ANEMIEEMOLITICHEAUTOI MMUNI : diagnosi e

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ANEMIEEMOLITICHEAUTOI MMUNI : diagnosi e
Anemie Emolitic
he Autoimmuni
Emolitiche
AN E M I E E M O LITIC H E
A U TO I M M U N I :
diagnosi e terapia
Wilma Barcellini1, Maria Antonietta Villa2, Nicoletta Revelli2, Alberto Zanella1
1. U.O. Ematologia 2, Dipartimento di Medicina e Specialità Mediche,
2. Centro Trasfusionale e di Immunoematologia, Dipartimento di Medicina Rigenerativa
IRCCS Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena, Milano.
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I N DICE
CENNI STORICI
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CLASSIFICAZIONE
pag 7
MECCANISMI PATOGENETICI
pag 9
QUADRO CLINICO
pag 13
DIAGNOSI
pag 15
ANEMIE IMMUNOEMOLITICHE DA
FARMACI
pag 19
TERAPIA
pag 21
ASPETTI PARTICOLARI DELLE
ANEMIE EMOLITICHE AUTOIMMUNI
pag 27
CONCLUSIONI
pag 29
BIBLIOGRAFIA
pag 31
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CE N N I S
TO R I C I
ST
Circa quindici secoli prima della scoperta degli
eritrociti da parte di Malpighi nel 1661, Galeno descrisse nel 150 d.c. quello che verosimilmente era
un episodio di anemia emolitica acquisita (1): riportò di una persona morsa da una vipera, la cui
cute diventò rapidamente pallida. Lo stesso Autore
si spinse poi ad ipotizzare che vi fosse in tutto ciò
un’implicazione della milza e, così facendo, anticipò di circa due millenni Widal, Abrami e Brulè che,
nel 1911 al Congrés Français de Médecine di Lione, definirono il ruolo emocateretico della milza nelle
crisi emolitiche (2). Alle considerazioni redatte in
questo congresso, sempre nel 1911, Micheli fece seguire la prima splenectomia terapeutica per l’anemia emolitica (3).
La prima descrizione di quello che era certamente
un caso di anemia emolitica autoimmune è da attribuire a Dressler che, nel 1854, riportò un caso di
quella forma di emolisi autoimmune che sarebbe stata in seguito definita emoglobinuria parossistica a
frigore (4). Il paziente, un bambino di 10 anni verosimilmente affetto da sifilide congenita, sviluppava
macroematuria ogni qualvolta si esponesse alle basse temperature.
Il lavoro di Dressler anticipò di 15 anni la prima
descrizione dell’agglutinazione eritrocitaria, il cui
merito spetta ad Adolf Creite che, nel 1869, nel suo
Versuche uber die Wirkung des Serumweisses nach
Injection in das Blut, riferì di come proteine sieriche
di varie specie animali fossero in grado, una volta
iniettate nel torrente circolatorio di conigli, di determinare il dissolvimento (lisi) e/o l’aggregazione
(agglutinazione) delle emazie della cavia (5). Creite
descrisse inoltre che a queste reazioni seguiva l’emissione di urine scure, proprio come il caso del paziente segnalato da Dressler. Reazioni simili furono
osservate anche utilizzando sangue umano e vennero descritte da Landois (6).
Sebbene Mackenzie nel 1879 ipotizzasse che la distruzione dei globuli rossi avveniva nel rene (7),
Kuessner dichiarò che l’emolisi aveva luogo nel torrente circolatorio dopo aver osservato che, durante
una crisi di emoglobinuria, il siero acquisiva un colore rosso proprio per la presenza di emoglobina
libera (8). Vanlair e Masius furono i primi, nel 1871,
a descrivere una crisi emolitica in un paziente anemico, non epatopatico (9); spetta però a Minkowski,
nei primi anni del ventesimo secolo, il merito di aver
parlato di ittero acolurico ereditario cronico, separato dall’ittero ostruttivo (10).
Furono Donath e Landsteiner nel 1904 ad identificare in un anticorpo anti-emazie la causa
dell’emoglobinuria parossistica a frigore e a descriverne il procedimento necessario all’identificazione, definito in seguito proprio test di DonathLandsteiner (11). I lavori di Karl Landsteiner permisero di comprendere i fenomeni alla base della
compatibilità e delle reazioni trasfusionali e gli valsero il premio Nobel nel 1930.
Tra gli anni ’30 e ’40 divenne chiaro che
l’autoagglutinazione delle emazie “a freddo” rappresentava un ben definito evento immunologico che
poteva associarsi a varie malattie; rimaneva invece
di più difficile comprensione la natura immunologica
delle forme emolitiche non associate ad auto
agglutinine fredde, cioè le forme da anticorpi caldi.
Queste per molti anni furono confuse con l’ittero
emolitico costituzionale di Minkowski-Chauffard
(sferocitosi ereditaria), sino alla introduzione del
test di Coombs (o test dell’antiglobulina diretto,
TAD) nel 1945, che rese chiara la differenza tra le
due condizioni (entrambe caratterizzate dalla presenza in varia misura di sferociti nello striscio di
sangue periferico). Nei pochi anni a seguire vennero approfonditi gli aspetti sierologici delle malattie
immunoemolitiche nonché la loro associazione con
varie patologie. A metà degli anni ’60, si comprese
che alcune forme immunoemolitiche potevano essere causate da farmaci. Il primo prodotto implicato
nello sviluppo di una AIHA farmaco-indotta fu l’alfametildopa. Infine, negli ultimi 20 anni, si sono identificate, e sono andate meglio definendosi, le forme
atipiche di anemia emolitica autoimmune, quali le
forme TAD-negative e quelle sostenute da IgM “calde”.
Queste osservazioni furono molto importanti perché
costituirono le premesse per la odierna classificazione clinica e sierologica delle anemie emolitiche
autoimmuni.
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C LA
S S I F I CAZ
LAS
AZII O N E
Le anemie emolitiche autoimmuni (AEA) comprendono un gruppo eterogeneo di condizioni morbose
caratterizzate dalla presenza di autoanticorpi diretti
contro antigeni eritrocitari e da un quadro clinico di
emolisi variabile nella sua gravità. Si tratta di malattie relativamente rare con una incidenza di 1-3
casi per 100.000 persone/anno, che possono insorgere sin dalla prima infanzia, ancorché siano più comuni dopo la III-IV decade (12).
Le AEA vengono distinte in base alle proprietà termiche dell’anticorpo, in forme da autoanticorpi “caldi”, che si legano agli eritrociti ad una temperatura
intorno ai 37°C, e AEA da anticorpi “freddi”, che
possiedono un optimum di reazione a 4°C e che comprendono due entità cliniche distinte, la malattia da
agglutinine fredde (CHD; cold hemagglutinin
disease) e la emoglobinura parossistica a frigore. Le
AEA da anticorpi “caldi” costituiscono la maggioranza delle forme (48-70% dei casi), la malattia da
agglutinine fredde rappresenta il 16-32% dei casi,
mentre l’emoglobinura parossistica a frigore rappresenta una rarità (2% dei casi) (12); infine, vanno ricordate le forme “miste” (3% dei pazienti) dove si
osservano sia anticorpi “caldi” che “freddi”, e le AEA
da farmaci, di cui si tratterà in un capitolo a parte
(Tabella 1). Da un punto di vista clinico le AEA vengono distinte in forme acute e croniche, sulla base
della presentazione, e in forme primitive (idiopatiche) e secondarie ad altre condizioni morbose, fra
cui malattie infettive, autoimmuni e neoplastiche.
In particolare, l’AEA da anticorpi “freddi” rappresenta una complicanza osservata frequentemente
nelle sindromi linfoproliferative, quali i linfomi non
Hodgkin e la leucemia linfatica cronica, con una prevalenza variabile nelle diverse casistiche dal 10 al
40% dei casi (12). Vanno ricordate le forme secondarie a infezione da Mycoplasma pneumoniae spesso iperacute ma a buona prognosi.
Anemia emolitica autoimmune da anticorpi caldi
Idiopatica
Secondaria (malattie linfoproliferative, malattie autoimmuni)
Anemia emolitica autoimmune da anticorpi freddi
Sindrome da agglutinine fredde
Idiopatica
Secondaria
Acuta temporanea (infezioni)
Cronica (malattie linfoproliferative)
Emoglobinuria parossistica da freddo
Idiopatica
Secondaria
Acuta temporanea (infezioni)
Cronica (sifilide)
Anemia emolitica autoimmune di tipo misto
Idiopatica
Secondaria (malattie linfoproliferative, malattie autoimmuni)
Anemia emolitica immune farmaco-indotta
Da adsorbimento di farmaci alla membrana eritrocitaria
Da immunocomplessi
Autoimmune
Tabella 1. Classificazione delle Anemie Emolitiche Autoimmuni
Infine, le AEA si distinguono in base alla classe
immunoglobulinica dell’autoanticorpo (Tabella 2),
che più frequentemente è una IgG con attività termica ottimale a 37°C. Un terzo circa delle AEA è
sostenuta da autoanticorpi di classe IgM (12), che
per la loro elevata avidità e capacità di fissare il complemento determinano una emolisi più marcata. Ciò
è particolarmente vero per le forme da IgM “calde”,
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fortunatamente rare, ma estremamente gravi. Circa
il 90% delle CHD è sostenuta da IgM monoclonali
(12), mentre le forme da IgG e IgA sono più rare;
infine va ricordato che l’emoglobinura parossistica
a frigore è sostenuta da un anticorpo di classe IgG,
definita emolisina bifasica di Donath-Landsteiner
(11), in quanto reagente con le emazie a 4°C ma capace di lisarle esclusivamente a 37°C.
Va infine ricordato che, dal punto di vista sierologico,
oltre alle anemie emolitiche autoimmuni di tipo caldo, freddo e misto, si è venuta definendo una ulteriore categoria, quella delle “AEA atipiche“, che
comprende, oltre alle già citate forme da IgM “calde”, le cosiddette AEA TAD-negative. Queste ultime, che possono rappresentare un problema diagnostico critico, sono state segnalate con crescente frequenza sia negli adulti che nei bambini (dal 10 al
20% dei casi, secondo diversi autori) (12).
