I familiari durante l`emergenza: intralcio o risorsa?

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I familiari durante l`emergenza: intralcio o risorsa?
Anno III, numero 1 - Gennaio 2014
Italian Journal of
Emergency Medicine
Official Journal of the Italian Society of Emergency Medicine
3
Editoriale
4
Notizie dall’ufficio stampa
5
Lettere alla redazione
6
Sulle tracce dell’ECG
11
Special Articles
23
Articoli originali
41
Area Nursing
48
Area Giovani
58
Letteratura in Urgenza
Italian Journal of
Emergency Medicine
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Official Journal of Italian Society of Emergency Medicine
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Sommario
3 Editoriale
Family presence, tra aspirazioni, desideri e realtà organizzativa
Paolo Groff
4 Notizie dall’ufficio stampa
Primo compleanno per il blog SIMEU
Silvia Alparone
5 Lettere alla redazione
Angioedema: diagnosi, gestione in Pronto Soccorso e proposta di un protocollo operativo
Rizzelli GML, Bertini A, Cipriano A, Migliorini P, Santini M, Del Corso IItalian Journal of Emergency Medicine
2013; 6: 9-17
Giuliano Bertazzoni
6 Sulle tracce dell’ECG
Sulle tracce dell’ECG: ripolarizzazione precoce
Federica Stella, Sossio Serra, Isabella Di Zio, Mauro Fallani
11 Special Articles
I familiari durante l’emergenza: intralcio o risorsa?
Cosa ne pensano gli operatori sanitari? Ricerca sul campo
Massimo Monti, Gabriele Prati, Samantha Caligari
23 Articoli originali
Febbre da West Nile Virus in un Pronto Soccorso Italiano
Matteo Brambati, Eleonora Setti, Fiorangela Marletta, Denise Provvidenza Comina, Giuseppina Cassetti,
Ngambe Mandi Preston, Antonio Labate, Roberto La Rocca
Gestione del paziente con fibrillazione atriale di recente insorgenza e troponina elevata in medicina d’urgenza
Erica Canuti, Niccolò De Bernardis, Margherita Giampieri, Andrea Alesi, Simone Bianchi,
Alessandro Coppa, Simona Gualtieri, Caterina Grifoni, Delia Lazzeretti, Stella Squarciotta, Claudia Casula,
Alberto Conti
L’ipotesi più probabile non è necessariamente quella corretta. Ecografia clinica integrata come fulcro della diagnostica differenziale in Pronto Soccorso
Jacopo Frizzi, Leonardo Delli, Massimo Bianchi, Giovanni Iannelli
41 Area Nursing
Formazione versus esperienza, nessuno è il più bravo. Indagine conoscitiva condotta presso il servizio di Emergenza
territoriale 118 di Bologna
A. Monesi, F. Mugelli, S. Musolesi, R. Ridolfi, F. Salvafondi
48 Area Giovani
Un caso di abuso di paroxetina
Marco Barchetti, Lucio Brugioni, Cristina Gozzi
Sommario
Utilizzo dell’endoscopia digestiva in un caso di intossicazione da magnesio valproato
Stefania Magon, Daniela Lombardini, Sossio Serra
Utilità dell’ecografia integrata in Pronto Soccorso in un caso di dispnea acuta
Ilaria Francesca Martino, Serena Marra, Giulia Statti, Fabiana Fancoli, Simona Negri,
Barbara Katia Guglielmana, Maria Antonietta Bressan
58 Letteratura in Urgenza
Does Non-invasive Ventilation Have a Role in Chest Trauma Patients? Hua A et al. Annals of Emergency Medicine
2014; in press, online first
Lactate Clearance for Assessing Response to Resuscitation in Severe Sepsis. Jones AE. Academic Emergency
Medicine 2013; 20(8): 844-847
Are Antibiotics Required for the Treatment of Uncomplicated Diverticulitis? Smolarz CM et al. Annals of Emergency
Medicine 2014; 63: 52
Commento a cura di Rodolfo Ferrari
Venous Thromboembolism in Patients With Chronic Obstructive Pulmonary Disease. Piazza G, Goldhaber SZ, Kroll
A, Goldberg RJ, Emery C, Spencer FA. Am J Med 2012; 125: 1010-8
C-reactive Protein, Fibrinogen and Cardiovascular Disease Prediction. Kaptoge S, Di Angelantonio E, Pennels E et
al.; Emerging Risk Factors Collaboration. N Engl J Med 2012 Oct 4; 367(14): 1310-20
Bivalirudin Started During Emergency Transport for Primary PCI. Steg PG, van ’t Hof A, Hamm CW et al; EUROMAX
Investigators. N Engl J Med 2013; 369(23): 2207-17. doi: 10.1056/NEJMoa1311096
Atrial Fibrillation and the Risk of Myocardial Infarction. Soliman EZ, Safford MM, Muntner P, Khodneva Y, Dawood
FZ, Zakai NA, Thacker EL, Judd S, Howard VJ, Howard G, Herrington DM, Cushman M. JAMA Intern Med 2013
174(1): 107-14. doi: 10.1001/jamainternmed.2013.11912
Calcium-Channel Blocker-Clarithromycin Drug Interactions and Acute Kidney Injury. Gandhi S, Fleet JL, BaileyDG
et al. JAMA 2013 dec 18; 310(23): 2544-53. doi:10.1001/jama.2013.282426
Low-Dose Dopamine or Low-Dose Nesiritide in Acute Heart Failure With Renal Dysfunction The ROSE Acute Heart
Failure Randomized Trial. Chen HH, Anstrom KJ et al. for the NHLBI Heart Failure Clinical Research Network. JAMA
2013; 310(23): 2533-2543
Induced Hypothermia in Severe Bacterial Meningitis. A Randomized Clinical Trial. Mourvillier B, Tubach F, van de
Beek D et al. JAMA 2013 Nov 27; 310(20): 2174-83. doi:10.1001/jama.2013.280506
Targeted Temperature Management at 33°C versus 36°C after Cardiac Arrest. Nielsen N et al. for the TTM Trial
Investigators. N Engl J Med 2013; 369: 2197-206
Commento a cura di Mauro Fallani
Editoriale
3
Family presence, tra aspirazioni, desideri e realtà organizzativa
Paolo Groff
PS-MURG Ospedale Civile Madonna del Soccorso, San Benedetto del Tronto
L’articolo di Monti, Prati e Calligari pubblicato su questo numero della rivista descrive aspetti interessanti, quanto
tipici della common practice in emergenza-urgenza nel nostro paese. Posta di fronte a domande molto dirette relative alla family presence durante manovre di varia intensità, la maggioranza degli operatori del settore (medici
ed infermieri) risponde di non consentire abitualmente ai famigliari di presenziare durante le procedure erogate
ai loro cari, specialmente se si tratta di manovre rianimatorie. È interessante notare che, al di là delle consuetudini, la maggior parte degli intervistati riterrebbe utile la presenza dei famigliari alle manovre sanitarie, purchè
non particolarmente invasive, in quanto essa potrebbe costituire un facilitatore del rapporto con l’utenza e, anzi,
desidererebbero essere presenti a manovre sanitarie erogate ai loro stessi cari. Non solo, ma più della metà degli
operatori è convinto che il famigliare al quale non sia consentito di rimanere vicino al proprio congiunto durante
l’intervento potrebbe crearsi un’idea distorta e negativa dell’operato dei sanitari. Quando, infine, agli intervistati
viene richiesto se esistano, presso i loro servizi procedure scritte che disciplinano il comportamento da tenere
rispetto alla family presence durante le fasi assistenziali, la quasi totalità risponde negativamente.
