dalla giurisdizione
imolese ebbero scarso successo. Nel 1709 la Congregazione del Buon Governo riaffermò, per
l’ennesima volta, la supremazia di Imola sui castelli del suo contado; in seguito questi accettarono
la subordinazione alla città fino al 1766, anno in cui ebbe inizio un lungo contenzioso che si
concluse solo nel 1772 con la riconferma della supremazia imolese.
4. La debolezza del potere pontificio. Gli scontri tra fazioni.
«Le difficoltà e i ritardi attraverso i quali si venne definendo un rapporto istituzionalizzato fra
le comunità e il rappresentante pontificio, che avrebbe dovuto esercitare poteri di controllo e
di intervento su tutta la provincia, derivarono dalle stesse circostanze che avevano portato al
recupero dei territori romagnoli53. Le iniziative di legati e presidenti nei primi decenni del
Cinquecento furono dettate, cioè, piuttosto che dalla volontà di attuare un piano di coordinamento
politico e amministrativo, dalla necessità di far fronte a situazioni particolarmente critiche,
lasciando ai governatori il controllo delle amministrazioni locali.
Fu lo stato di permanente conflittualità provocato dallo scontro delle fazioni, e da diverse
manifestazioni di squilibrio sociale, esplose alla fine del secolo nel banditismo organizzato, che
costrinse i rettori della Romagna a far pesare, o a tentare di far pesare, tutta l’autorità loro conferita,
anche in opposizione, spesso, a privilegi e a diritti che comunità e gruppi sociali si erano fatti
riconoscere e che poi continuarono contraddittoriamente ad ottenere.
Era, appunto, questo contrasto a determinare la “debolezza” di legati e presidenti, obbligati ad
operare, almeno fino alla metà del Cinquecento, appoggiandosi alle famiglie di volta in volta
dominanti, subendo l’esito delle lotte di parte ed adattandosi ai cambiamenti intervenuti ai vertici
politici delle comunità».
Il potere pontificio dovette, in gran parte ed in molti casi, confermare le prerogative dei governi
delle comunità, accettandone le autonomie ed i privilegi particolari garantiti dagli statuti e spesso
tollerando la supremazia di una parte e le rappresaglie, le confische e i bandi da questa inflitti
alle famiglie antagoniste, con l’ovvia conseguenza di alimentare la conflittualità.
4.1 L’affermazione del potere dei clan familiari: fenomeno tipico del Medioevo
italiano.
Nel corso del Medioevo si afferma, soprattutto nell’Italia del nord e del centro54, la consuetudine
dei possessori di feudi o, più generalmente, dei nobili, di raggrupparsi in grandi famiglie, che
Archivio Storico Comunale di Imola [d’ora in poi A.S.C.I.], Campioni Comunali, T. XXX, c. 87, citato da C. ALBONETTI,
Finanza, p. 49.
52
C. CASANOVA, Città, p. 31.
53
C. CASANOVA, Comunità, p. 54.
54
J. HEERS, Il clan, p. 58.
51
39
superavano largamente le dimensioni della famiglia coniugale, nel senso attuale del termine.
Tra le informazioni a supporto di questa tesi vanno considerati, nel vocabolario degli autori
dell’epoca, l’impiego corrente del termine lignaggio e, un po’ meno frequente, del termine
parentela, le numerose testimonianze della coesione e della solidarietà in combattimento del
lignaggio e, non ultime, certe forme della vita quotidiana e dell’arte militare.
Ciò che pare avere più importanza è l’ascendenza, l’appartenenza ad un vasto clan i cui antenati
sono ben conosciuti e onorati. La preoccupazione principale di nobili e feudatari consiste, perciò,
nello stabilire la lista dei propri antenati55.
Laddove si affermano potenti gruppi familiari, molto compatti, che riuniscono numerose persone
che portano lo stesso nome e si richiamano allo stesso antenato, la solidarietà del clan basta a
mantenere i meno favoriti nell’ambito della nobiltà o in una sorta di nobiltà minore. In questo caso
la composizione sociale del clan appare indubbiamente molto varia. All’interno dello stesso lignaggio,
soltanto alcuni uomini dispongono di vasti domini, della potenza militare e del diritto di comando;
gli altri, anche rivendicando sempre la loro qualità di “nobili”, il sangue e l’antenato comuni, si
trovano ridotti ad una condizione molto inferiore, dal punto di vista politico ed economico56. Questa
coesione, economica e mentale, non può evidentemente mantenere uguali le condizioni delle
persone. Si forma così una clientela di nobili poveri, cugini che abitano al castello e servono come
funzionari o domestici, nobili non accasati, avventurieri, crociati e figlie rimaste senza dote. Talvolta
il lignaggio sopporta male questa clientela, sorta di proletariato a carico, più o meno inquieto e
pericoloso; si appoggia però ad esso nei momenti difficili, ne fa uno strumento di potenza.
In altri casi, i clan più influenti provocano legami soprafamiliari e radunano una vasta clientela,
più artificiale, composta da numerosi alleati ed amici57. Alleanze, queste, sovente effimere che,
certamente per mancanza di testi interni, sfuggono quasi sempre allo storico58.
Questi clan, numerosi e complessi, si sono evoluti nel tempo. La loro struttura e composizione
interna ci sembrano spesso molto variabili e molto differenti secondo le città, gli ambienti sociali
e le epoche. Tutti però insistono sull’idea di famiglia sia che, realmente, i membri appartengano
ad una sola stirpe, sia che desiderino agire nello stesso modo. In tutti i casi essi lo affermano59.
Nati nella maggior parte dei casi da rapporti di vicinato, da alleanze accidentali, risultato di
una lenta maturazione, questi gruppi sociali molto diversi sfuggono ad ogni definizione giuridica
e istituzionale. Essi si organizzano piuttosto in funzione di accordi taciti difficili a cogliersi o
a ricostituire; i loro legami non si disegnano dunque facilmente60.
A Genova la struttura sociale in potenti clan familiari non si incontra esclusivamente presso i
nobili61. I più potenti del popolo, infatti, imitano il tenore di vita e le strutture dei nobili.
Ciò non implica d’altra parte, in nessun caso, l’acquisto forzato di terre o di signorie, ma solamente
la fusione di più famiglie primarie, di nomi differenti, in gruppi molto potenti in cui tutti portano
lo stesso nome. Anche a Pisa, E. Cristiani62 nota come le consorterie, molto forti presso i magnati,
si incontravano molto spesso pure presso il popolo.
L’esistenza di vasti gruppi soprafamiliari, in numerose città d’Occidente, non è quindi in dubbio.
J. HEERS, Il clan, p. 33.
J. HEERS, Il clan, p. 40.
57
Si vedrà che anche la Consorteria ceronese è il risultato di un percorso storico simile a quello qui descritto.
58
J. HEERS, Il clan, p. 56.
59
J. HEERS, Il clan, p. 81.
60
J. HEERS, Il clan, p. 117.
61
J. HEERS, Il clan, p. 123.
62
Citato da J. HEERS, Il clan, p. 123.
55
56
40
Questi clan riuniscono, sotto un nome comune, parecchie famiglie che all’origine non portavano
lo stesso patronimico, non potevano quindi richiamarsi allo stesso antenato ed appartenevano
senza dubbio ad ambienti differenti63.
Tali gruppi familiari, senza alcun dubbio, dominavano in modo ufficiale o con un’azione più
occulta, tutta la vita della città.
Essi sono spesso il quadro essenziale dell’azione politica. Di qui importanti rimaneggiamenti;
di qui le fortune di nuove alleanze; di qui anche gli insuccessi, le divisioni e i conflitti interni.
Lo schema di queste alleanze cambia costantemente e, in linea generale, il gruppo è sollecitato
da due forze contraddittorie.
Da una parte, sembra certo che l’appartenenza ad un gruppo potente appare la condizione
necessaria della fortuna ed anche della sopravvivenza di queste grandi famiglie. Ciò spiega una
tendenza naturale, soprattutto in epoca alquanto tarda, alla concentrazione in consorterie sempre
più potenti. Ma, d’altra parte, il desiderio in alcuni gruppi di sempre maggior peso cozza contro
l’usura stessa del clan, contro i suoi conflitti interni e soprattutto contro l’azione del Comune64.
Le consorterie devono le loro diverse fortune e la loro solidarietà più o meno forte a parecchi
fattori molto complessi.
In primo luogo essi proclamano nettamente di provenire da una sola stirpe. Gli uomini si sentono
uniti dai legami del sangue e dall’orgoglio di appartenere ad una stirpe illustre. Questa unione
del sangue contraddistingue tutte le cerimonie che legavano, nel mondo feudale dell’Occidente,
i compagni d’arme65.
Il nome è certamente il simbolo del clan66. Il nome comune si impone anche, molto spesso, per
gruppi formati da più famiglie o lignaggi diversi.
In questo caso il primo e principale obbligo dei nuovi ammessi è di portare lo stesso nome degli altri.
Altri segni trionfanti dell’alleanza mantenuta o forgiata da poco sono l’arme e il blasone67. Il
fregiarsi dello stesso blasone o della stessa arme, dello stesso colore, di un segno distintivo
conosciuto, sembra sempre, nella mentalità dei nobili, l’affermazione di una fedeltà, di una
alleanza forte come quella del sangue. Anche in tempo di pace e da un paese all’altro, il blasone
è un segno di unione tra i differenti rami dello stesso clan.
Quest’orgoglio dello stemma, il desiderio di segnare col blasone, in modo spesso ostentato,
l’appartenenza alla stirpe nobile si affermano nettamente sulle rappresentazioni figurate delle
case e soprattutto precisamente su quelle delle navi.
Dovunque in Italia lo stemma indica l’orgoglio della stirpe, la sua potenza e la sua indipendenza
anche di fronte allo Stato, all’ascesa politica del Comune.
Ultimo simbolo infine dell’unione dei clan familiari, oltre al nome e lo stemma: la casa68.
Il palazzo di città, spesso fortificato, circondato dagli altri palazzi degli alleati o dalle case abitate
dai clienti, conserva il prestigio del castello feudale fieramente drizzato nella sua rocca.
Nelle campagne è la rocca o il castello del signore il simbolo dell’unità della consorteria. Attorno
ad esso, sui terreni appartenenti alla consorteria, sorgono le case coloniche. Il numero dei vani,
la loro dimensione e quindi l’ampiezza complessiva della casa risultano proporzionati alla
J. HEERS, Il clan, p. 124.
J. HEERS, Il clan, p. 126.
65
J. HEERS, Il clan, p. 135.
66
J. HEERS, Il clan, p. 137.
67
J. HEERS, Il clan, pp. 138-142.
68
J. HEERS, Il clan, pp. 142-143.
69
T. CONTI - G. SANGIORGI, La casa, p. 70.
63
64
41
potenzialità produttiva dei terreni ed, in una certa misura, all’ampiezza dell’unità poderale69.
Ciò in conseguenza del sistema economico sociale prevalente, fondato, come già detto, sulla
mezzadria, cioè sulla divisione a metà del prodotto tra il proprietario del podere e la famiglia
colonica. Tra il proprietario, definito comunemente “e padron” in Romagna, ed il contadino, si
instaurava un vero e proprio rapporto di sudditanza. Il contadino e la sua famiglia dovevano
rispetto e obbedienza al padrone che metteva “e sit”, cioè i terreni e la casa colonica, metà della
spesa di acquisto del bestiame, metà delle sementi e delle tasse. Egli aveva il diritto di decidere
in modo insindacabile sulla conduzione del fondo, nonché sull’idoneità della famiglia alle esigenze
del podere. Il sistema mezzadrile prevedeva, infatti, una stretta correlazione tra dimensione della
casa, ampiezza dei terreni e composizione della famiglia. Poiché i primi due elementi erano
definiti e poco flessibili, il padrone poteva intervenire, per far ritornare la combinazione, con
l’escomio, cioè con l’espulsione della famiglia colonica non più in grado di lavorare adeguatamente
i terreni o di vivere con ciò che produce il fondo, per immetterne un’altra con le giuste
caratteristiche. Va da sé quanto peso potesse avere questa possibilità sull’obbedienza della
famiglia contadina al padrone.
In Italia, un po’ ovunque, la casa o il castello indicano, quindi, la potenza della consorteria e,
in caso di tradimento, di condanna o di esilio, i nemici vincitori o il Comune se la prendono
con gli immobili come con le persone. La casa confiscata, ma molto più spesso smantellata o
rasa al suolo o bruciata, segna in maniera spettacolare e simbolica la disfatta del traditore, del
colpevole, del nemico70. Non è una semplice precauzione di carattere militare, bensì anche una
sorta di operazione magica che colpisce gli animi.
Il valore simbolico che si attribuisce così alla casa spiega senza dubbio il desiderio di conservare
sempre in famiglia il palazzo degli avi, anche in un’epoca in cui la frammentazione del clan o
la sua troppo grande espansione conducono alla dispersione delle eredità. La casa, che afferma
il prestigio del nome, deve restare proprietà dei discendenti e, nella misura del possibile, proprietà
indivisa71».
4.2 La concordia interna al clan come base per la conservazione del potere.
Alla base della potenza dei gruppi familiari, siano essi nobiliari o meno, sta la coesione e l’unione
del gruppo stesso. Come si vedrà anche nel seguito in maniera specifica per la Consorteria qui
oggetto di studio, la disgregazione di questi gruppi consortili è dovuta, nella maggior parte dei
casi, non tanto ad attacchi esterni quanto ai dissidi tra appartenenti al medesimo clan, che presto
o tardi sono causa di guerre feroci e fatali per l’intera fazione.
«Il mantenimento o il rafforzamento dei clan familiari, dunque, assicuravano innanzi tutto la
pace interna ed una stretta alleanza contro i vicini, i rivali, i nemici72. Il primo dovere dei membri
del clan era di mettere fine molto rapidamente alle loro contese o di sottometterle ad un arbitrato
interno, particolare al gruppo».
Vigevano poi, all’interno del clan, gli stessi divieti di portare le armi gli uni contro gli altri, di
ingiuriarsi o di ferirsi, perfino di sparlare, che prendono in considerazione tutti i giuramenti o
regolamenti di confraternite, gilde o hanse.
Tutte queste società di difesa o aiuto reciproco sono anzitutto società di pace interna. Nei clan
Si vedrà in seguito che nel 1563, quando Francesco Guicciardini, per ordine del pontefice, mosse contro i Ceroni, oltre
cento case di appartenenti alla consorteria furono bruciate e rase al suolo, causando un danno stimato in ottantamila monete d’oro.
71
J. HEERS, Il clan, p. 144.
72
J. HEERS, Il clan, p. 145.
70
42
familiari, poi, l’idea di un’ascendenza comune e l’orrore di versare sangue comune ne rendono
l’obbligo ancora più imperioso73.
«Il mantenimento della pace interna compete al clan stesso che rifiuta ogni intervento dello Stato
e, più particolarmente, nelle città italiane, del Comune74. Una lunga tradizione vuole che gli
affari familiari siano trattati dai membri del gruppo. Dal punto di vista giudiziario e politico,
l’appartenenza al clan esclude ogni altra partecipazione, ogni altra appartenenza ad un qualunque
gruppo organizzato e soprattutto ad un gruppo legato da giuramento. […]
Per molto tempo, nelle città d’Italia e perfino in Toscana, più urbanizzata e, sembra, politicizzata
prima delle altre regioni, il Comune non può imporre la sua autorità, né la sua polizia, né i suoi
tribunali contro questi potenti gruppi sociali. […]
A Firenze dove, pure nel secolo XIV, la signoria esercita la legge con rigore e dove i nobili hanno
dovuto ammettere l’autorità del Comune, resta inteso che certe offese, leggere, non erano
perseguibili se commesse all’interno delle famiglie e al contrario condannate se si trattava di
persone estranee».
4.2.1 Guerra privata e vendetta.
La solidarietà, di cui si parlava nei precedenti paragrafi, si esercita soprattutto in occasione delle
guerre private che costantemente turbano la pace delle città. Le lotte delle grandi famiglie nobili
alimentano, nelle grandi città d’Occidente che sfuggono alla dura tutela di uno stato principesco,
contese interne e, molto spesso, interminabili violenze, oltre che conflitti armati veri e propri.
« Questi conflitti potevano nascere da contestazioni d’ogni genere: semplici dispute di vicini
a proposito di diritti e di proprietà, come oltraggi all’onore, per esempio in occasione di rotture
di promessa di matrimonio75. […]
Le lotte più accanite nascono evidentemente dal desiderio di vendicare i morti o i feriti. Le morti
violente chiedono sempre riparazione. Per incidenti fortuiti, involontari, esse istigano talvolta
due famiglie una contro l’altra attraverso lunghi anni. […]
La vendetta segna veramente tutta la vita medievale, più particolarmente nelle città, e questo
fino al secolo XV almeno. […]
Vendicare il morto è certo un atto di deferenza e di rispetto verso la sua memoria; altrimenti
questa resta insozzata e tutta la stirpe con lei.
È dunque un dovere imperioso per i suoi discendenti e i suoi amici.[…]
Il più delle volte, la famiglia offesa cerca di applicare la legge del taglione, di restituire lo stesso
oltraggio, in maniera molto precisa (stessa ferita, mutilazione dello stesso arto, nello stesso luogo,
alla stessa ora del giorno). Si tratta certo di cancellare completamente l’oltraggio. Tuttavia, la
vendetta supera talvolta, di molto, l’offesa: i parenti uccidono per cancellare una semplice ferita.
Questa vendetta può anche esercitarsi in strani modi; tutte le occasioni sembrano propizie,
soprattutto quelle che presentano il minimo rischio e permettono di conservare l’anonimato. Nulla
che ricordi qui un codice dell’onore qualunque. Talora il vendicatore attende lunghi anni per
meglio preparare la sorpresa e cogliere più disarmato l’avversario; un Mamelli, a Firenze, è ucciso
dai Velluti ventotto anni dopo il suo delitto. […]
Altre volte i «giustizieri» affidavano il compito ad un mercenario stipendiato. […]
La vendetta provoca inevitabilmente la guerra privata, perché la solidarietà dei clan familiari
J. HEERS, Il clan, pp. 145-146.
J. HEERS, Il clan, pp. 147-148.
75
J. HEERS, Il clan, pp. 149-152.
73
74
43
gioca allora in pieno, da una parte e dall’altra.
Se la vendetta appartiene piuttosto all’offeso stesso, quando è solo ferito, o ai suoi eredi, la
solidarietà del clan si esercita obbligatoriamente per proteggere l’offensore che può contare allora
sull’aiuto di tutti i membri del consortio. […]
D’altra parte, la vendetta può essere esercitata non sul colpevole, ma su un altro membro della
sua famiglia. Di qui un’estensione delle contese che coinvolge sempre più amici e alleati.
Le risposte, inevitabili, rendono eterni questi conflitti e finiscono, con l’aiuto del gioco delle
alleanze, col dividere la città in due blocchi schierati l’uno contro l’altro. Questa solidarietà
del lignaggio non fa mai difetto. Essa impegna in maniera attiva e drammatica numerosi membri
del clan. In effetti sembra che essa si eserciti più duramente e a lungo nelle città che si
amministrano da sole e sfuggono di più alla giustizia di un principe. L’unione del gruppo
conduce necessariamente alla responsabilità collettiva dinanzi alle sanzioni e alle rappresaglie.
[…]
Lo Stato tenta (evidentemente) di infrangere la solidarietà del clan e di proibire ai parenti o alleati
di portare aiuto ed anche di offrire rifugio al colpevole fuggitivo, anche se solitamente senza
successo.».
4.2.2 Contese private e rivolte urbane. Le paci e le tregue.
L’importanza dei conflitti privati che, dietro i capi, impegnano clientele numerose, parenti e alleati
di ogni genere, di ogni condizione e fortuna, può, in larga misura, spiegare l’origine se non
l’estensione e la persistenza delle grandi rivolte urbane durante tutto il Medio Evo76.
«Per lungo tempo incapaci di proibire questi conflitti, malgrado severe prese di posizione e
talvolta delle ordinanze contrarie, le città tentano semplicemente di stabilire delle paci tra le
parti avversarie77. […]
Il consenso di tutti i parenti ed amici dà il suo vero senso alla tregua. Di fatto, molto più spesso,
almeno in Italia, le paci tra due lignaggi si stabiliscono dopo molte trattative e mercanteggiamenti,
con un contratto preciso, in forma buona e dovuta, stilato innanzi a un notaio. La faccenda prende
allora l’andamento del regolamento di un contenzioso commerciale78».
Queste paci, che proclamano ad alta voce il perdono delle offese, si traducono in effetti, in molti
casi, in un’operazione finanziaria assai importante79. Le transazioni vertono soprattutto
sull’ammontare della riparazione reclamata dal clan della vittima e la vendetta si può saldare
con un buon affare quando questo clan sembra sufficientemente numeroso e potente.
Donde, anche in questo caso, l’interesse di mantenere molto stretta la solidarietà del lignaggio
e di estenderla a numerosi alleati o dipendenti.
Questa solidarietà si manifesta nell’altro campo per raccogliere il denaro dell’accordo.
Queste considerazioni finanziarie certamente non sono estranee alla ricerca della pace. Spesso
le consorterie trovano nelle riconciliazioni l’occasione di nuove alleanze, grazie ai matrimoni
che suggellano l’impegno reciproco e apportano a ciascuno vantaggi evidenti.
«I matrimoni permettevano così di rafforzare o riannodare i legami tra due rami sorti dallo stesso
J. HEERS, Il clan, p. 155.
J. HEERS, Il clan, p. 165.
78
Numerose, lo vedremo, sono anche le tregue stipulate dai Ceroni con altre potenti famiglie. Si tenga presente però che su
questo dato influisce significativamente il fatto che facilmente le paci fossero violate, come già si diceva nel paragrafo precedente.
79
J. HEERS, Il clan, p. 166.
80
J. HEERS, Il clan, p. 167.
76
77
44
ceppo, ma divenuti estranei, se non nemici80».
Questa permanenza della guerra privata e della vendetta testimoniano così l’esistenza del gruppo
familiare, quale che sia il suo nome, e la sua coesione, quali che siano le istituzioni politiche
della città.
4.2.3 Potenza militare delle consorterie.
I gruppi familiari che, in modo più o meno lontano e talvolta artificiale, si richiamano ad una
stessa ascendenza, devono la loro coesione anche ad una stretta vita sociale, comunitaria in alcuni
dei suoi aspetti81. I legami creati, quotidianamente o nei momenti più drammatici, dal vicinato,
fanno la forza del gruppo sociale nelle campagne come nelle città.
«Questi lignaggi, nobili soprattutto, saldamente insediati nel cuore della città medievale,
dispongono sempre di una forte potenza militare e, minacciando i loro nemici o vicini, pesano
gravemente sui destini della città. Questa pericolosa situazione non è solo fonte di disordini e
di continue guerre civili: essa impedisce anche la stessa esistenza dello Stato82. […]
In Italia, gli eserciti di vassalli rurali, di dipendenti di ogni sorta, costituivano certamente la
forza principale delle famiglie nobili, nei primi tempi dell’età comunale. […]
I cronisti, in seguito, avvertono ancora questa minaccia e parlano degli eserciti di montanari
che questo o quel clan poteva formare nei suoi feudi dell’Appennino.
Senza dubbio le famiglie più turbolente vivevano fuori dalla città, non vi erano introdotte e si
tenevano lontane, nei loro castelli ostili».
Il reclutamento di mercenari conduce spesso il Comune a ricorrere ai servigi di clan bellicosi
installati nella montagna, che, legati ancora ad uno stile di vita feudale, sopravvivono facilmente,
fuori dell’influenza politica urbana83.
Il Comune di Firenze trova i suoi mercenari nei paesi di montagna nel sud della Toscana,
nell’Appennino , ai confini con la Romagna e le Marche, in tutti quei centri ancora molto
feudalizzati.
La route o la condotta di mercenari pagati dai comuni d’Italia non è, molto spesso, altro che
una truppa d’origine feudale che, riunendo intorno al capo parenti, vassalli e alleati, testimonia
ancora la potenza militare di questi clan familiari saldamente insediati nelle campagne84.
J. HEERS, Il clan, p. 175.
J. HEERS, Il clan, pp. 227-228.
83
I Ceroni, descritti solitamente nelle cronache come valorosi e abili nelle armi (come si preciserà meglio nei prossimi capitoli) vengono in almeno due occasioni chiamati in aiuto da paesi limitrofi, in particolare dal rettore di Romagna, re Roberto
di Napoli, nel 1311 e dai faentini nel 1488, in seguito all’omicidio di Galeotto Manfredi.
84
J. HEERS, Il clan, pp. 227-228.
81
82
45
Capitolo 3
1. Guelfi e ghibellini in Romagna.
Le fazioni guelfa e ghibellina ebbero origine in Germania. Qui, dopo il Concordato di Worms
del 1122, nell’ambito delle rivalità tra le famiglie feudali tedesche che si contendevano l’impero
elettivo e che si atteggiavano a favore o contro l’ingerenza del pontefice romano nelle vicende
politiche del loro paese, agli Hohenstaufen, duchi di Svevia e signori di Waiblingen, si
contrapposero i duchi di Baviera, discesi da Welf (Guelfo). Questi ultimi erano legati all’imperatore
Lotario II di Supplimburgo, che godeva del sostegno della Chiesa di Roma e dell’episcopato
tedesco, anche dalle nozze di Enrico il Superbo, duca di Baviera, con Giuditta, figlia
dell’imperatore stesso.
Nel 1138 il trionfo degli Svevi venne sancito dall’elezione a imperatore di Corrado III, al quale,
nel 1152, succedette il nipote Federico I Barbarossa.
Durante l’impero di quest’ultimo i termini del conflitto si andarono precisando in riferimento
al rapporto tra papato e impero, le due supreme autorità del tempo, rivendicanti ciascuna
superiorità sull’altra e universalità.
In Italia i Comuni, intenti a difendere le autonomie concesse loro da Enrico V, si orientarono
per la maggior parte a favore del papato, contrastando i tentativi di Federico di restaurare l’autorità
imperiale nella penisola.
Ben presto la contrapposizione tra guelfi e ghibellini nel nostro paese, non significò adesione
ai valori originariamente affermati dalle due parti, ma servì a mascherare conflitti di interesse
tra fazioni avverse, città nemiche, città e contado circostante.
A capo della fazione guelfa furono in Italia i papi e gli Angioini; i ghibellini, dopo le sconfitte
di Benevento e di Tagliacozzo, si volsero agli aragonesi, ad Alfonso di Castiglia, agli imperatori
Rodolfo e Alberto d’Asburgo, ad Enrico VII e ai loro successori.
Si schierarono da subito con la fazione guelfa Bologna, Firenze e Genova; con quella ghibellina
i Visconti di Milano, i Colonna e i Frangipane di Roma e la città di Pisa.
Fino al 1178, anno in cui aderì alla Lega Lombarda, Faenza si era dimostrata fedelissima a Federico
I Barbarossa. Conferma questo anche il fatto che l’imperatore visitò la città nel 1164, rimanendovi per
diverso tempo, ospite di Enrico e Guido Manfredi, cittadini notabili. Da tale passaggio trae origine anche
uno degli eventi faentini tuttora più conosciuti, la “Giostra del Barbarossa” o “Quintana del Niballo”.
47
Così viene descritto l’episodio1:
«Nel gennaio del 11652, l’imperatore Federico passò da Faenza e fu ospite nelle case di Enrico
e Guido Manfredi. Venuto a conoscenza del valore dei faentini sul campo di battaglia, il Barbarossa
volle che per lui giostrassero in un torneo. La gara ebbe luogo in un orto detto Broylo, posto
dietro le case dei Manfredi, nella attuale via Baroncini. Forse in ottemperanza alle disposizioni
ecclesiastiche che proibivano i tornei, i faentini giostrarono non tamen cum armis ferreis sed
ligneis.