Classe di Ig
TAD
Eluato
Specificità
AEA da anticorpi caldi
IgG (+IgA o IgM)
IgG e/o C3
IgG
Sindrome da agglutinine
fredde
Emoglobinuria parossistica
a frigore
Anemia emolitica
autoimmune mista
IgM
C3
Non reattivo
Panreattività;
(Rh>altri)
I > i >>Pr
IgG
C3
Non reattivo
P
IgG, IgM
IgG + C3
IgG
Panreattività+
Ignoto > I > altri
Anemia emolitica immune
indotta da farmaci
IgG
IgG +C3
IgG
Spesso Rh
-correlati
Tabella 2 . Caratteristiche sierologiche delle Anemie EmoliticheAutoimmuni
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Emolitiche
M EC
CAN
ATO G E N ETI
CI
ECC
ANII S M I P
PA
ETIC
In generale, alla base dei fenomeni autoimmuni si
possono ipotizzare alcuni meccanismi patogenetici
comuni (13,14). Frequentemente l’autoimmunità può
essere determinata da modificazione degli antigeni
eritrocitari, ad esempio come conseguenza di agenti
infettivi o farmaci. Sempre in corso di infezioni può
realizzarsi la cosiddetta reazione crociata, cioè il riconoscimento di determinanti del self che “assomigliano” a quelli verso i quali si è prodotta la fisiologica risposta immunitaria. Infine, la produzione di
autoanticorpi può realizzarsi ad opera dei cosiddetti
“cloni proibiti” che compaiono in corso di sindromi
linfoproliferative dei linfociti B quali LLC e linfomi.
In ogni caso, alla base dei fenomeni autoimmuni
esiste una esaltata capacità dell’organismo a produrre
autoanticorpi per la rottura della “tolleranza” nei confronti del self, che è controllata da complessi meccanismi cellulari e citochinici non ancora completamente conosciuti.
La definizione del tipo e delle caratteristiche termiche dell’autoanticorpo è di fondamentale importanza in quanto determina un diverso meccanismo
patogenetico alla base dell’emolisi, con conseguente diverso quadro clinico e approccio terapeutico (12)
Gli autoanticorpi di classe IgG sono perlopiù
monomeri, in grado di fissare poco il sistema delle
proteine del complemento (Figura 1). La distruzione delle emazie avviene con un meccanismo cosiddetto di ADCC (antibody-dependent cellular
cytotoxicity), dove le cellule del sistema monocitomacrofagico fagocitano le emazie attraverso il riconoscimento del frammento Fc delle IgG (o di frazioni complementari quali il C3b). L’emolisi è quindi
di tipo extravascolare, ed avviene perlopiù nel fegato e nella milza. Un meccanismo di tipo ADCC è
mediato anche da linfociti attivati da citochine, che
esprimono recettori per il frammento Fc delle IgG e
per il C3b (Figura 2). Gli autoanticorpi di classe IgM
sono pentameri, dotati di elevata avidità e capacità
di attivare la cascata complementare fino al complesso litico finale (C5-C9), che attraverso l’attivazione di “perforine” e altri fattori citotossici, determina la lisi dei globuli rossi direttamente nel torrente circolatorio (emolisi intravascolare). E’ stato calcolato che l’emolisi extravascolare comporta la distruzione di circa 0.25 ml di globuli rossi per kg di
peso corporeo all’ora, che per un uomo del peso di
70 kg rappresenta la distruzione di circa 420 ml di
emazie nelle 24 ore; viceversa una emolisi
intravascolare mediata da IgM determina una potenziale distruzione di circa 200 ml di emazie all’ora,
con una velocità (e una conseguente gravità clinica)
dieci volte maggiore dell’emolisi extravascolare (12).
Il complemento
Via classica
(C1qrs, C2,
C4, C3)
Via alterna
(Fattore B, D,
properdina)
Via delle lectine
mannan binding protein (MBP)
mannanassociated-serine
protease (MASP)
C3-convertasi
Complesso litico finale
(C5, C6, C7, C8, C9)
Figura 1. Il sistema di attivazione del complemento
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Emolisi extravascolare
IgG, C3b
citochine
FcR
C3bR
Linfociti T
macrofago
FcR
C3bR
ADCC
fagocitosi
Figura 2. Fagocitosi e citotossicità anticorpo mediata nella lisi eritrocitaria
APC
Th0
Th0
IL -2, IL-12
- IL-13
IL-4,
+
+
Th1
Th1
IL - 2
IFN - γ
TNF - α
-
, TGFIFN- γ
β
Th2
Th2
-
IL-4, IL10
Linfociti T
citotossici
monociti
macrofagi
Linfociti B
plasmacellule
anticorpi
Immunità cellulo-mediata
Immunità umorale
Figura 3. Le citochine Th1 - Th2 nella AEA
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IL-10
-
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La regolazione della risposta immune (fisiologica
verso gli antigeni non-self, patologica verso il self)
è un processo attivo, regolato da numerose citochine.
Classicamente le citochine si distinguono in Th1 e
Th2. Le citochine Th1, perlopiù prodotte dai T
Helper 1 (IL-2, IL-12, Interferon-γ e TNF-α) sono
responsabili dell’immunità cellulo-mediata attraverso la generazione dei linfociti T citotossici (CD8+)
e dei monociti-macrofagi attivati. Le citochine Th2
(IL-4, IL-5, IL-6, IL-10, IL-13) sono responsabili
della immunità umorale, mediante la maturazione
dei linfociti B in plasmacellule e la conseguente produzione di anticorpi.
Esiste inoltre una regolazione crociata per cui alcune citochine Th1, tra cui l’interferon-γ e il TGF-β
(Transforming Grow Factor-β) regolano in senso
negativo la risposta Th2, e viceversa citochine Th2
(IL-4 e IL-10) regolano in senso negativo la risposta Th1.
Le evidenze di una disregolazione citochinica nella
AEA riportate in letteratura sono contraddittorie e,
in modelli animali, riportano a volte una deficienza
di IL-2, oppure una aumentata produzione di IFN-γ
e di TGF-β (15, 16). Nell’uomo esistono pochi stu-
di: uno dimostra un aumento di IL-2, un altro di IL4 ed IL-5 (17, 18). Noi abbiamo studiato il profilo
citochinico di tipo 1 (IL-2, IFN-γ) e 2 (IL-4, IL-6,
IL-10, IL-13) in 21 pazienti con AEA idiopatica
nonché la produzione di citochine pro-infiammatorie (TNF-α, IL-1) e inibitorie (TGF-β), dimostrando una ridotta produzione di IFN-γ e IL-2, più evidente nei pazienti in fase attiva/ emolitica della malattia, e una aumentata produzione di IL-4, IL-13 e
IL-6 (19). Infine, i pazienti con AEA in fase attiva
avevano una aumentata produzione di TGF-β. In
conclusione, nella AEA esiste uno sbilanciamento
della risposta immunitaria in senso Th2, in linea con
il meccanismo di distruzione dei GR mediato da
anticorpi. Come in altre patologie autoimmuni, anche l’immunità cellulare è importante, in quanto
“driver” dell’immunità umorale, presente soprattutto nelle fasi iniziali e di attività della malattia. L’aumento di TGF-β potrebbe rappresentare un meccanismo di feed-back volto a smorzare l’immunità
cellulo-mediata presente nelle fasi di attività della
malattia e che determina lo shift in senso Th2 della
risposta immune, con conseguente prevalenza dell’immunità umorale (Figura 3).
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AD
RO C
LI N I C O
QUAD
ADR
CL
Il quadro clinico delle AEA è caratterizzato da una
notevole variabilità in termini di esordio, manifestazioni cliniche e decorso, da insidioso a fulminante. Le AEA, indipendentemente dalle caratteristiche
dell’autoanticorpo, presentano anemia tendenzialmente macrocitica di grado estremamente variabile
(emoglobina da 3 g/dL nelle forme più gravi fino a
valori pressoché normali), reticolocitosi, moderata
iperbilirubinemia prevalentemente di tipo indiretto,
consumo di aptoglobina, possibile rialzo di LDH e,
occasionalmente nelle forme iperacute e massive,
emoglobinemia, emoglobinuria ed emosiderinuria.
Un altro reperto obiettivo di comune riscontro è costituito da splenomegalia usualmente modesta ed
epatomegalia, rilevabili rispettivamente nella metà
ed in un terzo dei casi.
Le AEA da agglutinine fredde (CHD, cold
hemagglutinin disease) sono caratterizzate da
agglutinazione ed emolisi delle emazie nelle sedi
corporee dove la temperatura raggiunge quella di
reazione dell’anticorpo e quindi acrocianosi e fenomeni vasomotori nella microcircolazione superficiale
(mani, piedi, orecchie, naso, etc.), scatenati soprattutto dall’esposizione al freddo.
L’emoglobinuria parossistica a frigore è stata classicamente descritta in passato in associazione alla
sifilide. Attualmente si osserva frequentemente nei
bambini a seguito di malattie infettive prevalentemente virali, ed è caratterizzata da un esordio acuto,
saltuariamente grave con anemia severa ed
emoglobinuria. I sintomi clinici sono dominati dalla
emolisi intravascolare determinata dall’emolisina
bifasica di Donath-Landsteiner, un anticorpo di classe IgG che si lega agli eritrociti a basse temperature
(4 °C) e determina emolisi a 37 °C. Il quadro clinico
è caratterizzato da malessere generale, brividi, febbre, crampi, dolori lombari e addominali, fenomeni
vasomotori ed orticaria a seguito di una esposizione
a basse temperature.