In uno studio prospettico randomizzato multicentrico, il primo con queste finalità e caratteristiche, Jabre et al hanno randomizzato 570 famigliari di pazienti assistiti dai servizi dell’emergenza territoriale francese sottoposti a
rianimazione cardio-polmonare per arresto cardiaco ad essere sistematicamente invitati ad assistere alle manovre
o ad assistere ad esse solo su richiesta dei famigliari stessi (Jaber et al. Family presence during cardiopulmonary
resuscitation. N Engl J Med 2013; 368. 1008-18������������������������������������������������������������������
). L’endpoint primario era la prevalenza di famigliari con sindrome da stress post-traumatico a distanza di 90 giorni. Endpoints secondari includevano la prevalenza di sintomi
d’ansia o depressione e gli effetti della family presence sull’efficacia dello sforzo rianimatorio da parte dei soccorritori, sullo stato emotivo dei soccorritori e l’evenienza di contenzioso medico-legale. Nei risultati, la sindrome
da stress post-traumatico, così come i sintomi di ansia e depressione erano significativamente più rappresentati
nel gruppo di controllo rispetto al gruppo di intervento; la presenza dei famigliari alle manovre di rianimazione
cardiopolmonare non risultava avere un impatto sulla qualità dell’intervento o sulla sopravvivenza dei pazienti né
sullo stato emotivo dei soccorritori. Di interesse l’esiguità del contenzioso medico-legale nel gruppo di intervento.
Questo studio ha suscitato reazioni differenti e alcuni rilievi di carattere metodologico tra cui la non estendibilità
dei risultati a priori alla realtà intraospedaliera e ad altri paesi, la necessità di una precisa preparazione dei
team alle tecniche di comunicazione, la mancanza di informazioni su fattori predittivi caratteristici della famiglia
che consentano di prevedere l’efficacia della presenza alle manovre, il dubbio che l’effetto benefico della family
presence dipenda dalla bravura dell’operatore addetto alla comunicazione piuttosto che alla presenza stessa.
Tuttavia, nel caso della morte cardiaca improvvisa, offrire alle famiglie la possibilità di assistere alle manovre
rianimatorie può ridurre l’entità delle ricadute psicologiche che dovranno affrontare e questa strategia obbliga ad
una maggiore attenzione i sanitari, i ricercatori ed i legislatori.
Nel commento al lavoro pubblicato su questo numero della rivista, gli autori ben descrivono una sorta di dissonanza che viene a crearsi tra il modo di pensare e di sentire dei sanitari impegnati nell’emergenza-urgenza e la realtà
organizzativa, indicata come soluzione di continuo tra il modo di pensare della maggioranza degli operatori che
negli anni è evoluta, divenendo più aperta ai bisogni dei famigliari, e modalità lavorative cristallizzate nel tempo,
difficili da cambiare.
Come dimostrato dal lavoro di Jaber, ulteriori studi dovrebbero migliorare la nostra comprensione del perché la
scelta della family presence possa costituire un elemento di miglioramento della nostra pratica quotidiana venendo
a fornire quel quid di energia necessario a cambiare le consuetudini lavorative e tradursi in procedure operative
consolidate a disposizione dell’operatore dell’emergenza-urgenza e dei famigliari delle vittime di arresto cardiaco
o altre condizioni sottoposte a manovre di rianimazione cardio-polmonare.
Italian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
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Notizie dall’ufficio stampa
Primo compleanno per il blog SIMEU
Silvia Alparone
Giornalista
Il blog Simeu ha compiuto un anno. Nato subito dopo la metà di gennaio 2013, nel corso di questi dodici mesi si
è progressivamente arricchito di interventi e voci di soci Simeu su argomenti diversi. I temi più frequentati sono stati
quelli relativi ai nuovi strumenti di aggiornamento professionale, su cui sono stati costruiti appuntamenti periodici
come la rubrica Mubee curata da Paolo Balzaretti, sugli argomenti della medicina d’urgenza basata sulle evidenze di efficacia: nel tempo la rubrica ha spaziato dalle modalità e i vantaggi di utilizzo di Medline, il database
bibliografico della National Library of Medicine degli Stati Uniti, e Pubmed fondamentale interfaccia d’accesso
a Medline, fino alla più recente analisi di un altro strumento indispensabile per la ricerca bibliografica via web,
Google Scholar e al motore di ricerca di documenti clinici Trip database.
Strumenti nuovi, messi a disposizione dalla rete per restare aggiornati, mentre la professione vive una profonda
trasformazione, soprattutto per quanto riguarda proprio i canali della formazione e la possibilità di creare sul web
una comunità scientifica nazionale e internazionale a maglie sempre più strette.
In quest’ottica il blog della Società scientifica si è molto occupato di Foam, Free open access meducation, il movimento culturale nato per iniziativa di due medici australiani e che sta crescendo in tutto il mondo. E ancora,
grazie alla collaborazione dei blogger della società, ha dato spazio a esperimenti “social”, come gli hangout, le
conferenze virtuali sul canale di Google+, e i racconti fotogiornalistici di momenti particolari dell’attività dell’anno,
come quella della formazione su rianimazione cardiopolmonare per i volontari dei World master games di Torino
2013.
Ma il blog ha offerto uno spazio di confronto anche su temi più classici come la partecipazione di Simeu all’elaborazione delle nuove linee guida del triage, la creazione delle linee guida nazionali sulla violenza domestica in
pronto soccorso, sui temi legati al futuro dei nuovi specializzandi e in generale dei giovani medici.
Ancora, con un’altra rubrica curata da Paolo Balzaretti, il Cochrane Corner, abbiamo voluto aprire uno spiraglio
sull’attività della Cochrane Collaboration nell’ambito della medicina di emergenza.
Tutti racconti che da un lato scattano la fotografia di cosa è oggi e cosa fa la Società scientifica della Medicina
di emergenza-urgenza, con i progetti in corso e lo sforzo di unificare su tutto il territorio nazionale approccio e
procedure su temi fondamentali per il servizio socio-sanitario nazionale; ma che dall’altro cercano di offrire una
finestra in più su ciò che accade all’estero, rendendo più facilmente accessibile una ricchezza culturale che è a
disposizione di tutti coloro che abbiano solo voglia di cercare.
Il blog ha compiuto un anno e dalla sua nascita è diventato una pianta con molti germogli. Perché sboccino e ne
nascano ancora altri è necessaria una sempre più ampia partecipazione dei soci, che speriamo si riconoscano
nei temi trattati, ne propongano di nuovi e partecipino alle discussioni nutrendo e rafforzando così la più giovane
pianta di Simeu.