L’imperatore e la consorte molto si dilettarono di questa giostra e l’avvenimento rimase a lungo
nella tradizione».
Si è visto nel capitolo precedente che nel 1216, nel corso di una contesa tra Imola e Faenza
per la supremazia sulla valle del Senio, i faentini distrussero il castello di Casola. Gli scampati
edificarono un borgo, un poco più in basso, tra il fiume ed il colle, al quale, inizialmente, diedero
il nome di Casola e, quindi, di Casola Valsenio. Il borgo si ingrandì, sviluppando le arti e la
mercatura, malgrado venisse coinvolto ripetutamente nella contesa tra guelfi e ghibellini e fosse
oggetto di innumerevoli scorrerie, non avendo la protezione delle mura.
Nel 1225 l’Italia era afflitta dalla pestilenza e divisa, come si è detto, tra papato e impero. Gli
imolesi appoggiavano l’imperatore, che nel 1219 aveva riconfermato quanto concesso nel 1212
da Ottone IV, cioè che niente del contado o del vescovato imolese fosse dato ai faentini e ai
bolognesi3.
I ceronesi con quelli del Senio erano legati a papa Gregorio, che fuggì da Roma per essersi dichiarato
il popolo romano contro di lui4.
Fino al 1239 tutti i comuni di Romagna, tranne Faenza, si dichiararono ghibellini5.
In detto anno Paolo Traversari, potente nobile ravennate, si dichiarò a favore dei guelfi e si unì
a Bologna per cacciare i fautori imperiali da Ravenna.
Nel 1240 l’imperatore marciò a nord di Ancona, riprese Ravenna e in seguito Faenza, che cadde
il 14 aprile 1241.
Per i sette anni successivi la Romagna rimase ghibellina. Solo grazie alla sconfitta imperiale a
Parma e all’avanzata del delegato papale Ottaviano degli Ubaldini ogni città e provincia della
Romagna venne sotto il controllo guelfo.
In questi anni la lotta tra guelfi e ghibellini in Romagna divenne vero e proprio conflitto di classe.
Nel 1257 il papa teneva in Romagna un suo delegato, chiamato solitamente “conte”. Questi aveva
pieni poteri ed era fornito di una certa scorta di armati con lo scopo di mantenere l’ordine e di riscuotere
le imposte6.
Fazioni di nobili, entro ciascuna città, lottavano per tenere o usurpare l’autorità del Comune.
I feudatari si fecero ben presto una loro clientela e maneggiarono le cose in modo da farsi eleggere
“podestà” o “capitani del popolo”7. Si circondarono di soldati, crearono alleanze, allargarono
i loro domini, fecero atto di sottomissione verso la Chiesa e i suoi vicari oppure si ribellarono
ad essi, secondo l’opportunità del momento. Essi avevano rapporti con Firenze e Bologna
TOLOSANO, Chronicon, cap. LV, R.I.S., t. XXVIII, in P. SOLAROLI, Niballo, p.20.
Primo Solaroli trascrive l’anno come riportato nel Chronicon, precisando però che è “ampiamente dimostrato che l’imperatore
passò da Faenza l’anno precedente”.
3
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 28.
4
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 31.
5
M. ZAULI, Cenni, pp. 6-7.
6
M. ZAULI, Cenni, p. 6.
7
M. ZAULI, Cenni, pp. 7-8.
1
2
48
indipendentemente da quelli con gli altri Comuni di Romagna.
La natura guelfa o ghibellina di ogni città, perciò, era vincolata e connessa con la fazione nobiliare
che dominava allora nel Comune.
Fu, ad ogni modo, raro nella nostra penisola che le famiglie nobili propendessero per una fazione
piuttosto che per l’altra per vere convinzioni. La scelta era determinata soprattutto da interessi
politici ed economici ben precisi.
1.1 Maghinardo Pagani a capo del partito ghibellino.
Nel 1263 la lotta tra guelfi e ghibellini in Romagna era in pieno svolgimento. Le famiglie più
potenti si mettevano a capo di uno dei partiti e chi vinceva metteva al bando gli avversari8.
Della lotta tra le fazioni approfittò Pietro Pagano, uomo nobile e potente9. Egli si rivolse, infatti,
contro Imola, dove Mario Tannio era capo dei guelfi. Uguzione Sassatelli, appartenente al partito
guelfo, allora, condusse le sue genti in detta città10 ma non riuscì ad arrestare Pietro, che si
impadronì di Imola, vi si stabilì e nominò il figlio Maghinardo capitano del popolo.
«Tra i signori e i condottieri romagnoli, Maghinardo Pagani da Susinana ha certamente occupato
un posto di tutto rispetto11. Passato ai posteri anche per quella citazione non proprio benevola
di Dante Alighieri nella Divina Commedia: “il leoncel dal nido bianco / che muta parte dalla
state al verno” (Inferno, XXVII, 50-51), Maghinardo ricoprì un ruolo centrale nelle vicende
politiche e militari della Romagna dell’ultimo quarto del XIII secolo e nessun luogo sarebbe
stato più adatto degli inferi danteschi per collocare il capo indiscusso (dopo la morte di Guido
da Montefeltro) della fazione ghibellina e signore di Forlì (1292), Imola (1292-1302), Faenza
(1282-1285 e 1291-1302) e di decine di castelli sparsi tra il Lamone ed il Santerno. Il leone
azzurro in campo argenteo, stemma gentilizio dei Pagani, aveva il suo punto di forza nell’alta
valle del Senio da cui, con il castello di Susinana (Palazzuolo), la famiglia controllava, sin dal
XI secolo, il passo appenninico sulla strada per Firenze.
Coi fiorentini, sebbene di parte politica avversa, Maghinardo spesso strinse alleanze, anche
familiari, visto che sposò nel 1282 la fiorentina Mengarda della Tosa. Assieme ai guelfi toscani,
partecipò coi propri colori e i propri armati all’epica battaglia di Campaldino dell’11 giugno
del 1289, che vide vittoriosa la fazione dei guelfi neri e costrinse Dante Alighieri, tra tanti altri,
all’esilio.
Maghinardo si guadagnò l’epiteto di voltagabbana, ovvero di colui “che muta parte dalla state
al verno”, tanto da apparire ghibellino in Romagna e guelfo in Toscana. All’apice della sua
potenza, Maghinardo, nel tentativo di consolidare i suoi domini su Faenza e Imola, decise di
attaccare Bologna spingendosi oltre il Sillaro. Era il 9 giugno del 1296 quando l’esercito romagnolo
iniziò la scorreria su Castel San Pietro e Medicina “bruciando le case in quelle parti, prendendo
pecore e buoi, uomini e frumento... sicché si disse (annotò un cronista dell’epoca) furono bruciate
più di 2.000 case nel contado di Bologna”. Coi bolognesi Maghinardo aveva già dovuto combattere
quando alcuni anni prima, nell’aprile del 1292, con un’ardita e abile mossa, aveva occupato
Imola beffando i bolognesi i quali, credendosi al sicuro al di qua del Santerno in piena, furono
sorpresi e costretti ad abbandonare la città».
M. ZAULI, Cenni, pp. 7-8.
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 31.
10
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 31-32.
11
Testi e ricerca iconografica a cura di FRANCO MERLINI per gentile concessione della Associazione Culturale “Giuseppe
Scarabelli”, in www.culturaperimola.org.
8
9
49
2. I Ceroni: le origini.
Nella maggior parte dei testi consultati si parla della famiglia Ceroni come potente clan in
Romagna all’incirca tra i secoli XIV e XVI.
Pur ammettendo che non è possibile datare l’origine o il declino di una famiglia in un determinato
luogo, trattandosi di un processo lungo e per certi versi tormentato, ricco di scontri con famiglie
o clan di opposta fazione o addirittura della stessa12, si accetti la periodizzazione temporale
indicata, tenendo presente che non iniziò ed ebbe fine in questi secoli una stirpe, ma piuttosto
il suo potere nella valle del Senio, con eccezioni che a suo tempo si evidenzieranno.
2.1 Un fundo qui dicitur Ceroni.
Il primo documento che colloca in Romagna la famiglia Ceroni è una cartula refutationis risalente
al 18 marzo 1214 nella quale i fratelli Oradino e Guido, «filii quondam Ramoni de Ainio et
d(o)m(in)e Ravenne», cedono a Guido «de Aquavia» i diritti su una pezza di terra sita in Mordano,
nel fondo «Ceroni»13.
Fondo Ceroni in una mappa catastale del 1797.
12
13
Celebri a questo proposito i dissidi originatisi all’interno della famiglia Manfredi tra Taddeo Manfredi e lo zio Astorgio.
N. MATTEINI - G. MAZZANTI - M. P. OPPIZZI - E. TULLI - A. PADOVANI, Chartularium, p. 249.
50
2.2 Ceroni di Romagna, Ceroni bergamaschi?
Le origini della stirpe dei Ceroni in Romagna, secondo un recente studio ancora inedito di Renato
Ceroni, vice presidente vicario della Consorteria odierna, sono da ricondursi a quelle del ceppo
dei Ceroni della Val Serina, che ebbe origine da due cavalieri di Carlo Magno intorno all’800.
Scrive lo studioso: «due nobili cavalieri allemanni i cui nomi furono secondo la tradizione Ceronius
e Carrerius, che a differenza di altri, dopo la conquista della Lombardia, da parte degli eserciti
del loro re, stanchi della dura vita del campo e delle armi, ottennero il “congedo”, sedotti dalla
bellezza della Valle dell’Alva, che era soltanto una valletta della grande Val Brembana Superiore,
decisero di rimanervi per abitarvi, di costruirvi le loro prime case e i loro castelli. Per l’importanza
dell’ origine della loro Casata, questi due personaggi chiesero ed ottennero, parrebbe molto
facilmente, l’assegnazione di una parte della Val Brembana Superiore, di quella parte […] detta
allora “Valle dell’Alva”, che gestirono sempre, anche quali valvassori.
Molti componenti della famiglia di uno dei due alemanni, Ceronius, che chiameremo da ora nel
loro complesso famiglia “Ceronia”, si sarebbero invece guadagnati il congedo dall’ esercito e
dal campo, andando a ricercare altri luoghi per abitarvi, chi verso la Romagna, chi invece nel
pavese, ma in generale preferendo sopratutto zone, luoghi, paesi, dove fosse abbondato il sale
per loro bisogni di quei tempi, e di sempre, certamente materia prima fra le più importanti14».
È datato 1634 il testo più importante a tutt’oggi in nostro possesso sulle origini e le gesta della
famiglia Ceroni. Composto da don Domenico Mita, questo manoscritto è stato recentemente
tradotto dal latino e pubblicato a cura dell’attuale arciprete di Casola Valsenio, monsignor
Giancarlo Menetti.
Egli, in una nota all’introduzione15, sottolinea:
«Il Mita, parlando dei Ceroni, parte dalla convinzione che si tratti di una sola famiglia originaria
di tutti i Ceroni; una delle più antiche dell’Emilia Romagna.
Delle famiglie Ceroni, in realtà, se ne riscontrano un po’ in tutt’Italia e in tutte le epoche. Un
Zaccaria Ceroni, segretario vescovile di Cesena è ricordato nel Regesta Pontificum Romanorum
del 1182; un monaco col nome di Keroldo Ceroni, oriundo di Tossignano, è vissuto verso l’anno
755 nel monastero di San Gallo in Svizzera e sembra un uomo di lettere, a lui vengono attribuite
traduzioni in tedesco e opere in prosa e in versi.
[…] Certamente (Ceroni) in loco è un toponimo originato da Ceruno, Zirone in antico, Cirrone
o Cerrone verosimilmente da “cerro”, grosso tipo di quercia».
Non sembra in discussione, quindi, che le origini della famiglia Ceroni siano antiche, anche
se, forse, non quanto vorrebbe don Domenico Mita. Giancarlo Menetti suggerisce che la nascita
del Castello di Ceruno potrebbe fissarsi tra la fine del 1200 e gli inizi del 130016. Il P. Serafino
Gaddoni riporta un documento del 1292. Vi abitava un certo numero di famiglie che dal luogo
prendevano lo stesso cognome: da Ceruno o Ceroni.
Don Domenico Mita spiega così il trasferimento dei Ceroni originari della Val Serina a Casola
Valsenio:
«Non molto tempo dopo17 gli stessi abitanti di Firenze vennero molestati dall’imperatore Enrico
e dai Milanesi con aspra guerra18. Molti dei nostri Ceronesi combattevano per la Repubblica
Fiorentina; ora, mentre i prefetti passavano in rassegna l’esercito chiamando (le squadre) per
R. CERONI, Lepreno, p. 9 e ss.
G. MENETTI, La storia, p. 101.
16
G. MENETTI, La storia, p. 106.
17
Siamo nel periodo immediatamente successivo alla vittoria dei Ceroni contro Uguccione della Faggiola.
18
G. MENETTI, La storia, pp. 27-28.
14
15
51
nome, si notò che un centurione, con alcuni altri, si arrogava il cognome Ceroni. Il fatto spinse
i nostri, appena ottenuto di poter parlare, a richiedere chi fossero, da chi avessero avuto quel
cognome e da qual paese venissero».
Sembra che alla domanda essi risposero di provenire dal bergamasco e raccontarono la leggenda
dei due cavalieri alemanni, Ceronius e Carrerius. Domenico Mita aggiunge che a questo punto
i Ceroni della Val Serina narrarono ai romagnoli la battaglia che li aveva costretti a lasciare la
loro patria in cerca di miglior fortuna.
Renato Ceroni descrive così l’episodio:
«Correvano gli anni duri delle feroci lotte fra le fazioni, le lotte fra guelfi e ghibellini e di forte
fermento popolare in tutta la provincia bergamasca. Nei castelli, nelle valli, in città, nascevano
già le prime scaramucce, fra i contendenti e poi divennero le prime vere battaglie, vicini contro
vicini di opposto partito.
La Villa del Cornello, che più tardi per qualche tempo fece anche parte del vicariato della Val
Brembana di Sopra, era di proprietà della famiglia dei nobili Della Torre o Turriani, signori di
Milano. […]
Nell’anno 129519 […] un Turriano […] decise di far marciare il suo esercito, diventato per
l’occasione forte di ben 12000 pedoni (così dicono le cronache...) con intento di conquistare,
abbruciare e sottomettere tutta la valle di Serina, nella valle Brembana di sopra, occupare Lepreno
e distruggerla, distruggendo infine i Ceroni, che dalla fondazione ne reggevano la signoria e
distruggere tutti quelli che si fossero opposti alla sua offensiva. In modo particolare voleva far
uccidere Antonio Ceroni, che in quel tempo era signore e capitano della valle».
Il valoroso capitano, così come narra in maniera sicuramente più dettagliata Renato Ceroni, vinta
una battaglia ma persa la guerra contro la famiglia Della Torre, sarebbe stato costretto a fuggire
coi congiunti, e una parte dei fuggiaschi avrebbe raggiunto Casola Valsenio, ricongiungendosi
ai Ceroni romagnoli.
A ben vedere temporalmente il periodo è lo stesso indicato dal Mita, il primo decennio del
quattordicesimo secolo.
2.3 Uguccione della Faggiola contro il Castello di Ceruno. La consacrazione dei
Ceroni come paladini guelfi.
Risale allo stesso periodo20 il primo episodio bellico che vede protagonista la famiglia Ceroni
di Casola Valsenio.
Dopo la definitiva sconfitta dei ghibellini fiorentini, in città i guelfi, in seguito a dissidi tra due
nobili ed influenti famiglie, Cerchi e Donati, si divisero rispettivamente in bianchi e neri, più
vicini al popolo ed alla borghesia i primi, legati alla nobile aristocrazia i secondi.
Durante le continue lotte per il potere vennero mandati in esilio molti rappresentanti di entrambe
le fazioni e sembra che in tale occasione diversi guelfi neri si rifugiassero a Ceruno, ospiti della
Consorteria.
Scrive, infatti, Pietro Salvatore Linguerri Ceroni21:
«In tale circostanza molti fiorentini del partito de’ Neri si ricovrarono nella nostra Valle, ed
ottennero la protezione de’ Ceronesi, del chè irritato Uguccione Fagiolano comandante la
ghibellina fazione, tentò di espugnare Ceruno. I Ceronesi si scagliarono contro i nemici, che
Renato Ceroni precisa che in altri testi si parla del 1292.
Inizi del 1300.
21
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 37.
19
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salivano il Monte co’ quali azzoffatisi, ne ferirono molti, altri ne uccisero, costringendo il restante
alla fuga. Lo stesso Uguccione, da suoi abbandonato, restò ferito, e quasi vi perdette la vita.
Molti Ceronesi rimasero feriti, pochissimi però morirono».
Ritroviamo lo stesso episodio ripreso da Paolo Giovio22:
«…quadam in pugna ad Caeronium pagum a suis desertus et ab hostibus prope circumventus
quum sese fortiter reciperet, vulnerato altero crure, et collisa vehementer galea, in oblongo
pedestri scuto quatuor tragulas et tredecim veruta ex minoribus balistis infixa ad suos retulit…»
E lo stesso passo trascritto da Scipione Ammirato23:
«… essendo (Uguccione della Faggiola) in una certa battaglia fatta a Cerone abbandonato dai
suoi, e poco meno che posto in mezzo da’ nimici, egli ferito in una gamba e ammaccatogli
grandemente la celata, valorosamente ritirandosi, riportò a’ suoi in un targone lungo da pedone
quattro partigiane e tredici verrettoni tirati da balestre piccole».
L’episodio viene fatto risalire all’anno 1313 ed è così descritto da don Domenico Mita24:
«…circa l’anno 1309, la Repubblica di Firenze cominciò ad essere fieramente sconvolta dai
civili dissidi fra guelfi e ghibellini. Furono cacciati i guelfi dalla città e gran parte di loro si
raccolse presso i Ceroni, loro vecchi amici, presso i quali, accolti con ogni cortesia, pensavano
di fermarsi fin quando il vento non fosse spirato loro favorevole.
Ma ecco che poco dopo Uguccione della Faggiola, prode guerriero e capitano delle soldatesche
di parte ghibellina (fu questi un reuccio di Lucca e di Pisa) raccoglie un esercito per abbatter
i guelfi e si appresta a distruggere Ceruno. Per difendere nel miglior modo possibile, oltre che
se stessi, anche i nobili ospiti da gran tempo benemeriti, i Ceroni, che avevano messo insieme
un (piccolo) esercito formato dagli amici prontamente accorsi all’appello e dai profughi Fiorentini,
uscendo con gran impeto dal villaggio, si precipitano sulle schiere dei nemici armati che erano
già a mezzo il colle e ingaggiano con loro un fiero scontro; molti ne ferirono, altri ne uccisero
e il resto volsero in vergognosa fuga attraverso boscaglie senza sentieri.
Uguccione, che combatteva con accanimento, abbandonato dai suoi e ormai circondato dai nemici mentre si ritirava da prode, ferito ad una gamba, con l’elmetto mezzo fracassato, riuscì a
riunirsi ai suoi, ma portando infissi nel suo scudo pedestre ben quattro giavellotti e tredici frecce
scoccate da piccole balestre. Fra i nostri i feriti furono molti, ma pochi i morti».
Anche nella Storia di Brisighella di Antonio Metelli25 si parla dell’attacco di Linguaccione
(Uguccione) della Faggiola al castello di Ceruno.
L’episodio di Uguccione della Faggiola ebbe dunque una certa rinomanza e consacrò i Ceroni
come paladini guelfi e la fama di roccaforte guelfa aleggiò in quel tempo per Ceruno e dintorni26.
A questo forse può essere attribuita, suggerisce monsignor Giancarlo Menetti27, la decisione della famiglia
Ozzani (poi Tozzoni) di trasferirsi a Casola Valsenio attorno al 1330, ove rimase per una quarantina
d’anni, dopo essere stata costretta ad abbandonare Bologna per sottrarsi alle vendette degli avversari.
Supporta tale tesi il fatto che lo stemma dei Tozzoni è identico a quello dei signori di Ceruno.
Appare verosimile che i Ceroni avessero già in questi anni, quindi, molto potere a Valsenio e
dintorni e molto credito, visto che diverse famiglie guelfe decisero di trasferirsi presso di loro
per ottenere protezione ed aiuti.
P. GIOVIO, Elogi degli uomini illustri, citato da G. MENETTI, La storia, p. 110.
S. AMMIRATO, Istorie, vol. 2, p.34.
24
G. MENETTI, La storia, pp. 25-27.
25
A. METELLI, Storia, vol. 1, libro 4, p. 207.
26
G. MENETTI, La storia, p. 110.
27
G. MENETTI, La storia, p. 110.
22
23
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2.4 I Ceroni di Lepreno: guelfi o ghibellini?
Come visto nel paragrafo precedente sembra assolutamente certo che i Ceroni romagnoli
propendessero per il partito guelfo.
Pur ricordando ciò che si è detto all’inizio di questo capitolo, cioè che la natura guelfa o ghibellina
di ogni fazione in Italia era lontana da quelli che erano gli ideali originari ed era decisamente
più legata a convenienze economiche o politiche, a volte perfino temporanee28, è opportuno
domandarsi a quale partito i Ceroni della Val Serina fossero legati.
Scrive don Domenico Mita29 che i Torriani di Milano, dai quali, come visto, i Ceroni bergamaschi
furono cacciati, erano capi di parte guelfa. Ed egli esplicitamente afferma che i Ceroni scacciati
erano ghibellini. Precisa poi che essi furono accolti dai «nostri Ceroni (guelfi) […] come amici,
rendendosi per sempre soci delle loro sfortune a patto che lasciassero il partito ghibellino30».
Sembra certo che Antonio Ceroni, avuto sentore dell’intenzione dei Torriani di invadere la valle,
chiedesse aiuto alla famiglia Brusati di Brescia, imparentata coi Ceroni.
Renato Ceroni31 obbietta che «se i Ceroni di Lepreno fossero stati per la parte dei ghibellini,
sebbene parenti...e per giunta piuttosto stretti, mai avrebbero avuto l’aiuto nella battaglia dalla
famiglia Brusati, nobili di Brescia, famiglia guelfa, da sempre e per tradizione molto vicina al
papato».
Dimostrato però che si trattò di una guerra voluta dai Torriani per motivi economici e politici,
come si diceva, è probabile che la fazione per la quale l’una o l’altra famiglia parteggiavano
avesse ben poca importanza.
È perciò, a mio avviso, difficile stabilire senza margini di errore a quale fazione originariamente
appartenessero i Ceroni bergamaschi. Certo è che, una volta giunti in Romagna, essi si
dichiararono e comportarono come guelfi.
3. I Ceroni, abili condottieri.
Scrive nel 1594 Giovanni Andrea Calegari32 a proposito degli uomini di Val d’Amone:
« Sono gli huomini di questa Valle naturalmente inclinati a l’armi e alla guerra, e in questo si
esercitano buona parte del tempo; e quantunque siino contadini, che lavorano la terra,
maneggiando tuttavia almeno i giorni de le feste l’armi, e’ si reputano a gran vergogna se non
si ponno gloriare di esser stati una o più volte a la guerra, e nelli eserciti formati. E havendo
essi militato lungamente al soldo de’ venetiani, massime sotto la condotta di Dionisio, Vincenzo
e altri famosi capitani de’ Naldi e d’altre famiglie di Brassichella e Valle di Amone, e sempre
essendosi portati valorosamente, e’ si è veduto, che in Venetia e nel venetiano li romagnoli tutti
sono chiamati brassichelli, il quale nome appresso loro non ha altro significato se non di huomo
armigero, bravo e pronto a menar le mani. […] e perché sono facili alle risse e questioni, è nato
un proverbio che la Corte di Romagna si morirebbe di fame, se non fossero le criminalità degli
huomini di Brassichella e Valle di Amone».
Questa descrizione ricalca pienamente, a quanto si è avuto modo di vedere, i rappresentanti
della stirpe dei Ceroni.
Si rammenti quanto detto poco sopra per Maghinardo Pagani, criticato aspramente da Dante per la sua doppiezza.
G. MENETTI, La storia, p. 29.
30
G. MENETTI, La storia, pp. 29-30.
31
R. CERONI, Lepreno, p. 103.
32
G. A. CALEGARI, Breve descritione di Brassichella e Valle di Amone, in A. TURCHINI, La Romagna, vol. 2, p. 572.
28
29
54
3.1 I Ceroni al servizio dei potenti.
È indubbio che molti appartenenti alla famiglia Ceroni, anche in seguito al valore dimostrato
contro Uguccione della Faggiola, militarono per la repubblica fiorentina, con la quale venne
instaurato un rapporto di fedeltà e fiducia.
Narra, a tal proposito, don Domenico Mita33, che «i fiorentini che fuor d’ogni loro speranza
scamparono all’imminente pericolo, rimasero poi tanto grati ai Ceroni sia col cuore che coi fatti,
da commettere loro, in occasioni di guerre e secondo le loro forze, gli incarichi principali, cioè
sia di guidar truppe che di reclutarle. I nostri (i Ceroni), dopo aver combattuto con valore e
impegno per i (loro) signori, ritornavano alle famiglie carichi di lodi e doni».
Al contempo troviamo diversi appartenenti alla Consorteria anche nelle schiere della repubblica
veneziana o al soldo di altre città romagnole.
Il cavalier Luigi Angeli, nel 1828, nelle sue memorie di imolesi illustri di ogni tempo dice del
capitano Raffaele Brunori Ceroni, del quale si avrà modo di parlare più approfonditamente in
seguito:
«Vengo a far conoscere un uomo celebre fra li rinomati guerrieri del suo tempo nato sui monti
dell’Imolese contado a piè de’ quali scorrono le perenni acque del Senio e del Lamone. Discende
questo dall’antica famiglia de’ Ceroni, che sul declinare del secolo XIII colà si era stabilita, e
per una serie quasi mai interrotta diede uomini valenti nel mestiere dell’armi…».
L’abilità militare dei componenti la Consorteria è riconosciuta in diverse occasioni anche dallo
stato pontificio e dalle città confinanti.
Narra don Domenico Mita34 che intorno al 1311 re Roberto di Napoli, allora rettore della Romagna,
«ebbe gran timore che dalle armi del Visconti di Milano fosse assediata la città di Imola, per
cui, vistosi negato ogni aiuto dalla Repubblica Fiorentina, per sventare l’assalto dei nemici,
difendere la città e salvare la popolazione […] arruolò 350 soldati ben armati e tra i più valorosi
e chiamò in aiuto 300 fanti fra i montanari più ardimentosi. Questi furono scelti quasi
esclusivamente tra i Ceroni».
Lo stesso episodio ritroviamo nella “Storia dei Ceroni” dell’abate Antonio Ferri35.
Antonio Metelli36, poi, narra che «nel 1351 Astorgio di Duroforte a Imola (unica città rimasta
fedele al Pontefice) si rivolse per aiuti contro i tiranni locali alla Repubblica di Firenze e cercò
di assicurare la città per mezzo di milizie paesane e chiamando dentro a presidiarla fino gli abitanti
delle montagne, fra i quali molti vi convennero dal Castello di Cerone».