La casistica “storica” di pazienti con AEA seguita
presso il nostro Centro negli anni 80-90, costituita
da 286 casi di forme calde (rappresentanti il 72%
delle AEA totali), di età mediana 48 anni, range
1-89, mostrava un quadro assai variabile in termini
di esordio, manifestazioni cliniche e decorso: l’anemia era presente nel 90% dei casi, l’ittero nel 82%,
mentre meno frequenti erano la splenomegalia (51%)
e l’epatomegalia (35%), ed estremamente rara
l’emoglobinuria (5%).
All’esordio, i valori di Hb erano estremamente variabili sia nelle forme da anticorpi caldi che freddi,
rispettivamente, da 3.6 a 16.5 g/dl (mediana 8.7) e
da 5 a 13 g/dl (mediana 9.6) (20). Nelle AEA i
reticolociti sono usualmente elevati, con consensuale
aumento del VGM, che in casi di emolisi compensata rappresenta l’unica anormalità ematologica. In
rari casi è presente reticolocitopenia (1-2% dei casi)
di incerta interpretazione. Questi casi rappresentano una vera emergenza medica, la reticolocitopenia
potendo essere anche di lunga durata nonostante la
terapia, e comportare, prima di risolversi, un
fabbisogno trasfusionale talora elevatissimo (sino a
oltre 80 unità in meno di 6 mesi) (21).
I parametri clinici delle varie forme di AEA, ottenuti da una revisione della più recente casistica del
nostro Centro (89 pazienti, di età media 55 anni,
range 11-94, 50 maschi e 39 femmine), è riportata
in Tabella 3: 62 pazienti (69,7%) erano affetti da
AEA da anticorpi caldi, 19 pazienti (21,3%) da sindrome da agglutinine fredde, 1 paziente da AEA da
anticorpi misti e 7 pazienti (7,9%) da AEA TADnegativa.
I nostri dati confermano, in tutti i tipi di AEA, l’ampia variabilità nei livelli di Hb, da valori pressoché
normali a marcatamente ridotti; ugualmente variabile è l’alterazione degli indici emolitici, con valori
normali in alcuni pazienti e marcata positività in altri; il gruppo di AEA TAD-negative presenta generalmente un quadro clinico più grave, probabilmente in conseguenza della difficile e ritardata diagnosi. Il 77.5% dei nostri pazienti (69 casi, di cui 57
con AEA da anticorpi caldi, 5 da crioagglutinine, 1
da anticorpi misti e 6 DAT negativi) è stato sottoposto a terapia; i dati clinici dei pazienti trattati rivelavano anemia e indici emolitici alterati [Hb mediana
7,2 g/dl (range 3 – 11,9), LDH 780 U/l (range 201 –
8681), bilirubina indiretta 2,8 mg/dl (range 0,2 –
8,2)]; inoltre 17 pazienti presentavano splenomegalia, 8 epatomegalia e 5 emoglobinuria. Il
follow-up mediano era di 41 mesi.
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E’ interessante notare la bassa percentuale di pazienti
con sindrome da agglutinine fredde che è stato sottoposto a terapia (solo ¼ dei pazienti) rispetto alla
quasi totalità dei pazienti con altre forme di AEA,
riflettendo la difficoltà terapeutica di questi casi, che
verrà discussa nel capitolo dedicato alla terapia.
Per quanto riguarda la prognosi, negli adulti la sopravvivenza è riportata essere del 91% ad 1 anno,
75% a 5 anni e 73% a 10 anni (12). In età pediatrica
la malattia in circa l’80% dei casi è acuta e transitoria in quanto prevalentemente associata ad infezio-
ni virali quali EBV, CMV, varicella, morbillo, H.
influenzae ed altri (HP B19, E. Coli, stafilococchi).
Anche la prognosi delle AEA idiopatiche ad insorgenza in età compresa tra i 2 e i 12 anni è buona,
con guarigione piuttosto rapida (12). In tema di
mortalità e di gravità, è doveroso ricordare che particolarmente severe sono le forme atipiche associate ad autoanticorpi IgM “caldi”, che hanno una probabilità di esito letale più alta di tutte le altre AEA
per le quali sono riportate diverse segnalazioni fatali (22-25).
Parametri
Totale
AEA”calde”
AEA “fredde”
TAD negative
Hb(g/dl)
7,8 (3-15,6)
7 (3,8-15,3)
10,3 (4,7-15,6)
8 (3-9,9)
Reticolociti%
8,85 (0,2-55)
10,6 (0,7-30)
4,5 (1-10)
11,95 (1-55)
LDH (U/l)
Bil Ind (mg/dl)
708 (201-8681) 770 (313-4523)
2,5 (0,2-8,2)
2,8 (0,2-8,2)
617 (201-3262) 1316 (350-8681)
1,55 (0,4-8,1)
3,27 (1,05-3,7)
Tabella 3. Parametri clinici dei pazienti con AEA seguiti presso il nostro Centro nel
periodo 2001- 2008
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G N OS
DIAG
OSII
Il cardine diagnostico delle AEA è rappresentato dal
test dell’antiglobulina diretto, che tuttavia non può
essere il solo protagonista, ma deve essere seguito
da altre indagini di laboratorio finalizzate a determinare la classe e le caratteristiche termiche
dell’autoanticorpo, confermare la sua presenza nel
siero e/o nell’eluato dalle emazie e per ultimo escludere che l’autoanticorpo mascheri la presenza di
alloanticorpi a basso titolo.
Il TAD in fase liquida viene in genere eseguito in
provetta utilizzando antisieri antiglobuline umane
polispecifici e monospecifici (anti-IgG, anti-C3 e/o
anti-C3d, anti-IgA e anti-IgM) di differenti produttori, ed emazie sospese al 3%. Le provette contenenti gli antisieri polispecifici e monospecifici vanno lette dopo centrifugazione immediata tranne il complemento che deve essere incubato a temperatura ambiente per 5 minuti.
Un corretto inquadramento diagnostico di un paziente con sospetta AEA può pertanto richiedere la seguente batteria di test:
L’autoagglutinazione è un test molto semplice in genere positivo nelle AEA da autoanticorpi “freddi” ma
non nelle forme da IgG “caldi”. In caso di autoagglutinazione positiva è necessario lavare le emazie
con fisiologica a caldo prima di eseguire il TAD.
1. test dell’antiglobulina indiretto (TAD) o test
di Coombs diretto
2. autoagglutinazione
3. ricerca di anticorpi eritrocitari nel siero
(TAI) o test di Coombs indiretto
4. identificazione di anticorpi eritrocitari nel
siero ed eluato
5. tipizzazione eritrocitaria completa
6. tests sierologici addizionali (ad esempio
l’autoassorbimento, l’alloassorbimento mirato e i test per le forme farmaco-indotte)
-
si
Causa
dell’emolisi
identificata?
STOP
no
Il TAD in provetta, eseguito mediante agglutinazione
con antisieri polispecifici, è il test di screening più
frequentemente utilizzato, tuttavia non è esente dal
rilevare sia falsi positivi che negativi (12). In caso di
TAD negativo, ma di forte sospetto clinico di anemia emolitica autoimmune (Figura 4) è necessario
eseguire indagini di II livello per la ricerca di
anticorpi eritrocitari (12). Le cause di falsa negatività
del TAD eseguito con antisieri polispecifici possono
essere:
TAD standard (provetta)
(antisieri polispecifici)
+
Siero/Eluato:
Screening e
- Antisieri monospecifici
identificazione
- TAD II livello
degli autoanticorpi
Microcolonna
Fase solida
Lavaggi a freddo 4 °C
LISS
+
IFA
-
Altri
(MS- DAT)
+
Figura 4. Algoritmo diagnostico nelle AEA
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a) la presenza di autoanticorpi di sola classe IgA,
che può essere rilevata dall’uso di antisieri
monospecifici; in genere gli anticorpi di classe IgA
sono riscontrabili in circa il 14% dei pazienti con
AEA e sono usualmente associati ad anticorpi IgG
e/o IgM, mentre la sola presenza di anticorpi IgA è
abbastanza rara; tuttavia, la reale frequenza di MEA
da IgA è probabilmente sottostimata in quanto
autoanticorpi IgA non vengono sempre rilevati dai
sieri antiglobulina umana ad ampio spettro;
b) la presenza di autoanticorpi a bassa affinità, che
possono essere invece rilevati dall’esecuzione del
TAD dopo lavaggio delle emazie a freddo o con soluzioni a bassa forza ionica (LISS);
c) la presenza di un piccolo numero di molecole IgG
legate ai GR al di sotto del limite di rilevazione della metodica in agglutinazione.
Da qui l’utilizzo di metodi dotati di maggiore sensibilità, fra cui il TAD in microcolonna e fase solida,
vari test immuno-radiometrici ed ELISA, il test di
consumo del complemento e la citofluorimetria.
Per quanto riguarda la sensibilità dei vari metodi, è
noto che il classico TAD in provetta diagnostica efficacemente una AEA se almeno 500 molecole di
autoanticorpi sono legati ai GR (26), il test in
microcolonna richiede circa 200-300 molecole/GR
per dare un risultato positivo (27), e la citofluorimetria, essendo la tecnica in assoluto più sen-
Colture non
stimolate
sibile, è in grado di rilevare anche 30-40 molecole
di IgG/GR (28).
Nonostante l’utilizzo di tutti i metodi sopra elencati
è noto che il 5-10% delle AEA continua a presentare un TAD negativo. In questi casi la diagnosi è di
esclusione e spesso sulla base di una risposta clinica alla terapia steroidea.