Italian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
Lettere alla redazione
5
Angioedema: diagnosi, gestione in Pronto Soccorso e proposta di un protocollo operativo
Rizzelli GML, Bertini A, Cipriano A, Migliorini P, Santini M, Del Corso IItalian Journal of
Emergency Medicine 2013; 6: 9-17
Giuliano Bertazzoni
Ho letto con piacere nell’ultimo numero della Rivista l’articolo citato che propone un protocollo per la gestione
dell’angioedema in Pronto Soccorso. E vorrei prendere lo spunto per un commento.
Nel 2012 è apparso un articolo (Wilkerson RG. Angioedema in the emergency department: an evidence-based
review. Emerg Med Pract 2012, 14: 1-21) che indica in modo sistematico un percorso nel Dipartimento di Emergenza per il paziente affetto da questa malattia rara. In questo ultimo anno la produzione italiana sull’argomento
(parole chiave: angioedema e Pronto Soccorso) si è arricchita di due lavori pubblicati su Internal and Emergency
Medicine: il primo (Cicardi M, Bellis P, Bertazzoni G et al. Guidance for diagnosis and treatment of acute angioedema in the Emergency Department: consensus statement by a panel of italian expert. Sept 2013) ha indicato
all’infermiere di triage e al medico d’urgenza il percorso del paziente con angioedema, indirizzando la codifica
al triage e la successiva gestione in Pronto Soccorso, ed individuando le corrette terapie in rapporto al sospetto
clinico di un angioedema istaminergico (angioedema con orticaria, prurito, eritema, rash o flushing, possibilità
di asma) o non istaminergico (mediato dalla bradichinina, angioedema non accompagnato dai sintomi di cui
sopra, più lento a comparire e a scomparire e, soprattutto, non responsivo a terapia con antiistaminici, cortisone
ed epinefrina).
Il secondo articolo (Bertazzoni G, Spina MT, Scarpellini MG et al.; SIMEU LAZIO Group. Drug-induced angioedema: experience of italian Emergency Department. Nov 2013) riporta un’esperienza di uno studio sull’angioedema
indotto, ipotizzando che, oltre ai noti ACEI e Sartani, anche altre famiglie di farmaci (come FANS, antibiotici,
antiipertensivi, analgesici e antiepilettici, antiasmatici ed inibitori di pompa protonica) possano essere causa di
un angioedema senza orticaria, né prurito, senza rash o flushing, presumibilmente non mediati dalla istamina.
Questa osservazione apre un quesito sulla possibile terapia: se il paziente con angioedema non risponde ad
antiistaminici, cortisone ed epinefrina, nell’ipotesi che l’evento avverso possa costituire un rischio per la vita del paziente stesso (come può succedere per un angioedema delle prime vie aeree) è lecito utilizzare un farmaco che ha
degli altissimi costi ed è off label (in quanto l’uso di un inibitore della bradichinina è approvato solo in presenza di
un angioedema ereditario, da carenza del fattore C1q)? La finanziaria del 2008 (Legge n. 244 del 24/12/2007)
vieta le prescrizioni off label quando “la modalità prescrittiva assuma carattere diffuso e sistematico”. L’utilizzo di
un farmaco off label per un singolo paziente è consentito: 1) in assenza di valida alternativa terapeutica; 2) se
sono presenti pubblicazioni scientifiche al riguardo accreditate in campo internazionale; 3) se il medico si assume
la responsabilità; 4) se viene chiesto, appena possibile, considerata la situazione di emergenza, il consenso del
paziente. Di tutto questo deve risultare traccia in cartella clinica (o nel rapporto di Pronto Soccorso).
Credo che di questa problematica si cominci a parlare in letteratura (Gallitelli M, Alzetta M. Icatibant: a novel
approach to the treatment of angioedema related to the use of angiotensin-converting enzyme inhibitors. Am J
Emerg Med 2012; 30. 1664 e1661-1662; Bas M, Greve J, Stelter K, Bier H, Stark T, Hoffmann TK, Kojda G. Therapeutic efficacy of icatibant in angioedema induced by angiotensin-converting enzyme inhibitors: a case series.
Ann Emerg Med 2010, 56: 278-282; Manders K, van Deuren M, Hoedemaekers C, Simon A. Bradykinin-receptor
antagonist icatibant: possible treatment for ACE inhibitor-related angio-oedema. Neth J Med 2012; 70: 386-387),
mentre crescono le descrizioni di angioedema che potrebbe non essere legato alla produzione di istamina.
L’argomento è intrigante e, forse, solo agli albori; merita tutta l’attenzione dei Medici d’Urgenza perchè sono loro
a gestire le emergenze in Pronto Soccorso.
Italian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
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Sulle tracce dell’ECG
Sulle tracce dell’ECG: ripolarizzazione precoce
Federica Stella*, Sossio Serra**, Isabella Di Zio***, Mauro Fallani****
* Medico in Formazione Specialistica, Scuola di Specializzazione in Medicina di Emergenza-Urgenza, Università
degli Studi di Padova
** Dirigente Medico Medicina d’Urgenza-Pronto Soccorso, Ospedale “M. Bufalini” di Cesena
*** Dirigente Medico Medicina d’Urgenza-Pronto Soccorso, Ospedale “Madonna del Soccorso” di San Benedetto del
Tronto
**** Responsabile UOS Medicina d’Urgenza, Ospedale “Ceccarini” di Riccione - AUSL Rimini
Parole chiave: ECG, ripolarizzazione precoce, sopralivellamento tratto ST.
Keywords: ECG, early repolarization, ST-segment elevation.
Figura 1.
Interpretazione
Ritmo sinusale 70 min, P nei limiti, PR 100 msec, asse QRS +75°, q non significativa in V4-V6 da attivazione
settale, sopraslivellamento del punto J in V2-V4 con T alte ma asimmetriche, QTc nella norma.
Breve storia clinica
L’ECG di questo numero appartiene ad un giovane di 35 anni, ciclista amatoriale, che accede autonomamente in
Pronto Soccorso a seguito di un breve episodio di perdita di coscienza e trauma cranico (Figura 1).
In anamnesi non ha nessuna patologia di rilievo, i genitori sono entrambi ipertesi e dislipidemici, non assume
farmaci di nessun tipo. È un po’ spaventato perché una cosa così non gli era mai capitata. Riferisce di essere
Italian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
Sulle tracce dell’ECG
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uscito in bici e di aver fatto come sempre circa 80 Km, al ritorno a casa ha fatto una doccia calda, subito dopo
ha accusato astenia, nausea e visione offuscata, si è poi trovato a terra con una piccola ferita lacerocontusa del
cuoio capelluto. Ritiene di aver perso coscienza, ma non sa riferire per quanto tempo, visto che era solo in casa.
I suoi parametri sono nella norma e così anche l’obiettività clinica. Fatta eccezione per la piccola ferita al cuoio
capelluto, non ha riportato altri traumatismi e non viene segnalato morsus linguale.