Nel 1488 anche la città di Faenza si avvalse della abilità militare dei Ceroni. In seguito alla
congiura ai danni di Galeotto Manfredi, ucciso con la complicità della moglie Francesca
Bentivogli, i faentini, «per questo fatto compresi di raccapriccio, proclamarono in pieno consiglio
il fanciullo Astorgio, invitando i Ceronesi a calar senza indugio e mantenere il buon ordine nella
città37. Appena giunti furono incaricati della guardia della piazza. Nel dì seguente per la Porta
della Rocca, occupata da Francesca, entrati essendo Giovanni Bentivogli di lei padre, ed i Rangoni
di Modena con molte milizie ingombrarono la città tentando di penetrare nella piazza dai nostri
Ceronesi custodita. A tale attentato si sollevò il popolo in massa, e gridando morte, si scagliò
sull’estera truppa per farla in pezzi».
G. MENETTI, La storia, p. 27.
G. MENETTI, La storia, pp. 32-33.
35
A. FERRI, La storia dei Ceroni, in copia nell’archivio personale dell’ingegner Pier Giacomo Rinaldi Ceroni.
36
A. METELLI, Storia, vol. 1, p. 234.
37
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 43.
33
34
55
L’abate Ferri38 conferma che i Ceroni «quietarono, con la loro autorità, il tumulto popolare e gli
animi dei nobili».
Sottolinea Pietro Salvatore Linguerri Ceroni39 che «in tale occasione i Ceronesi ottennero, oltre
alla sorte di salvare la città dall’imminente macello, d’incontrare la grazia e protezione de’
Bentivogli e Rangoni, cosicchè dai primi si videro di benefici ricolmi, e dai secondi onorati delle
prime cariche nella loro Corte».
3.2 I Ceroni contro i potenti.
3.2.1 Taddeo Manfredi e Marsibilia Sforza.
In uno dei capitoli precedenti si è parlato dell’astio che contrapponeva Taddeo Manfredi e la
di lui moglie, Marsibilia Sforza, figlia di Galeazzo Pio da Carpi40, allo zio Astorgio.
Nel 1448, come si è detto, Taddeo Manfredi, giovane e inesperto, succedette al padre nel dominio
di Imola mentre Astorgio Manfredi prese a governare Faenza.
Ai governatori Baldassarre da Baffadi e Giovanni dei Breghenzoni d’Urbino che lo sostituì 1’11
settembre 1449 Taddeo affidò la responsabilità di governare da Tossignano un vasto territorio,
comprendente tutte le località già appartenute a suo padre, come Monte Battaglia e i suoi Comuni
di Campalmonte, di San Ruffillo, di Castel Collina, di Monte Oliveto, di Montefortino, di Riovalle;
di Fontana e i suoi dintorni con Montepieve, Gesso, Sassatello, Castiglioncello; di Gaggio con
Fornione, Cantagallo, Valmaggiore, Paventa; di Riolo con Casola dei Casolani, Sassoletroso, Trarìo,
Cestina, Castel Pagano e Baffadi.
Da Tossignano al banco di ragione il Capitano Breghenzoni amministra giustizia a genti di
Cantagallo, di Valmaggiore, di Castiglioncello e naturalmente anche agli irrequieti abitanti di
Tossignano e dei suoi dintorni.
Dice Sanzio Bombardini41 che il capitano «era arrivato tuttavia a trovarsi impelagato in un grave
conflitto politico tra i Tossignanesi e i Ceronesi, sempre in lotta per i loro possedimenti di confine,
solo in parte giustificata dalla loro rispettiva adesione ai due Manfredi rivali. I prodromi di tale
rivalità si erano già manifestati, quando il 27 febbraio 1451 le parti contrastanti s’incontrarono
a Imola nel palazzo nuovo di Taddeo Manfredi, del quale i Ceronesi si fidavano così poco che
vollero presente anche il Vescovo della città fra Gaspare dei Sighicelli di San Giovanni in Persiceto
di Bologna.
Per Tossignano comparvero Francesco, Giorgio e Guidantonio fu Manfredo dei Ranucci e i Borelli
con Giovanni e Francesco fu Burello, Mengo fu Maccio, Beccaccio fu Riccio, Pirone fu Bertone,
Riccio fu Muzio, Giovanni fu Sabadino e Bartolo fu Santo.
Per i Ceronesi si presentarono Feco e Perugino (Perosino) fu Mengotto, Tonio e Tommaso fu
Cerone, Tura e Silvestro di Cecco, Lodovico di Maso, Salvuccio di Cristoforo, Drea di Giovannino,
Lolo e Giovanni (detto il Lancere) fu Matteo, Riccardo di Battista, Sante di Nanne, Giorgio di
Gaspare, Pietro di Brunaccio.
Come si verificava di solito, si promisero pace per l’avvenire (destinata a durare lo spazio di
un mattino) per le ingiurie, offese e percosse reciproche, pena cinquecento ducati d’oro, garantiti
da venti tossignanesi per venticinque ducati ciascuno e da altrettanti per i Ceronesi. Seguirono
poi le paci di loro seguaci meno importanti, cioè sei uomini di Sirolo, un podere fra Tossignano
A. FERRI, La storia dei Ceroni, in copia nell’archivio personale dell’ingegner Pier Giacomo Rinaldi Ceroni.
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 43.
40
Fa notare Giancarlo Menetti che non si tratta quindi di una “Sforza” e che ella non era imparentata col Duca di Milano.
In G. MENETTI, La storia, p. 120.
41
S. BOMBARDINI, Tossignano, pp. 423-425.
38
39
56
e Codrignano, e altri tredici di Campiuno e di Santa Margherita, schierati con i Tossignanesi;
e uomini di ben ventitré località sostenitori dei Ceronesi, a dimostrazione del loro ascendente:
Rivalta, Liverano, Valdifusa, il Pozzo, il Cerro, Signano, Santa Liberata, Sidignano, la Predella
e altri poderi fino al fiume Sintria».
Con Marsibilia i Ceroni ebbero fortissimi dissidi. Continua infatti Sanzio Bombardini:
«Avendo i Ceronesi trucidato quattro suoi cavalieri, l’energica donna emana editto di morte per
i Ceronesi sorpresi a Imola e a Tossignano.
I Ceronesi rispondono con metodi analoghi, taglieggiando arditamente il territorio d’Imola e di
Tossignano ed essa si fa prestare duecento balestrieri da Francesco Sforza e scrive anche ad
Astorgio Manfredi perché ammonisca i Ceronesi a starsene quieti.
Il duca di Milano, che per le sue mire sulla Romagna teneva sotto una benevola protezione
entrambi i Manfredi, invitò Astorgio a richiamare energicamente i Ceronesi. Fingendosi paciere
tra i due nel loro costante dissidio, teneva in pugno particolarmente Taddeo.
Il 9 luglio 1453 il Capitano di Tossignano Battista fu Matteo da Strada teneva prigioniero uno
dei Ceronesi più accaniti, Perosino fu Minghetto, che promette di presentarsi entro l’indomani
a Taddeo, previa una garanzia eccezionale di ben mille ducati d’oro; diciotto tossignanesi tra i
più ricchi offrirono tale garanzia, ma Perosino riuscì a fuggire e il 19 luglio Taddeo fece pubblicare
in piazza a Tossignano un Bando contro coloro che l’avessero aiutato o lo avessero garantito:
tuttavia resosi conto che non erano complici di quella fuga, si accontentò di riscuotere duecento
ducati e per il resto fece grazia il 25 agosto. […]
Il 22 maggio 1455 un gravissimo fatto di sangue scatena la rivalità in paese: Francesco fu
Manfredo Ranucci è stato assassinato da Antonio delle Vigne e da Baldassarre Accarisi. Manfredo
di Bartolomeo Ranucci aveva capeggiato la politica interna di Tossignano per decenni, fino alla
sua morte (1449) e dopo di lui primeggiava suo figlio Francesco, il quale, probabilmente per
la prepotenza dei suoi atteggiamenti, aveva suscitato la rivalità di altre grandi famiglie
tossignanesi. […]
I Ceronesi di notte avevano ucciso quelli che venivano a Tossignano per le esequie di Francesco
Ranucci e a loro volta avevano avuto morti e feriti. La tregua si era rinnovata il 2 ottobre 1457,
ma solo per un mese, davanti al Capitano di Tossignano Ettore degli Ercolani di Forlì, e sedici
tossignanesi la richiesero anche a nome di centotrenta loro aderenti, comprese le località di Sirolo,
Codrignano, Campiuno, Orsara, Rapeggio, Prugno e Gallisterna, mentre per i Ceronesi si presentò
ser Cristoforo fu Salvuccio con un folto gruppo dei suoi. La breve durata dei patti giurati dimostra
che le opposte fazioni rimanevano in armi.
Nel 1458 i Ceronesi rimanevano al bando e il Capitano di Tossignano ordinava di confiscare i
loro raccolti nel territorio di Baffadi per conto di Taddeo Manfredi e l’anno stesso s’impegnarono
a far pace con Tossignano genti di Fornazzano e di Montevecchio di Val d’Amone, sudditi di
Astorgio Manfredi, il che significa che continuavano le scaramucce fra le parti avverse.
Infine il 27 febbraio 1459 fu rinnovata la tregua fra Tossignano e Ceruno, davanti ai notai Nanne
Zanelli e Antonio Pritoni, pubblici ufficiali del Comune, stabilendo le seguenti clausole: per
uccisione o invalidità pena di 1.500 fiorini d’oro, per una o più ferite con effusione di sangue
300 fiorini, per una o più percosse senza effusione di sangue 200 ducati, pena il doppio se
verranno meno ai patti.
Quelli di Tossignano, in numero di novanta, vollero che ciascuno di loro s’impegnasse per una
quota dei fiorini della penalità stabilita in caso di rottura della pace e i più responsabili furono
i figli di Guidaccio di Manfredo Ranucci, i Borelli, i Codronchi, gli Zanelli, i Nardi, i Bassi, gli
57
Orsolini, i Ridolfi. Erano compresi con loro undici di Orsara, diciotto di Lusedo, sei di NoIa
(Gaggio), cinque di Prugno e quattro di Rapeggio e altri, per un totale di cento quaranta uomini.
[…]
Per tutto il 1457 i Capitani di Tossignano sono impegnati nelle solite diatribe tra sudditi rivali,
risolvendo problemi di uccisioni, ferite, offese, danni e i soliti e frequenti scontri tra i sostenitori
di Astorgio e di Taddeo Manfredi.
Nel 1458 anche al Capitano Marco di ser Roberto dei Broccardi d’Imola competono incarichi
di diversa natura. Egli ha anche il compito di «fare il raccolto delle terre dei Ceronesi che fan
parte dello Stato di Taddeo, dato che i Ceronesi sono in bando, e faccian pace davanti a lui uomini
di Belvedere, di Massa Alidosia, di Tirli, di Piancaldoli, di San Ruffillo e il 9 settembre i
Tossignanesi con quelli di Fiagnano».
Antonio Metelli scrive che nel 1459 «i Ceroni» da lui più volte descritti come riottosi e feroci,
« confortati da Astorgio Manfredi firmarono la pace coi tossignanesi e cessarono di infestare i
monti di Tossignano».
3.2.2 Comparino (o Compadretto) Rinaldi difensore di Monte Maggiore.
Neppure cinquant’anni dopo la ritrovata pace con Tossignano, nel 1500, di nuovo i Ceroni, nella
figura del castellano Comparino da Ceruno, sono chiamati a difendere i loro possedimenti da
un potente rivale: il duca Valentino. Descrive così il fatto Pietro Salvatore Linguerri Ceroni42:
«Nel 1500 avendo i francesi preso Rimino e Pesaro, li 4 novembre posero l’assedio a Faenza
con quindicimila uomini compresi i Papalini e li spagnuoli. Nel principio di questo assedio fu
distaccato Vitelozzo Vitelli con cinquecento cavalli a scorrere Val di Lamone, Brisighella e le
altre rocche che non opposero contrasto. Non così avvenne di Monte Maggiore, in cui trovavasi
in qualità di castellano Comparino figlio di Rinaldo, il quale si fece conoscere vero Ceronese.
Aspettò egli intrepidamente la cavalleria di Vitelozzo, ed allorchè giunse sotto alla fortezza colla
sua piccola guarnigione di 50 uomini fece una sì vigorosa e sì regolata sortita che uccise dodici
aggressori mettendone in fuga il restante e riportò in trionfo molte armi, scale, attrezzi, che il
nemico aveva seco portate per dare una scalatta.
Il Borgia allo spiacevole avviso s’arrabbiò che una sì piccola rocca difesa da un pugno di gente
avesse avuto tanto coraggio d’incespicare le sue mire. Staccò un maggior numero di gente per
attaccare di nuovo il nostro campione, ma temendo fosse di un più grave disastro non si fidò di
un assalto e si limitò ad un semplice ma stretto blocco.
La Rocca trovandosi senza speranza di soccorso e sprovvista di sussistenze dopo dieci giorni
col favor della notte fu evacuata da Comparino, e da suoi che si ritirarono per occulta via senza
che se ne accorgesse per allora il nemico; il quale entrato di poi nella sguernita fortezza la spianò
quasi affatto».
Aggiunge Pietro Salvatore Linguerri Ceroni che Comparino dimostrò uguale fedeltà e valore in
seguito come «capitano d’infanteria» per Giulio II e che egli fu priore dell’Ospedale di Baffadi
nel 1510.
Altra suggestiva descrizione dello stesso episodio dà Achille Lega43:
«…non potendo più il nostro Naldi (Dionisio) prestare il suo braccio ai Riarii, a cui con esempio
raro a pegno della sua fede, perfino la moglie e i figliuoli aveva affidato; e per innata passione
non potendo più a lungo durare fuori dalle armi, anch’esso coi primi capitani d’Italia prese servigio
42
43
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 44-45.
A. LEGA, Fortilizi, p. 80.
58
sotto il duca Valentino; ed indi in pochissimo, essendo uomo di grande seguito in Valle di Lamone,
espugnata che ebbe la Torre di Maghinardo, occupò la patria sua e tutti i castelli, salvo Monte
Maggiore.
Dentro questo era castellano Comparino da Cerone, della cui stirpe sopra abbiamo parlato, e
come portava sua natura, tutto si mise a disperata difesa. Il Valentino, anima ben più irrequieta
del piccolo Castellano, non potendo all’avviso premere in cuore l’indignazione che un debole
presidio la potenza delle armi tenesse in non cale, chiamato a sé Vitellozzo Vitelli, capitano di
singolare fortezza e fede, gli ingiunse di andare, occupare e distruggere il castello. È pur vero
che l’ira acceca; giacchè non era ignoto al duca che Maghinardo Pagano, comechè grande
guerriero, non tentò il castello di Monte Maggiore con le sole armi, ma lo prese giovandosi anco
di astuzia44. Ed il Vitelli, che esperto era di guerra, pure posta da un lato ogni considerazione,
fidente ne’ suoi, contro quella fortezza arditamente si mosse. Assalitori e difensori tra quelle
viuzze, tra quegli scaglioni a terribile zuffa vennero; ma le genti del Vitelli non poterono contro
il valore e la costanza dei valligiani nostri spuntare; e tinto di sangue quel pietroso monte, a
raccolta fu d’uopo che il comandante le chiamasse, tardi imparando, che sempre non è avventurato
in guerra chi non è savio. Sebbene sconfortati di quel luogo, il duca ed il capitano compresero
però che l’onta sofferta era necessità torre, e raccolte maggiori forze ed armi, fu cinto il castello
di regolare assedio.
Il forte castellano non per questo si tenne perduto, ma inteso che tutta la valle era calata a
devozione del Borgia e che tutti i castelli erano nelle sue mani e visto stremarsegli le vettovaglie
e venirgli meno gli aiuti entrò a pensare di non volere però giammai scendere a trattato coll’iroso
Duca; e nel pericolo signoreggiando se medesimo, attese una notte buia e fatte gridare dalle
mura alle scolte le solite grida, dal lato più ripido e per una viuzza a serpe, più atta alle capre
che a uomini, che menava al fondo di un burrone, muto fe’ discendere tutto il presidio, e con
esso si pose in salvo. Spuntava l’alba; e mentre le genti del Vitelli sognavano nuovi assalti e
vittorie, più non veggendo sulle mura né stendardo, né difensori, e solo il più cupo silenzio regnare
tra esse, temettero d’agguato e fattesi man mano sotto rimasero convinte che di loro si erano
fatti beffe. Indignate occuparono il Castello e postolo a sacco lo diedero alle fiamme».
3.2.3 Ramazzotto Ramazzotti e Guido Vaini.
«I protagonisti delle sventure che colpirono Imola e il suo Contado nei primi trenta anni del
1500 furono essenzialmente due: Guido Vaini, capo dei ghibellini, e Giovanni Sassatelli detto
Cagnaccio, capo dei guelfi45.
La loro accanita rivalità coinvolse tutte le principali famiglie della città e del territorio, scatenando
odi e lotte intestine che produssero mali infiniti, culminati nei massacri del 1504 e del 1522».
L’episodio della presa di Monte Maggiore da parte di Maghinardo Pagani, che si servì di un ingegnoso stratagemma, è descritto
in A. LEGA, Fortilizi, p. 72.
45
S. BOMBARDINI, Il diavolo, p. 9
44
59
Disegno di Ramazzotto tratto da S. BOMBARDINI, Il diavolo, p.13.
Altro importante personaggio della storia romagnola in questo periodo è Ramazotto dei Ramazotti
di Scaricalasino, inviato nel 1503 a Imola come capitano delle milizie della Chiesa, con l’ordine
di farsi consegnare la rocca da Guido Vaini e di tenerla per il papa.
«I tre capitani reggeranno le sorti d’Imola per diversi mesi, ma con intenti opposti, anche se
non apertamente dichiarati. Il Vaini vuole con i Riario il trionfo della parte ghibellina, il Sassatelli
desidera l’opposto e pensa a rafforzare la sua posizione personale, Ramazotto, da quel mercenario
che è, tiene doppia condotta: parteggia per i Riario, il cui cardinale l’ha mandato a Imola
apparentemente per salvaguardare gli interessi della Chiesa, e lavora per i Veneziani finché non
si chiarisce la volontà di Giulio II, a fianco del quale poi si schiererà incondizionatamente46».
Mandato in esilio nel 1504 a causa di una zuffa cruenta tra Sassatelli e Vaini47, Guido Vaini
rientrerà a Imola, solo il 12 marzo 1522, accolto da Roberto e Nicola Sassatelli, che lo
abbracciarono in segno di pace definitiva48.
In realtà nel giro di pochissimo tempo le cose precipitarono e l’odio dei Vaini, barbaramente
uccisi e torturati durante il dominio dei Sassatelli, si scatenò contro di loro. Racconta Sanzio
Bombardini49:
«Guido Vaini restò padrone d’Imola e la strage fu grande: i processi del 1524 parlano di 53 persone
uccise e di 28 ferite, ma il loro numero fu ben maggiore, perché se ne aggiunsero molte altre
successivamente, in città e nel Contado.
S. BOMBARDINI, Il diavolo, p. 12.
S. BOMBARDINI, Il diavolo, p. 18.
48
S. BOMBARDINI, Il diavolo, p. 41.
49
S. BOMBARDINI, Il diavolo, p. 43.
46
47
60
A Imola furono distrutte dalle fondamenta 19 case, compreso il palazzo di Cagnaccio, e 92 furono
saccheggiate.
I ghibellini spogliarono undici chiese: di Guercinoro, Ghiandolino, Toranello, Codrignano, S.
Piero in Laguna, S. Agata, S. Matteo, Mordano, Bubano, Gallisterna, Casola Valsenio e tre
cappelle: quelle di san Giovanni Battista e dei santi Giovanni e Paolo in S. Cassiano e la
mansionaria di don Pietro Aronne.
Furono devastati sette mulini: quello di Casale di Cesare Alidosi, il Mulino Vecchio e il Mulino
Nuovo dei Sassatelli, il mulino del Maglio e quello di S. Cristina di Vincenzo Mercati, il mulino
di Virgilio della Bordella e quello degli eredi di Marcantonio Verona.
Quando compirono la spedizione contro i Ceronesi, a Casola Valsenio, la distruzione fu totale,
con novanta case saccheggiate e incendiate.
Dopo l’arrivo di Francesco Guicciardini, Presidente di Romagna per la Chiesa, il 6 aprile 1524,
i ghibellini furono duramente trattati, ma le fazioni rimasero inconciliabili e tutta la regione ne
fu desolata.
Il grande storico dovette riconoscere con amarezza il suo fallimento: «... nè so che fare altro
se non maledire ogni dì molte volte l’ora in cui venni in questa provincia». Sotto il suo governo
Cagnaccio e Guido Vaini non ebbero più il primato in Imola, nè più se lo contesero, dopo averla
rovinata.
Il primo morì a Imola il 6 luglio 1539 e fu sepolto in San Cassiano, ma i suoi concittadini non
pensarono a salvaguardare quella tomba quando la cattedrale fu rifatta; il secondo fece testamento
a Roma il 9 marzo 1544, dove morì a 67 anni di età e fu sepolto nella basilica di S. Pietro.
Uno scrittore straniero50, ben più equilibrato di tanti fanatici imolesi, manifestava rammarico
per le sorti d’Imola, scrivendo “A causa delle fazioni dei Sassatelli e dei Vaini fu miseramente
afflitta e vergognosamente lacerata una città, che diversamente avrebbe potuto essere di sommo
ornamento a tutta l’Italia”.
Imola aveva duramente pagato lo scotto delle lotte intestine, che sono una rovina per tutti, in
tutti i sensi».
Anche i Ceroni, dunque, ebbero parte alla lotta tra Sassatelli e Vaini. Legati ai primi, poiché
appartenenti alla stessa fazione, vennero attaccati da Guido Vaini, ghibellino, a più riprese, fino
alla pace nel dicembre del 1523.
Una prima volta Guido Vaini attaccò il castello di Ceruno insieme a Chiappino Vitelli e a
Ramazzotto Ramazzotti nel 1522. Narra così l’evento Pietro Salvatore Linguerri Ceroni51:
«A dì 4 dicembre giorno di S. Barbara vergine e martire 1522 Chiappino Vitelli con dugento
cavalli accompagnato da Guido Vaino e Ramazzotto Ramazzotti con altri quattrocento cinquanta
soldati fu spedito dal papa contro i signori di Cerone52, e giunto in Casola di Valdisenio sotto
la signoria di detto Cerone mezzo miglio posero in ordinanza le suddette soldatesche e per un
suo Offiziale fece intendere ai detti Ceroni o che si disponessero a ricevere gli ordini di Sua
Santità, o che esso Vitelli gli avrebbe distrutti, come aveva ordine di fare.
Raffaello di Brunoro capo della signoria e comandante della rocca del castello di Cerone, come
il più vecchio spedì subito a detto Vitelli tre suo cugini che furono Bartolomeo detto Ravaglio,
Gaspare Ens di Liegi - Itinerario d’Italia, riportato in Ferri, Genealogia della famiglia Vaini.
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 10-11.
52
”Vennero i Ceroni accusati al Presidente di Romagna di avere a mano armata e in dispregio delle leggi e del Pontefice resistito
alla forza pubblica e resi vani i comandamenti”. Il presidente diede ordine a Chiappino Vitelli, Ramazzotto e Vaina affinché
“n’andasse con cavalli e fanti contro il castello di Cerone e i negati atti di giustizia a marcia forza vi eseguisse”. Così in A.
METELLI, Storia, vol. 2, p. 79.
50
51
61
Vincenzo di Simone detto Linguerri e Taddeo detto Lolo dei signori di detto Luogo, come i più
sagaci.
Quali dopo aver in pubblico perorato conchiusero che erano pronti per ubbidire alle disposizioni
di Sua Santità col supporre che fossero giuste ma che frattanto facevano instanza fossero cacciati
da quei luoghi Guido e Ramazzotto suoi nemici e che piuttosto avrebber dato Ostaggio degno
di Chiappino Vitelli. Ordinò subito partissero i suddetti Vaino e Ramazzotto, e ricevuto in ostaggio
Pietro Ficchio e Babino Soglia capitani dei Ceroni subito detto Vitelli si portò in compagnia
de’ suoi soldati in detto loro Feudo Ceroni. Dove trattenutosi tre giorni accompagnato da Raffaello
e sopraddetti suoi cugini con quattrocento cavalli e nel licenziarsi dentro Casola il Vitelli dai
Ceroni disse pubblicamente che sarebbe sin che vivea buon amico agl’eroi Ceroni, e che avrebbe
fatto constare a Sua Santità la falsità del ricorso contro essi e l’odio che loro portava Vaino e
Ramazzotto e fece tornare i due capitani ostaggi che aveva assicurati nella Rocca di Riolo Secco.
Il dì 10 decembre detto Vitelli in pubblica piazza d’Imola persuase Vaino e Ramazzotto a desistere
dalla inimicizia contro i Ceroni, dicendo loro non esser vero il ricorso fatto al papa che detti
Ceroni si fossero tirannicamente impadroniti di quei luoghi, ma che ne erano da gran tempo
Padroni assoluti così pel privilegio imperiale e conferma Appostolica e che seco portava di ciò
gli opportuni recapiti. E che non avevano fatto impiccare Alberto Arti e Giovanni Marocchi
d’Imola, avevano fatto la giustizia e che tanto costava dal processo fatto dal di loro cancelliere
Arpi, e governatore Busetti, e che tutto seco portava al papa».
Chiappino Vitelli avrebbe quindi riconosciuto53 che quello addotto da Ramazzotto e Guido Vaini
per attaccare Casola e Ceruno era niente di più di un pretesto senza alcun fondamento. In realtà
i motivi che spinsero i due condottieri ghibellini ad attaccare i Ceroni sono sicuramente diversi.
Ramazzotto Ramazzotti infatti era in una posizione molto particolare nei confronti della famiglia
casolana.
Descritto come spregiudicato e spietato dalla maggior parte delle cronache54, si era fatto un nome
come fedelissimo di casa Medici e lavorava alacremente per riportare a Firenze i due figli di Lorenzo
il Magnifico, il cardinale Giovanni, poi Leone X e Giuliano, ambedue esuli a Bologna55.
Aveva avuto alle sue dipendenze a Bologna Raffaele di Brunoro Ceroni.
«Il capitano Raffaele Brunori nasce attorno al 1490 in una famiglia dedita al mestiere delle armi56.
Il fratello Alessandro nel 1505 fu capitano e custode della Rocca di Monte Battaglia per la
Repubblica Veneta. Giacomo, altro fratello, è pure capitano con un suo “colonnello” o
compagnia».
Desideroso di imitare le gesta di Dionisio Naldi, combattente valoroso e di somma capacità che
fu la gloria e la speranza della famiglia Naldi57, come capitano generale di fanteria al soldo della
Repubblica Veneta, Raffaele Brunori venne contattato da Ramazzotto Ramazzotti di
Scaricalasino e col suo colonnello si trovò a Bologna58.
Proprio a Bologna, riferisce Mons. Menetti59, all’incirca nel 1510, Raffaele conobbe la figlia di
Confermerebbero questo fatto anche i Quaderni di Tossignano, consultati da Pietro Salvatore Linguerri Ceroni, di cui oggi
non si ha più traccia. Sull’argomento anche G. MENETTI, La storia, p. 140.
54
Con alcune eccezioni, si veda ad esempio A.VESI, Storia, p. 57, in cui l’autore definisce Ramazzotto “prode guerriero” e
ne parla benevolmente.
55
G. MENETTI, La storia, p. 134.
56
G. MENETTI, La storia, p. 134.
57
G. MENETTI, La storia, p. 35.
58
G. MENETTI, La storia, p. 134.
59
G. MENETTI, La storia, p. 134.
53
62
Ramazzotto, Lucia, se ne invaghì e la sposò, conducendola con sé a Ceruno.