Particolarmente utile nello studio di tali casi si è rivelato il test di Coombs dopo stimolazione
mitogenica in coltura, denominato MS-DAT
(mitogen-stimulated direct antiglobulin test). Il test
viene eseguito su sangue intero dopo stimolazione
per 48hr con mitogeni quali fitoemagglutinina
(PHA), esteri del forbolo (PMA), e fitolacca americana o pokeweed (PWM); la stimolazione
mitogenica determina la produzione in vitro di
autoanticorpi da parte dei linfociti B, e il loro successivo legame alle emazie autologhe; la quantità di
autoanticorpi adesi viene valutata mediante un test
ELISA competitivo in fase solida. Come mostrato
in Tabella 4, nei pazienti con AEA, la stimolazione
mitogenica aumenta la quantità di IgG legate alle
emazie autologhe, rispetto alle colture non stimolate (19); un analogo aumento, anche se di minore
entità, si osserva in soggetti con leucemia linfatica
cronica, condizione nella quale è nota una elevata
prevalenza di fenomeni autoimmuni diretti contro
la serie eritrocitaria (29).
Colture stimolate Colture stimolate
con PHA
con PMA
Pazienti con AEA
(n=33)
Pazienti con LLC
(n=69)
322+49***
623+122**
465+55*
635+134**
134+15**
207+29***
182+37**
183+25***
Controlli sani
(n=81)
75+7
75+9
70+6
76+14
Tabella 4. - MS-DAT in pazienti con AEA e leucemia linfatica cronica (LLC).
I valori sono espressi come ng/ml di IgG legate a GR autologhi (media+ES);
*p< 0.05, **p< 0.01 e ***p< 0.001, pazienti versus controlli
pagina 16
Colture stimolate
con PWM
Anemie Emolitic
he Autoimmuni
Emolitiche
In 33 pazienti con AEA in atto o pregressa, MS-DAT
è stato comparato al TAD in provetta, LISS,
microcolonna e fase solida: 27 pazienti risultavano
positivi con tutti i test, mentre 6 casi con AEA in
remissione erano positivi solo con MS-DAT (Tabella 5, pazienti 1-6). Inoltre, MS-DAT è risultato chiaramente positivo in altri 7 pazienti, nei quali era stata posta una diagnosi presuntiva di AEA TAD-negativa dopo esclusione di altre cause di emolisi e sulla
base della risposta clinica alla terapia steroidea (Tabella 5, pazienti 7-13).
Infine, MS-DAT è risultato positivo in 20 su 69 pazienti affetti da LLC (10 in stadio A, 4 in stadio B e
6 in stadio C), con una frequenza del 28,9% (dati
non mostrati). Al momento dello studio, il TAD
Bilirubina
totale
standard è risultato positivo solo in 3 pazienti con
LLC (stadio C), affetti da anemia emolitica (frequenza del 4,3%) (29).
Per ultimo, in alcuni casi particolarmente complicati la caratterizzazione della specificità autoanticorpale, negativa sul siero ed eluato delle emazie, si
è resa possibile sui sovranatanti delle colture
stimoltate con mitogeno del test MS-DAT. In un primo caso di AEA post-trapianto di polmone (paziente B+, donatore 0+) il TAD era negativo in provetta,
LISS, debolmente positivo in microcolonna e fortemente positivo in MS-DAT; mentre lo studio del siero
ed eluato non permettevano l’identificazione
dell’autoanticorpo, i tests sui sovranatanti delle colture stimolate con mitogeni dimostravano la
reticolociti
%
aptoglobina
mg/l
8 (5)
1.4
1200
420
yes
neg
279
12.4
13.7 (12)
0.8
2290
296
yes
neg
321
F
12.3
10.3 (7)
0.7
1830
377
no
neg
433
4
M
13.1
10 (9)
1.8
1200
472
no
neg
302
5
M
12
10 (8)
0.9
690
303
yes
neg
256
6
M
15
13.7 (8)
0.2
870
291
no
neg
322
7
M
12
27 (22)
3.7
200
480
no
neg
813
8
F
10.9
28 (22)
4.4
200
420
no
neg
433
9
M
11.1
20 (18)
1.1
200
550
no
neg
1230
10
F
5.3
20 (19)
6.9
200
232
no
neg
1660
11
M
8.8
n.d
.
4.3
200
520
yes
neg
516
12
M
10.8
40 (27)
15.9
200
470
no
neg
856
13
F
11.1
9 (8)
0.9
500
338
no
neg
314
femmine
11.5-15
maschi
14-16.5
0-17 (0-12)
<2%
600-3000
230-460
Paziente
N°
sesso
1
Hb
g/dl
(non coniugata)
F
13.3
2
F
3
Valori
di riferimento
µ
mol/l
LDH Terapia TAD* MS-DAT
IgG ng/ml
U/l steroidea
Tabella 5. Parametri clinici e laboratoristici dei pazienti con AEA TAD-negativa, MS DAT positiva.
* Il TAD è stato eseguito in provetta, LISS, fase solida e microcolonna
pagina 17
Anemie Emolitic
he Autoimmuni
Emolitiche
positività per anticorpi anti-B, suggerendo la diagnosi di “passenger lymphocyte syndrome”, dovuta
ad anticorpi prodotti dai linfociti del donatore passivamente trasferiti durante il trapianto. In un secondo caso il TAD era negativo in provetta e LISS,
debolmente positivo in microcolonna e fase solida e
chiaramente positivo in MS-DAT; anche in questo
caso lo studio del siero ed eluato era negativo, mentre le indagini sui sovranatanti delle colture stimolate con mitogeni dimostravano la positività per
autoanticorpi panreattivi in fase solida. In conclusione, la diagnosi di AEA deve avvalersi di diversi
tests dell’antiglobulina diretta, particolarmente nei
casi negativi allo standard TAD in provetta. Il test
MS-DAT potrebbe essere proposto come un metodo
aggiuntivo per la diagnosi dei casi difficili e per la
caratterizzazione della specificità autoanticorpale.
Infatti, la stimolazione mitogenica determina un aumento della produzione di autoanticorpi in vitro e
sembra quindi in grado di evidenziare una
autoimmunità anti-eritrocitaria latente, includendo
le AEA TAD-negative, le forme in fase di remissione clinica e quelle condizioni patologiche, quali la
LLC, associate ad autoimmunità anti-eritrocitaria.
Va ribadita in questa sede l’importanza della
pagina 18
tipizzazione eritrocitaria completa in tutti i pazienti
con AEA prima di eventuali trasfusioni. Nei pazienti con TAD positivo le emazie vanno tipizzate se possibile con antisieri monoclonali; quando questi non
sono disponibili è necessario trattare i globuli rossi
con Clorochina o ZZAP per liberare i siti antigenici
dagli anticorpi.
Nei pazienti politrasfusi è invece impossibile avere
una tipizzazione eritrocitaria sierologica attendibile
ed è pertanto necessario ricorrere alla tipizzazione
con tecniche genomiche, effettuabile con kit commerciali che utilizzano la tecnica Polymerase Chain
Reaction-Sequence-Specific Primers (PCR-SSP) su
DNA ottenuto da sangue periferico (ABO-Type, RhType, KKDType, Weak D-Type, HPA-Type BAGene,
Germany; ABO-SSP, CDE-SSP, weak D-SSP,KKDSSP, MNSs-SSP, HPA-SSP, Inno-Train Diagnostik
GmbH, Germany e BAG Health Care GmbH,
Germany) (30, 31).
Infine, problematiche diagnostiche particolari vengono poste dalle anemie immunoemolitiche da farmaci, che vengono di seguito separatamente considerate.
Anemie Emolitic
he Autoimmuni
Emolitiche
AN
E M I E IIM
M M U N O E M O LITI
C H E IIN
N D OTTE D
AF
AR
MA
CI
ANE
ITIC
DA
FAR
ARMA
MAC
dovendo essere utilizzate metodiche complesse non
di uso routinario.
Le anemie immunoemolitiche indotte da farmaci
sono dovute a diversi tipi di interazione tra il farmaco, l’anticorpo e i componenti della membrana delle
emazie. I tre principali meccanismi di induzione includono l’adsorbimento tenace del farmaco alla
membrana eritrocitaria, la formazione di immunocomplessi e la produzione di autoanticorpi (Figura
5).
Le anemie immunoemolitiche del primo tipo sono
sostenute da anticorpi, generalmente di classe IgG,
che reagiscono con un complesso farmaco-membrana formatosi a seguito del tenace legame del farmaco alla membrana stessa. In questi casi il TAD è positivo per IgG e l’emolisi è di tipo extravascolare;
farmaci che tipicamente danno questo tipo di emolisi
sono la penicillina, l’ampicillina, la meticillina, la
carbenicillina e le cefalosporine (cefalotina e
cefaloridina).
Le forme del secondo tipo sono sostenute dalla
interazione fra farmaco e anticorpo anti-farmaco (soprattutto IgM), con formazione di immunocomplessi
che si attaccano alla membrana eritrocitaria, determinando emolisi intravascolare e un TAD positivo
solo per frazioni complementari; moltissimi farmaci possono causare anemia immunoemolitica con
questo meccanismo, tra i più frequenti si ricordano
Y
I farmaci possono produrre emolisi attraverso meccanismi sia immuni che non-immuni. Storicamente,
l’a-metildopa ed elevate dosi di penicillina sono responsabili della maggior parte dei casi di anemia
emolitica indotta da farmaci con meccanismo immune. Studi dei primi anni ’80, quando questi due
agenti erano più comunemente utilizzati, mostravano che 12-18% delle AEA erano indotte da farmaci
(32, 33). Mentre l’incidenza di anemia emolitica indotta da questi farmaci è attualmente molto ridotta,
sono sempre di più frequente osservazione casi associati all’assunzione di cefalosporine di seconda e
terza generazione, soprattutto cefotexano e ceftriaxone (34, 35). Johnson e coll (36), del Immunohematology Reference Lab di Milwaukee ha descritto 71 casi di anemia immunoemolitica da farmaci,
con 73 anticorpi diretti contro 23 differenti farmaci,
tra i quali predominano le ciclosporine, le penicilline
ed i loro derivati, ed i farmaci infiammatori non
steroidei. E’ interessante notare che degli 11 anticorpi
diretti contro FANS, in 4 casi la diagnosi ha richiesto indagini su metaboliti urinari del farmaco. Da
memorizzare le conclusioni degli Autori, che debba
sempre essere presa in considerazione l’eventualità
di una forma immunoemolitica da farmaco ogni
qualvolta un paziente si presenti con una AEA sia
da anticorpi caldi che freddi. E’ importante sottolineare che una corretta diagnosi delle anemie
immunoemolitche da farmaci presuppone un forte
sinergismo collaborativo tra clinico e laboratorista
1. Adsorbimento e legame tenace del farmaco alla membrana
con produzione di IgG che si legano al complesso
farmaco-membrana; emolisi extravascolare; TAD+IgG
(esempio penicillina)
2. L’immunocomplesso farmaco-anticorpo
Y
Y
Y
Y
YY
anti farmaco (perlopiù IgM) si attacca
alla membrana;
emolisi intravascolare;
TAD + C (esempio chinidina)
3. Il farmaco modifica la membrana del GR rendendola
Y
antigenica, induce la produzione di autoanticorpi IgG
emolisi extravascolare; TAD+IgG
(esempio alfa metildopa)
Figura 5. Meccanismi di induzione delle anemie emolitiche da farmaci
pagina 19
Anemie Emolitic
he Autoimmuni
Emolitiche
chinidina, fenacetina, idroclorotiazide, rifampicina,
sulfamidici, isoniazide, chinina, tetracicline,
idralazina, cloropromazina, streptomicina, fluoro
uracile e molti altri.