Viene trattenuto in osservazione breve intensiva per eseguire monitoraggio multiparametrico che non rileva anomalie, la sua obiettività neurologica rimane sempre nella norma. Non vi sono segni di anemizzazione acuta né
di ipotensione ortostatica, il massaggio del seno carotideo non rileva alterazioni significative. Anche gli esami
ematochimici sono nella norma e il secondo ECG è praticamente uguale al primo. Il giovane medico d’urgenza
si sente rassicurato dall’EGSYS score del paziente che risulta inferiore a 3 ed etichetta l’episodio sincopale come
a basso rischio. Dopo circa 6 ore di osservazione il paziente viene dimesso con diagnosi di “episodio sincopale
di natura vasovagale con secondario trauma cranico e ferita lacerocontusa del cuoio capelluto”. Un solo dubbio
attanaglia il giovane medico d’urgenza: “quell’aspetto da ripolarizzazione precoce”…
In queste pagine cercheremo di imparare a riconoscere e differenziare i pattern di ripolarizzazione precoce da
altre condizioni cliniche potenzialmente pericolose per la vita. Cercheremo, inoltre, di capire se e come deve
cambiare l’atteggiamento diagnostico e terapeutico nei confronti dei pazienti con pattern elettrocardiografico di
ripolarizzazione precoce.
Le ipotesi diagnostiche
La prima cosa che salta all’occhio nella refertazione ecgrafica è sicuramente il sopralivellamento da V2 a V4.
Analizzando bene la storia clinica, la diagnosi differenziale va fatta sostanzialmente con:
• Ischemia anteriore;
• Ipertrofia ventricolare sinistra;
• Aneurisma ventricolare;
• Squilibri elettrolitici;
• Sindrome di Brugada;
• Miopericardite.
La base elettrofisiologica della ripolarizzazione precoce è l’accentuazione indotta dall’acetilcolina dell’incisura
del potenziale d’azione che precede il plateau, detta fase 1. Poiché tale fenomeno è più marcato nelle cellule
epicardiche rispetto alle endocardiche, si genera in fase 1 una differenza di voltaggio transmurale responsabile
del sopraslivellamento del punto J e del tratto ST all’ECG.
La cosiddetta ripolarizzazione precoce rappresenta la regola, più che l’eccezione, nell’ECG di un atleta ben allenato. Essa si caratterizza per il sopraslivellamento del punto J che può variare per sede, morfologia e grado: più
spesso evidente nelle derivazioni precordiali destre, il sopraslivellamento del punto J può anche essere osservato
nelle derivazioni antero-laterali o inferiori; inoltre, può essere modesto o molto marcato, assumendo talora l’aspetto di una vera e propria “onda J”. Anche il tratto ST è generalmente sopraslivellato, con concavità o convessità
superiore, ma può più raramente presentarsi piatto o discendente (1).
Alcune delle alterazioni elettrocardiografiche ricordate possono erroneamente far sorgere il sospetto di una ipertrofia ventricolare sinistra, per cui è bene ricordare, quale carattere diagnostico differenziale, che nell’atleta l’onda
T è di grande ampiezza, e che spesso comporta un vettore ST, parallelo al vettore T, nelle derivazioni precordiali e
inferiori. Il tipico sopralivellamento del tratto ST (ripolarizzazione precoce), è pressoché invariabilmente riportato
sull’isoelettrica dall’esercizio. Nel caso, ad esempio, di anomalie riscontrate nell’elettrocardiogramma dinamico
di un paziente con sospetta angina, non è facile giudicare con sicurezza sulla loro significatività o meno per
coronaropatia, anche perché l’assenza di dolore anginoso in coincidenza con queste modificazioni del tracciato
non è di gran peso, perché è stato osservato che fino a due terzi degli attacchi ischemici miocardici transitori
espressi elettrocardiograficamente da sopra o sottolivellamento delI’ST decorrono asintomatici. La possibilità che
anomalie pseudo-ischemiche labili creino problemi interpretativi nella lettura dell’elettrocardiogramma dinamico
è stata discussa anche recentemente, senza tuttavia che siano emersi criteri interpretativi decisivi: il più affidabile
sembra comunque quello della rapidità dell’insorgenza e della regressione delle anomalie delI’ST-T nel corso della
registrazione, che depone per la natura non ischemica di esse in quanto quelle autenticamente ischemiche tendono a insorgere e a regredire gradualmente.
La distinzione fra l’infarto miocardico anteriore e la ripolarizzazione precoce si basa sulla morfologia del sopraItalian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
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Sulle tracce dell’ECG
slivellamento del tratto ST. Nell’infarto miocardico acuto anteriore il tratto ST è sopraslivellato (di solito con una
leggera curvatura o convessità superiore) nelle derivazioni prospicienti l’area infartuata; si osserveranno inoltre,
nelle derivazioni situate sul versante cardiaco opposto all’infarto, delle modificazioni speculari. Le modificazioni
speculari avvengono in senso contrario a quelle primarie, e cioè comparirà un sottoslivellamento del segmento
S-T invece di un sopraslivellamento e delle onde T alte e appuntite invece di una inversione simmetrica. Inoltre, la
modificazione dell’S-T è transitoria; si verifica nelle prime ore dall’inizio dei sintomi e di solito è la prima manifestazione elettrocardiografica di infarto acuto (sebbene non sia in realtà diagnostica di infarto) e dura per pochi
giorni soltanto. Un persistente sopraslivellamento del segmento S-T (della durata di settimane o mesi) si verifica
negli infarti estesi in presenza di aneurisma ventricolare.
Un aneurisma ventricolare viene diagnosticato dall’ECG quando il sopraslivellamento del tratto ST persiste a lungo
dopo un infarto miocardico (fino a tre mesi). L’infarto è quasi sempre evidente, con onde Q significative nelle stesse
derivazioni in cui compare il sopraslivellamento.
La diagnosi differenziale tra pattern elettrocardiografico di Brugada tipo 1 e la variante di ripolarizzazione precoce caratterizzata da ST con convessità superiore e T negativa, tipica degli atleti afrocaraibici, si basa sulla morfologia del tratto ST. Nel pattern di Brugada il tratto ST raggiunge il massimo sopraslivellamento all’inizio (punto J)
e in seguito è discendente cosicché il rapporto tra sopraslivellamento al punto J/J+80 ms è superiore a 1. Invece
nella ripolarizzazione precoce la prima parte del tratto ST è ascendente, cosicché il rapporto tra sopraslivellamento al punto J/J+80 ms è inferiore a 1 (2).
L’iperkaliemia può evocare di rado la comparsa dell’onda J e del sopraslivellamento di ST nelle precordiali destre.
L’ipercalcemia può provocare il sopraslivellamento di ST nelle precordiali destre, per cui si manifesta un apparente
rallentamento terminale del QRS. Pertanto andrebbero sempre valutati gli elettroliti sierici nei pazienti con sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni precordiali destre (3).