Riferisce don Domenico Mita60 che «Ramazzotto ben volentieri acconsentì al desiderio di Raffaele
sia perché reputava ben collocata la figlia, sia perché, da uomo astuto qual’era, vedeva offrirsi,
con questa parentela, il modo di introdursi tranquillamente fra i Ceroni per spiare e conoscere
il modo di vivere di questa gente, che parteggiava per la parte guelfa».
Ramazzotto poi, nota monsignor Menetti61, divenuto conte di Tossignano nel 1530, aspirava ad
allargare i confini della contea per essere padrone anche di Ceruno e Consorteria.
Pare che, appartenendo Ramazzotto alla fazione ghibellina, questo matrimonio non fosse visto
di buon occhio dai Ceroni, in particolare dai Ficchi Ceroni, della cui origine si dirà in seguito.
Certo è che ben presto, o per via della dote di Lucia mai pagata ai Ceroni, o per dissidi sorti in
seguito al carattere sanguinario e spietato di Ramazzotto62, l’odio tra le due fazioni si acuì e Lucia
stessa si schierò al fianco del marito, contro il padre.
Scrive Pietro Salvatore Linguerri Ceroni63:
«Ramazzotto, […] preso dall’ambizione di dominare anche queste Montagne, mirava
all’esterminio de’ Ceronesi, i quali erano i più possenti, i più bellicosi, ed i più sagaci della
parte guelfa, ed erano un insuperabile ostacolo ai suoi disegni. […]
Egli aveva annuito all’onorevole collocamento della figlia con animo di seminare la discordia
tra i discendenti di Matteo64, e gli altri Ceroni, e segnatamente coi Ficchi, che disapprovavano
un vincolo che annodava i Ceronesi ad uno snaturato e maligno».
Certamente la sconfitta del 1522 inasprì ancor di più gli animi di Guido Vaini e Ramazzotto
Ramazzotti contro i Ceroni.
Morto papa Adriano VI nel 1523 «si apriva un nuovo vuoto di governo e ciò significava che
ognuno si faceva vendetta e giustizia a piacimento65. Le cronache registrano una serie
impressionante di questi soprusi. A Tossignano si assalì il paese e ci furono dei morti. Il momento
era troppo invitante perché anche Ramazzotto e Guido Vaini non volessero lavar l’onta dell’anno
prima nelle acque del Senio».
Scrive Antonio Metelli66:
«Moriva intanto Adriano VI e alla sua morte un grandissimo incendio avvampava per tutta la
Romagna. La parte ghibellina […] morto il Pontefice intorno a cui tutto il partito guelfo si
rammodava, era entrata in isperanze di ridurre la Romagna alla propria fazione. Quindi i cittadini
stavano contro i cittadini e pigliando la confusione e tumulti […]. In tanto stemperamento d’animi
e di cose la Valle di Amone abbastanza queta si rimaneva […] Contro il partito ghibellino più
caldi di tutti si dimostravano i Ceroni, prima per amore di parte infesi a Ramazzotto e Vaina,
ora per odio inviperito infesissimi. Né Ramazzotto e Vaina con meno accesi spiriti li perseguivano,
chè anzimenti per l’allargamento de’ sediziosi umori un maggiore desiderio di vendetta, quello
che altra volta ottenere non poterono cercavano ora con tutti i modi di conseguire».
La battaglia delle botti, che ebbe luogo tra il 27 e il 28 ottobre 1523 è descritta in maniera epica
G. MENETTI, La storia, p. 51.
G. MENETTI, La storia, p. 145.
62
Durante il sacco di Prato egli si stava tristemente distinguendo. Unitosi agli spagnoli di Cordona […] coi suoi soldati […]
Ramazzotto perpetrò, infatti, eccidi che inorridirono Firenze, che aprì le porte ai Medici. In G. MENETTI, La storia, p. 35.
63
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 50.
64
I discendenti di Matteo sono i Ceroni originari della Val Serina.
65
G. MENETTI, La storia, p. 139.
66
A. METELLI, Storia, pp. 80-81.
60
61
63
e patriottica67 da don Domenico Mita68 e da molti altri scrittori di cose romagnole69.
Si riporta qui la descrizione che di essa fa Giulio Cesare Cerchiari70:
«Fra le trame a lui (Guido Vaini) tese per cacciarlo dal governo si sparse la voce che anche i
Signori del Castello di Cerone nel 1523 lo avessero insidiato nella vita.
Molti furono gli schiarimenti richiesti, e le lettere corse, e sebbene tutte escissero dal rigo e
trasmodassero in contumelie, il Vaini simulò di starsi a queste contento.
Poi, preso tempo, alla testa di quattromila soldati in compagnia del nominato Armaciotto, marciò
contro dei Ceronesi ed appena scollinata parte del suolo imolese e sceso nella bella vallata del
Senio, si diede a devastare campi, ad incendiare abituri, e portò l’assedio al sunominato castello
situato in alta vetta alpestre e circondato da profondi burroni, e da orridi scoscendimenti.
Gli assediati che avevano vegliato sempre sulla condotta del Vaino, lasciarono che i nemici in istretta
ordinanza si avanzassero e anche si arrampicassero su per quei massi; poi quando erano ormai
presso a tentare la scalata, queglino diedero la spinta ad una quantità di ammannite botti piene
zeppe di grossi sassi le quali, rotolando giù dall’alto con ispaventoso fracasso e ripercosse dagli
acuti scogli del monte, si sfaciarono in frantumi precipitando addosso agli assalitori una spessa
grandine di sassi a furia tale, che dalle prime file condotte da Guido sino alle sezzaje da Armiciotto
moltissimi vennero stiacciati, molti altri infranti, ed altri sbalzati nei profondi. Gli scampati meno
vinti che smagati voltarono le spalle, ed allora i Ceronesi usciti dalla rocca li perseguirono e ne
fecero altro macello. Scappava Guido anch’esso saltato a cavallo, ma essendo lì lì per restare prigione,
il destriero violentemente spronato rovinò in un precipizio da altissimo balzo; conquassato il cavallo,
intatto il Cavaliero e poi anche salvo per il terreno che ebbe così guadagnato. Al Forestiere si addita
ancora quella rupe col nome il salto del Vaino; nome che fin d’allora ne venne dato per lo stupore
del caso, e che ne perpetua la memoria. Armaciotto rimase ferito nella gamba destra, e più vicino
al basso della erta montagna potè liberamente riparare a Tossignano».
Al di là del numero di assalitori e morti, che secondo Giancarlo Menetti71 va sicuramente
ridimensionato, quella del 1523 è sicuramente la vittoria più importante ottenuta dai guelfi Ceroni
contro il partito ghibellino.
«La figura di Raffaele» nella descrizione di Domenico Mita «emerge con tutta la sua capacità
di stratega e la sua forza di coraggio72».
Il cavalier Luigi Angeli lo inserisce, nel 1828, nelle sue Memorie biografiche di que’ uomini
illustri imolesi le cui immagini sono locate in questa nostra iconoteca che si distinsero in ogni
ramo di scienze e nelle belle arti presentate alla gioventù imolese a modello e ad eccitamento
d’imitazione, lodandone l’ingegno vivace, l’indole bellicosa, l’acutezza della mente e le capacità
militari73.
4. La fine del potere della Consorteria dei Ceroni.
4.1 I Ficchi Ceroni.
Nel 1225, dice Domenico Mita74, si ha la certezza che «si siano uniti alla famiglia dei Ceroni
Sono parole di G. MENETTI, La storia, pp. 140 e ss.
In G. MENETTI, La storia, pp. 62-70.
69
Tra cui anche P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 12-13, A.VESI, Storia, p. 54 e ss. e A. METELLI, Storia, p. 81.
70
G.C. CERCHIARI, Ristretto, p. 72 e ss., citato anche in R. CERONI, Lepreno, pp. 107-108.
71
G. MENETTI, La storia, p. 140
72
G. MENETTI, La storia, p. 141.
73
L. ANGELI, Memorie, p. 216.
74
G. MENETTI, La storia, p. 21.
67
68
64
uomini oriundi della città di Perugia che furono parimenti detti “da Ceruno”. Erano della nobile
famiglia dei Ficchi, dell’ordine dei Senatori, nella loro città d’origine, forniti di ricchezze, eminenti
per ingegno e potenza. Poiché più volte avevano vendicato con le armi gli antichi rancori
approfittando delle discordie cittadine, andavano giorno per giorno raccogliendosi attorno nuove
fazioni. Accadde così che una volta alcuni dei Ficchi avendo ucciso dei nemici in una zuffa,
furono messi in carcere e non si vedeva il modo di liberarli per impedire che dal Pretore fossero
condotti al supplizio. Gli altri, rimasti liberi, decisero subito di scarcerarli a viva forza e, messa
insieme una schiera di parenti ed amici, assalirono i custodi del carcere uccidendo quanti loro
si opponevano e, spalancate le porte, portarono via i detenuti. Usciti prontamente dalla città,
non solo ebbero addosso l’implacabile ira dei nemici, ma anche la più viva indignazione del
Principe. Perciò banditi dalla loro patria: Guido, Ettore e Silvestro con altri congiunti, dopo aver
più volte cercato in esilio un luogo dove fermarsi, scesero infine in Emilia e (vennero) in Val
d’Amone portando con sé gran quantità di denaro. Qui furono accolti sotto la tutela fedele dei
signori Manfredi, primati della città di Faenza. Per la loro sicurezza, fu loro ordinato di salire
i monti Amonii e di stabilirsi parte nell’antichissima rocca di Calamello che era di proprietà
dei signori De Fantolini, e parte in quella di Monte Albergo che le sta di fronte».
Le ricerche fatte a Perugia, però, sottolinea Giancarlo Menetti75, non hanno dato esito alcuno.
«Non sembra che là abbia mai abitato una famiglia Ficchi o Fichi o Fecchi o simili, almeno di
estrazione nobile o senatoriale». Aggiunge poi lo storico che «certamente sul racconto del Mita
vanno avanzati dubbi, specie per quanto riguarda le date che ci fornisce». Concorda con
monsignor Menetti anche Renato Ceroni: la data più probabile di innesto dei Ficchi in Val di
Lamone appare essere il 1325. Nel 1225, infatti, i Manfredi non avevano alcun potere in Faenza
né sulle rocche di Val di Lamone. Dice infatti Menetti che nel 1224 a Faenza era podestà Uberto
di Uzine di Milano e nessun Manfredi avrebbe potuto proteggere questi fuggiaschi inviandoli
alla rocca di Calamello.
Inoltre monsignor Menetti dubita che i Ficchi fossero profughi politici: piuttosto suggerisce che
si potrebbe trattare di una delle tante famiglie dedite alle armi, magari con qualche debito con
la giustizia, che i Manfredi avrebbero impiegato lontano dalla città a custodire Calamello o Monte
Albergo.
Il Mita sostiene che i Ficchi al loro arrivo erano molto ricchi, che acquistarono molti poderi e
costruirono edifici. Pietro Salvatore Linguerri Ceroni76 obietta che non è possibile che persone
esuli e raminghe disponessero di così ingenti sostanze. Aggiunge poi che «non è da credere
neppure che abitassero coi Brunori e che si annoverassero tra i Signori Ceronesi». Tali non erano,
secondo il Linguerri, ed anzi «abbisognavano della protezione ed assistenza de’ signori di Cerone77.
Egli arriva ad affermare che «i Ficchi mai ebbero parte nella signoria, quantunque portassero
il nome ceronese e fossero decorati del medesimo gentilizio stemma, ma piuttosto godevano della
loro protezione. I Ceroni poi non avevano bisogno del loro aiuto armato per difendersi e non li
temevano per la loro scarsa potenza78».
Non vi sono, comunque, a tutt’oggi documenti che testimonino qual era effettivamente la posizione
di questa famiglia all’interno della Consorteria e quale fosse la loro origine.
Di sicuro sappiamo che i Ficchi non approvarono il matrimonio di Raffaele di Brunoro Ceroni
G. MENETTI, La storia, p. 108.
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 6.
77
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 9.
78
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 22.
75
76
65
con Lucia, figlia di Ramazzotto, anzi lo contrastarono apertamente. Il loro espresso dissenso non
ebbe peso nella decisione del capitano ceronese. Inoltre i Ceroni della val Serina furono accolti
a Ceruno, stando alle parole di don Domenico Mita79, senza l’accordo dei Ficchi. Questi fatti
possono essere senz’altro significativi.
4.2 I primi dissidi all’interno della Consorteria. I delitti di S. Lucia e di S.
Cassiano.
Fino al 1530, ad ogni modo, tra i Ficchi e gli altri appartenenti alla Consorteria regnò la pace.
Dopo la battaglia delle botti, nel dicembre del 1523 Guido Vaini si riappacificò coi Ceroni. Scrisse
loro una compitissima lettera latina, intitolandoli nella soprascritta “Regulis Ceruni, et Montanae
Regionis”. Con essa promise loro perpetua pace ed amicizia80.
«Nel 1530, li 19 maggio, li signori di Cerone uniti al Presidente di Ravenna cacciarono l’Alidosio
da Tossignano, il quale perduto uomini, vettovaglie e munizioni si arrese nelle loro mani conforme
sta scritto nel Quaderno di Tossignano. Nell’anno stesso da Clemente VII fu dichiarato Ramazzotto
conte di Tossignano, Fontana e Sassoleone. Così i Ceronesi deprimendo gli Alidosi aprirono la
strada all’ingrandimento del più capitale loro nemico81».
Riferisce Antonio Metelli82 che Raffaele di Brunoro e Vincenzo di Simone Linguerri più
quattrocento uomini “combatterono talmente Tossignano che l’Alidosi consumate le munizioni
e la vettovaglia e perduti molti dei suoi dovette rendersi loro prigioniero”.
Continua lo storico aggiungendo che (Il Pontefice) «scrissene al Presidente di Romagna perché
Ramazzotto come il Vaina aveva fatto, discendesse coi Ceroni alla pace, la questione intorno
alla dote della figliuola con Raffaele componesse, i danni loro arrecati nell’ingiusta guerra da
lui mossa col Vaina compensasse83».
La pace tra i Ceroni e Ramazzotto fu firmata il 7 settembre 1530 nel convento dei frati di San
Domenico.
Scrive al proposito Pietro Salvatore Linguerri Ceroni84:
«Nel colmo pertanto della sua grandezza (Ramazzotto) si mostra umiliato e pentito ed interpone
la mediazione del Presidente di Ravenna Lionello Pio da Carpi, dichiarandosi prepotente ed
ingiusto, per ottenere pace dai Signori di Ceruno, che venne in Casola stipulata, nel Convento
dei Frati di San Domenico li 7 settembre […] Con tale mezzo procuratasi l’affezione degli ingenui
Ceronesi insinua negli animi loro di disfarsi de’ Fechi ed ucciderli come avvenne».
È singolare questa descrizione dei Ceroni, definiti ingenui, contrapposta a molte altre che li vedono
scaltri e temibili avversari, di grande ingegno e sagacia. Un’ipotesi potrebbe essere quella che
in realtà i Ceroni a loro volta volessero servirsi della potenza acquisita da Ramazzotto in età non
più tenera85 per poi sostituirsi a lui, grazie al legame tra Raffaele e la di lui figlia, nel momento
in cui egli fosse venuto a mancare. È possibile che essi mirassero al dominio di Tossignano, Fontana
e Sassoleone, contro i quali più volte avevano marciato e combattuto, come si avrà modo di vedere
anche nel prossimo capitolo. Se poi si accettasse la tesi di Pietro Salvatore Linguerri Ceroni a
proposito della subordinazione dei Ficchi ai Ceroni all’interno della Consorteria, della quale si
G. MENETTI, La storia, p. 27.
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 51.
81
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 52.
82
A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 130.
83
A. METELLI, Storia, p.130.
84
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 53.
85
Doveva avere all’incirca sessant’anni al momento in cui divenne conte di Tossignano, così in G. MENETTI, Storia, p. 145.
79
80
66
è avuto modo di parlare poc’anzi, si potrebbe arrivare ad ammettere che i Ceroni, rinunciando
all’accordo con essi, mirassero a qualcosa di più allettante e che essi quindi non siano ingenui,
come si disse, ma magari avventati.
Sicuro è che la pace sottoscritta tra i Ceroni e Ramazzotto diede inizio ai dissidi tra i Ficchi e
i Ceroni e anche tra i Ceroni e i Ceroni coi Ficchi imparentati con scambievoli maritaggi86.
Così Antonio Metelli87 riassume la situazione che si andò creando in Val d’Amone:
«La funesta vicinanza del nuovo signore di Tossignano aveva già fatto germogliare indegni semi
tra gli abitatori del castello di Cerone. […] (Ramazzotto) si era posto all’arte per dividerli e
simulando dolcezza andava tra loro spargendo il veleno della discordia».
Egli insinuò sospetti contro i Ficchi ed «i Lancieri congiurarono contro dei Ficchi e raccoltisi
in numero di venticinque stesero a terra due di questi mentre a caso uscivano dalla chiesa di
Santa Lucia di Casola. I Ficchi inorridendo al sacrilego e snaturato eccesso né immaginando
che in ciò fosse la mano e la vendetta di Ramazzotto si scagliarono contro i Lancieri e specialmente
contro Raffaele di Brunoro che avevano per consigliatore del misfatto. Le cose si volgevano a
miserando fine».
Tra i congiurati don Domenico Mita nomina Morando di Salvuzio (Brunori), Ottaviano di Brocolo
(Ravaglia), Gabrone di Federico (Giacometti), Relicho di Mero (Loli), Ottaviano di Berto (Berti),
Uguzzone (Rinaldi), Ottaviano di Sforzino (Baldassarri), Babino (Poli). Altre famiglie di Ceroni
come i Mita, i Soglia, i Linguerri, non presero parte alla congiura88.
Poco righe dopo troviamo anche i nomi degli uccisi: Tesuccio di Catone e Ser Mengotto di
Alessandro, ambedue della famiglia Ficchi.
Bartolomeo Valori, presidente di Romagna, tramite un certo Ser Mariotto riuscì a ricomporre
per un po’ le famiglie.
«Ma il dado era tratto e il sangue che rosseggiava davanti agli occhi e nelle irate menti dei
Ficchi doveva presto condurli a nuovo versamento di sangue89. Le discordie dei Ceroni aprirono
prestamente nella valle di Amone ad altre la via90».
«Avevano i Ficchi […] per le infami arti di Ramazzotto conceputo un odio fierissimo contro
Raffaele di Brunoro e benché per la firmata tregua apparisse che si fossero deposti gli sdegni
pure gli animi erano dentro inacerbiti ed avidi di vendetta91. Colsero l’opportunità in cui Raffaele
trovavasi in Imola e andativi in buon numero con le armi sotto le vesti lo assalirono davanti alla
chiesa di San Cassiano e lui, che molto valorosamente si difendeva, trucidarono. Increbbe a
tutti il funesto avvenimento e molti piansero la morte dell’uomo generoso. Se ne dolse pure l’iniquo
Ramazzotto che pianse, ma di gioia pel felice successo delle scellerate sue arti».
Scrive Luigi Angeli92:
«Raffaele in tutto il restante di sua vita fu indefesso nel sostenere la causa de’ Ceruniani, nel
promuoverne la loro gloria, nel difenderne i diritti. Ma, come suole purtroppo accadere che gli
uomini dell’altrui gloria invidiosi, o mal veggenti l’ingrandimento, e la possanza di taluno, cercano
di eccitare coloro, che per mala inclinazione, o per detestabile scostumatezza turbano la pace,
attentano alla sicurezza, e sovente alla vita de’ suoi simili, un fiero avverso partito suscitossi
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 53.
A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 135.
88
G. MENETTI, La storia, p. 147.
89
A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 135.
90
A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 138.
91
A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 146.
92
L. ANGELI, Memorie, p. 217.
86
87
67
contro Raffaele sino a volerne l’eccidio. Fu egli perseguitato ovunque metteva piede, finchè nel
maggio del 1533 trovandosi in Imola fu, non si sa da qual mano, privato di vita in vicinanza
del Tempio dedicato al martire San Cassiano».
L’uccisione di Raffaele incendiò gli animi dei Lanceri e li spinse a stipulare con Ramazzotto
un accordo «in cui venne giurata la totale distruzione dei Ficchi obbligandosi con pene di danaro
da versarsi nelle stesse mani di Ramazzotto all’osservanza e con patto che la mortale e perpetua
guerra non cesserebbe che col consenso di lui. Così o del sangue o delle sustanze dei Ceroni
veniva a pascersi il truculento odio del tiranno di Tossignano».
Di tali accordi dice Giancarlo Menetti che «si tratta di sacrileghi93 giuramenti a distruggere in
ogni modo i Ficchi, a non dar loro aiuto in alcun modo, ad impegnarsi in eterno ad un odio senza
riserve».
4.3 La migrazione dei Ficchi da Casola Valsenio.
I Ficchi, saputo dell’accordo, si rifugiarono a Marradi presso i Fabroni per ripararsi sotto la
protezione di Alessandro de’ Medici.
Alessandro de’ Medici, infatti, mandò lettere con titoli di capitani ad Antonio Galbetto e ad Ettore
Temprone per la qual cosa tutti insieme si prepararono a passare a Firenze.
I Lancieri (però) saputo il giorno della partenza tesero un’imboscata e li uccisero».
L’eccidio di Biforco, nel quale i Ficchi persero la vita, impressionò un po’ tutti e invece di placare
gli odi di parte li rinfocolò94.
Della famiglia Ficchi non restò alcuno nella valle.
Insieme ai Ficchi, aggiunge sempre monsignor Menetti, emigrarono anche i Mita. Parte andarono
verso la valle del Lamone e parte verso quella del Santerno95.
Testimonianza di queste emigrazioni, almeno verso il paese di Solarolo, troviamo nella
corrispondenza tra il commissario e Governatore di Solarolo Isabella d’Este96, trascritte da Lucio
Donati97.
La prima lettera risale al 27 maggio 1533. Scrive Isabella da Mantova:
«A preghiera di persone che amiamo singularmente ed di cui desideriamo di far cosa grata, ci
siamo contentata di concedere al rettore Ser Cristoforo, Barrone ed Antonio de Cirone da gli
quali vi sara resa questa nostra che possino tutti venire ad habitare in quel nostro castello e
territorio di Solarolo come più a loro piacerà, et dimorarvi per venti giorni fra gli quali haveranno
animo di ottenere la pace da alcuni suoi adversari per gli quali sono tutti quattro hora banditi
da Imola, perhò in segno di questa nostra volontà vi dicemo che gli lasciate stare et habitare
com’è detto senza alcuno impedimento nè ostacolo, secondo gli loro portamenti perhò li quali
speramo che habbino ad esser buoni per la relatione fattaci di loro. Che quando fossero altrimenti,
come non credemo, saressimo per rivocare questa concessione».
Segue una lettera dell’8 giugno di Isabella al Commissario.
Scrive Lucio Donati che evidentemente i Ceronesi avevano inoltrato richiesta di procrastinare la
Poiché avevano luogo nella chiesetta di S. Maria del Carmine al Corso, ove i frati non potevano sottrarsi ad ospitare il loro
signore, essendo essa nella giurisdizione di Ramazzotto. In G. MENETTI, La storia, p. 148.
94
G. MENETTI, La storia, p. 150.
95
G. MENETTI, La storia, p. 151.
96
Isabella d’Este governò direttamente Solarolo dal 1529 al 1539, in seguito alla permuta di beni in Mantova col marito Francesco
Gonzaga (Solarolo era stato ceduto in pegno al cardinale Ercole Gonzaga nel 1514). La corrispondenza è conservata presso
l’archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga.
97
Mio compaesano, che ringrazio per la cortese comunicazione e per la disponibilità dimostratami.
93
68
permanenza in Solarolo, poiché la Marchesa, con tono seccato, così si pronuncia “passati venti
giorni, fategli capire di leversi di là”. Si accenna pure a possibili ritorsioni da parte dei nemici
imolesi, cioè dei nemici dei Ceroni contro Solarolo.
In una lettera datata 14 giugno 1563 il Commissario scrive ad Isabella:
«Recerchato da li Cironi banditi, allogiati qui in Solarolo in (execuzione) de litire de Vs. Ecc.
per quel tempo sono stati qui che non poteria dir cum quanta honestà ed obidientia se sono portati
et tanto gientilmente che se fossero frati de obsservantia e molti acostumati et li poverini da se
medesimi se rosegano per che li suoi carcerati non pono essere respediti et sono (strasinati) et
non gie vale litere del Rev.mo Mons. Cardinale di Medici nè la sua innocentia per essere il
Gubernator de Imola lo quale è Ramazoto li mena in longo ma pur sperano de essere expediti
per essere in Romagna il Capitano Baptistino (…) da Goito quale è socio del capitaneo Galeoto
(de….) qual non mancha de sollicitudine sempre che Sig. mia qui sono propinqui alle lor facultà
et ali parenti volontiere stariano ancor qui.
(Intanto) che li carcerati se expediscano li aricomando a Vs. Ill.ma S.ria in compiacerli de alongare
(el) termine per che quela non dubita che spero nel Si.( gnore) Dio che qui male alcuno non
occorra.
(Quale? Tale?) provisione ho fato e farò e per li suoi Boni deportamenti».
Con lettera del 23 giugno Isabella proroga l’asilo ai Ceronesi per un mese ancora.
Infine in una lettera del 30 Giugno Isabella fa intendere che il Preside della Romagna,
evidentemente sollecitato dagli imolesi, si era lamentato con lei per aver dato ospitalità ai
“banditi” perciò la marchesa chiude la faccenda con queste parole secche: “che si levino di
torno!”.
Lucio Donati commenta che i Ceronesi probabilmente erano ben raccomandati, ma la situazione
politica del tempo e le posizioni oggettive del feudo di Solarolo non permettevano eccessivi favori.
Precisa l’ingegner Pier Giacomo Rinaldi Ceroni e si deduce dalle lettere riportate che i Ficchi
ospitati a Solarolo non sono direttamente coinvolti nella morte di Raffaele Brunori Ceroni. Perciò
furono solamente fatti allontanare (o spontaneamente si allontanarono) da Imola, che all’epoca
era nelle mani di Ramazzotto.
4.4 La fine della signoria di Ramazzotto.
«Il 14 gennaio 1532 il papa creava conti della Valle del Senio i Calderini di Bologna, una illustre
famiglia che già da tempo aveva molti beni nella valle. Alla soppressione dell’Abbazia di Valsenio
aveva trasformato molti terreni avuti in enfiteusi, come proprietà privata. Probabilmente i Medici
avevano obblighi verso i Calderini e per Ramazzotto fu certamente un brutto colpo vedere che
la sua contea doveva fermarsi al Corso di Montebattaglia.
A Domenico Maria Calderini e a suo nipote Lodovico, il papa Clemente VII assegnava tutto il
territorio della valle a cominciare da Castelpagano, Montefiore (valle della Cestina), Baffadi,
Casola, Prugno, Valsenio, Mongardino e Settefonti.
I Calderini avevano il loro palazzo alla Buratta. Vennero da Bologna a Casola a prendere possesso
della nuova contea che reggevano tramite un loro commissario che all’inizio fu Valerio Passeri
di Tossignano e in seguito il bolognese Urso Caccianemici.
Fu una contea di breve durata anche perché Imola, che si era vista impoverita dallo
smembramento del suo contado, iniziò una contesa senza fine con la Santa Sede per riavere il
possesso di Casola e dintorni.
98
G. MENETTI, La storia, p. 150.
69
Dopo appena cinque anni la contea cessò di fatto98».