Infine, le anemie emolitiche secondarie alla produzione di autoanticorpi si verificano quando il farmaco interagisce modificando un normale componente
della membrana eritrocitaria e il sistema immunitario
riconosce questo componente dei globuli rossi “alterato” come non-self; quest’ultimo meccanismo è
quello che più si avvicina alle forme autoimmuni
classiche. L’α-metildopa è il tipico farmaco che agisce inducendo la formazione di autoanticorpi, e determinando la positività del TAD nel 11-36% dei
pazienti entro 3-6 mesi dalla prima somministrazione, con una dose-dipendenza (37, 38). Fra gli altri farmaci che possono provocare una anemia
immunoemolitica da autoanticorpi si ricordano
cefalosporine, acido mefenamico, procainamide,
ibuprofen, diclofenac e interferon-α (39-46). In questi casi il TAD è positivo per IgG e l’emolisi è di
tipo extravascolare. Infine, va ricordato che i tre
meccanismi non sono mutualmente esclusivi. Per
esempio, le cefalosporine, che normalmente inducono anemia emolitica col meccanismo di
adsorbimento del farmaco alla membrana e/o formazione di immunocomplessi, possono indurre anche la formazione di autoanticorpi (39-46).
In Tabella 6 vengono riassunte le caratteristiche
sierologiche delle tre forme di anemia immunoAdsorbimento
del farmaco
TAD
Polispecifico
+
+
IgG
Normalmente
C3
Anticorpi nel siero
–
Routine
–
Farmaco solubile
+
GR trattati con farmaco
Anticorpi nell’eluato da GR
–
Routine
–
Farmaco solubile
GR trattati con farmaco
+
emolitica indotta da farmaci. Oltre alla diversa
positività del TAD già accennata in precedenza, va
sottolineato che normalmente la ricerca degli
anticorpi nel siero e nell’eluato dalle emazie è negativa nelle forme da adsorbimento e da immunocomplessi mentre può essere positiva nel caso di farmaci in grado di indurre la produzione di
autoanticorpi, forma che è sierologicamente
indistinguibile da una classica AEA “calda”
(anticorpi perlopiù panreattivi, sebbene siano documentate specificità c, e, Wrb, Jka, e U) (47). Tuttavia, il pretrattamento delle emazie con farmaco, permette di rilevare la positività per anticorpi nel siero
e/o eluato nelle forme dovute ad adsorbimento; analogamente, nelle anemie emolitiche sostenute dalla
formazione di immuno-complessi, l’aggiunta del farmaco in vitro e/o il pretrattamento delle emazie con
farmaco permette la rilevazione di anticorpi nel siero.
Infine, va ricordato che una diagnosi presuntiva di
anemia immunoemoltica farmaco-indotta può essere confermata solo dalla risposta alla sospensione
del farmaco stesso.
Da un punto di vista terapeutico la sospensione del
farmaco, soprattutto quando esistono terapie alternative, determina normalmente una risoluzione
dell’emolisi dopo alcuni giorni, anche se talvolta
sono necessari mesi affinché l’anemia emolitica si
esaurisca completamente (47). In casi con emolisi
severa si può ricorrere alla terapia steroidea.
Formazione di
immunocomplessi
Formazione di
autoanticorpi
+
Normalmente
+
+
+
Normalmente
–
+
+
+
+
+
–
–
–
+
+
+
Tabella 6. Caratteristiche sierologiche della anemie emolitiche indotte da farmaco.
Modificato da Ghers BC & Friedberg RC. AJH, 2002.
pagina 20
Anemie Emolitic
he Autoimmuni
Emolitiche
TE
R AP
IA
TER
APIA
La terapia delle AEA deve tenere conto della gravità dell’anemia e delle relative conseguenze
fisiopatologiche sull’organismo, nonché della rapidità di comparsa dello stato anemico. Pertanto, è
possibile identificare tre livelli di anemia e quindi
di rischio, con conseguenti diversi approcci
terapeutici. Se l’ematocrito è compreso fra 30 e 36%
e/o i livelli di emoglobina fra 8 e 12 g/dl vi è l’indicazione all’astensione terapeutica fino a inquadramento diagnostico completo; se l’ematocrito è compreso fra 14 e 30% e/o i livelli di emoglobina fra 4,5
e 8 g/dl si deve agire a seconda del quadro clinico,
preferibilmente però dopo inquadramento diagnostico; infine, se l’ematocrito è inferiore al 14 % e/o
i livelli di emoglobina inferiori a 4,5 g/dl vi è l’indicazione all’intervento terapeutico immediato. A prescindere dalle forme di AEA secondarie, in cui la
terapia è quella della malattia di base, va sottolineato che la definizione del tipo e delle caratteristiche
termiche dell’autoanticorpo è di fondamentale importanza in quanto determina un diverso approccio
terapeutico alla AEA.
TERAPIA DELLE ANEMIE EMOLITICHE
AUTOIMMUNI DA ANTICORPI “CALDI”
Nelle forme idiopatiche da anticorpi caldi la terapia
di prima scelta è rappresentata dai corticosteroidi.
In soggetti adulti una somministrazione giornaliera
iniziale di 1 mg/kg/die (o 40 mg/m2) di prednisone
per os per circa 3-4 settimane è sufficiente a controllare l’emolisi nel 70-85% dei casi. I benefici clinici della terapia steroidea compaiono in genere entro 10 giorni. Alcuni Autori suggeriscono di incrementare la dose a 60 mg/m2 in caso di mancata risposta entro la prima settimana. Quando i livelli di
emoglobina ed ematocrito si stabilizzano su valori
normali e si osserva una tendenza alla
normalizzazione degli indici emolitici (reticolociti,
LDH, bilirubina, aptoglobina), il dosaggio dello
steroide va gradualmente ridotto. Indicativamente
tale riduzione deve essere di 10-15 mg/die ogni settimana fino ad un dosaggio giornaliero di 20-30 mg,
quindi di 5 mg/die ogni settimana e, infine, di 2.5
mg/die ogni settimana sino alla sospensione del farmaco o al raggiungimento del dosaggio minimo efficace. Questo schema è indicativo, in quanto la riduzione dello steroide va adattata ad ogni singolo
paziente con un attento monitoraggio dell’emocromo
e degli indici emolitici, in quanto una rapida riduzione determina assai frequentemente recidive
emolitiche. Vanno ricordati, perché spesso
sottostimati, i numerosi effetti collaterali della terapia steroidea, usualmente correlati alla dose e alla
durata della terapia: ipertensione, diabete, ulcera
peptica, diatesi infettiva, miopatia, cataratta,
osteoporosi, irritabilità, insonnia, aumento di peso
e habitus cushingoide. Fra questi una particolare attenzione va posta all’osteoporosi, che contrariamente
a quanto ritenuto, compare insidiosamente in circa
il 10-20% dei pazienti che assumono anche piccole
dosi di steroide (5-10 mg die di prednisone) per lunghi periodi.
Come accennato in precedenza, la terapia steroidea
ben condotta dimostra una buona efficacia nel 7085% dei casi; tuttavia solo un terzo di questi rimane
in remissione clinica a lungo termine dopo la sospensione della terapia, mentre circa la metà dei pazienti richiede piccole dosi di “mantenimento” di
steroide; se tale dose è superiore a 10-15 mg/die, vi
è l’indicazione a considerare una terapia di seconda
linea, che prevede la scelta fra farmaci
immunosoppressori e splenectomia; ciò avviene all’incirca nel 20-30% dei casi (12).
La splenectomia induce remissione completa in oltre il 50% dei pazienti e nei restanti il controllo
dell’emolisi richiede comunque una dose inferiore
di steroide. Va ricordato che la splenectomia deve
essere preceduta da adeguata profilassi vaccinale
anti-pneumococcica, anti-meningococcica e antiHaemophilus, e che rappresenta comunque un intervento a maggior rischio nel soggetto anziano. Inoltre, molti Autori suggeriscono una terapia antibiotica profilattica per 3 anni post-splenectomia per evitare le possibili complicanze infettive. Altre possibili gravi complicanze descritte, oltre a quelle settiche, anche generalizzate, sono embolia polmonare,
sanguinamento, ascesso ed ematoma intraaddominale. Va infine ricordata la possibile esistenza di tessuto splenico ectopico/milze accessorie, che
va ricercato soprattutto nei pazienti che recidivano
dopo splenectomia (48).