La pericardite acuta può determinare sopraslivellamento del tratto ST. Esistono, tuttavia, alcuni elementi distintivi,
prima fra tutti, la storia clinica caratteristica del paziente, particolarmente se all’esame obiettivo è presente uno
sfregamento pericardico. Il dolore della pericardite viene frequentemente alleviato quando il paziente si mette
seduto ed inclinato in avanti. Può inoltre coesistere una pleurite (dolore aggravato dall’inspirazione). Il dolore
persiste per ore o per giorni, più a lungo che nella maggior parte dei casi di infarto miocardico. Di grande importanza, dal punto di vista elettrocardiografico, è il fatto che la pericardite si presenta di solito come un processo
generalizzato. Pertanto il sopraslivellamento del tratto ST può essere osservato in sede anteriore, laterale, diaframmatica e in altre aree del cuore.
La pericardite va presa in considerazione nella diagnosi differenziale, ma di solito non dà adito a grossi problemi, poiché non si associa mai a sopraslivellamento di ST circoscritto alle precordiali destre, ma provoca un
sopraslivellamento diffuso, spesso esteso a tutte le derivazioni con QRS positivo. Non di rado, inoltre, è presente
nella pericardite acuta un sottoslivellamento del P-R, ed infine la malattia ha una sua evoluzione caratterizzata
da negativizzazione e infine normalizzazione dell’onda T. Le alterazioni elettrocardiografiche determinate dalla
pericardite acuta evolvono in quattro stadi. Esse sono rappresentate dalla frequenza cardiaca in genere elevata
(tra 90 e 130 batt/min), specie durante la fase acuta, dal ritmo sinusale (non è stata dimostrata una maggiore
incidenza di aritmie neppure nella forma epistenocardica), dal sottoslivellamento del tratto PR e dal sopraslivellamento del tratto ST in un numero vario di derivazioni senza alterazioni speculari.
Nella prima fase che si verifica durante le prime ore o dopo tre/quattro giorni dall’inizio dello stadio infiammatorio e dura solo due o tre giorni, si rileva il diffuso sopraslivellamento del tratto ST a carico delle tre derivazioni
degli arti e della maggior parte delle derivazioni precordiali (un sottoslivellamento reciproco può essere osservato
in V1 e aVR). Il sopraslivellamento di ST raramente raggiunge i 5 millimetri e non si osserva il quadro di tipo
monofasico, caratteristico dell’ischemia miocardica acuta. In alcuni casi il segmento J è depresso e l’onda T è
positiva. Nella seconda fase, che dura solo pochi giorni, si osserva un ritorno alla normalità del tratto ST e un
appiattimento dell’onda T. Nella terza fase, le onde T diventano negative in tutte le derivazioni o in quelle nelle
quali si era modificato il tratto ST. Questa fase può durare settimane e mesi.
Nella quarta fase, tardivamente e non in tutti i casi, si osserva il ripristino della normalità o per lo meno il ritorno
dell’elettrocardiogramma all’aspetto di base. Non è sempre possibile riconoscere la successione delle quattro fasi,
che possono avere un’evoluzione molto rapida.
La variante elettrocardiografica della ripolarizzazione precoce può simulare le variazioni della pericardite acuta.
In questi soggetti la depressione del segmento PR non è presente ed il quadro elettrocardiografico non evolve nella
maniera caratteristica della pericardite.
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Sulle tracce dell’ECG
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Discussione
La ripolarizzazione precoce (Early Repolarization – ER), è definita come un pattern ECGrafico caratterizzato da
un sopraslivellamento di almeno 0.1 mV del punto J con onda positiva terminale di basso voltaggio, presente in
almeno due derivazioni contigue. Viene riscontrata più frequentemente nelle derivazioni inferiori ed in V3-V4, ma
può interessare qualsiasi derivazione ECGrafica (1).
Mentre in passato la ER veniva considerata una variante elettrocardiografica normale, soprattutto in atleti con
ipertono vagale e conseguente bradicardia sinusale e sopraslivellamento del tratto ST, recentemente vi è stato il
riscontro di una associazione non trascurabile di ER in sede inferiore o laterale con fibrillazione ventricolare idiopatica. Questo ha portato alla ricerca di fattori demografici, basi genetiche, ereditarietà che aiutassero a dare un
peso alla ER al di là del singolo caso clinico, e che aiutassero il medico nella stratificazione del rischio aritmico.
Il primo studio sviluppato per analizzare l’effettiva benignità della ER è stato pubblicato sul NEJM nel 2008, ed ha
evidenziato come la popolazione che presentava FV idiopatiche presentasse un pattern di tipo ripolarizzazione
precoce con una associazione statisticamente significativa (4).
Veniva inoltre per la prima volta proposta in questo studio la definizione di sindrome da ripolarizzazione precoce,
ovvero la associazione di sincope o arresto cardiaco attribuite alla ripolarizzazione precoce dopo la esclusione
sistematica di altre eziologie. L’associazione significativa tra il sito di origine dell’attività elettrica ectopica di
origine della FV e le derivazioni ECGrafiche interessate da ripolarizzazione precoce supportano infatti l’ipotesi
che la ER funga da substrato aritmogenico primitivo. In seguito ulteriori numerosi studi (5-7) hanno confermato
l’associazione tra ER e aumento sia della mortalità da cause cardiache sia della mortalità globale, ed un’ulteriore
analisi dei pattern ECG ha identificato come il sopraslivellamento superiore a 0.2 mV sia associato ad un maggior
rischio aritmico. Quello che hanno inoltre evidenziato tutti questi studi è che la associazione di ER isolata con
FV idiopatica è molto rara, e quindi il riscontro accidentale di ER non deve essere interpretato come un fattore
di rischio aritmico. Al contrario, la presenza di ER associata ad ulteriori sintomi clinici e ad ulteriori comorbidità
cardiache come patologie strutturali cardiache o ulteriori condizioni proaritmogene, funge da fattore di rischio
aggiuntivo per FV idiopatica e deve essere tenuto in considerazione (8).
Ma quindi, concretamente, come ci aiuta la letteratura nella stratificazione del rischio?
A) Caratteristiche ECGrafiche. Innanzitutto è stata proposta una stratificazione del rischio basata sulla distribuzione spaziale della ER (9,10).
Questa classificazione è stata criticata perché non è stato possibile evidenziare un substrato fisiopatologicico che
sia in grado di giustificare la suddivisione in gruppi, ma può comunque fornire indicazioni.
Tipo 1: ripolarizzazione precoce nelle derivazioni precordiali laterali. La più frequente negli atleti, ritenuta prevalentemente benigna.
Tipo 2: ER nelle derivazioni inferiori o inferolaterali. Associata ad un rischio moderato.
Tipo 3: ER globale che interessa derivazioni inferiori, laterali e precordiali destre. Associata al maggiore rischio
aritmico.
Tipo 4: sindrome di Brugada.
Le ulteriori caratteristiche dell’ECG associate ad aumentato rischio sono:
• un atteggiamento del tratto ST che segue la ER di tipo orizzontale;
• maggiore ampiezza della ER (11).