Nel 1534, con l’avvento di Paolo III al soglio pontificio finì anche la signoria di Ramazzotto
Ramazzotti. Egli, condannato in contumacia per diversi delitti99 e colpito anche da pene
ecclesiastiche, scampò alla giustizia pontificia riparando presso la figlia Attilia maritata in
territorio toscano, presso Pietramala. Morì il 14 agosto 1539100.
La pace per i Ceroni, però, non arrivò neppure con la morte del loro più acerrimo nemico poiché
oramai la mala pianta della discordia aveva messo profonde radici nella famiglia.
«Nel 1552, quando il cardinale di S. Giorgio, Girolamo Ricenati, Legato, ebbe bisogno di mettere
quiete a Faenza per un tentativo di tumulto generato dal sollevamento di militari, si rivolse alle
compagnie del contado sempre poco tenere col capoluogo101. Ebbene, i Ceroni arruolati
assommavano ancora a un trecento unità.
Quando i Ceroni avevano modo di sfogare sul campo di battaglia le loro energie prepotenti, c’era
pace fra loro, ma quando si trovavano in pace sulle rive del Senio, scoppiavano invariabilmente
feroci rivalità fra le casate.
Allontanati i Ficchi ora ci sono due famiglie in lotta fra di loro. È per supremazia? È per qualche
delitto generato da futile motivo? Difficile dirlo. Ora si combattono ferocemente i Rinaldi e i
Ravaglia. In diciotto mesi ben venti morti; più di uno al mese. I vari gruppi si divorano fra loro».
Questa la cronaca di don Domenico Mita102 relativa agli ultimi anni di gloria della famiglia Ceroni:
« Il propagarsi dei Ceroni e la loro fortuna suscitò i timori fra quelli lontani, invidia fra i confinanti
e gonfiò di tanta audacia e furibonda prepotenza i Ceroni stessi (e ciò soprattutto a causa di
Gellino, Relicco e Garrino nati per tralignare dalla razza generata dai nostri antenati), quanto
più si levarono in alto, tanto più vergognosamente ruzzolarono in basso.
Per loro si destarono inimicizie, feroci invidie, odi scellerati generati da futili motivi, non essendovi alcuno pronto a spegnere l’incendio nel suo nascere, e crebbero in modo tale che i Lancieri,
i più potenti, si divisero in due partiti; da una parte i Ravagli sostenuti soprattutto dai Loli e
dai Poli e dall’altra i Rinaldi seguiti dai Giacometti e dai Berti.
Si sospettavano di male a vicenda e si guardavano in cagnesco e non di rado si azzuffavano con
liti.
La situazione raggiunse un punto tale che non solo richiamò contro di loro le armi straniere, ma
li accanì ostinatamente a combattersi senza sosta, tanto che nel breve spazio di un anno e mezzo
ci furono e da una parte e dall’altra ben venti vittime, e quasi tutte fra i maggiorenti, uccise con
crudele ferocia.
Gli uni e gli altri sporgevano denunzia o presso il Papa Pio IV o presso il Gran Duca di Toscana
Cosimo I, accusando gli avversari di aver commesso numerosi delitti nei territori di quei Principi.
Si tirarono dunque addosso anche l’indignazione di quei Signori che non tralasciarono legge
alcuna per punirli nei beni e nelle persone. Venivano citati in giudizio e loro non comparivano,
così si attiravano l’esilio e la confisca dei beni103».
Scrive don Domenico Mita che «Venne riferito al Papa Paolo III che Ramazzotto per punire la violenza carnale subita dalla
propria figlia Attilia, attribuita a Francesco Montino di VaI Abate, aveva fatto morire costui appendendolo per i piedi ad
una finestra della Rocca (di Tossignano) e aveva ordinato la strage di tutta la sua famiglia, compreso i figli lattanti». In G.
MENETTI, La storia, p. 85.
100
G. MENETTI, La storia, pp. 152-153.
101
G. MENETTI, La storia, p. 155.
102
G. MENETTI, La storia, pp. 87-89.
103
Un esempio in S.BOMBARDINI, Archivio, p. 91. Sebastiano di Babino Ceroni il 24 Novembre 1557 viene condannato a morte
in contumacia per avar ucciso il bargello di Tossignano.
99
70
4.5 Il delitto commesso da Possente Poli.
Continua don Mita104:
«Ma il delitto più funesto fu quello che commise insensatamente Possente Poli. Poiché era stato
profondamente offeso dai Fabroni (di Marradi), casato nel quale aveva preso moglie, studiava
il modo di vendicarsi.
Guidò venti dei suoi a Marradi con l’intento di sopprimere i Fabroni che vi trovava, ma non riuscì nell’impresa e mentre coi suoi armati stava già ritirandosi, si imbattè in Pellinguerra, figlio
di Zanotto, custode della Rocca, e, per non restare a mani vuote, lo uccise e se ne fuggì.
Era quest’uomo molto caro al Gran Duca (di Toscana) e suo compare, per cui il Serenissimo,
informato dell’efferato assassinio, profondamente colpito, decise di vendicarlo nel modo più
impensato. Infatti, dopo aver avuto abboccamento col Papa (Pio IV), su questa faccenda, affidò
ad Angelo Guicciardini il comando di duemila soldati con ordini ben precisi».
Dice Antonio Metelli105 che «una fiera battitura […] stava per percuotere i Ceroni che nel castello
e nei contorni abitavano, la quale doveva spegnere affatto la potenza e quasi il nome dei
medesimi.”
“[…] per la morte di Pelinguerra, figliuolo di Gianotto Fabroni di Marradi che era stato castellano
nella fortezza di quella terra, avvenuta per le mani di Paolo de’ Ceroni, gli sdegni rompendo
ogni ritegno traboccarono. Scrissene Cosimo al Pontefice chiedendo pronta e solenne vendetta
e il Pontefice vedendo che nulla avevano finora giovato i bandi e le confiscazioni non ardì negarla.
Fu convenuto che, da una parte le genti del duca, dall’altra quelle del Pontefice, movessero contro
i Ceroni, sotto la condotta di Angelo Guicciardini e di Francesco del Monte».
«Il Guicciardini scese dai monti alpini con l’esercito schierato che andava ingrossandosi per
l’afflusso di volontari, nemici dei Ceroni, o attratti dal miraggio di bottino e saccheggio, che mano
a mano gli venivano incontro106.
Giunse a Susinana il 10 Settembre 1563. Qui lo raggiunsero, secondo quanto era stato concordato, un circa mille fra guardie e soldati delle milizie pontificie che i Prefetti avevano arruolato
nelle città vicine e nei contadi allo scopo di prestare aiuto al Guicciardini. Le truppe si riunirono
e per quattro giorni stazionarono nella valle mettendo a ferro e fuoco quanto si trovava fra Baffadi
e Sassatello. Violando diritti umani e divini, al pari di Turchi o di senzadio, non tralasciando
alcuna scellerità.
Un centinaio di case dei Ceroni, del tutto innocenti, furono date alle fiamme dopo essere state
saccheggiate, senza che alcuno facesse resistenza. (I nostri, evitando i soldati, si erano recati
altrove per non incorrere, se avessero combattuto, nelle più severe repressioni del pontefice).
Infine furono catturati Bartolomeo e Lorenzo Ravagli, già da tempo proscritti, che si ritenevano
al sicuro a Castel del Rio presso Ciro Alidosi. Condotti in catene a Firenze qui vennero decapitati.
Tutta questa accozzaglia, che più giusto sarebbe dire di banditi invece che di militari, ricevette
finalmente l’ordine dal Prefetto della Provincia di ritirarsi. Cosa che fecero lietamente, carichi
com’erano di robe depredate. Il danno di tanta rovina fu stimato a ottantamila monete d’oro.
Furono subito spediti a Roma ai piedi del Papa, come ambasciatori del Comune: Pietro Poli e
Annibale Ungania a presentar querela per le ingiurie e i danni ingiustamente subiti. Il Papa,
Un esempio in S.BOMBARDINI, Archivio, p. 91. Sebastiano di Babino Ceroni il 24 Novembre 1557 viene condannato a morte
in contumacia per avar ucciso il bargello di Tossignano.
104
G. MENETTI, La storia, pp. 89-90.
105
A. METELLI, Storia, vol. 2, pp. 282-284.
106
G. MENETTI, La storia, pp. 90-94.
103
71
conosciuto troppo tardi come erano andate le cose, ne restò scosso e fece inviare lettere in cui
si comminava la scomunica ai predatori che, alla terza ammonizione, non avessero restituito il
mal tolto. Quando, a ministero dei parroci, furono divulgati in Toscana gli ordini del Papa, i
nostri ambasciatori furono fatti segno a minacce e paure da parte dei sicari e così, a mani vuote,
dovettero partirsene.
Così i Ceroni dei quali la fortuna aveva mutato i loro costumi, privi di mezzi, fiaccati di animo
e di forze, costretti dalla necessità, deposero le armi, si diedero con cura ai lavori agricoli, al
restauro delle loro case e a ricercar di nuovo di stringersi fra loro in buoni accordi.
Morto il Gran Duca Cosimo il Grande, gli successe Francesco I. Questi trattò con bontà i Ceroni, accolse le loro suppliche e fece grazia a 120 dei loro già banditi dai suoi stati e tutti riammise
nel suo favore.
Paolo (o meglio Aldo) Manuzio che era segretario degli Otto, descrive tutto ciò in un documento scritto il 4 Luglio 1577. Da quel momento dunque i Ceroni, ritornati nell’ antica obbedienza
di quei Serenissimi Principi, li servirono per molti anni sia in guerra che in pace ottenendo da
loro favori e dignità».
Aggiunge Antonio Metelli107 che «la battitura data ai Ceroni aveva fruttato migliori consigli fra
quella stirpe, la quale veggendosi in odio al Medici e in sospezione del pontefice ed assediata
da ogni parte da molti nemici pronti ad offenderla né miglior modo trovando di assicurarsi o
sostenerne l’impeto che col restringersi validamente insieme ed impor fine alle domestiche
discordie erasi raccolta nel borgo di Casola (foglio 396, archivio pubblico notai Casola, atti di
ser Giacomo Spada) dove i capi delle varie agnazioni cioè Rinaldi, Giacometti, Ravagli, Poli,
Lauli avevano fra loro davanti Giovammaria Mariscotti, che vi stava a Commessario, giurata
perpetua pace sotto pena di secento scudi d’oro con patto che solo per arsioni o per morti non
per ingiurie o per mutilate membra rompere si potesse».
4.6 Restitutio Offici Casulae Vallis Senni.
Risalgono al 1566 alcuni documenti108 nei quali la Comunità Imola chiede la restituzione al
Presidente di Romagna ed al Pontefice del territorio di Casola Valsenio. Vi si legge infatti:
«Al molto Rev.do Sig. Commissario Mons. Il Preside di Romagna (…) molto detta Comunità
d’Imola li ha supplicato Nostra Grazia che se le restituisca il Governo della Valle di Casola,
come aveva avanti che ne fosse privata da Pio IV di S. memoria. Il che è parso a S. Santità
ragionevole (di nominare?). Ergo ha voluto farne loro gratia. Così ha concesso che scriva a V.S.R.
che piglia prima informatione dagli Huomini di quella Valle, se vogliono tornare sotto il detto
Governo d’Imola; trovando che se ne contentino, dar ordine che si rinnova il Consiglio che sian
si trova(to) in detta Valle, che la città vi mandi il Suo Uffiziale come era solito di fare, per prima,
avertendo che quei cittadini che non manchino di tenere le balanze de la pesa equali et di fare
in modo che S.S.tà resti ben satisfacta delle attioni in proveder lor che non si sono poste con
ragione de lor lettera non extendendo questa, per altro, mi offro a V.S. Dì Roma, alli 9 del marzo
1566».
Di seguito la risposta della Comunità di Casola:
«Alli Molto Magnifici Sig.ri. Il Sig. Gonfaloniere; Sig.ri Conservatori della Magn. Comunità di
Imola: Molto Magnifici SS.ri et patroni nostri sempre osse.mi; per l’ultima resolutione di questo
107
108
A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 288.
Il recupero e la trascrizione sono da attribuire a don Guerrino Ceroni, parroco di Casola Canina, abile storico e appassionato
conoscitore delle gesta della sua stirpe.
72
benedetto negotio di reunirci insieme con questa Magnifica Comunità, habbiamo il Capitano
Tonniolo de Loli, mess. Pietro Babini, m. Leone de Ravagli et ser Annibale Ungania, per nostro
conseglio eletti et deputati sopra tal negotio con ampla et piena autorità, con permissione che
tutto quello per elli sarà fatto in questo negotio, noi l’haveremo per grato, rato e fermo, ai quali
la Signoria Vostra li presterà in nome nostro quella audientia, et vorà farlo che in simil negotio
si richiede e facci di bisogno, che il sommo Iddio lo feliciti et sempre conservi. Di Casula il dì
5 di Aprile del 1566 Alli servitij delle SS.VV.Mag.ca, li Consiglieri et Huomini della Valle di
Casola affettuosissimi».
Si deduce, leggendo i nomi dei rappresentanti eletti dai Consiglieri di Casola, quale peso avessero
ancora i Ceroni in questa valle, anche dopo la fiera battitura ricevuta dall’esercito guidato da
Angelo Guicciardini.
Si vedrà nel capitolo successivo che in realtà quanto scrisse Antonio Metelli109 e cioè che dopo
la fiera battitura ricevuta dall’esercito pontificio i Ceroni rimasero così mogi che in Romagna
non fu più udito parlar di loro non è completamente vero: anzi, dai documenti parrebbe ben
altro.
109
A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 284.
73
Capitolo 4
1. Le famiglie appartenenti alla Consorteria
Come si è detto in precedenza, poteva accadere che «i clan più influenti provocassero legami
soprafamiliari e radunassero una vasta clientela, più artificiale, composta da numerosi alleati
ed amici».
Si è parlato di queste alleanze sottolineando come esse, sovente, si rivelassero effimere e si è
accennato al fatto che, certamente per mancanza di testi interni, sfuggono quasi sempre allo storico.
La Consorteria dei Ceroni rappresenta decisamente in Romagna una unione di famiglie con le
caratteristiche sopraindicate.
Ghislieri1, a proposito della fattione guelfa, dopo aver nominato li Sassatelli d’Imola, dei quali
si è avuto modo di parlare nel capitolo precedente, dice che li contadini della lor fattione sono
gli Ceroni (se bene divisi per le inimicizie).
Anche se non vi sono documenti espliciti a proposito si suppone che molte famiglie del contado
fossero legate ai Ceroni, necessitassero della loro protezione e appoggiassero le loro azioni.
Conferma lo storico Leonida Costa che «i Ceroni costituirono nella Valle del Senio […] una sorta
di “gens”, vale a dire complessi di famiglie legate saldamente fra loro da una comunanza di
origini, interessi, e, soprattutto da uno spirito di corpo quasi militaresco: quando un nucleo
familiare, a seguito di omicidi, ferimenti, oltraggi, truffe, entrava in lotta con casate nemiche,
tutti gli altri, solidali e armati di tutto punto, accorrevano a dar manforte».
Si è avuto modo di vedere, del resto, che proprio il venir meno di questa solidarietà interna fu
la causa del “declassamento” della gloriosa Consorteria a uno dei tanti gruppi validi per
l’arruolamento2.
Tra le famiglie che sarebbero appartenute alla Consorteria Pietro Salvatore Linguerri Ceroni3
cita i Galli, i Belloni, i Forchini, i Merli ed i Soglia.
È poi probabile che anche la famiglia Ozzani, poi detta Tozzoni, della quale già si è avuto modo
di parlare, facesse parte della Consorteria.
Scrive Pier Giacomo Rinaldi Ceroni4: «si ritiene con una certa sicurezza che la nobile famiglia Tozzoni
G. P. GHISLIERI, Descrizione, p. 30.
G. MENETTI, La storia, p. 156.
3
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 24.
4
P.G. RINALDI CERONI, Lo stemma dei Ceroni di Romagna, ciclostilato.
1
2
75
di Imola, per aver abitato per circa quarant’anni a Casola, facesse parte della Consorteria dei Ceroni
e che in seguito ne abbia preso lo stemma. I Tozzoni, ricca ma non nobile famiglia di Lucca, furono
cacciati dalla città dai ghibellini, essendo di parte guelfa. Si rifugiarono dapprima a Ozzano, vicino
a Bologna e successivamente, non essendo più sicuri nemmeno in quella zona, si trasferirono a Casola
Valsenio, che allora era uno dei pochi rifugi sicuri per i guelfi, dove vissero per alcuni decenni (dal
1340 al 1376 all’incirca). Terminato il pericolo delle roventi divisioni tra guelfi e ghibellini essi si
trasferirono a Imola, dove prosperarono nel commercio. Quando successivamente acquistarono il
titolo nobiliare adottarono lo stemma che probabilmente per loro era più famigliare, cioè quello dei
Ceroni, con cui avevano vissuto per molti anni: un cervo rampante (senza giglio nella zampa) color
naturale in campo rosso con in capo tre gigli di Francia in campo azzurro».
I Ceroni erano poi legati ai Naldi, dei quali erano diventati parenti grazie a diversi matrimoni.
2. Lotte e tregue.
Si è avuto modo di parlare nel capitolo precedente del carattere bellicoso e rissoso degli uomini
della Val d’Amone, carattere che li rendeva particolarmente abili nelle armi e facili a menar le
mani. Si è detto, altresì, che questo vale particolarmente per la gens Ceronia.
Tantissimi sono gli episodi narrati da diversi autori, tra cui in primis Sanzio Bombardini e Antonio
Metelli, nei quali i Ceroni si distinguono per queste loro particolari caratteristiche. Moltissime
sono del resto le tregue e le paci che essi firmano5 con famiglie rivali della Valle, fatto indicativo
di per sé della bellicosità delle persone del tempo in genere. Ognuno poi potrà immaginare quanto
valore queste paci e tregue avessero, ironizza monsignor Giancarlo Menetti6.
Si ricordano tra le varie paci, le due più importanti firmate nel 1565 e nel 1577 tra le famiglie
Ceroni e quella firmata nel 1555 tra i Ceroni e i Costa7.
Quella che segue è la cronistoria di alcuni episodi, scelti tra i più significativi.
2.1 I Ceroni contro i Caroli. Il delitto Rondanini.
«Verso l’anno 1490, un sacerdote della famiglia Ceroni ritornava in patria da Roma con un diploma
col quale il Sommo Pontefice lo nominava Parroco della Pieve di Apro (Pideura)8.
Sull’Appennino venne assalito da sicari, derubato del diploma e fatto segno a molte ingiurie e
percosse.
I Ceroni, persuasi che ciò fosse opera commissionata dalla famiglia Rondanini, che pure aspirava a quella Pieve, giudicarono di non dover passare sopra, nè tollerare a lungo un’ingiuria così
grave e incaricarono Cesare, figlio di Rinaldo, di farne vendetta».
Monsignor Giancarlo Menetti afferma che probabilmente l’episodio è da inserire tra i dissidi
tra i Caroli e i Ceroni, dissidi che avevano mietuto in Val d’Amone già diverse vittime. I Caroli,
infatti, erano molto vicini alla famiglia Rondanini e tanto bastava per fare vendetta.
Continua don Domenico Mita narrando che Cesare Rinaldi Ceroni «allora, con undici uomini
armati entrò in Faenza; in piazza si imbattè con Sisto Rondanini, segretario dei principi Manfredi
e uomo di corte; lo uccise a frecciate e scappò dalla città. Uno del gruppo però, durante la fuga,
smarrì la via giusta. I suoi compagni, non vedendolo uscir fuori, tornarono in città per dargli
una mano. Ma la faccenda andò in modo diverso da come era stata progettata. Per ordine del
Ampio catalogo in appendice a L.COSTA, Storia ed economia della Valle del Senio nel I° quarto del sec. XVI.
G. MENETTI, La storia, p. 144.
7
Di cui si ha anche il testo, inviato dallo storico Leonida Costa in ciclostilato ai Ceroni in ricorrenza della festa di S. Giacomo
del 6 Agosto 1996.
8
G. MENETTI, La storia, pp. 39-41.
5
6
76
Pretore, infatti, si chiusero subito le porte e fu dato l’allarme. I soldati corsero alle armi, i colpevoli
furono tutti arrestati e tradotti dalle guardie nelle carceri della Rocca».
La storia poi ebbe lieto fine per i Ceroni, sembra soprattutto grazie all’intervento di Lorenzo il
Magnifico, al quale essi si rivolsero implorando la grazia, essendo egli tutore del principe Astorgio
III, che all’epoca aveva solo sei anni.
Pare che lo stesso Lorenzo suggerisse ai Ceroni il modo di uscirne. Fatto sta che «i Ceroni ritornati
pertanto pieni di fiducia a casa loro, raccolsero una schiera di uomini, andarono a Faenza e assaliti
all’improvviso diciotto persone di corte che si recavano alla chiesa dell’Osservanza, posta fuori
delle mura, li sequestrarono e li condussero subito sotto scorta, come ostaggi, nella rocca di Monte
Mauro e li liberarono soltanto quando i quattro9 prigionieri in catene di cui si è detto, non furono scambiati con questi personaggi, senza condizioni, così, alla pari».
Continuarono comunque i dissidi, forse anche più forti, dopo quest’episodio che aveva lasciati
impuniti gli assassini.
Dice Antonio Metelli10 che «ovunque nella Valle di Amone era guerra e furore» e mentre nella
valle si tentava di riportare la pace «ecco furiosamente insorgere diversi contrasti tra Carroli
e Ceroni e ridestando le sopite inimicizie col fuoco e col ferro tirarsi a distruzione».
I nipoti di Dodo da Montevecchio (Carroli) pretendevano che i Ceroni «andassero loro debitori
di certa quantità di pecunia. O che i Ceroni sel negassero o che l’odio, che mai non si spegne
per accordi quando la contenzione fu prodotta fino al sangue, rodesse i Carroli, avvenne che
questi ruppero ad un tratto e disfecero certe vie rurali per cui solevano tener passaggio Alessandro
di Fecco e Nunzio di Perusino da Cerone».
I Ceroni per questo erano costretti a percorrere una via più aspra e nacquero “gravi dispiacenze”.
Dalle parole ai fatti, era stata dichiarata guerra.
«I Ceroni per dar principio ad una gran vendetta raccoltisi insieme e venuti sotto le case dei
Carroli vi appiccarono il fuoco onde essi, colti all’improvviso, ebbero a gran fortuna l’abbandonarle
fuggendo di mezzo alle fiamme e sotto i colpi dei loro nemici che poscia le svaligiarono. I Carroli,
per rappigliarsi, strettisi anch’essi co’ loro congiunti e parziali entrarono di pien meriggio tutti
armati nella scuola di Montecchio e corsi alla chiesa di San Leonardo, ove teneva grado di priore
un figliuolo di Rainaldo da Ceronio, scoperchiaronvi una fossa dentro cui giaceva molto grano
accumulato e tutta quanta gliela votarono. Poi le insidie e le morti reciproche crescendo ognora
la concitazione e la rabbia maggiori e più funesti casi presagivano».
Continua infatti Antonio Metelli11: «le discordie nella valle di Amone per tutto il tempo che arse
la guerra in Romagna non vi erano state affatto in silenzio, anzi la sola tra Ceroni e Carroli vi
era tanto oltre proceduta che già le stirpi piangevano la morte di sei dei loro consorti caduti
sotto i pugnali, né per questo facevasi da una parte e dall’altra alcun segno di temperarsi dalla
tremenda rabbia che li occupava».
Sembra poi che si giungesse ad una pace momentanea. Narra infatti lo storico che Vincenzo di
Naldo e Ricciardo di Ferroni de’ Galamini si proposero come arbitri per mettere a tacere quegli
sdegni. «Comprate in proprio nome dalle parti le funeste terre che erano state causa delle spietate
morti quelle distribuirono ne’ contendenti a modo che più poi non avessero ad aprire il campo
a nuove risse e condannatili alla restituzione delle maltolte cose e al soddisfacimento dei danni
con intimi baci ed abbracciamenti firmarono tra loro la pace».
Gli altri prigionieri erano già stati liberati grazie all’intervento di Lorenzo de’ Medici.
A. METELLI, Storia, vol. 1, p. 459 e ss.
11
A. METELLI, Storia, vol. 1, pp. 468-469.
9
10
77
2.2 Storie di Ceronesi.
Scrive Sanzio Bombardini12:
Nella seconda metà del 1500 i più gravi episodi di banditismo che si verificano in Val di Santerno
e di Senio sono in gran parte il frutto della rivalità di cinque famiglie e rispettivi aderenti, che
avevano avuto origine nel castello di Ceruno, sopra Casola Valsenio.
Un uomo divenuto potente in quella località, Giovanni detto Lancere da Ceruno, già morto nel
1491, aveva lasciato cinque figli:
Rinaldo, capostipite dei Rinaldi-Ceroni,
Giacomo, che dà origine ai Giacometti-Ceroni,
Bartolomeo detto Ravaglio, capo del ramo dei Ravaglia-Ceroni,
Paolo (Polo), i cui discendenti si chiameranno Poli-Ceroni,
Lolo, che fonderà la famiglia dei Lolli-Ceroni.
I figli ereditarono dal padre spirito irrequieto e bellicoso, insieme a notevoli sostanze che li resero
potenti e temuti.
Ma forse per questioni di eredità e di prestigio si scatenò tra loro una rivalità senza pari, destinata
ad accrescersi nei discendenti, che finiscono per diventare gli uomini più facinorosi della zona.
La crescente ostilità delle cinque famiglie produce stragi, uccisioni, ruberie, violenze di ogni
sorta, che si ripercuotono sulle popolazioni e ne accrescono la miseria.
Il capostipite dei Ceronesi, il vecchio Lancere, si sarebbe davvero rivoltato nella tomba, se avesse
potuto aver notizia di ciò che combinavano i suoi discendenti.
Nell’Archivio criminale di Tossignano le storie di Ceronesi incriminati sono all’ordine del giorno
e spesso si accompagnano alla descrizione di atroci misfatti.
Se ne ha subito un saggio nel primo volume di Atti della Curia, che inizia il 2 maggio 1542.
Era stata tesa un’imboscata alle Pedriaghe a Gaspare dal Pozzo e fra i sei aggressori c’era anche
messer Cesare Rinaldi Ceroni. I dal Pozzo furono sorpresi mentre zappavano in un loro campo,
Gaspare fu ferito ad archibugiate e suo figlio Andrea, un giovinetto che non aveva ancora pelo
sul volto, restò ucciso, pare da un colpo sparato proprio dal Ceronese. Ma non ci sono le carte
del processo. Figura soltanto l’interrogatorio di Battista fu Giacomo da Borgo, che partecipò a
quella impresa delittuosa. Dopo lunga tortura sulla corda e lamenti continui, egli confessa il
nome di coloro che componevano il gruppo, cioè Giovanni Nanni da Dozza, Spinello da Ponticelli,
Lutrecco e Mengone, oltre a lui e al Rinaldi, del quale non voleva fare il nome assolutamente.
Prima dichiara che Cesare Rinaldi si recava spesso dal cavaliere Azzali al Serraglio, e talvolta
dai Nanni a Dozza, poi confessa di averlo visto anche alle Pedriaghe e non solo quella volta
che spararono ai dal Pozzo. Avevano infatti compiuto altri atti banditeschi e teso agguati a
Matteo Antonio della Costa, ad Andrea Ferlini e a Salvatore del Zuffa. Appare dunque da
questa confessione che un Cesare Rinaldi Ceroni viveva alla macchia nel 1542 con un gruppo
di banditi.
2.3 Scontri tra Ceroni e Cavina. L’eccidio di Valmaggiore.
Narra Antonio Metelli che, una volta divenuto papa Giulio Cardinale de’ Medici, col nome di
Clemente VII, egli «applicò l’animo a fermare i perigliosi moti che vacando la sedia pontificia
erano sorti in Romagna».