Il trattamento con farmaci citotossici e
pagina 21
Anemie Emolitic
he Autoimmuni
Emolitiche
immunosoppressori dovrebbe essere preso in considerazione solo per pazienti sintomatici che non possono essere sottoposti alla splenectomia o che non
abbiano risposto ad essa. Dei farmaci impiegati nelle AEA da autoanticorpi caldi (tra i quali azatioprina,
ciclofosfamide, 6-mercaptopurina e 6-tioguanina),
il più usato è l’azatioprina che, alla dose media giornaliera di 80 mg/m2/die per almeno 2-3 mesi, dà risultati soddisfacenti in circa i 2/3 dei casi insensibili ai trattamenti precedenti. Una buona risposta è
stata ottenuta anche con la ciclofosfamide al
dosaggio di 60 mg/m2 die al giorno per almeno 6
mesi e più recentemente con la ciclosporina alla dose
di 5 mg/kg/die (12, 49-51). Le gammaglobuline per
via endovenosa al dosaggio di 400 mg/kg/die per 5
giorni hanno dimostrato una efficacia globale del
40%, tendenzialmente migliore nei casi pediatrici
(54,5%) rispetto agli adulti (37%) (52). Alcuni risultati terapeutici in casistiche molto limitate sono
stati riportati con la somministrazione di danazolo
alla dose di 600-800 mg/die, con una efficacia nel
60-70% dei casi, di durata tuttavia non specificata
(53, 54).
TERAPIA DELLE ANEMIE EMOLITICHE
AUTOIMMUNI DA ANTICORPI “FREDDI”
La misura terapeutica più efficace nella sindrome
da agglutinine fredde idiopatica è la protezione dal
freddo, che, in considerazione della frequente benignità del quadro clinico, è usualmente sufficiente al
controllo della sintomatologia. Nei pazienti più gravi, buoni risultati sono stati ottenuti con clorambucil
a basse dosi a regime continuativo (0,08-0,1 mg/kg/
die), o intermittente ad alte dosi (0.2 mg/kg/die per
14 giorni). Una alternativa terapeutica è rappresentata dalla ciclofosfamide alla dose di 60 mg/m2/die
per os per almeno 6 mesi (12). Nei casi iperacuti, il
plasma-exchange può rappresentare una misura
terapeutica efficace per ridurre il titolo delle
agglutinine fredde, ma non può essere considerato
un trattamento a lungo termine. Recentemente l’efficacia della plasmaferesi è stata rivalutata secondo
i criteri della Evidence Based Medicine, che ha messo in luce come non esistano studi clinici controllati
ma solo segnalazioni aneddotiche di efficacia (55).
Corticosteroidi e splenectomia sono quasi sempre
inefficaci. La trasfusione di sangue si rende necespagina 22
saria solo occasionalmente.
La terapia della emoglobinuria parossistica a
“frigore” cronica consiste nella protezione dal freddo, dal momento che steroidi e splenectomia non
trovano usualmente indicazione pratica. Solo nella
metà circa dei casi si rende necessaria la trasfusione
di sangue. Nelle forme secondarie a lue si impone il
trattamento antiluetico che di solito comporta riduzione o scomparsa degli attacchi emoglobinurici.
Negli altri casi acuti post-infettivi l’emoglobinuria
parossistica a “frigore” si risolve spontaneamente
parallelamente alla guarigione dell’episodio infettivo.
Negli anni più recenti l’introduzione degli anticorpi
monoclonali (vedi capitolo successivo) ha modificato le prospettive terapeutiche delle forme da
autoanticorpi freddi e, più in generale, di tutte le
AEA.
TERAPIA DELLE AEA “REFRATTARIE”
Le forme refrattarie alla terapia di prima e seconda
linea (circa il 5-10%) rappresentano spesso un problema medico critico. In particolare vanno ricordate le rare forme con reticolocitopenia e quelle da
anticorpi di classe IgM “caldi”, per le quali sono
riportate diverse segnalazioni fatali (20, 22-25).
In generale, le opzioni terapeutiche delle AEA “refrattarie” sono tuttora oggetto di dibattito e non vi
sono Linee Guida o raccomandazioni secondo i criteri della Evidence Based Medicine. Trovano indicazione farmaci per via parenterale fra cui boli di
steroide (prednisolone 10 mg/kg die per 3-5 giorni),
ciclofosfamide (800 mg/m2 ogni 2-3 settimane) associato o meno a vincristina (2 mg). Anche in questi
casi l’uso di gammaglobuline per via endovenosa e
la plasmaferesi vengono associate alla terapia
immunosoppressiva. Infine, se l’anemia è molto severa e clinicamente non sopportata dal paziente, vi
è l’indicazione alla trasfusione di sangue, che deve
essere comunque rimandata quanto più possibile.
Fra le opzioni terapeutiche più recenti e maggiormente promettenti vi sono gli anticorpi monoclonali,
fra cui rituximab (anti-CD20) e alemtuzumab (antiCD52). Per quanto riguarda il primo, esistono ormai diverse segnalazioni in letteratura a partire dalla fine degli anni ’90, perlopiù costituite da
Anemie Emolitic
he Autoimmuni
Emolitiche
segnalazioni sporadiche e solo più recentemente da
studi con una numerosità di pazienti più consistente. In generale, la maggior difficoltà interpretativa è
dovuta alla disomogeneità delle casistiche studiate,
per quanto riguarda patologie concomitanti, precedenti trattamenti, dosi e tempi della somministra-
REFERENZA
TIPO DI
STUDIO
Quartier et al (2001)
Gupta et al (2002)
Prospettico
Prospettico
Trapè et al (2003)
Shanafelt et al (2003)
Narat et al (2005)
D'Arena et al (2006)
D'Arena et al (2007)
Zecca et al (2003)
Prospettico
Retrospettivo
Retrospettivo
Retrospettivo
Retrospettivo
Prospettico
Zaja et al (2003b)
Prospettico
Berentsen et al (2004)** Prospettico
fase II
Schöllkopf et al (2006) Prospettico
fase II
‡‡
Berentsen et al (2006)
Retrospettivo
Rao et al (2007)
Prospettico
N
ADULTI/
PEDIATRICI
TIPO DI AEA
(N)
zione del farmaco, modalità di definizione della risposta e durata della risposta stessa. In una recente
revisione della letteratura (56) sono riportati gli studi più importanti effettuati con rituximab nelle AEA
sia primitive che secondarie a sindromi linfoproliferative (Tabella 7)
ETÀ
(ANNI)
DOSI D
RITUXIMAB
(N)
6
8
5†
5
5
11
14
11
15
¶
5
5
27
††
10
20
Pediatrico
Adulto
Adulto
0.6-2.9 4 (4); 12 (2)
46-70 2 (3); 3 (2);4 (1); 5 (2)
1 (1); 2 (2); 3 (2)
44-66 4
Calda (5)
21-79 3-8
Calda (5)
18-81 4
Calda (11)
48-87 3 (3); 4 (11)
Calda (14)
23-81 4
Calda (11)
Calda (13); Fredda (1); 0.3-14 2 (3); 3 (10), 4 (2)
ND
ND
ND
Calda (4); Fredda (1) 42-84 4
51-86 4 (25); 8 (2)
Fredda (27)
ND
4 (10)
54-86 4
Fredda (20)
52
6
1
Adulto
Pediatrico
Fredda (52)
ND
Adulto
Adulto
Adulto
Adulto
Adulto
Pediatrico
Pediatrico
Adulto
Adulto
Calda (6)
Calda (8)
§§
30-92
5-17
ND
4 (5); 6 (1)
CR/PR
DURATA
(MESI)
RISPOSTA
(%)
RC (100)
RC (87.5); RP (12.5)
RC (100)
RC (60); RP (40)
RC (40)
RC (27); RP (36)
‡
§
RC (21); RP (50)
RC (73); RP (27)
RC (67); RP (20)
Risposta (100)
RC (40)
RC (4); RP (52)
RP (70)
RC ‡ (21); RP (40)
15+/22+
7/23+
3/9+
3/20+
4+, 13+
2.5/20+
NA
1+/95+
7/28+
NA
8+/38+
2/42
NA
2/18+
RC ‡ (10); RP (50)
RC ¶¶ (67); RP ¶¶ (17) NA
NA
Risposta
Tabella 7. Principali studi con rituximab nelle AEA. (Da Garvey, 2008, modificato)
RC, risposta completa (normalizzazione dei livelli di emoglobina); RP, risposta parziale, (incremento stabile dei livelli di emoglobina >2 mg/dl); ND, non determinato.
* Sono descritti in tabella studi pubblicati che includono un numero di pazienti >/= a 5.
† Cinque pazienti sono stati ritrattati con rituximab dopo recidiva
‡ In questo studio, RC è stata definita come una completa assenza di anemia e di sintomi clinici o molecolari di malattia.
§ In due pazienti (uno in RC e uno in RP), la terapia con rituximab è iniziata entro 1 settimana dall'inizio della somministrazione di metilprednisolone e quindi una definitiva conclusione sulla
risposta non può essere fornita.
¶ Tre pazienti sono stati ritrattati dopo recidiva e 1 paziente ha ricevuto il terzo e il quarto trattamento con rituximab.
** I pazienti riportati nello studio prospettico pubblicato da Berentsen et al (2004) sono anche inclusi nello studio retrospettivo pubblicato nel 2006 (Berentsen et al, 2006).
†† Otto pazienti sono stati ritrattati dopo recidiva con rituximab più interferone (n=3) o rituximab da solo (n=5), e 2 sono stati ritrattati con rituximab dopo una seconda recidiva.
‡‡ Questo studio è un'analisi retrospettiva basata su una popolazione con il maggior numero possibile di AEA fredde in Norvegia. 52 degli 86 pazienti studiati sono stati trattati con rituximab e
12 in combinazione con interferon-a
(n=5) o fludarabina (n=7).
§§ Questa informazione è relativa a tutti gli 86 pazienti analizzati (non solo per i 52 che hanno ricevuto rituximab).
¶¶ In questo studio, RC è stata definita come livelli di Hb stabili > 10 mg/dl senza trasfusione, e RP come livelli di Hb 7.5-10 mg/dl senza trasfusione.