B) La possibilità che la ER sia causa scatenante di una aritmia maligna è tanto più probabile quanto più vi sono
condizioni caratterizzate da ipertono parasimpatico, come ad esempio in caso di esordio notturno oppure
durante il sonno o il riposo, o in pazienti con tendenza alla bradicardia.
C) A livello di caratteristiche demografiche, l’unica variabile che ha dimostrato associazione con maggior rischio
aritmico è il sesso maschile. Non è stato possibile anche identificare una diversità del rischio in base all’etnia (5).
D) Per quanto riguarda l’anamnesi familiare, qualora vi sia storia familiare di aritmia maligna da ER, vi è un
significativo aumento del rischio aritmico. Questo è giustificato dalle basi genetiche della patologia, ancora in
fase di studio, ma che sembrano essere riconducibili ad anomalie dei canali ionici di membrana del calcio e
del potassio (12). Al contrario delle aspettative la storia positiva per morte improvvisa invece non correla con
un aumento del rischio aritmico (8).
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Sulle tracce dell’ECG
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Bibliografia
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Special Articles
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I familiari durante l’emergenza: intralcio o risorsa?
Cosa ne pensano gli operatori sanitari? Ricerca sul campo
Massimo Monti, Gabriele Prati*, Samantha Caligari***
Professore a Contratto Docente di Psicologia d’Emergenza. Università di Bologna
* Professore a Contratto Facoltà di Psicologia Università di Bologna
** Terapia Intensiva Neonatale AUSL Cesena
Si ringraziano per la loro collaborazione: Sabrina Tellini, Orkida Xhyheri, Nadia Bartolini,Luca Venturini, Marcella
Gentili, Lombardi Rudy, Roberto Del Buono, Anna Marini, Daniela Capitoni, Filippo Pesando.
Abstract
The aim of this study was to value the opinions and perspective of health care professionals for the practice of
family presence in the emergency setting. We conducted an interview with 328 doctors and nurses of Intensive
Care (ICU), Emergency Department and ambulance emergency service (118) about the presence of family during
the maneuvers and procedures in the setting of emergency.
We found some differences in the 3 different operative units, with considerably greater presence of family members in the context of emergency ambulance service. The majority of respondents stated that it is not customary to
allow family members to attend the maneuvers. 88% of them declared little acceptance of family members during
resuscitation or invasive procedures.
92% showed to be aware of the lack of operational protocols and clear rules for the family presence in the different
emergency settings.
Keywords: Family presence, ICU, Emergency Department, ambulance emergency service 118.
Ormai è chiaro: un bravo professionista in ambito sanitario deve avere valide competenze tecniche ma anche
psicologiche, deve disporre di una buona competenza relazionale, assertiva, contenere le ansie dell’utenza, gestire il conflitto, modulare positivamente l’elaborazione del lutto e delle cattive notizie come la comunicazione di
particolari patologie. Ma avvalersi della propria competenza psicologica nei confronti del paziente è cosa buona
e giusta, ma non sufficiente.
Oltre l’utente assistito esistono altri attori importanti che vanno considerati, diversamente si fallirà nel proprio
compito.
Questi ulteriori attori con i quali bisogna fare i conti sono i familiari dell’utente.
Ma cosa ne pensano gli operatori sanitari? Come bisognerebbe comportarsi durante lo svolgimento della propria
professione? Quali sono le consuetudini? Cosa ci dicono le ricerche internazionali? Quali sono le linee guida da
parte delle più importanti associazioni di categoria?
Abbiamo somministrato un questionario a 378 infermieri e medici che prestano servizio in Area Critica: Terapie
Intensive, Pronto Soccorso e 118, ponendo loro le seguenti domande:
1) nel proprio contesto lavorativo quali sono le consuetudini riguardo la presenza dei familiari?
Come si può osservare dalla figura 1, la maggioranza del personale (66% di no) rivela che non è permesso ai
parenti presenziare i differenti momenti assistenziali quali la visita medica o altre manovre routinarie eseguite sul
paziente.
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operatore sanitario
utente
familiari
Figura 1.
Ma se andiamo a guardare attentamente le risposte date nelle differenti Unità Operative (fig. 2), notiamo vi siano
differenze sostanziali. Nelle Terapie Intensive è tassativo il divieto di condividere le fasi assistenziali da parte dei
parenti, nel contesto extraospedaliero avviene l’esatto opposto e gli operatori del 118 affermano che sia frequente
( 70% di si) che i cari rimangano sulla scena ad osservare il da farsi. A metà strada tra Terapie Intensive e 118
troviamo il Pronto Soccorso troviamo la quasi parità tra coloro che rispondono positivamente (47% si) e coloro che
rispondono negativamente (53%).
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Figura 2.
Ma cosa succede invece quando vengono eseguite manovre maggiormente complesse e che possono indurre
un coinvolgimento emotivo maggiore quali Rianimazione Cardiopolmonare, intubazione orotracheale, drenaggi
pleurici ecc.? In queste situazioni è categorica la chiusura del personale ai parenti con un netto no pari all’88%
(fig. 3), ma anche in questo caso differisce considerevolmente la risposta proveniente dall’ambiente ospedaliero
rispetto quello extraospedaliero (fig. 4).
Figura 3.
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Figura 4.
Oltre a comprendere quali siano i comportamenti consuetudinari durante l’approccio sanitario, è stato chiesto al
personale se fosse loro desiderio rimanere accanto ai loro cari durante le fasi assistenziali. La risposta è risultata
nettamente positiva (63% si, fig. 5), è importante per loro essere vicini ai loro cari in una situazione percepita
come particolarmente delicata, critica, per fornire loro un valido supporto.
Figura 5.
Abbiamo compreso quindi, attraverso i risultati del questionario, che solitamente non è permesso ai parenti di
assistere i loro cari nelle fasi routinarie e men che meno durante eventi drammatici e/o cruenti. Ma è giusto che
sia così? Gli infermieri e medici di Area Critica diversamente dalle abitudini pensano che sia giusto che i familiari
rimangano accanto ai loro cari (fig. 6).
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Figura 6.
E anche in questo caso, se andiamo a scorporare le risposte a seconda del servizio di appartenenza, ci rendiamo
conto che anche nelle Terapie Intensive, dove si è riscontrata una considerevole chiusura alla presenza dei parenti
esiste una volontà di apertura, un crescente consapevolezza dell’importanza dell’interazione con i familiari, che
si accentua notevolmente in Pronto Soccorso e in modo eclatante presso il 118 (fig. 7).
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Figura 7.
Si comprende come i familiari siano nella stragrande maggioranza dei casi una utile risorsa in grado di facilitare
il lavoro degli infermieri e medici e aumentare la collaborazione dell’utente, prevenendo errori, disagio, conflitti
(fig. 8).
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㠀 ㄀ ㄀㈀ Figura 8.
Ma i professionisti, in coscienza, pensano che sia altrettanto giusto permettere ai parenti di essere presenti mentre
si eseguono sul loro caro manovre cruente?
La risposta è no, nettamente no (fig. 9), parere espresso in tutte le Unità Operative, anche se, come accade costantemente esiste una maggiore apertura da parte del personale del 118 (fig. 10) che manifestano una maggiore
disponibilità del 500% rispetto la Terapia Intensiva.