Francesco Ferro (auditore del Presidente Niccolò Buonafede, vescovo di Chiusi) era stato mandato
per Romagna proprio «affinché in qualità di commissario vi riducesse i cittadini alla pace e la
12
S. BOMBARDINI, Archivio, pp. 89-94.
78
concordia e la quiete, che da qualche tempo ne erano bandite, ristorasse13».
Arrivato a Brisighella egli chiamò i Cavina e i Ceroni, per paura che a causa della loro perpetua
inimicizia potessero accorrere guerre, pregando ambo le parti che volessero «quell’amabile concordia
temporanea con più solenne atto riaffermare, affinché qualunque piccolo insulto non avesse a violarla
ma soltanto per omicidi o per perdita di membra o per fraudolente arsioni di biade o di abituri
rompere si potesse. Nel chè, mostrandosi essi ossequianti giurarono sulle sacre pagine ferma e
stabile osservanza14».
Quanto sincera e ferma fosse quella promessa lo si può facilmente capire dal prosieguo del
racconto: lo storico narra che non appena il commissario partì, i Ceroni radunarono un buon
numero di guelfi e mossero «a danni di Tossignano, spargendo da per tutto la confusione e lo
spavento. Quali opere vi commettessero nell’esercizio di questa barbara vendetta non appare
dai documenti che ora ci restano, bene è a credersi che fossero spietate e degne della ferocia
degli animi irritati dai passati fatti, poiché raccoltosi poco dopo il consiglio generale di quel
castello si prese deliberazione di richiamarsi al presidente di Romagna per quell’accesso
deputando due di loro a movere querela contro i suddetti, che armata mano erano andati in offesa
a Tossignano».
E le discordie tra le due stirpi continuarono ben oltre il 1524, data in cui avvenne, secondo
Antonio Metelli, l’attacco a Tossignono.
Scrive infatti Sanzio Bombardini15:
«Sta sorgendo l’alba del 15 marzo 1560 nella pittoresca località di Valmaggiore, che appartiene
allo Stato di Tossignano, di cui è feudatario Antonio Carafa, marchese di Montebello, nipote
di papa Paolo IV.
Pare un giorno come un altro e quelli che si sono già alzati attendono alle loro faccende. Don
Morando fu Mazzone dei Baldisserri da Ceruno, rettore di S. Maria di Valmaggiore, si dà da fare
in chiesa, aiutato dal nipote Allegrante figlio di Nesio di Mazzone che convive con lui, perchè
quella mattina doveva celebrare un ufficio. Il colono del prete che abita in una casa attigua alla
chiesa, Pietro fu maestro Martino del Sarto, sta governando le bestie nella stalla, la sorella Ermilia
e sua madre Sandra si alzavano per la messa e l’altro fratello Lorenzo di 19 anni era già uscito
per raccogliere delle frasche da dare alle pecore.
La maggior parte degli abitanti del paese si trova ancora a letto, quando scoppia il dramma.
Ad un tratto esce dalla canonica una cagnetta, affezionatissima a don Morando, e si mette ad
abbaiare furiosamente nella direzione dei ruderi del Castellaccio che sorge poco sopra la chiesa,
anzi vi si avvia risolutamente e corre abbaiando avanti e indietro lungo le «murazze» del vecchio
fortilizio, avvertendo la presenza di estranei.
Allarmata dal contegno della cagnetta, Ermilia richiama il fratello Lorenzo e lo manda a vedere
di che si tratta.
E Lorenzo va su, aggirando la muraglia per entrare dal varco della porta, ma ha appena girato
l’angolo che quattro uomini armati, appiattati nell’interno, lo afferrano alla gola e gli tappano
la bocca.
Non si è ancora riavuto dallo stupore che giunge la chiamata della sorella, e poi la voce di Don
Morando, uscito di chiesa insospettito, che lo chiama ripetutamente.
I Baldisserri Ceroni vivevano di soprusi e di prepotenze nella zona, di cui s’erano praticamente
A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 83.
A. METELLI, Storia, vol. 2, p. 84.
15
S. BOMBARDINI, Archivio, pp. 119-123.
13
14
79
impadroniti venendo da Ceruno al seguito di don Morando, perciò stavano sempre all’erta.
I banditi provano un senso di smarrimento, temendo di essere scoperti e confabulano tra di loro,
poi allentano la stretta e dicono al giovane di rispondere. Ma quello con destrezza si svincola,
salta sulla muraglia e si butta dalla scarpata, urlando a squarciagola:
«Aiuto, tradimento! Fuora, fuora, che l’è pieno il Castello di gente!»
Né si ferma alla chiesa, ma si precipita in basso, verso l’abitato di Sozzuro, sempre gridando:
«Arme, arme, Ciruno, Ciruno, a Valmagiore!».
Ormai scoperti, i banditi escono in frotta dal castello; sono i Cavina, nemici mortali dei Baldisserri
Ceroni, che si erano appostati lì durante la notte con l’intento di uccidere don Morando.
È una masnada di diciassette uomini, armati di tutto punto, guidati da Gentilotto Cantoni da
Cavina. Hanno maglie di ferro, stocchi e pugnali alla cintura, impugnano picche, balestre,
archibugi e roncole.
Oltre al capobanda ci sono altri dodici da Cavina: Domenico e Vincenzo di Tommasino, Cesare
di Ettore, Melchiorre di Rugante, Piero di Sandretto, Stefano di Renzo, Arcangelo di Toso, Maso
di Giuliano, Giovannino di Milano, Pino e Babino di Cristoforo della Rocca, Poletto di Tonino,
e con loro stanno Gaspare di Cesare da Trarlo, Francesco detto Minuzzolo dei Facchini di Budrio
di Lugo, Nicola di Storano da Medicina e Alberto detto Penzolino da Lugo.
Don Morando si precipita in casa col nipote e vi si barrica; il bovaro Pietro si chiude nella stalla
senza fiatare per lo spavento; la vedova Sandra urla e chiama aiuto dalla finestra della sua casetta,
ma poi, sotto la minaccia degli archibugi, si appiatta e zittisce e altrettanto fa l’altro suo figlio
Morando di 23 anni, mentre la figlia Ermilia va di corsa verso l’abitazione di Giovanni, fratello
del prete, invocando aiuto, inseguita da un bandito che le gridava: «Ah, porca traditora, che ti
voglio ammazzare!», ma non la prese.
Intanto i banditi si accaniscono contro la porta della canonica per forzarla con le loro aste, urlando:
«Ah, prete, prete, tu non la scaparai questa volta, che ti amazaremo!», la colpiscono a mo’ di
ariete con una grondaia per l’acqua e infine vi scaraventano contro a più riprese un pesante
mortaio di pietra, trovato nei pressi, che serviva per fare l’agliata, ma la porta è solida e resiste;
allora per fare presto, prima che accorra gente, si buttano contro la porta della chiesa, senza
alcun riguardo al luogo sacro, e fanno leva tra le fessure per scardinarla.
Don Morando e Allegrante accorrono arditamente, armatisi di fagiole e con le punte di ferro
attraverso le fessure menavano colpi per tener lontani i banditi, ma uno di essi spara
un’archibugiata che per fortuna non li coglie, e poi facendo impeto infrangono le serramenta
abbattendo la porta e invadendo la chiesa, senza riguardo alcuno alla Madonna e ai Santi.
I luoghi di culto allora godevano di una immunità che era rispettata perfino dai più feroci
fuorilegge (i quali se ne servivano spesso), e anche dalle forze di polizia e dai soldati, che non
potevano violare il diritto d’asilo.
Rapidamente don Morando e il nipote si mettono in salvo nella canonica per la porticina dietro
l’altare e fanno appena in tempo a sbarrarla, che già gli assalitori cominciano a percuoterla.
Quei furfanti vi sparano contro una seconda archibugiata che per poco non coglie il prete dall’altra
parte, ma anche il coraggioso Allegrante, che ha appena 16 anni, si è armato di un archibugio
e spara contro i banditi da un finestrino che dà all’interno della chiesa e ciò li rende più
guardinghi. Anzi, visto che anche quella porta resiste e che la sorpresa non è riuscita, pensando
che stiano per arrivare soccorsi, decidono di svignarsela.
Intanto le grida e il fragore delle archibugiate hanno svegliato il paese. Giovanni fu Mazzone,
di 53 anni, fratello di don Morando, balza dal letto, si veste frettolosamente, impugna una picca
80
e seguito dai suoi tre figli, Leone di 25 anni, Marcantonio di 23, Ceruno di 18, anch’essi armatisi
alla meglio, si precipita verso la chiesa. Anche Nunciata dei Righini di Tirli, la giovane moglie
di Leone, che stava vestendo una sua figlioletta, afferra uno «spontoncino» ed esce
coraggiosamente di casa, coi suoi uomini.
Mentre si affannano su per l’erta, sotto il castello, in località la Maestà la masnada dei fuorilegge
rovina loro addosso con la furia di una valanga.
Si appicca un zuffa furiosa, rapidissima, tra urla selvagge e colpi all’impazzata; il giovane Ceruno
che precede gli altri cade subito sotto una gragnuola di colpi e Gentilotto passando di corsa si
china sul caduto e con un colpo di pugnale gli squarcia la gola; subito dopo, trafitti da numerose
ferite e coperti di sangue, cadono anche il padre e gli altri due figli, e su di essi non indugiano
i banditi, che li credono morti e stanno correndo verso la strada della Collina che porta alla Paventa
e alla Faggiola.
Il crudele Gentilotto, che chiude la ritirata, non perdona nemmeno la povera Nunciata, che gridava
di spavento ferma sulla strada, le trafigge il braccio sinistro e la mammella con un colpo di
balestra, si china sulla donna caduta per recuperare il verrettone, che strappa dalla ferita e poi
la fa ruzzolare con una pedata giù dal greppo. Subito dopo ricarica l’arma e la scarica addosso
ad un giovanetto che sta accorrendo, disarmato, seguito dal padre. Per fortuna il colpo va a vuoto.
Si tratta di Michele fu Carlino da Gualdifuso, contadino di Compadretto dei Rinaldi Ceroni di
Tossignano nel podere di Bigoncio, e del figlio Matteo. Egli conosce bene Gentilotto, perchè è
stato contadino per dieci anni di Gentilino di Romano da Cavina a Valunga e anche il bandito
lo riconosce e lo rimprovera per esser accorso: «Che volevi tu fare qui pover homo, che io so
andato a risico de amazare lo tuo figliolo!» e poi si volta ai suoi e grida: «Sono amici, non fate
loro del male!».
Il contadino nota che uno dei banditi, Francesco detto Minuzolo, sanguinava dal capo per un
colpo di ghiavarina.
E così la banda lascia Valmaggiore.
Vengono allora raccolti i feriti e portati nella loro casa, fra le imprecazioni degli uomini che
gridano: «Siamo stati assassinati da quelli di Cavina!» e il pianto disperato delle donne.
Don Morando e Allegrante escono circospetti dalla canonica e il prete monta a cavallo per dirigersi
a spron battuto verso Tossignano a chiamare messer Gherardo Dolciati, valente fisico e cerusico,
perché intervenga con la sua scienza a riparare ai mali della malvagità umana.
Sul terreno, solo, guardato pietosamente da una piccola folla silenziosa, al Poggiolino, sotto il
castello di Valmaggiore, rimane il cadavere di un giovane di 18 anni, vestito di panni bianchi,
già ordinato «in sacris», colpito con quattro pugnalate alla testa, ferito in più parti del corpo,
con la gola orrendamente squarciata, in un lago di sangue, e gli occhi sbarrati ancor pieni di
stupore e di paura. È così che trova il povero Ceruno il piazzaro di Fontanelice, Gian Gattista
Balotta, mandato dalle autorità a compiere il sopraluogo di rito.
Segue poi la denuncia del fatto criminoso da parte del massaro di Valmaggiore, Giacomo fu Tonio
da Rebezano, abitante a Sozzurro, davanti al Commissario di Fontana, che dà ordine alla sua
cancelleria criminale di iniziare gli atti del processo.
Ser Fabrizio Magnani, procuratore fiscale, fa citare a più riprese i da Cavina e l’ultima citazione
a comparire si fa nella chiesa di Valmaggiore il 30 marzo. Naturalmente i banditi rimangono
latitanti; essi vivevano già alla macchia per delitti precedenti, a cui si aggiungeva
quest’ultimo.
Anzi i Cavina avevano organizzato ben tre bande armate, una delle quali abbiamo vista in azione;
81
una seconda di undici uomini, capeggiata da Enea di Gianino di Simone, comprendeva Bastiano
di Ottaviano, don Battista di Rugante, Renzo di Tonino, Bimbo di Renzo, Taviano di Liseo, Giulio
di Gentilino, Cristoforo di Babone, Arcangelo di Domenico, tutti da Cavina, più due di Lugo,
Stefano detto il Rosso e Lodovico detto Nigrino.
La terza, guidata da Gaspare di Tomasino di Gaspare da Cavina, ne annoverava dieci, cioè il
capo, più Ballone e Liseo di Ottaviano, don Virgilio e Orazio di Gentilino, don Taddeo, Cristino
di Sandretto, Giovannone di Tonino, tutti da Cavina, a cui si erano aggiunti Girolamo Facchini
da Cotignola e Girolamo dei Ricci da Canale Arrabbiato.
Contro tutti costoro, che però rimanevano contumaci, pronunciò sentenza definitiva di condanna
a morte per decapitazione, confisca dei beni e bando da tutto lo Stato dello Chiesa il Governatore
di Tossignano, messer Giovanni Domenico Troni da Sant’Arcangelo, dottore in leggi, il 26 giugno
1561, e a cura del cancelliere per gli affari criminali, ser Donato fu ser Lattanzio dei Sercecchi
di Fontana, fu divulgata in tutto il territorio di Tossignano e nella chiesa di S. Maria di Valmaggiore.
A conforto dei lettori, aggiungerò che deposero come testi al processo tutti i feriti del 15 marzo,
guariti nello spazio di tre mesi dall’arte medica di messer Gherardo, che con un certo orgoglio
può esclamare: «Con la grazia di Dio li ho guariti, ma erano ferite mortalissime!»
Giovanni aveva avuto quattro ferite: una al capo e una alla mano sinistra di pugnale, due alla
schiena di picca; Marcantonio era stato colpito sei volte: alla mammella destra, tre ferite di picca
nella schiena, una al braccio destro, una alla tempia; Leone ha riportato sette ferite, e anche
la coraggiosa Nunciata potè dire di averla scampata bella. Il 13 settembre 1590 viveva ancora
col marito Leone al quale aveva portato in dote la cospicua somma di Lb. 600.
Si vede che la tempra degli uomini di allora era veramente eccezionale. Quanto a don Morando,
avrà fatto per lo meno un monumento alla sua fedelissima cagnetta».
2.4 I Ceronesi contro i Veroli. Lo smacco di Cesena.
Un altro episodio che ha per protagonista la famiglia Ceroni è quello che segue, ripreso sempre
da Sanzio Bombardini nell’archivio criminale di Tossignano16.
«Il 24 gennaio 1573, di sabato, partono da Casola Valsenio nove Ceronesi per andare alla guerra:
sono stati assoldati come cavalieri di lieve armatura dal capitano Brunoro Zanfoschi, che ne
aveva richiesti 10 al «Generale» di Cerone per conto del Duca d’Urbino, scrivendo che glieli
facesse trovar pronti a Rimini dopo otto giorni.
Era un’impresa militare per conto della Chiesa, approvata anche dal Presidente di Romagna,
ad ogni modo i Ceronesi erano abituati a simili avventure perché vivevano di rischio, del soldo
e del bottino di guerra, di estorsioni e anche di rendita.
Sono ser Babino di Bastiano, che li ha arruolati e fa da capo, anche se fra loro si considerano
tutti fratelli, possiede dei beni a Casola e vive di rendita, non ha mai avuto a che fare con la
giustizia (così dice, ed è strano per un Ceronese); il secondo è il giovane ser Obizzo di Perusino,
seguito da ser Pompeo di ser Alessandro della Soglia, che ha circa 25 anni ed è notaio, benchè
faccia pochi rogiti; non è stato mai soldato, nè alla guerra, ma ora ne vuol provare le emozioni.
Sette anni prima era stato nelle prigioni del Presidente di Romagna per le inimicizie tra i Ceronesi,
ma poi avevano fatto la pace ed egli aveva pagato la sua quota di ammenda, anche se non aveva
contribuito a romperla. Il quarto della comitiva è ser Morando fu Ricciardo dei Rinaldi-Ceroni,
fratello di messer Parino, molto giovane ed elegante nel suo abito rosso; un altro giovane impetuoso
è Cesare, detto ser Possente, dei Poli Ceroni; Mamino di Domenico dei Lolli Ceroni è invece
16
S. BOMBARDINI, Archivio, pp. 225-231.
82
soldato di professione e ha più di trent’anni. È stato processato, ma poi assolto dall’accusa di
aver ucciso la sua matrigna, che si era fiaccata il collo giù da una rupe. Fu anche assolto dal
Governatore d’Imola, dopo tre mesi di carcere, dall’accusa di omicidio di un certo Romano da
Casola. Anche Leone di Valerio ha più di trent’anni, e dopo aver fatto il fabbro e il calzolaio ha
preferito la carriera delle armi, e pure di professione soldato è Virgilio di Masino, di 25 o 26
anni. Il nono è Cesare di Garino detto Cesino dei Baldisserri Ceroni di Valmaggiore, tra i 30 e
i 40 anni, un uomo rude, che ha sempre lavorato la terra. Ha avuto a che fare con la giustizia
una ventina di anni fa per essere stato a ballare nel territorio di Firenze (si vede che aveva
combinato qualcosa di brutto) ed è povero da quando suo padre è stato in prigione e gli sono
stati confiscati i beni, ma non ne sa il motivo (cioè non lo vuol dire).
Sono tutti a cavallo di buone bestie da sella che valgono circa trenta scudi d’oro l’una, e ciascuno
porta due archibugi, uno lungo e uno corto, e la spada; diversi hanno un giaco di maglia e altri
un colletto e maniche di maglie di ferro; portano tutti un tabarro di ugual foggia e un feltro bianco
in testa per riconoscersi nelle mischie; il contegno e l’aspetto bellicoso li fa ammirati e temuti.
A mezzogiorno pranzano a Faenza e vi pernottano nell’osteria di Marco Antonio da Rivalta e
l’indomani, domenica, desinano nella rocca di Forlimpopoli, nell’abitazione del capitano Brunoro,
che li attendeva a Savignano.
Il pomeriggio si rimettono a cavallo e all’ora di vespro, circa a ore 22 o 23, giungono al fiume
Savio, che bisogna passare in barca per entrare a Cesena. Al guado c’è affollamento perché,
oltre ai normali passeggeri e a loro, stavano giungendo da un sentiero che scende dalla strada
di Teodorano altre genti armate: un drappello di 34 archibugieri provenienti da Teodorano e da
Civitella, condotti da ser Enea dei Veroli di Teodorano, assoldati anch’essi come fanti dal capitano
Brunoro per la stessa impresa. Portano tabarri multicolori e sono armati di archibugi, di armi
in asta, spade, pugnali, celate, piastrini e guanti di maglia. […]
Questi sono i due gruppi che il caso fa incontrare al traghetto di Cesena e i connotati dei singoli
saranno completi se si pensa che andavano alla guerra unicamente per la cupidigia di far denaro.
Tra i Veroli e i Ceronesi pare anche che ci fosse una fiera inimicizia da quando i Ceronesi andarono
tutti contro il Conte di Bagno agli ordini del marchese Antonio Carafa, che fu Signore di
Tossignano dal 1556 al 1560 e conquistò Montebello per conto del Papa.
Era fatale che si producesse uno scontro.
Il barcaiolo Nicola di Carlone fa salire tre cavalieri e parecchi pedoni per ogni viaggio. Salgono
così, senza smontare da cavallo, ser Pompeo, Mannino e Virgilio con diversi fanti di Teodorano
e vengono traghettati e sbarcati di là, dove la strada riprende in salita e porta all’osteria di
Sant’Antonio, in Borgo, gestita dall’oste imolese Gian Battista di Geraldo.
Ma al secondo viaggio scoppia la tragedia.
Nella barca ci sono ser Possente, ser Morando e ser Obizzo, che tengono a mano i loro cavalli,
e ser Enea Veroli con un folto gruppo dei suoi archibugieri.
I fanti cominciarono a brontolare contro i cavalieri, che avrebbero dovuto lasciar passare prima
quelli che erano a piedi e ser Possente rispose a un certo Allegruzzo di comprarsi un cavallo
pure lui.
«Sul cavallo tu la guadagni! sarà tuo?» provocò l’altro. «Sicuro, e ho di che comprarne un altro!»
«Come l’hai guadagnato?» «Con la spada, rispose il Ceronese sorridendo con ironia, e anche
tu puoi fare altrettanto». Crucciato interviene ser Enea e grida «In quanto al merito, credo di
meritare quello et altro!» e il cavaliere: «Se tu lo meriti io non so, ma quando sarai di là tu lo
guadagnarai, se tu lo vorrai guadagnare!»
83
Mentre la barca tocca la riva e ser Possente sta salendo a cavallo, ser Enea gli grida: «O omo
da bene, se tu vuoi far questione, io sono omo per farla!» e Allegruzzo, inviperito: «Fermati, tu
dal feltro, perchè voglio far questione teco!» e aveva già abbassato il cane dell’archibugio. Il
Ceronese di rimando: «lo non ridevo di te, non ho a fare teco» , ma quello urla: «Ser Possente,
(dunque lo conosceva) tira su quello cane!» e subito gli sparò.
«Et in uno tratto Ser Enea, Alberto il nipote e Bettino abbassorno li archibusi et tirorno et veddi
che quello che portava il feltro bianco, cascò da cavallo», così testimonia Matteo dei Brighi da
Teodorano, uno degli armigeri assoldato dai Veroli e quindi insospettabile. Seguì un gran frastuono
di colpi d’archibugio, il fumo degli spari avvolse i contendenti e quando si diradò Possente giaceva
morto sull’arenile, ser Enea ferito veniva sostenuto dai suoi, tra i quali c’era un altro ferito ad
una gamba, e sulla strada verso l’osteria galoppavano i cavalli di ser Morando colpito a morte
e di ser Obizzo ferito al volto da un colpo di lancia e poi raggiunto da un’archibugiata alla spalla
sinistra mentre fuggiva. […]
A Cesena il fattaccio suscita un’impressione enorme.
Si temono contraccolpi gravi e il Governatore della città, dottor Fabrizio Buccapaduli si chiude
nella rocca, fa sbarrare e custodire le porte dell’abitato, ordina al Bargello di radunare tutti gli
sbirri e di disarmare coloro che avevano partecipato alla rissa, ma non fa suonare all’arme perchè
teme che il tumulto si accresca.
Spedisce subito un messo a Ravenna al Presidente di Romagna, chiedendo aiuti e provvedimenti
perché la città è piena di soldati di passaggio, che vanno al servizio del Duca d’Urbino da tutta
la provincia, condotti dal capitano Brunoro, e bisogna evitare gli scandali. Il giorno seguente,
26 gennaio, il dottore in Criminali Vincenzo Lotti, Luogotenente del Presidente, giunge a Cesena
con l’incarico di fare un’attenta indagine sui fatti e spedisce messi a cavallo al Governatore di
Imola perché non faccia mettere in armi altri Ceronesi, avverte il Conte di Teodorano di tenere
a freno le sue genti, i Governatori di Faenza e di Forlì ricevono l’ordine di non lasciar passare
gente armata alla volta di Cesena, emana un Bando di deporre immediatamente le armi per tutti
i forestieri che si trovano in città e che il barcaiolo non traghetti più uomini armati.
Poi invia il suo notaio Domenico Strata a fare la ricognizione di legge sui feriti: ser Enea Veroli
è in casa del cav. Bottini, ferito da un’archibugiata con sette pallini alla spalla destra e da altri
nove colpi (non ben specificati), soffre moltissimo e non è in condizione di poter essere interrogato.
Ser Obizzo da Ceruno, che nel frattempo è stato portato nella rocca di Cesena, è ferito all’omero
sinistro da una palla d’archibugio, penetrata per due dita, e da un brutto colpo d’asta alla mascella
sinistra, con profondo squarcio, e anch’egli è molto sofferente.
Allora si procede all’interrogatorio del Bargello, capitano Maurizio Stefanini da Monte S. Martino,
che conosce i Ceronesi perché è stato Bargello anche a Imola, e di molti altri testi, il barcaiolo,
il contadino della casetta occupata dagli archibugieri, l’oste e l’ostessa, la zingara e un mercante
di cavalli, come alcuni che erano tra gli assoldati di Teodorano e tutti confermano che a sparare
per primi furono quelli a piedi.
Il 29 gennaio sono interrogati i due feriti.
Ser Enea accusa quelli a cavallo di aver sparato per primi, cogliendolo alla spalla e afferma
che con lui non c’erano suoi parenti, ma uomini di Civitella e di Cerreto, che non conosce (è
evidente che vuol coprire i suoi) ed è assai reticente, dichiara di sentirsi poco in cervello nelle
risposte da dare, a causa del dolore al braccio e alla gamba.
Ser Obizzo, quando vide cadere l’amico gridò: «O Dio ve aiuti, ser Possente!» e subito fu colpito
al volto da una lancia che per poco non lo disarcionò; siccome gli avversari erano tanti, spronò
84
il cavallo e mentre fuggiva prese un’archibugiata alla spalla sinistra. Non vide altro a causa del
sangue che gli colava dal viso, né potè metter mano alle armi per la sorpresa. Afferma che ser
Enea è stato colpito dai suoi uomini che sparavano all’impazzata.
Dal 22 febbraio al 26 marzo vengono poi convocati a Ravenna i protagonisti del fattaccio e i
Ceronesi si presentano tutti, assistiti dal loro legale, ser Callisto Bassi di Tossignano.
Essi hanno avuto vecchie inimicizie con quelli di Piano, coi Cavina, coi Ricci, ma non hanno
mai avuto a che fare con quelli di Teodorano o coi Veroli, che non conoscevano neppure.
Virgilio di Masino, che aspettava l’imbarco con gli altri due Ceronesi, non è intervenuto perchè
contro la forza non poteva contrastare «e l’offizio del buon soldato è anco di preservarsi» e «saria
pazzia andare a rompere il capo nel muro», pertanto non rimaneva che fuggire e non sa come
sia stato ferito ser Enea Veroli.
A favore dei Ceronesi testimonia anche Dionisio dei Naldi da Brisighella, figlio del prode capitano
Vincenzo, che stava arrivando al fiume con una banda di «Brisighelli» e vide i Veroli far violenza
e impedire a tutti di traghettare. Così ripete messer Lodovico Naldi, accusando Bettino dei Veroli
e i suoi di aver bloccato il passo finchè non s’allontanarono col loro ferito. A ser Possente avevano
portato via tutte le armi, lasciandogli alla cintura solo il fodero della spada.
La difesa di ser Callisto si propone di dimostrare che i suoi sono uomini onesti, mentre quelli di
Teodorano sono conosciuti per disonesti e soliti a formare brigate rissose e violente, con molte
inimicizie a Cesena, nel suo territorio, e soprattutto a Meldola; che essi al fiume erano 34, molto
meglio armati dei nove Ceronesi, e hanno preparato l’agguato presso il loro paese e lontano da Cerone;
che quello non fu uno scontro, ma un assassinio e che anche gli altri sarebbero stati uccisi, se non
fossero fuggiti chiamando aiuto; quelli di Teodorano, inoltre, hanno fatto violenza privata al barcaiolo,
tenendolo in ostaggio e cacciando un contadino dalla sua casa; hanno opposto resistenza con minacce
alla Corte; hanno rubato le armi di ser Possente; se ne sono andati a loro piacimento, recando offesa
al Governatore di Cesena che li voleva interrogare; molti di essi sono banditi, e infine è pubblica
voce in Cesena che quelli di Cerone sono stati ammazzati senza alcuna provocazione.