Complessivamente la terapia con rituximab alla dose
di 375 mg/m2 per 4 somministrazioni settimanali
induce una risposta (completa o parziale) nel 40100% dei casi, mediana 60%, indipendentemente
dall’età, dalla primitività dell’AEA e dai precedenti
trattamenti. Inoltre, la media di durata delle risposte
ottenute è di circa un anno, con molti pazienti che
mostrano risposte ancora più durevoli (> 3 anni).
Viene riportata una notevole variabilità nei tempi
necessari per l’ottenimento della risposta, che in alcuni casi è molto rapida, mentre in altri richiede diverse settimane o addirittura mesi per essere raggiunta (56). Infine, come riportato in una recente
revisione delle sindromi da crioagglutinine (57), la
terapia con rituximab induce una risposta in circa il
60% dei casi (10% completa, 50% parziale), ed è
l’unica terapia che si dimostra efficace al confronto
con altri trattamenti. Rituximab è efficace anche in
associazione con altre terapie (steroide, immunosoppressori, interferon-α), particolarmente nelle forme associate a sindromi linfoproliferative. Inoltre
una certa efficacia si dimostra anche nelle forme
recidivate dopo un primo ciclo, dove, seppure i numeri sono ancora piccoli, 18 su 21 ritrattamenti esitavano in una nuova risposta. Va ricordato che il farmaco è generalmente ben tollerato, ma può indurre
neutropenia severa e una aumentata diatesi infettiva
(56). Recentemente, vi è interesse nello studio dell’efficacia di rituximab a basse dosi (100 mg per 4
somministrazioni settimanali) al fine di ridurre gli
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effetti collaterali e poter proporre questa terapia non
solo nelle forme “refrattarie” ma anche in prima o
seconda linea, prima della splenectomia e dei farmaci immunosoppressori classici (58).
Per quanto riguarda l’uso di alemtuzumab, l’esperienza nelle AEA è ancora limitata anche se alcuni
risultati vengono riportati, soprattutto nelle forme
associate a LLC. I case reports e le piccole casistiche
finora presenti in letteratura per un totale di una ventina di casi dimostrano una risposta nei 2/3 dei pazienti, di durata non specificata, ma con concomitanti
gravi effetti collaterali di natura infettiva, in parte
legati alle patologie concomitanti e alla lunga storia
clinica dei pazienti (59, 60).
Infine, vi sono alcune recenti segnalazioni in letteratura di efficacia della terapia con micofenolato,
dove la ottima risposta osservata in un numero esiguo di pazienti (totale 10) necessita chiaramente di
ulteriore conferma (61-63).
Per ultimo, va ricordato che alcune forme particolarmente gravi e refrattarie di AEA sono state sottoposte a trapianto di midollo autologo o allogenico.
Si tratta di segnalazioni sporadiche e di forme associate ad altre malattie quali sindrome di Evans (anemia e piastrinopenia autoimmune), talassemia intermedia e LLC. La valutazione della risposta è impossibile per l’esiguità dei casi, l’arco temporale ampio delle segnalazioni (i primi casi sono della fine
anni ’90), l’eterogeneità dei regimi trapiantologici
utilizzati e le patologie concomitanti.
LA TRASFUSIONE NELLE AEA
La trasfusione nelle AEA viene rimandata quanto
più possibile e viene indicata nei casi di anemia severa e clinicamente non sopportata dal paziente. In
questi casi i tests pretrasfusionali e le prove di compatibilità hanno spesso un risultato positivo ed è difficile identificare la presenza di eventuali
alloanticorpi anti-eritrocitari che potrebbero essere
responsabili di severe reazioni trasfusionali
emolitiche. L’esperienza indica che quando l’incompatibilità è dovuta alla sola presenza dell’autoanticorpo, la sopravvivenza dei globuli rossi trasfusi
è generalmente buona e dalla trasfusione ci si può
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aspettare un significativo e temporaneo beneficio.
La decisione di trasfondere o meno questi pazienti
non dipende tanto dai risultati delle prove di compatibilità ma essenzialmente da una valutazione delle
necessità cliniche del paziente (12). In caso di impossibilità a reperire sangue compatibile, è meglio
trasfondere emazie con la specificità antigenica
dell’autoanticorpo piuttosto che rischiare una
alloimmunizzazione eritrocitaria. Infatti, i pazienti
con autoanticorpi ‘caldi’, quando trasfusi, devono
essere considerati a rischio di alloimmunizzazione
e di reazioni post-trasfusionali emolitiche dovute alla
coesistenza di alloanticorpi; dati pubblicati indicano che frequenza di allo immunizzazione nei pazienti
con AEA è del 32% (64).
In passato la strategia trasfusionale più utilizzata era
quella di trasfondere le unità che risultavano meno
‘incompatibili’ cioè che presentavano i risultati meno
positivi nella prova di compatibilità. Si tratta di un
tipo di approccio piuttosto pericoloso che dovrebbe
essere abbandonato, ad eccezione di condizioni estremamente urgenti nelle quali non c’è il tempo necessario per l’esecuzione dei tests sierologici, in quanto può essere interpretato in modo diverso dai diversi operatori sanitari e non è sempre informativo
nella discussione con i clinici (65).
Una tra le strategie più sicure è quella che prevede
l’esecuzione dell’autoassorbimento, che permette di
rimuovere l’autoanticorpo dal siero del paziente e
quindi di identificare nel siero autoassorbito gli eventuali alloanticorpi. Questa procedura può essere applicata solo se il paziente non è stato trasfuso negli
ultimi tre mesi, poiché una piccola percentuale di
cellule trasfuse potrebbe assorbire gli alloanticorpi,
invalidando i risultati (66). L’autoassorbimento, nel
caso di autoanticorpi caldi, si esegue incubando le
emazie e il siero autologo con additivo Polyethylene
glycol (PEG) per 30 minuti a 37°C, in modo tale che
nel siero autoassorbito residuino solo anticorpi diretti contro antigeni non presenti sulle cellule del
paziente. I limiti di tale procedura sono i tempi tecnici, tali da non permetterne l’utilizzo in caso di trasfusioni urgenti, e come già ricordato in precedenza, la non applicabilità nei pazienti recentemente
trasfusi.
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In alternativa, se il paziente è stato recentemente
trasfuso, si può ricorrere agli alloassorbimenti mirati con emazie selezionate da soggetti a diverso
fenotipo (R1R1, R2R2, rr, tutti K negativi, uno
Jk(a-), uno Jk(b-) ed uno Fy(a-), che permettono di
rimuovere l’autoanticorpo dal siero del paziente.
Come nel caso dell’autoassorbimento i limiti della
procedura sono legati ai tempi di esecuzione, non
adatti in caso di urgenza, e la necessità, nei pazienti
politrasfusi, di ripetere la procedura ad ogni evento
trasfusionale. Per tale ragione alcuni autori hanno
proposto l’utilizzo di additivi commerciali a bassa
forza ionica come il PEG e il LISS, che permettono
di eliminare il pre-trattamento delle emazie con
proteasi e quindi di ottenere un risparmio di tempo
tecnico, con tuttavia lo svantaggio della possibile
perdita di alcuni deboli anticorpi (come quelli del
sistema KEL e JK) (67, 68).
La trasfusione di globuli rossi selezionati sulla base
della tipizzazione estesa del paziente può determinare una significativa misura di sicurezza oltre ad
ovviare al problema di effettuare alloassorbimenti
ad ogni evento trasfusionale (69). Per assicurare una
trasfusione sicura bisognerebbe tipizzare il paziente estensivamente per il fenotipo RH e per gli antigeni
clinicamente significativi dei sistemi KEL, JK, FY,
MNS e selezionare unità identiche per la trasfusione. Nei casi in cui non fosse possibile eseguire una
tipizzazione estesa alcuni autori suggeriscono di
tipizzare il paziente con antisieri monoclonali (dove
possibile) almeno per gli antigeni dei sistemi RH,
KEL e JK, selezionando unità negative per tali
antigeni o almeno negative per gli antigeni E- e K-.
In questi due ultimi casi è comunque necessario ripetere gli alloassorbimenti prima di ogni evento
trasfusionale.
L’approccio utilizzato nal nostro Ospedale prevede
l’assegnazione a tutti i pazienti con AEA di unità a
fenotipo Rh compatibile con il paziente e K negative. Inoltre se la ricerca di alloanticorpi eritrocitari
risulta positiva con tutte e tre le cellule test vengono
assegnate unità anche negative per gli antigeni clinicamente significativi dei sistemi KEL, JK, FY,
MNS che forniscano risultati negativi nel test
dell’antiglobulina indiretto con la metodica standard
in microcolonna o in provetta senza additivo.
Nei pazienti con AEA da autoanticorpi ‘caldi’ non
recentemente trasfusi, viene sempre effettuato un
autoassorbimento a +37°C con additivo PEG, seguito dalla ricerca di alloanticorpi eritrocitari e dalle
prove di compatibilità sulle unità da trasfondere.
Questi tests pretrasfusionali dovrebbero fornire risultati negativi. Le unità devono essere fresche (non
più di 7 giorni), filtrate bed-side ed infuse lentamente
sotto stretto monitoraggio clinico.
Nei pazienti con AEA trasfusi negli ultimi tre mesi
si esegue invece una tipizzazione eritrocitaria estesa in biologia molecolare per poter poi eseguire un
alloassorbimento mirato con una cellula identica al
paziente. I tests pretrasfusionali nei pazienti con AEA
da autoanticorpi ‘freddi’ richiedono meno lavoro tecnico, in quanto l’autoanticorpo reagisce ad una temperatura inferiore a +37°C e pertanto non è necessario proseguire con la procedura dell’assorbimento.