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Figura 9.
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㄀㔀 ㈀ Figura 10.
L’operatore sanitario ha consapevolezza anche di un altro aspetto importante, che coloro che non hanno la possibilità di interagire con i sanitari durante le differenti fasi di assistenza ai loro beneamati, non solo non potranno
essere loro di aiuto ma possono altresì crearsi un’idea distorta, malsana delle cure svolte. (fig. 11)
Figura 11.
Ultima domanda del questionario che consideriamo chiede al personale se esistono nella propria Unità Operativa
protocolli Operativi che indichino su come relazionarsi con i familiari permettendo o meno, nelle differenti situazioni la loro presenza al cospetto dell’utente.
La risposta ci fa capire come non esistano in nessun servizio di Area Critica linee ufficiali di comportamento nei
confronti dei congiunti, quindi ci si comporta presumibilmente in un determinato modo a seconda del personale in
servizio in quel momento o delle consuetudini interiorizzate in quella specifica realtà lavorativa.
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Conclusioni
I dati acquisiti in questa ricerca permettono di comprendere meglio la realtà italiana ed osservare le divergenze e
affinità con quanto emerge dagli studi eseguiti in altri stati e in differenti contesti culturali.
Osservando il grafico dell’undicesimo item si nota immediatamente come la nettissima maggioranza del personale ha consapevolezza della mancanza di protocolli operativi (92%), che diano regole chiare, univoche sul
comportamento da tenersi nei confronti dei familiari nelle differenti situazioni che possono presentarsi all’interno
della propria unità operativa. Per inferenza possiamo dire che, non essendoci protocolli sull’argomento, i Direttori Sanitari, i Direttori (Primari) delle differenti unità operative non hanno creduto necessario definire una linea
di condotta ufficiale, considerando l’argomento forse non particolarmente importante ed è probabile che non vi
siano stati momenti di confronto come riunioni, aggiornamenti, audit su questo specifico problema. La ricerca di
MacLean1 riporta un dato molto simile: intervistati 984 infermieri di Area Critica degli U.S.A., solo il 5% conferma
la presenza di protocolli operativi specifici su questo argomento.
Altro aspetto saliente della ricerca è comprendere quali siano le consuetudini tra gli operatori presenti nei differenti
servizi sia durante le fasi routinarie assistenziali, sia durante l’esecuzione di manovre rianimatorie o invasive quali
intubazione endotracheale, drenaggio pleurico, cateterismo venoso centrale ecc. Il 66% degli infermieri e medici
affermano che non è consuetudine permettere ai familiari di osservare le manovre assistenziali di routine, mentre
il 34% sostiene il contrario. Dato importante da sottolineare è la presenza di risposte molto differenti tra le diverse
unità operative, dove notiamo una considerevole maggiore presenza dei familiari nel contesto extraospedaliero
(netta maggioranza di SI pari al 70%) durante l’intervento del personale del 118, mentre è netta la chiusura ai
parenti nelle Terapie intensive (hanno risposto NO il 93%). Il Pronto Soccorso in un ipotetica linea dove ritroviamo il 118 e le Terapie Intensive in posizioni antitetiche, si colloca al centro. Questo dato può essere giustificato
pensando ai luoghi in cui i differenti operatori lavorano. Coloro che si trovano a soccorrere l’utenza sulla strada
oppure presso le loro abitazioni sono spesso obbligati, anche non volendo, a lavorare sotto gli occhi di persone
quali passanti, familiari. Mentre chi svolge la sua professione in Terapia Intensiva è tutelato da una struttura architettonica, una “roccaforte” che porta ad abituarsi a lavorare senza la presenza di estranei.
Quando chiediamo di riferire le consuetudini rispetto la presenza dei familiari durante manovre rianimatorie o invasive i sanitari evidenziano una netta chiusura e un divieto di fatto (grafico n. 5 88% di NO). Un no secco valido
per tutti i differenti servizi, ma anche in questo caso riscontriamo una maggiore presenza di SI nella realtà del 118
(grafico n. 6, 43%) rispetto il Pronto Soccorso (3%) e la Terapia Intensiva (2%). Anche in questa circostanza, come
riscontrato nelle fasi assistenziali routinarie, il personale del 118 non può pur desiderandolo, allontanare le perso1) MacLean, S.L., Guzzetta, C.E., White, C., Fontaine, D., Eichorn, D.J., Meyers, T.A., “Family presence during cardiopulmonary resuscitation
and invasive procedures: practices of critical care and emergency nurses”, in Journal of Emergency Nursing, n. 29, (2003).
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ne che vogliono osservare le scene rianimatorie, questo perché non esiste la possibilità sulla strada di “chiudere la
Scena” alla vista di familiari o estranei e in casa propria i familiari della persona soccorsa hanno l’inconfutabile
diritto di accedere a qualunque ambiente se lo desiderano.
Interessanti le risposte date alla domanda n. 5 (grafico n. 10) dove si chiede al personale, se ritengono giusto
che i familiari possano assistere alle fasi diagnostico-terapeutiche. Ben il 62% ha risposto si (grafico n. 10) dato
nettamente superiore rispetto la “consuetudine” del servizio (34%).
Se nelle terapie intensive otteniamo una sostanziale parità tra le risposte favorevoli e contrarie, nel Pronto Soccorso
e ancor più nel 118 le risposte favorevoli sono nettamente la maggioranza (grafico n. 11, PS 63% si; 118 85% si).
Vi è coerenza tra le risposte alla domanda n. 5 e quelle date alla domanda n. 3 dove si chiede “Lei vorrebbe essere presente durante le fasi di assistenza ai suoi cari da parte del 118, oppure in pronto soccorso o in qualunque
altro contesto sanitario?” Il 63% risponde si e il 37% no ( grafico 7).
È radicato quindi nella maggioranza del personale sanitario il desiderio di stare vicino ai loro beneamati in un momento critico della loro esistenza, durante problemi sanitari. La coerenza li porta a pensare che se questa volontà
vale per loro è altresì probabile che valga per gran parte dei familiari che hanno il loro caro in cura ai sanitari.
Questo modo di pensare, desiderare da parte dei sanitari porta una dissonanza tra realtà organizzativa e le
proprie convinzioni.
È come vi fosse una soluzione di continuo tra il modo di pensare della maggioranza dei dipendenti che negli
anni si è modificata, evoluta, divenuta maggiormente consapevole e “aperta” ai bisogni dei familiari e modalità
lavorative cristallizzate nel tempo difficili da cambiare.
Certe modalità lavorative consolidate nel tempo vivono per inerzia e necessitano di tanta “energia” da parte
dell’organizzazione per essere modificate, inoltre, è facile ritrovare significative resistenze da parte di operatori
“veterani” che con la loro anzianità di servizio pretendono un maggior peso decisionale.
Viene da pensare che chi lavora a maggiore contatto con i familiari (118) osservi il loro comportamento e la
loro reazione, prendendo consapevolezza come nella stragrande maggioranza dei casi non creino problemi ai
soccorritori e si crei una migliore condizione per l’utenza e familiari.