Il risultato fu che tutti i Ceronesi furono lasciati liberi, compreso ser Obizzo, che nel frattempo
era guarito.
Il volume del processo finisce così e non sappiamo se i Veroli di Teodorano siano stati condannati.
Ma i Ceronesi non erano gente da lasciare invendicate le offese ricevute, e in genere si facevano
giustizia da soli.
Sembra confermarlo un interrogatorio fatto a Mario Rinaldi Ceroni di Tossignano 1’8 luglio 1574,
dal quale si apprende che era accusato, fra altri crimini, di aver fatto parte di una brigata di
Ceronesi che l’anno precedente, cioè nel 1573 appunto, si era portata a Teodorano e vi aveva
ucciso due dei Veroli, secondo la legge dell’occhio per occhio e dente per dente.
Il libro del processo rimase in casa di messer Orazio Rinaldi-Ceroni a Tossignano per quattordici
anni e solo il 26 gennaio 1587 fu messo nell’Archivio criminale del paese per ordine del
Governatore, quindi il capo riconosciuto della famiglia Rinaldi ebbe il tempo e le informazioni
necessarie per vendicarsi di quelli che avevano ucciso Ser Morando. E conoscendo messer Orazio
e la sua potenza, c’è da scommettere che Allegruzzo dei Veroli, o qua1cun altro dei suoi, non
son morti di morte naturale nel loro letto».
2.5 I Ravaglia e i Lolli contro i Giacometti Ceroni. L’agguato di Carseggio.
Si è visto come anche dopo l’uscita di scena di Ramazzotto Ramazzotti continuasse l’odio tra i
diversi ceppi della famiglia Ceroni.
85
Scrive infatti Pietro Salvatore Linguerri Ceroni17 che «la dispersione della Signoria de’ Ceroni
non produsse la pace nella Valle del Senio, che anzi proseguirono le fazioni interne fra Ceronesi
spalleggiate anche dagli altri Casolani. Frequenti erano gli omicidii».
L’episodio di Carseggio, qui di seguito ripreso dall’Archivio Criminale di Sanzio Bombardini18
è molto significativo, soprattutto fatta attenzione alla data, il 1584, quindi ben vent’anni dopo
l’attacco a Ceruno dell’esercito pontificio, che avrebbe dovuto, appunto, riportare la pace nella
Valle.
«Il 28 novembre 1584, sulle ore quattro del pomeriggio, tre giovani tornano dal mercato del
mercoledì di Castel del Rio, dove hanno riscosso il denaro per la vendita di una cavalla, e si
dirigono verso Tossignano, dove l’indomani c’è il solito mercato del giovedì, prima di far ritorno
a casa. Sono Riccio, Lorenzo e Antonio dei Borzati di Castel Bolognese. Lungo la strada vengono
raggiunti da altri tre uomini, Mariotto e Cesare fu Rinaldo dei Giacometti da Ceruno, abitanti
nel comune di Ossano, Stato di Tossignano, di cui è signore il Cardinale Altemps, e Pietro, detto
Piero da Valsalva, del fu Andrea, loro fratello defunto.
Poco dopo sopraggiunge un certo Chilano di Gabriele dei Mita, abitante a Cona, luogo di messer
Obizzo Alidosi, che porta un archibugio lungo, mentre i Giacometti sono armati di archibugio
a ruota.
Tutti sono diretti al mercato di Tossignano e così si accompagnano, chiacchierando.
Poco oltre l’Ospedaletto di Carseggio, sulla strada, c’è una casetta disabitata, detta la Bottega,
e Cesare Giacometti che precede gli altri insieme a Pietro e a Lorenzo di Castel Bolognese,
abituato da tempo a stare all’erta per i pericoli che minacciavano la sua gente e i viandanti,
lancia un’occhiata sospettosa da una bassa finestrella.
Immediatamente dà l’allarme con un cenno di mano significativo e si mette a fuggire, gridando
agli altri di disperdersi per i campi perchè sono caduti in un’imboscata. Mentre i sette uomini
fuggono alla impazzata, dirigendosi verso l’abitato di Corseggio, scoppiano le prime
archibugiate.
Mariotto salta dalla strada sul terrapieno seguito dagli altri, poi si abbassa correndo per i campi
e segue un rialzo di terreno che lo protegge dai colpi. Si è reso conto subito della gravità della
situazione quando si è visto preso di mira dal suo nemico, Alessandro Ravaglia, il primo uscito.
Dalla casetta escono infatti, sparando e gridando: «Carne, carne, ammazza, ammazza!», quelli
che vi si erano nascosti in agguato; sono parecchi, i Ravaglia Ceroni di Sassoleone e di Croara,
di San Martino e di Monte Romano, che capeggiano la masnada e hanno giurato di far la pelle
ai Giacometti; i Lolli Ceroni di Casola Valsenio, alcuni dei Galanti di Fontanelice, mentre
accorrono verso gli inseguiti anche i Merlini di Carseggio e di Sassoleone, che stavano appostati
sopra la chiesa del paese.
I fuggiaschi, tra cui i tre malcapitati giovani di Castel Bolognese, che non sanno nulla dell’odio
che c’è fra i Ceronesi, si dirigono verso le prime due case. Il Riccio si trova a salire una scala
insieme a Piero da Valsalva quando viene raggiunto da una schioppettata alla coscia destra e
si abbatte, ma il giovane Piero, che ha avuto il cappello forato da una palla, la mascella destra
colpita di striscio sopra la barba e la cassa dell’archibugio spezzata da un terzo proiettile, lo
trascina dentro, mentre le palle si conficcano nella porta, rompono le imposte e scrostano i muri.
È una casa di proprietà di messer Ciro Alidosi. Gli altri cinque sono stati più fortunati: solo
Mariotto ha avuto la gabbana forata da parte a parte da un colpo, ma è illeso e così gli altri, che
17
18
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, p. 75.
S. BOMBARDINI, Archivio, pp. 237-246.
86
a precipizio si sono rifugiati in una casa attigua, abitata da Camillo Ugolini da Carseggio, che
in quel momento non c’è, mentre accorre urlando di spavento la moglie Margherita.
Sprangate le porte e impugnate le armi, sorvegliano dalle finestre le mosse degli assalitori,
evidentemente delusi per l’insuccesso, ma Mariotto, che è il capo dei Giacometti Ceroni, si
preoccupa anche del nipote Piero che riesce a raggiungere da un cortiletto interno e a far entrare
insieme al Riccio nella stanza dove stavano gli altri. Così i sette uomini sono tutti riuniti e si
può dire che l’hanno scampata bella.
È tale la soddisfazione che Mariotto, intravisto dalla finestra il capo dei suoi avversari, Alessandro
Ravaglia, gli grida: «Ah, traditore, tu non hai fatto quello che pensavi!» e l’altro inviperito gli
risponde: «Quello che non ho fatto lo farò, vi voglio addentare vivi e estirpare, razza di traditori!»,
mentre la sua banda urla: «Fòra, fòra, becchi cornuti!». E si dispongono alle cantonate, sempre
sparando contro porte e finestre, ostinati a porre l’assedio alla casa, dal momento che è fallita
la sorpresa.
Sono tanti che gli assediati non li hanno riconosciuti tutti: […] una vera armata di banditi, dirà
il giudice al processo, elencando ben 82 nomi. […]
Per tutta la notte e per buona parte del giorno successivo, fino alle 14, le parti avverse si
fronteggiano accanitamente, rivelando la loro presenza con qualche colpo d’archibugio, finchè
dalla parte del fiume Santerno si sente il rumore di una grande schiera che minaccia e schernisce
allontanandosi.
Sono i Ravaglia che tolgono l’assedio e scendono verso Macerata. […]
I Rinaldi-Ceroni di Tossignano erano partiti alla riscossa. Il loro capo, messer Orazio di
Compadretto, aveva avuto notizia al mattino dell’agguato teso ai suoi e con una ventina d’armati
si era portato a Borgo, spedendo subito a Casalfiumanese un suo garzone ad avvertire ser
Benedetto Morandi, notaio e cittadino bolognese, Vicario del paese per il Comune di Bologna,
che un gravissimo episodio di banditismo era in corso nella sua giurisdizione di Carseggio, e
lo pregava d’intervenire con la sua Corte perchè senza di lui il Rinaldi non voleva sconfinare
sul Bolognese per nessun motivo, anche se certi suoi parenti erano in pericolo.
Così verso le ore nove si mosse il Vicario da Casale, seguito dal suo messo Silvestro Zimbaloni,
e da Antonio, Sabatino, Giovanni e Fabrizio Lolli Ceroni e alcuni altri, i quali tuttavia gli hanno
dichiarato che andranno con lui, ma non combatteranno mai contro i Ravaglia, ai quali sono
legati da un patto di pace.
A Borgo incontrano messer Orazio coi suoi e tutti s’incamminano verso Carseggio.
Giunti presso il castello di Gaggio, di cui è signore Nicola Alidosi, gli uomini del Rinaldi scoprono
i Ravaglia al di là del fiume, e un vero assembramento d’armati nella villa di Macerata.
Scoppia un uragano d’insulti e di provocazioni da parte dei Ravaglia, che sfidavano i Tossignanesi
a scendere verso il fiume: «Cala, cala, messer Orazio, che adesso è tempo! Becco, fottuto!»
Ma il Rinaldi non rispose, anzi disse alle sue genti di non muoversi perché non era venuto a
cercare un fatto d’arme, ma solo per liberare quei suoi poveri parenti. E fece bene, perchè dall’alto
di Gaggio un pastore che sorvegliava il suo gregge e vedeva benissimo le opposte schiere, Santone
Sabatini da Fornione, racconterà che dietro un rialzo del terreno erano appiattati ben ventidue
tiratori, che avrebbero preso tra due fuochi i Tossignanesi, se fossero discesi verso Macerata.
Forse era il gruppo di Cedrecchia, località del Contado di Bologna, presso Monghidoro, dato
che prima si era sentito diverse volte il grido «Cedrecchia, Cedrecchia!», segnale d’avviso o di
chiamata a raccolta.
Così le due schiere si fronteggiano per un paio d’ore, senza sconfinare dai rispettivi territori, e
87
mentre messer Orazio attende presso la casa della Mattarina il gruppetto dei suoi di ritorno da
Carseggio, il Vicario di Casale intima ai Ravaglia di fermarsi, in nome della giustizia, perchè
egli rappresenta la «ragione».
Quelli lo invitano ad un abboccamento, ma senza gli armati della «Corte», e ser Benedetto si
avvia seguito solo dal suo servo.
Gli viene incontro ser Franceschino Ravaglia con Gian Battista ed Ettore, tutt’altro che intimoriti;
anzi, quando il Vicario dice che dovranno rendere conto del loro operato all’Uditore del Torrone
(Tribunale per i processi criminali di Bologna), ser Franceschino risponde che nella sua tenuta
di Macerata ci sono appunto i rappresentanti della Corte maggiore di giustizia, cioè un notaio
per gli affari criminali e un Commissario dei banditi.
E non mentiva, perchè un cursore del Tribunale sopraggiunge e invita il Vicario a seguirlo fino
a Macerata, dove s’incontra con il notaio.
Non mi risulta che cosa facessero quei due rappresentanti della legge in mezzo ai banditi, ma
certo fu strano il loro atteggiamento.
Essi non sapevano nulla della sparatoria e il notaio si allontanò con la scusa di fare un sopraluogo
a Carseggio.
Fatto sta che il povero Vicario stava sulle spine, nè volle rendere testimonianza di quello che
gli dissero, ma appena potè si tolse da quell’impiccio e, ritornato dai suoi, riprese la strada per
Casalfiumanese. Non fece nemmeno una capatina a Carseggio per vedere che cosa era successo
e rassicurare gli abitanti.
Così si amministrava la giustizia nel secolo XVI, direbbe Manzoni.
Anche i Rinaldi Ceroni, soddisfatti dell’esito positivo della spedizione, se ne tornano a Tossignano.
Conclusa la drammatica vicenda, comincia quella giudiziaria.
Le malefatte della banda sono ormai di tali proporzioni che il Tribunale del Torrone di Bologna
avoca a sè il compito di istituire un processo generale.
Il 29 novembre stesso il notaio Domenico Cesare Capelli, accompagnato dal suo cursore Francesco
Franchi, si reca a Carseggio e comincia gli interrogatorii del ferito, Riccio di Negro dei Borzatti
di Biancanigo, contado di Castel Bolognese, poi ascolta la deposizione della padrona di casa,
ma costoro possono dire ben poco, quando non si comportano come Benedetto fu Sforza da
Valsalva, abitante a Carseggio, il quale vangava un suo campo quando cominciò la sparatoria
e non volle nemmeno andare a vedere cosa succedeva perchè «in questo paese, quando se fa
archibusate, chi non ha che farci se ne sta a far li fatti suoi.»
Nei giorni successivi il massaro di Bastia di Codronco, Antonio di Carlino dalla Collina, fa la
sua deposizione sull’accaduto, denunciando tutti i veri colpevoli, cioè i Ravaglia, e precisando
che il primo a sparare fu Alessandro Ravaglia. Le archibugiate sono state una cinquantina e
più e l’agguato è stato concordato a Sassoleone, a Casale e a Croara. Le provocazioni contro messer
Orazio Rinaldi Ceroni sono state insultanti, ma il contegno del Tossignanese è stato irreprensibile
e saggiamente non ha raccolto la sfida.
Anche Poggiolino di maestro Lorenzo Poggiolini da Imola, che è partito con messer Orazio da
Tossignano, dichiara che si sono fermati nel territorio dell’Alidosi, che hanno ascoltato, ma non
accettato le provocazioni dei banditi e che l’atteggiamento del Rinaldi è stato fermo e risoluto
nell’impedire atti illegali ai suoi uomini.
Il 3 e 4 dicembre nella canonica della chiesa di S. Maria in Casalfiumanese vengono interrogati
i protagonisti, cioè Mariotto, Cesare e Pietro dei Giacometti Ceroni, che offrono la stessa versione
dei fatti, ammettendo che conoscono assai bene tutti i Ravaglia, coi quali sono anche parenti,
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ma non si spiegano i motivi della loro ostilità, cominciata nell’estate del 1583, quando i Ravaglia
assassinarono un loro cugino, violando le paci fra loro pattuite nel 1565 e nel 1577.
Viene interrogato anche il Vicario di Casale, che conferma i fatti e giustifica il suo atteggiamento
rinunciatario per la presenza di magistrati inquirenti a lui superiori di grado.
In realtà, come poteva far rispettare la legge coi suoi pochi armati, fra l’altro alleati dei banditi?
Dopo gli interrogatorii effettuati sul posto, la scena si sposta a Bologna.
L’l1 gennaio 1585 Mariotto Giacometti Ceroni compare davanti a quella Corte di Giustizia per
presentare contro i suoi nemici le copie delle condanne da loro riportate nel 1582 e nel 1584
a Firenzuola, nel 1584 a Tossignano e consegna ai giudici gli strumenti delle paci stipulate fra
i Ceronesi nel 1565 e nel 1577, accusando i Ravaglia di averle violate.
Il giorno stesso vengono citati a comparire davanti alla Curia, sotto pena del pagamento di 100
scudi d’oro, quindici banditi […].
Il cursore del Tribunale del Torrone recapita le citazioni, che si ripetono tre giorni dopo, secondo
la prassi, ma senza risultato.
Il 14 gennaio vengono citati ben quaranta fuorilegge, e stavolta senza riguardi di casata e di
clientela. […]
Naturalmente anche costoro non si presentano affatto.
Il 14 gennaio 1585 Mariotto si reca di nuovo a Bologna e a nome suo, per suo fratello Cesare
e per il nipote Pietro Giulio fu Andrea Giacometti fa annullare dal Tribunale tutte le paci
precedentemente stipulate da parte dei Giacometti Ceroni dopo il proditorio attacco che hanno
subito a Carseggio e l’Uditore del Torrone fa proseguire il processo contro i banditi che non si
sono presentati e vengono definiti una “armata, id est conventi cola armatorum et bannitorum
ultra numerum centum quinquaginta hominum”».
2.6 Continuano i dissidi.
Neppure dopo il memorabile terremoto del 1725 ebbero fine gli scontri nella Valle del Senio.
«Neppure questo castigo giovò a por freno, e sedare le animosità fra i Casolani19. Continuarono
i partiti, e le fazioni ad onta delle reiterate paci in varii tempi stipulate. I Capi delle fazioni avevano
i rispettivi aderenti. I Fazionisti mantenevano uomini in armi col nome di sicarii per usarne a
vendetta alla circostanza di ogni piccola offesa. Frequentissimi erano gli omicidii e la giustizia
rendevasi senza effetto. Non dimenticando di essere Ceronesi vendicavano anche i torti, che
venivano fatti ai loro amici, e s’interessavano a prò di chiunque al loro valore, e protezione
ricorreva. La loro sola presenza era bastante ad incutere timore, e rispetto. I birri stessi spediti
a Casola dal Governo non azzardavano di avvicinarsi, se prima non ottenevano dai Capi il
permesso. Questo sistema durò più di cinquanta anni dopo, finchè essendo riuscito al Governo
di far arrestare il Capitano Simone Linguerri Ceroni capo di fazione, e rinchiuso in una fortezza,
cominciarono a deporre l’orgoglio, che a poco a poco si dissipò».
19
P.S. LINGUERRI CERONI, Cenni, pp. 75-76.
89
3. Lo stemma della casata Ceroni.
Stemma raffigurato nel libro del notaio P.S. Linguerri Ceroni, stampato nel 182520.
Oltre al nome gentilizio ed al palazzo, «altri segni trionfanti dell’alleanza mantenuta o forgiata
da poco: l’arme, il blasone21.
Il fregiarsi dello stesso blasone o della stessa arme, dello stesso colore, di un segno distintivo
conosciuto, sembra sempre, nella mentalità dei nobili, l’affermazione di una fedeltà, di una
alleanza forte come quella del sangue.
Anche in tempo di pace e da un paese all’altro, il blasone è un segno di unione tra i differenti
rami dello stesso clan.
Quest’orgoglio dello stemma, il desiderio di segnare col blasone, in modo spesso ostentato,
l’appartenenza alla stirpe nobile si affermano nettamente sulle rappresentazioni figurate delle
case e soprattutto precisamente su quelle delle navi.
Dovunque in Italia lo stemma indica l’orgoglio della stirpe, la sua potenza e la sua indipendenza
anche di fronte allo Stato, all’ascesa politica del comune».
Lo stemma della casata Ceroni è stato approfonditamente studiato dall’ingegner Pier Giacomo
Rinaldi Ceroni22. Si riportano di seguito le notizie più importanti su di esso.
3.1 Lo stemma originario. Cervo rampante con giglio su zampa destra. Cervo al
naturale, giglio d’oroo, campo azzurro.
Le figura di questo paragrafo, ove non diversamente indicato, sono ricavate dal ciclostilato di P.G. RINALDI CERONI, Lo stemma dei Ceroni di Romagna.
21
J. HEERS, Il clan, pp. 138-142.
22
P.G. RINALDI CERONI, Lo stemma dei Ceroni di Romagna, pp. 1-9.
20
90
«Come tante famiglie di antiche e nobili origini, anche i Ceroni possiedono la loro leggenda
riguardante il fondatore della loro casata. Leggenda perchè non abbiamo alcun documento che
la possa provare né tantomeno smentire e pertanto essa ci appartiene a pieno diritto. Per conoscere
la configurazione originaria dello stemma dei Ceroni è necessario quindi leggere i brani del libro
del Mita che riguardano la storia del fondatore della famiglia Ceroni, e di quando egli, dopo
aver deciso di abitare questi luoghi selvaggi, decise quale doveva essere il suo stemma araldico.
Fin dal tempo in cui Carlo Magno, cacciati i Longobardi dall’Italia, trasmise il regno al figlio
Pipino, un nobile e valoroso soldato, se fosse forestiero o di questa provincia se n’è perso il ricordo
lungo i secoli, per togliersi dalle grandi fatiche del servizio militare esercitato dalla giovinezza
fino alla matura età, sia in tempo di guerra che di pace, abbandonò l’incarico che aveva e si congedò
per poter ritirarsi insieme ai figli, in queste terre e abitarle.
Poco tempo dopo, questo vecchio soldato, che aveva iniziato assieme ai vicini a cacciare le bestie
selvatiche, (proprio) nel luogo dove oggi c’è il villaggio (di Ceruno ndr.) catturò un meraviglioso
cervo che i cani avevano stanato dai boschi. Il cervo, ormai senza lena, si fermò, come in atto di
supplica ai piedi di quell’uomo chinando la testa.
Il nobile soldato, che era di buon cuore, lo allevò con gran cura e lo tenne in vita per molti anni;
poi subito costruì qui un villaggio con una torre ben salda eleggendolo a stabile dimora per sé e
per i suoi prendendo (il buon) auspicio dal cervo volle che quel luogo fosse da tutti chiamato Monte
Cervino.
In seguito, scegliendosi un nuovo stemma gentilizio, vi dipinse un cervo in campo azzurro che,
ritto, tiene un giglio con la zampa anteriore destra.
Era come se questo stemma, in modo assai grazioso, volesse trarre auspicio che gli abitanti di
Monte Cervino avrebbero goduto, grazie alla bontà del luogo e del clima, vita lunga e felice e
avrebbero perseguitato i superbi, cioè i nemici, alla maniera delle bestie selvatiche, come invece
avrebbero onorato ed abbracciato con tutto il cuore i Signori e gli amici.
Col volgere degli anni, mutati i tempi ed i costumi, avvenne che il villaggio, per corruzione della
parola, fu comunemente chiamato Ceronio mentre lo stemma rimase invariato, e la gente che di
qui ebbe origine, fu detta da Ceronio o Ceruno.
Da quanto descritto dal Mita sembra capire che il cavaliere avesse già un suo stemma gentilizio,
ma che, traendo buon auspicio da quello che gli era accaduto durante la caccia, decidesse di
prendere il cervo come suo nuovo stemma araldico. Ed il giglio allora cosa può significare?
Visto che nulla aveva a che fare con la caccia al cervo, si può pensare che il giglio potesse aver
un collegamento con il suo precedente stemma o che fosse inserito come rispettoso omaggio al
suo ex padrone il Re di Francia.
Riusciamo ad avere ulteriori informazioni sul periodo in cui accaddero le cose sopradescritte
e pure la conferma che il giglio sulla zampa è da collegarsi al Re di Francia leggendo quanto
scritto da Don Giovanni Antonio Linguerri Ceroni23:
La morte d’Adriano (Papa) seguita nel 796 diede luogo, ed occasione a Leone III d’assumere il
Triregno. Contro di lui insorsero alcuni sediziosi del clero romano, che lo arrestarono, nella
processione di S.Marco, e lo batterono aspramente. A riparare questo scandalo, ritornò in Italia
il Francese Regnante. Guidando seco i Milanesi, e i Faentini, nel 800 assediò Roma, e costringendo
a cedere gl’empi sacrileghi liberò Leone dalle mani loro, dal quale ricevette l’Imperiale corona,
e fu unto Re d’Italia insieme col figlio Pipino.
23
Manoscritto sulla storia di Casola Valsenio mai pubblicato, del 1809.
91
Facendo poi riferimento al manoscritto del Mita, che, ricordiamolo nel 1809 non era stato dato
ancora alle stampe, ma che Don Giovanni Antonio sicuramente aveva letto dall’originale, parlando
della leggenda sopra descritta dice:
In tale occasione Carlo Magno permise ad un nobile, e prode guerriero, che seguito avea con molta
lode i suoi stendardi in rischiose guerre, di ritirarsi ove più gli paresse a condurre in pace, in seno
ai propri figli, il rimanente di sua vita. Dall’immagine ancora del detto cervo ritto sui piedi di
dietro prese lo stemma gentilizio ponendogli un giglio sul piede della zampa anteriore che era il
distintivo del francese monarca suo padrone.
In seguito aggiunge:
Corrotto quindi il nome (del luogo, ndr), come suol accadere, fu denominato Cerone, Cirone, e
Ceruno l’anzidetto castello, che venne poscia accresciuto di molte Torri, e di comode abitazioni.
Essendo i Ceroni uomini d’arme che andavano con le loro truppe a combattere per i diversi
principi, signori, o Papi (fino a tutto il XVI secolo potevano disporre fino a 300 armati), era
indispensabile per loro riconoscersi facilmente durante la battaglia per evitare confusione e
correre quindi il rischio di colpirsi a vicenda. Essi vestivano pertanto degli indumenti che
permettevano loro di riconoscersi e di distinguersi dagli altri durante il combattimento.
A questo scopo i fanti Ceronesi avevano lo stemma del cervo dipinto sull’ elmo come dice il
notaio Pietro Salvatore Linguerri Ceroni distintivo che nell’Elmo de’ Ceronesi anche si vedeva,
mentre i cavalieri Ceronesi, cioè gli ufficiali, usavano indossare un cappello a larghe falde di
feltro bianco24».
3.2 Prima modifica allo stemma. Aggiunta dei tre gigli al capo. XV Secolo (gigli
d’Angiò).
«Dopo alcuni secoli, poco più di sei seguendo i tempi indicati dai libri, cioè dall’ 800 a dopo
il 1450, avviene la prima modifica allo stemma con l’aggiunta dei tre gigli al capo. Fu ciò una
onorificienza data dal Re di Francia a Nuccio Brunori Ceroni per aver combattuto eroicamente
al suo servizio con truppe Ceronesi. Probabilmente, come di solito accadeva, Nuccio avrà
combattuto per il Re di Francia con un piccolo contingente di soldati Ceronesi visto che loro
andavano in guerra in gruppi più o meno numerosi e l’onorificenza data al loro valore ed in
particolare a Nuccio come loro capitano, fu trasferita all’intera consorteria che fu autorizzata
ad inserire in capo allo stemma i tre gigli d’oro, detti d’Angiò.
Leggiamo ancora dal Mita25 nel capitolo in cui parla dei Brunori Ceroni:
24
25
S. BOMBARDINI, Archivio, p. 226.
G. MENETTI, La storia, p. 48.
92
Nuccio (Brunori), valoroso uomo d’armi che aveva a lungo militato in Francia sotto la bandiera
di quel re e aveva ottenuto il consenso reale per aggiungere allo stemma dei Ceroni i gigli d’oro
che sono l’insegna ricevuta dal cielo dai Re francesi, arricchitosi sufficientemente eresse nella chiesa
di S. Lucia a Casola un altare dedicato alla Assunta, che dotò di un podere detto Turricchia (nella
parrocchia di Pozzo), per il mantenimento del Rettore, riservandosi, per i suoi, il diritto di patronato.
Riusciamo a definire meglio il periodo in cui Nuccio militava per il Re di Francia attingendo
notizie riguardanti la chiesa di S.Lucia dal libro “Le chiese della diocesi d’Imola” (1921) che
Padre Serafino Gaddoni, noto storico imolese di questo primo quarto di secolo, scrisse su tutte
le chiese, cappelle e organizzazioni caritative della valle del Senio. Parlando dell’altare dell’
Assunta sopramenzionato, ne fa risalire la costruzione alla seconda metà del secolo XV.