Nel caso in cui sia necessario, l’autoassorbimento
viene eseguito a +4°C e il siero autoassorbito utilizzato per la ricerca di alloanticorpi eritrocitari, le prove di compatibilità e la determinazione indiretta di
gruppo AB0. Una corretta gestione della trasfusione in caso di AEA presuppone una buona comunicazione fra il clinico e lo specialista in medicina
trasfusionale: il primo dovrebbe avvisare tempestivamente il Centro Trasfusionale della possibile trasfusione di un paziente con AEA e della sua eventuale urgenza; il secondo dovrebbe illustrare i tests
pretrasfusionali eseguiti per assicurare una trasfusione efficace e sicura, anche se i globuli rossi
trasfusi potrebbero non sopravvivere normalmente
per la presenza dell’autoanticorpo.
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AS
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E LLE AEA
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PARTI
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DE
ASSOCIAZIONE CON LA TERAPIA CON
ANALOGHI DELLE PURINE
ASSOCIAZIONE DELLA AEA CON LA TRASFUSIONE DI SANGUE
E’ ben noto dalla letteratura che circa il 5-10% dei
pazienti con leucemia linfatica cronica e altre sindromi linfoproliferative presenta una AEA, e in minor misura altre citopenie o complicanze autoimmuni
(70-72). L’AEA è stata osservata soprattutto nelle
fasi avanzate della malattia e in pazienti trattati con
analoghi delle purine quali fludarabina e cladribina,
suggerendo una associazione fra la terapia con questi farmaci e l’insorgenza di AEA (73-75). In particolare, è stato ipotizzato che la immunodepressione
farmaco-indotta e la disregolazione del comparto T
linfocitario possano giocare un ruolo nella genesi
dell’autoimmunità anti-eritrocitaria. Tuttavia, non
esiste al momento accordo sul ruolo della terapia
con analoghi delle purine come unico fattore di rischio per l’insorgenza di AEA, in quanto anche la
progressione della malattia e le precedenti linee
terapeutiche sono stati dimostrati fattori di rischio
in analisi multivariata, indipendentemente dalla presenza di analoghi delle purine nelle terapie successive alla prima linea con steroide e alchilante (Figura 6) (72). Indipendentemente da queste considerazioni, la possibile insorgenza di AEA va sempre tenuta presente nel paziente con leucemia linfatica cronica e altre sindromi linfoproliferative, come grave
e temibile complicanza, che può essere causa di
morte nel 10-15% dei casi (72).
Esistono evidenze di una associazione tra AEA e trasfusione nel senso che la trasfusione stessa possa
essere causa di AEA (12). Se infatti è vero che la
primaria complicanza della trasfusione di sangue è
la formazione di alloanticorpi, è però vero che una
piccola percentuale (1-2%) di pazienti sviluppa anche autoanticorpi, in stretta correlazione temporale
con l’alloimmunizzazione (76). Sono molti i reports
circa la produzione di allo ed autoanticorpi in pazienti multitrasfusi pediatrici affetti da talassemia e
anemia falciforme: il 7,6% di 184 pazienti con anemia falciforme sviluppa autoanticorpi IgG dopo una
media di 24 trasfusioni (79). Inoltre, su 64 pazienti
talassemici, 25% hanno sviluppato positività del
TAD ancorché con infrequente emolisi (80). Due
sono le ipotesi postulate:
a) la persistenza nel ricevente di cellule immuni originarie del donatore che causano la produzione di
anticorpi contro gli eritrociti del ricevente;
b) gli alloanticorpi inducono cambiamenti
conformazionali negli epitopi antigenici che stimolano la produzione di autoanticorpi.
ASSOCIAZIONE DI EMOLISI IMMUNO-MEDIATA CON IL TRAPIANTO DI MIDOLLO
ALLOGENICO
Una emolisi immuno-mediata può essere una complicanza del trapianto di midollo quando esiste una
OD
CL
Ref
80
Stadio A (%)
26(23)
1
Stadio B (%)
26(23)
2.1
1.13- 4.01
Stadio C (%)
61(54)
6.5
3.43-12.78
No terapia (%)
2 (2)
60
50
% 40
1
Ref
30
20
Terapia I linea (%)
58 (51)
47.8
11.31202.68
Terapiadi II linea
senzafludarabina(%)
53 (47)
99.3
20.57479.81
Terapiadi II lineacon
fludarabina(%)
28 (25)
91.3
19.28 432.52
no terapia
I linea
II linea
70
10
0
LLC
LLC+AEA
Chi quadro P<0.001
Figura 6. Leucemia linfatica cronica e AEA: relazione con lo stadio di malattia e
la terapia.
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Emolitiche
incompatibilità ABO minore fra il donatore e il ricevente, perlopiù quando il primo è di gruppo 0 e il
secondo di gruppo A, con una frequenza di circa il
10-15% dei casi (81, 82). L’emolisi inizia usualmente
due settimane dopo il trapianto, e può avere esordio
acuto e grave, con lisi intravascolare accompagnata
anche da insufficienza renale. La genesi dell’emolisi
immuno-mediata è stata attribuita alla cosiddetta
“passenger lymphocyte syndrome”, già accennata nel
capitolo dedicato alla diagnosi delle AEA, dovuta
alla produzione di anticorpi da parte dei linfociti del
donatore passivamente trasferiti al ricevente e
immunologicamente attivi nei confronti delle sue
cellule eritrocitarie. Oltre all’incompatibilità ABO,
gli autoanticorpi sono stati descritti anche nei confronti degli antigeni D, E, s, JKb e JKa. Normalmente l’emolisi si risolve nel giro di 15 giorni, con la
lisi delle residue cellule incompatibili del ricevente
e con l’attecchimento del trapianto.
In pazienti sottoposti a trapianto di midollo è stata
descritta anche una classica AEA, dovuta alla produzione di autoanticorpi da parte dei linfociti del
donatore contro cellule del donatore; in casistiche
pediatriche si è stimata una incidenza del 6%, con
un tempo medio di insorgenza di 4 mesi dal trapianto, e con una mortalità piuttosto elevata, condizionata anche dalla ulteriore terapia immunosoppressiva
richiesta per trattare la AEA (83-85). Anche in questi casi, vi sono segnalazioni di efficacia della terapia con rituximab (86, 87).
ASSOCIAZIONE DI EMOLISI IMMUNO-MEDIATA CON TRAPIANTO D’ORGANI SOLIDI
Una emolisi immuno-mediata è stata osservata anche in corso di trapianti di organi solidi, ed è dovuta
al meccanismo del “passenger lymphocyte
syndrome”, in quanto linfociti del donatore possono
essere contenuti negli organi trapiantati (88-90). Il
rischio e l’entità dell’emolisi sono proporzionali alla
massa linfocitaria contenuta nell’organo trapiantato: minore nel trapianto di rene (anticorpi positivi
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nel 17% dei casi con emolisi solo nel 9%), intermedio dopo trapianto di fegato (anticorpi positivi nel
40 % dei casi con emolisi nel 29%), e maggiore dopo
trapianto di cuore e polmoni (anticorpi positivi con
associata emolisi nel 70% dei casi). L’anticorpo è
usualmente diretto contro antigeni del sistema Rh.
Il quadro clinico insorge da 3 a 24 giorni dopo il
trapianto, ed è generalmente transitorio in quanto la
produzione di autoanticorpi viene meno con la scomparsa dei linfociti del donatore che, a differenza del
trapianto di midollo, non vanno incontro ad
attecchimento definitivo. Particolare attenzione va
posta, in questi casi, nella scelta delle trasfusioni,
che devono prevedere l’uso di emazie di gruppo 0
ed evitare prodotti derivati dal plasma ABO incompatibili. Le emazie trasfuse devono essere ABOidentiche o compatibili con il siero del ricevente,
indipendentemente dal gruppo del donatore d’organo; tuttavia, se il donatore e ricevente hanno gruppi
diversi, la trasfusione deve essere ABO-compatibile con gli eritrociti sia del donatore che del ricevente.
AEA E TROMBOEMBOLISMO
In una storica revisione del 1967, l’embolia
polmonare è stata riportata come la più frequente
causa di morte (4 casi) su 47 con AEA sottoposti a
splenectomia (91). Più recentemente, diversi revisioni di casistiche di AEA hanno dimostrato un episodio di tromboembolismo venoso nel 20-30% dei
pazienti con AEA, spesso associato alla positività
per anticorpi anti-cardiolipina o anticoagulante
lupico (92, 93). Fra i meccanismi responsabili della
diatesi trombofilica si ipotizza un danno della membrana eritrocitaria con conseguente esposizione di
fosfolopidi pro-coagulanti quali fosfatidilserina.
Altre ipotesi vedono un ruolo dell’attivazione
monocitaria ed endoteliale da parte di citochine proinfiammatorie prodotte nel corso delle reazioni
autoimmuni. Al momento non esiste un consenso
condiviso sull’uso di una terapia profilattica
anticoagulante, se non in quei casi associati a sindrome da antifosfolipidi.
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Emolitiche
CO
N C LUS
CON
USII O N I
Le AEA sono comunemente una patologia di relativa facile diagnosi e terapia, con una prognosi favorevole. Esistono tuttavia casi, fortunatamente rari,
di difficile diagnosi o di refrattarietà alle terapie
standard che costituiscono una emergenza medica.
Fra questi vanno ricordate le forme TAD negative,
quelle associate a farmaci, le AEA da IgM “calde” e
le forme con reticolocitopenia. Sono oggi disponibili nuovi farmaci, fra cui anticorpi monoclonali e
nuovi immunosoppressori, il cui utilizzo è stato fi-
nora limitato alle forme gravi e refrattarie alla terapia convenzionale. Sono auspicabili protocolli
diagnostici e terapeutici, soprattutto per le forme di
difficile diagnosi o refrattarie, nonché trials clinici
controllati con i nuovi anticorpi monoclonali non
solo per le AEA più “difficili”, ma anche, come linea terapeutica “precoce”, per le forme recidivate
dopo terapia steroidea, al fine di evitare gli effetti
collaterali della terapia immunosoppressiva classica o della splenectomia.
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Emolitiche
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