Debbo però ritenere che non tutte le famiglie della consorteria (i Mita ad es.) contribuirono con
i loro soldati al buon successo di quella missione, quindi queste non furono autorizzate ad inserire
questa onorificenza nel proprio stemma.
Tutti i gigli dello stemma Ceroni sono gigli d’oro di Francia e non gigli rossi del Granducato di
Toscana sotto cui i Ceronesi hanno tuttavia militato per moltissimi anni».
3.3 Ultima modifica allo stemma. Aggiunta della banda trasversale bianca, di
lino. XVI Secolo (1533)).
«Possiamo dire con una certa sicurezza che fin verso la metà del XV secolo tutti coloro che
abitavano a Ceruno o nella sua area portavano il nome di Ceroni, sia che fossero proprio della
famiglia Ceroni, sia che provenissero da altri luoghi. […]
Dalla metà di quel secolo i Ceroni discendenti di Matteo, ritengo perchè molto numerosi e quindi
per meglio distinguersi fra loro, iniziano a differenziare il loro nome ed aggiungono cognome
originale anche quello del rispettivo ramo famigliare.
Questa divisione iniziata solo per riconoscersi meglio fra i membri della numerosa famiglia
diventerà dopo il 1533 il segno di una disgregazione del grande ceppo in vari clan coalizzati
gli uni contro gli altri. Fino alla gloriosa vittoria del 28 Ottobre 1523 dei Ceroni sulle truppe
imolesi guidate dal Capitano Guido Vaini di Imola e da Ramazzotto Ramazzotti di
Scaricalasino (Monghidoro), la consorteria dei Ceronesi è sempre unita anche se alla vigilia di
questa battaglia iniziano i primi screzi tra i Ficchi Ceroni ed i Ceroni di Matteo detti i Lancieri,
è tuttavia solo dopo undici anni che le cose degenerano fino ad un punto di non ritorno.
È questo il capitolo più triste della storia della nostra famiglia, infatti dopo essere vissuti per
centinaia di anni insieme in un’unica consorteria, in grande armonia, le diverse famiglie di Ceroni,
detti anche Lancieri, cioè discendenti di Giovanni detto il Lanciere ed i Ficchi iniziano le ostilità
fra di loro.
Accade infatti che Raffaello Brunori Ceroni viene assassinato ad Imola il 14 Maggio 1533 per
mano di alcuni Ficchi, fra cui il noto Galbetto. A causa di questo atto tutti i Ceroni (Lancieri)
stringono un patto di amicizia e costringono i Ficchi ad allontanarsi da Casola. Mentre essi si
dirigono in Toscana vengono presi in un agguato, organizzato dai Lancieri, a Biforco, località
sopra Marradi - FI. Diversi sono uccisi fra cui lo stesso Galbetto.
Questo atto di rottura definitiva all’interno della consorteria portò anche a differenziare il simbolo
famigliare, cioè lo stemma, onde evitare che potessero sorgere possibili confusioni fra le famiglie;
viene per questo messa una banda bianca di lino traverso lo stemma».
93
3.3.1 Stemma dei Ceroni (Lancieri)
«Continuiamo la lettura del Mita26:
Per istigazione di Ramazzotto cambiarono pure lo stemma che era fino allora comune alle due
famiglie aggiungendovi una fascia di lino traversante il cervo dell’arme in modo da distinguere
del tutto i Ceroni dai Ficchi e dai Mita ed emanarono un decreto in forza del quale questo fosse
lo stemma riservato ai Ceroni anche in futuro, sempre Ficchi e Mita esclusi.
L’intersecazione del cervo, se non sbaglio, simboleggia veramente l’odio mortale nella stessa famiglia
e ognuno converrà che giustamente è stata aggiunta allo stemma la fascia di lino (come benda)
per fasciare le reciproche ferite.
La famiglia dei Mita, a cui apparteneva lo storico Don Domenico Mita, che era di origine Ficchi
anche se si era staccata da questi con un ramo proprio, viene accomunata ad essi nella “condanna”
da parte degli altri Ceroni.
I Mita abitano ancora oggi nelle nostre vallate ed il loro stemma raffigura il solo cervo rampante
senza gigli.
Invece la famiglia Ficchi (Fichi o Fechi), che erano di origine perugina prima di arrivare a Casola
nel 1225, è praticamente scomparsa come nome. Si hanno però buoni motivi per pensare che
questa famiglia pur differenziandosi dagli altri, continuasse a farsi chiamare Ceroni e che tale
nome l’abbiano rimasto poi in seguito. […]
Quello sopra è lo stemma finale della famiglia dei Ceroni (Lancieri) che dovrebbe essere per
tutti con fondo azzurro (le linee orizzontali stanno ad indicarlo), tuttavia sempre per differenziarsi,
le varie famiglie con il passare degli anni hanno cambiato il colore di fondo dello stemma. I
colori di fondo dello stemma per le seguenti famiglie ci risulta essere:
Rinaldi Ceroni: Il fondo è tutto azzurro (esiste però qualche dubbio in quanto nelle due
cassapanche che si trovano nella chiesa di Pagnano, che dovevano essere dei Rinaldi Ceroni,
il colore di fondo è rosso).
Compadretti (Rinaldi Ceroni): Rosso sotto il Cervo, azzurro sotto i tre gigli.
Soglia Ceroni: Verde.
Linguerri Ceroni: Azzurro sotto il cervo, rosso sotto i tre gigli.
Poli Ceroni: Oro».
26
G. MENETTI, La storia, pp. 83-85.
94
Stemma dei Ceroni nella Chiesa di San Giacomo a Lepreno (BG)
Stemma alla biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Lo stemma risale al 1604.
Trascrizione: Ungariae D. Marcus Cerronius Bresichellensis..
Stemmi alla biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna27.
Trascrizioni:
Stemma a sinistra: Sardin. et Cypr. D. Paulus Polinus Ceronius Imolensis a Saxileone..
Stemma a destra: Romandiolae D. Marcus Cerronius Brisichellensis.
27
Fotografie e riferimenti presenti nel database degli stemmi della biblioteca dell’Archiginnasio, consultabile in internet.
95
3.4 I Motti delle Famiglie Ceroni.
Continua l’ingegner Ceroni:
«Sia quello dei colori di fondo che quello dei motti d’arme sono argomenti da approfondire meglio
che lascio ad ulteriori studi. Siamo a conoscenza dei seguenti motti:
- Ceroni di Lepreno “Altiora Peto” (Ad alte cose tendo)
- Rinaldi Ceroni “Foris Cervus Intus Leo” (Fuori Cervo Dentro Leone)
- Giacometti Ceroni “Sicut Cervus” (Veloce come il cervo)».
4. Il Castello di Ceruno.
Il Castello di Ceruno fu costruito nella prima metà del secolo XII e appartenne alla famiglia
Ceroni, che lo tenne sotto il dominio dei Manfredi28. Nell’anno 1371 Ceruno o Ciruno era una
villa o Comune rurale del contado d’Imola.
Del castello, scrive Leonida Costa29, resta oggi solamente una grossa e bassa torre circa quadrata,
a scarpata inferiormente, e coperta di tetto a quattro spioventi.
Si legge anche in un articolo di Beppe Sangiorgi, pubblicato dal giornale Sabato Sera il 30 gennaio
1993, che «nel 1563 il Pontefice e il duca di Toscana mandarono ben quattomila uomini a bruciare
Ceruno e a disperdere la consorteria dei Ceronesi. Si salvò solo la torre, alta 15 metri per nove
di base, e da allora intorno ad essa non ci sono state più guerre, né violenze». Acquistata da
un noto avvocato bolognese e restaurata, la torre, continua il giornalista, «ancora per secoli potrà
continuare a ricordare una delle pagine più ignomignose della storia imolese».
5. Tre illustrissimi rappresentanti della gens Ceronia.
5.1 Giovanni Cerroni.
Racconta don Domenico Mita30:
«In quell’epoca (primi secoli del XIV secolo) vi furono anche alcuni oriundi di Ceruno che si
dedicarono (allo studio) delle leggi e si diedero con zelo all’apprendimento delle buone discipline.
Questi giunsero alla Curia Romana per servirvi, secondo le loro capacità, a tempo e luogo e (a
Roma) stabilirono infine una loro colonia.
Fra questi, come ne fa fede il Villani e il Sansovino, ci fu un Giovanni Ceroni che nel 1351,
per votazione popolare, fu elevato all’onorifico incarico di Governatore della città.
Ai giorni nostri alcuni (di questi) Ceroni Romani abitano nella cittadina di Sezze e contano fra
loro uomini illustri e di valore nelle scienze, i quali a seconda dell’occasione, si danno o
all’educazione dei giovani o all’attività forense o al governo di popolazioni».
Resta da dimostrare, come sottolinea Giancarlo Menetti, che questi Cerroni fossero originari
di Ceruno31.
Giovanni Cerroni abbandonò il potere e la città nel 1352 e Roma tornò nelle mani dell’aristocrazia
che restaurò l’autorità senatoria.
Si legge32 che Giovanni Cerroni apparteneva «ad una famiglia popolare ben nota nella Roma
del Trecento». Le prime notizie che si hanno di lui coincidono al suo ingresso «in posizione di
primo piano nella vita politica della città. Lasciata Roma ai primi di Settembre del 1352 egli
G. CAVINA, Antichi fortilizi, p. 363.
In un ciclostilato inviato ai Ceroni nella ricorrenza della festa di S. Giacomo, il 6 Agosto 1996.
30
G. MENETTI, La storia, pp. 31-32.
31
G. MENETTI, La storia, p. 117.
32
P. SUPINO MARTINI, v. Cerroni Giovanni, in Dizionario Biografico degli italiani, pp. 29-30.
28
29
96
si rifugiò in Abruzzo dove comperò un castello e vi stabilì la sua dimora.
A Roma è tutt’oggi presente una torre33 detta Torre dei Cerroni, dal nome di un’importante famiglia
medioevale, si legge, probabilmente da quella dalla quale ebbe origine Giovanni Cerroni. L’aspetto
esterno della cortina affrancherebbe questa tesi, poichè riporta ad un periodo attorno al XII-XIII
secolo.
Torre Cerroni a Roma.
Stemma che si trova nel corpo di guardia di Castel Sant’Angelo a Roma.
33
Collocata all’incrocio delle vie Giovanni Lanza e dei Quattro Cantoni è inglobata attualmente nel complesso della Casa
Generalizia dell’Istituto delle Figlie di Maria Ss.ma dell’Orto.
97
5.2 Il Cardinale Giovanni Soglia Ceroni. Vescovo di Osimo e Cingoli.
Giovanni Soglia Ceroni nacque a Casola Valsenio l’11 ottobre 1779 da Giovacchino di fu
Bartolomeo e da Anna Braga, figlia di Carlo Felice34. Di pronta intelligenza, di carattere mite
e sensibile, Giovanni venne presto preconizzato prete come lo zio, Mons. Giacomo Braga che
dal vescovo d’Imola Gregorio Chiaramonti era stato scelto per suo segretario personale.
Il suo maestro di latino, don Giovanni Antonio Linguerri, lo stimava come l’alunno migliore.
Giovanni entrò in seminario a Imola con un buon bagaglio di cultura e già discreto latinista.
Lo zio previdente ne pilotò la carriera: dopo pochi anni il Soglia è all’Università di Bologna per
addottorarsi in Teologia.
34
Sintesi di notizie raccolte da Pier Giacomo Rinaldi Ceroni in occasione della richiesta di dedicare Via Soglia, in Casola
Valsenio, alla memoria dell’illustre concittadino, denominandola “Via Card. Giovanni Soglia”. Dall’archivio personale dell’ingegner Rinaldi Ceroni.
98
A poco più di ventuno anni, dietro invito dello zio, Giovanni si recò a Roma, dove completò
con successo i suoi amati studi di diritto e fu introdotto alla Corte Pontificia.
Ordinato sacerdote ebbe presto il titolo di cappellano privato del Papa che cominciò sempre
più ad apprezzarlo come bravo giurista ed equilibrato uomo di consiglio.
Servì il Papa anche quando questi, imprigionato da Napoleone, fu condotto a Savona, dove rimase
fino al 9 giugno del 1811.
Allontanato poi dall’imperatore, fu rinchiuso per diversi mesi nella Fortezza delle Finestrelle
in Piemonte, fino a quando la prigionia gli fu mutata in confino. “Scegliesse dove voleva stabilirsi
ma che non fosse a meno di 100 leghe dal Papa”. Così Monsignor Soglia ritornò a Casola.
Trovando qui la gioventù bisognosa di un’istruzione adeguata, sorse nella sua mente l’idea di
dotare il proprio paese di due Istituti, uno maschile ed uno femminile.
Il 2 aprile 1814 ad Imola si ricongiunse al Papa, finalmente liberato.
Da quel momento rimase a Roma sempre accanto al Pontefice. Qui svolse la funzione di
elemosiniere del Papa e insegnò a lungo diritto all’Archiginnasio della Sapienza.
Ottenne dal Papa che fossero rivisti i confini della Comunità di Casola con quella di Brisighella,
questione che agitò le due Comunità dal 1815 al 1823, cioè anche dopo che con motuproprio
del 16 luglio 1816 del Papa, Casola estendeva di nuovo la sua giurisdizione fino al Sintria.
Nel 1823 furono iniziati i lavori per i due Istituiti che Giovanni Soglia meditava di creare a Casola.
Venne eletto vescovo di Efeso da Leone XII.
Destinò un podere ricevuto in eredità dallo zio, Mons. Giacomo Braga, all’Istituto per le fanciulle
del popolo.
Divenuto Cardiale di Osimo e Cingoli riuscì ad ottenere, verso il 1845, che le Suore Maestre
Dorotee avviassero l’Istituto per le fanciulle.
Convinto che ormai la sua carriera fosse finita e contento di vederla concludersi alla guida
pastorale di una diocesi, il Soglia si dedicò a rivedere le ristampe del suo libro di diritto:
“Institutionum juris publici ecclesiastici Libri tres” che stampato la prima volta a Roma conobbe
ben cinque edizioni di cui una spagnola e una francese. A Roma era stato parimenti stampato
il manoscritto di Domenico Mita “Ceroniae Gentis in Aemilia vetusta aliquot monumenta” che
forma la base per una successiva eventuale storia di Casola, e una vita breve di un beato, il
Casolano Giovan Battista Ridolfi. A Osimo volle dare alle stampe anche parte della produzione
poetica del suo maestro Linguerri.
Nel 1848 il Card. Orioli, segretario di Stato, inviò una lettera al Soglia, pregandolo di recarsi
immediatamente a Roma per accettare la carica di Segretario di Stato. Orioli è malandato in
salute e non se la sente più. Egli accettò e per sei mesi fu segretario di Stato e Presidente del
Gabinetto Mamiani prima, e quindi di quello che prese il nome da Edoardo Fabbri e che si chiuse
per lasciar il posto a quello di Pellegrino Rossi assassinato in Novembre.
Date le dimissioni il 10 novembre rientrò a Osimo e qui spese gli ultimi anni della sua vita per
il bene della sua diocesi.
Morì nella notte tra l’11 e il 12 agosto del 1856. Fu portato come in trionfo a Osimo e qui sepolto
nella cattedrale fra il rimpianto di tutti. Casola gli tributò solenni onoranze funebri il 15 ottobre
1856.
99
5.3 Augusto Rinaldi Ceroni. Il giardino delle erbe.
Augusto Rinaldi Ceroni nasce il 15 dicembre 1913 al Cantone, una casa padronale poco a monte
di Casola Valsenio, da Francesco Rinaldi Ceroni e Luigia Fabbri35. Il padre, oltre ad Augusto,
gli impone profeticamente il secondo nome di Silvio, dal latino silva, cioè uomo della selva e
del bosco.
Per tutta la vita Augusto Rinaldi Ceroni dedicherà il suo interesse ed il suo tempo al mondo
delle piante. La storia della sua vita, infatti, continua Beppe Sangiorgi, è la storia stessa delle
piante officinali e dell’erboristeria nella seconda metà del ‘900 in Italia.
Il Professore, come tutti lo conoscevano, è stato tra i pochi pionieri che hanno raccolto il sapere
sulle piante officinali in epoca preindustriale e lo hanno difeso e coltivato negli anni del
dopoguerra e dell’industrializzazione, quando l’economia, la società ed i modi di vita nazionali
andavano in tutt’altra direzione. Una battaglia condotta caparbiamente insieme alla
salvaguardia del patrimonio storico, culturale ed ambientale del territorio del Comune di Casola
Valsenio, che non volle mai abbandonare, in nome del grande amore per la sua terra, a costo
di rinunciare ad importanti sviluppi professionali e di studio.
Durante la sua vita è stato insignito di numerosissimi riconoscimenti ed onori, tra i quali la
Medaglia d’oro per la quarantennale attività di formazione culturale dei giovani casolani e per
la valorizzazione del patrimonio storico, artistico e naturalistico della valle del Senio, conferitagli
dall’Amministrazione Comunale di Casola Valsenio il 16 luglio 1984.
Anche dopo la sua scomparsa, avvenuta il 14 dicembre 1999, Augusto Rinaldi Ceroni ha
continuato a gratificare il suo paese, lasciando la sua biblioteca scientifica e diversi rari volumi
di storia locale alla biblioteca comunale di Casola e al Giardino delle erbe, a lui dedicato.
Particolarmente importante è stata la donazione di un volume manoscritto della storia di Casola
Valsenio, risalente ai primi dell’800.
6. La consorteria oggi.
Scrive Renato Ceroni36:
«Sabato 3 giugno 2000 si sono presentati all’ufficio del registro di Imola dodici rappresentanti
della famiglia Ceroni di tutta Italia, per ufficializzare “LO STATUTO DI FONDAZIONE DELLA
RINNOVATA CONSORTERIA DEI CERONI.”.
Hanno firmato il protocollo i signori: Averardo Ceroni di Montespertoli (FI), Eugenio Giancarlo
Le notizie per questo paragrafo sono tratte da B. SANGIORGI, Augusto Rinaldi Ceroni. Una vita per le piante officinali,
Ravenna, 2003.
36
R. CERONI, Lepreno, p. 148.
35
100
Ceroni di Novi Ligure (AL), Matteo Ceroni di Ravenna, Renato Luciano Ceroni di Mestre, Rossella
Ceroni di Imola, Giovanni Ceroni di Cotignola, Nino Ceroni di Imola, Don Guerrino Ceroni
arciprete di Casola Canina, Francesco Rinaldi Ceroni di Castel Bolognese, Lorenzo Rinaldi Ceroni
di Lugo, Pier Giacomo Rinaldi Ceroni di Casola Valsenio, Laura Zauli (di madre Ceroni) di Rimini,
Giovanni Ceroni di Silvio di Lepreno frazione di Serina (Bergamo) e il conte Domenico Sangiorgi
Cellini di Imola, di madre Giacometti Ceroni. Essi hanno poi eletto a presidente, l’ingegner Pier
Giacomo Rinaldi Ceroni, vice presidente Vicario il Dr. Renato Ceroni di Mestre e vice presidente
il Dr. Giovanni Ceroni di Cotignola».
L’Associazione senza fini di lucro, persegue i seguenti obiettivi:
• Riunire tutti coloro che si chiamano CERONI o con cognomi da questo derivato, come indicato
dal regolamento interno.
• Promuovere il loro spirito di gruppo e consolidare gli antichi vincoli di parentela.
• Approfondire gli studi sulla storia della famiglia con ricerche, pubblicazioni di libri,
monografie, articoli, organizzazione di conferenze, incontri, ecc.
• Stimolare gli studi storici della famiglia con borse di studio e premi.
• Mantenere viva la festa di San Giacomo a Casola Valsenio, protettore della consorteria dei
Ceroni.
• Stimolare i giovani della Consorteria agli studi, arti e mestieri e premiare i più meritevoli.
Scrive Renato Ceroni37 che «dall’anno millesettecento i membri della millenaria Casa Ceroni
di Ceruno si ritrovano ogni anno a Casola di Valsenio, per mantenere tra loro i forti legami di
amicizia, che già dal medioevo permisero alla famiglia di avere la signoria incontrastata dell’alta
valle del Senio, di cui rimangono ancora oggi testimonianze nella rocca di Ceruno, al Cardello
e in varie altre costruzioni e anche in chiese della zona».
37
R. CERONI, Lepreno, p. 149.
101
Bibliografia
Memorie biografiche di que’ uomini illustri imolesi le cui immagini sono locate in questa
nostra iconoteca che si distinsero in ogni ramo di scienze e nelle belle arti presentate alla
gioventù imolese a modello e ad eccitamento d’imitazione dal loro concittadino Cavaliere
LUIGI ANGELI, Imola, 1828
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1995.
106
Indice
Prefazione
7
Capitolo 1
1. Le regioni pontificie nel XV secolo.
1.1 Comuni e signorie in Romagna.
2. Lo scisma d’Occidente.
2.1 Il Concilio di Pisa. Il grande scisma.
2.2 Gli effetti dello scisma a Imola e Tossignano.
2.3La fine della signoria di Lodovico Alidosi dopo il Concilio di Costanza
2.4Il signore: tra storia e leggenda.
3. Il pontificato di Eugenio IV. Continui disordini in Romagna.
3.1 La signoria dei Manfredi di Faenza.
4. Nuovi equilibri sotto Niccolò V.
4.1 La signoria di Taddeo Manfredi a Imola.
4.2 Nuovi contrasti tra Taddeo e Astorgio Manfredi.
5. Galeazzo Maria Sforza a Imola.
6. La signoria di Girolamo Riario e Caterina Sforza.
6.1 Il Contado di Imola dopo la morte di Girolamo Riario.
6.2 Caterina al governo di Forlì e di Imola.
7. Cesare Borgia in Romagna. La lotta contro Caterina Sforza.
8. L’elezione di Giulio II e la penetrazione veneziana in Romagna.
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Capitolo 2
1. La Romagna: territorio e società nel secolo XV.
1.1. Vie di comunicazione e contrabbando.
2. Potere pontificio e poteri locali.
2.1. Il governo della Provincia.
2.2. Governatori e podestà locali.
2.3. I funzionari camerali della Provincia. Il bargello.
3. Il contado di Imola nel XV secolo.
3.1. La giurisdizione dei castelli del contado.
3.2. Il castello di Casola.
4. La debolezza del potere pontificio. Gli scontri tra fazioni.
4.1. L’affermazione del potere dei clan familiari: fenomeno tipico del
Medioevo italiano.
4.2. La concordia interna al clan come base per la conservazione del potere.
4.2.1. Guerra privata e vendetta.
4.2.2. Contese private e rivolte urbane. Le paci e le tregue.
4.2.3. Potenza militare delle consorterie.
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Capitolo 3
1. Guelfi e ghibellini in Romagna.
1.1. Maghinardo Pagani a capo del partito ghibellino.
2. I Ceroni: le origini.
2.1. Un fundo qui dicitur Ceroni.
2.2. Ceroni di Romagna, Ceroni bergamaschi?
2.3. Uguccione della Faggiola contro il Castello di Ceruno. La consacrazione
dei Ceroni come paladini guelfi.
2.4. I Ceroni di Lepreno: guelfi o ghibellini?
3. I Ceroni, abili condottieri.
3.1. I Ceroni al servizio dei potenti.
3.2. I Ceroni contro i potenti.
3.2.1. Taddeo Manfredi e Marsibilia Sforza.
3.2.2. Comparino (o Compadretto) Rinaldi difensore di Monte Maggiore.
3.2.3. Ramazzotto Ramazzotti e Guido Vaini.
4. La fine del potere della Consorteria dei Ceroni.
4.1. I Ficchi Ceroni.
4.2. I primi dissidi all’interno della Consorteria. I delitti di S. Lucia
e di S. Cassiano.
4.3. La migrazione dei Ficchi da Casola Valsenio
4.4. La fine della signoria di Ramazzotto.
4.5. Il delitto commesso da Possente Poli.
4.6. Restitutio Offici Casulae Vallis Senni.
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Capitolo 4
1. Le famiglie appartenenti alla Consorteria.
2. Lotte e tregue.
2.1. I Ceroni contro i Caroli. Il delitto Rondanini.
2.2. Storie di Ceronesi.
2.3. Scontri tra Ceroni e Cavina. L’eccidio di Valmaggiore.
2.4. I Ceronesi contro i Veroli. Lo smacco di Cesena.
2.5. I Ravaglia e i Lolli contro i Giacometti Ceroni. L’agguato di Carseggio.
2.6. Continuano i dissidi.
3. Lo stemma della casata Ceroni.
3.1. Lo stemma originario. Cervo rampante con giglio su zampa destra.
Cervo al naturale, giglio d’oro, campo azzurro.
3.2. Prima modifica allo stemma. Aggiunta dei tre gigli al capo.
XV Secolo (gigli d’Angiò).
3.3. Ultima modifica allo stemma. Aggiunta della banda trasversale bianca,
di lino. XVI Secolo (1533).
3.3.1. Stemma dei Ceroni (Lancieri)
3.4. I Motti delle Famiglie Ceroni.
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4. Il Castello di Ceruno.
5. Tre illustrissimi rappresentanti della gens Ceronia.
5.1. Giovanni Cerroni.
5.2. Il Cardinale Giovanni Soglia Ceroni. Vescovo di Osimo e Cingoli.
5.3. Augusto Rinaldi Ceroni. Il giardino delle erbe.
6. La consorteria oggi.
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Bibliografia
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Indice
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La Consorteria dei Ceroni è una Associazione senza fini di lucro, costituitasi Sabato 3 giugno
2000 in Imola - BO, che persegue i seguenti
Obiettivi
• Riunire tutti coloro che si chiamano CERONI o con cognomi da questo derivato, come indicato
dal regolamento interno.
• Promuovere il loro spirito di gruppo e consolidare gli antichi vincoli di parentela.
• Approfondire gli studi sulla storia della famiglia con ricerche, pubblicazioni di libri,
monografie, articoli, organizzazione di conferenze, incontri, ecc.
• Stimolare gli studi storici della famiglia con borse di studio e premi.
• Mantenere viva la festa di San Giacomo a Casola Valsenio, protettore della consorteria
CERONI.
• Stimolare i giovani della consorteria agli studi, arti e mestieri e premiare i più meritevoli.
I luoghi di origine dei CERONI
Si ritene che i Ceroni provengano originariamente da due luoghi ben precisi:
Lepreno - Serina in provincia di Bergamo
Ceruno - Casola Valsenio in provincia di Ravenna
e che i due gruppi siano collegati da vincoli di parentela come indicato dal manoscritto di Don
Domenico Mita del 1627 che traccia la storia della famiglia dalle sue origini e cioè dall’800
D.C. circa.
SAN GIACOMO è il Santo Patrono della Consorteria CERONI
Il santo patrono della consorteria Ceroni è San Giacomo maggiore (S. Jago di Compostela). Infatti
i Ceroni, edificarono in suo onore una chiesa a Lepreno di Serina (BG), nel 1095 circa, ed una
chiesa a Ceruno di Casola Valsenio (RA) nel 1475.
Dal 1778 la famiglia dei Rinaldi Ceroni si riunisce annualmente a Ceruno il giorno della sua
festa (25 luglio) per ricordare i propri morti e per permettere ai membri della numerosa famiglia
di incontrarsi e di conoscersi meglio. Da diversi anni l’incontro annuale, che si tiene in estate,
si è allargato a tutti i CERONI ed in occasione di questi raduni vengono tenute relazioni sulla
storia del casato e varie attività culturali.
LA CONSORTERIA DEI CERONI Via G. Matteotti 90 - 48010 Casola Valsenio - RA ; Cod. Fisc. 90018830399
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www.grafichebaroncini.it