Mentre coloro che hanno limitate occasioni di interagire durante processi assistenziali con i familiari non hanno la
possibilità di confutare le loro ipotesi che vedono i parenti come un problema in più da affrontare.
Il personale di Area Critica crede che non sia giusto far osservare ai parenti manovre rianimatorie o altre manovre
invasive praticate sui loro cari (grafico n. 14 83% di no), ma anche in questo caso l’esperienza di coloro che
lavorano nel 118 porta ad una apertura nettamente maggiore rispetto al Pronto Soccorso e Terapie Intensive.
Altro dato emerso dalla ricerca che fa riflettere non poco è la convinzione da parte dei dipendenti, parere sorprendentemente univoco in tutti i servizi, che la presenza dei familiari facilita gli operatori nell’interazione con l’utenza
aumentando la loro collaborazione (grafico n. 12). Quindi il familiare viene percepito come un valido “alleato”.
Non solo, si prende inoltre consapevolezza che, coloro ai quali non è permesso stare vicino al proprio caro durante l’intervento potrebbero crearsi un’idea distorta, negativa del loro operato, quindi potrebbe essere causa di
situazioni di minor gratificazione per il personale oppure maggiore conflittualità.
Questo è il punto di vista della maggioranza dei dipendenti come si evince dalle risposte fornite alla decima domanda del questionario. (grafico 20, 55% di SI).
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In questi ultimi anni nei paesi occidentali sono avvenuti considerevoli cambiamenti. Cambiamenti che hanno portato gli addetti ai lavori da una prioritaria attenzione alla competenza tecnica del proprio operato, ad una maggiore
consapevolezza e attenzione verso gli aspetti relazionali rivolti al paziente. Si comprende quindi che bisogna
relazionarsi con persone che si percepiscono in una situazione di malessere e in questi frangenti le modalità relazionali sono particolarmente delicate ma fondamentali per una maggiore compliance e prevenzione di conflitti.
Ora si sta facendo un ulteriore passo avanti: si comprende come relazioni avvengano entro una triade formata dai
sanitari, dal paziente, ma anche dai familiari che risultano essere attori importanti anzi fondamentali.
Da anni questo cammino porta le strutture sanitarie e i loro dipendenti ad una maggiore apertura ai parenti (Family
Presence) non solo nelle fasi routinarie di assistenza, ma anche durante fasi assistenziali particolarmente pesanti
quali manovre invasive e rianimatorie2,3.
In Italia, lentamente, ma progressivamente si riscontra una graduale attenzione a queste problematiche e la volontà da parte del personale di una maggiore attenzione nei confronti dei familiari4,5.
È una strada intrapresa, irreversibile che porta ad uno sforzo importante per il personale ma una gratificazione
finale nettamente superiore e una maggiore complice terapeutica.
Non c’è alcun dubbio che per i familiari è importante essere vicino al proprio caro quando si trova in una condizione di malessere6.
Posizione dell’Emergency Nurses Association (ENA) riguardo la presenza dei
familiari durante l’RCP ed altre manovre invasive (revisione ed approvazione del
2005)
1. “I dipartimenti d’emergenza devono supportare la presenza dei familiari durante le manovre invasive e la
rianimazione cardiopolmonare.”
2. “È necessaria la collaborazione fra le organizzazioni (incluse, ma non limitate a queste, infermieri, servizi
sociali e familiari, medici) per creare linee guida relative alla presenza dei familiari durante le manovre invasive e la rianimazione cardiopolmonare.”
3-4.“Le organizzazioni sanitarie dovrebbero, coinvolgendo i sanitari, sviluppare ed implementare la creazione di
formali linee guida scritte e procedure che permettano la presenza dei familiari durante le manovre invasive
e le rianimazione cardiopolmonare.”
5. “Le organizzazioni dei sanitari dovrebbero sviluppare materiale informativo come linee guida, procedure e
programmi che supportano la presenza dei familiari, da dispensare agli infermieri dei reparti dell’emergenza
e anche a tutti gli altri sanitari.”
6. “Le organizzazioni dei sanitari dovrebbero sviluppare materiale informativo come linee guida, procedure
e programmi che supportano la presenza dei familiari, da dispensare ai cittadini per renderli consapevoli
dell’opzione che a loro viene data.”
7. “Gli infermieri dell’emergenza dovrebbero essere continuamente aggiornati e formati sull’argomento.”
8. “Gli infermieri dell’emergenza dovrebbero essere attivamente coinvolti in ricerche sulla presenza dei familiari
durante l’RCP e le manovre invasive e conoscere gli effetti immediati e tardivi che questa pratica può provocare sui pazienti, i familiari ed i sanitari.”
Linee guida del 2005 dell’American Heart Association sulla presenza dei familiari
durante l’RCP
“Nonostante i migliori sforzi, molti tentativi rianimatori falliscono. Comunicare ai familiari la morte del loro caro è
un’ importante aspetto del momento rianimatorio ed andrebbe fatto compassionevolmente, con cura, cercando di
rispettare le credenze culturali e religiose e le pratiche della famiglia. I familiari sono spesso stati esclusi dall’essere
2)
3)
4)
5)
6)
Dal sito internet: www.ena.org/about/position/PDFs/5F118F5052C2479C848012F5BCF87F7C.PDF.
Linee guida American Heart Associaton 2000 e 2005 (vedi bibliografia).
Giannini A., “Open intensive care units: the case in favours”, in Minerva Anestesiologica, n. 73, (2003).
Dal sito: www.fondazione-livia-benini.org/curanti/n10ra.htm
Trabucco, G., Buonocore, F., “Pronto Soccorso Triage. Accoglienza, rassicurazione, cura, aspettative, vissuti psicologici, bisogni.”
Edizioni Libreria Cortina Verona, 2007, pp. 62-63.
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Special Articles
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presenti durante la rianimazione di un proprio caro. Studi hanno dimostrato la presenza di diverse opinioni dei
sanitari a proposito della presenza dei familiari durante l’RCP. Molti sottolineano la possibilità che il familiare potrebbe cedere emotivamente ed interferire con le procedure rianimatorie, altri che il parente potrebbe sincopare, e
che la loro presenza aumenterebbe l’esposizione a responsabilità legali. Comunque molti studi hanno dimostrato
il desiderio da parte dei familiari di volere essere presenti durante l’RCP. Membri di famiglie senza un background
medico hanno confermato che essere al fianco del proprio caro e poterlo salutare per l’ultima volta è confortante.
Altri familiari hanno riportato che l’essere presenti li ha aiutati a sopportare meglio la morte del proprio caro e,
ancor più indicativo, lo rifarebbero. Altri studi dimostrano reazioni positive dei familiari, molti di loro hanno sentito
di aiutare il loro caro e questo ha facilitato la loro elaborazione del lutto. (…)
Quindi, in assenza di dati che documentano danni e alla luce dei dati che suggeriscono che può essere utile,
offrire ai familiari la possibilità di assistere all’RCP sembra cosa ragionevole e desiderata (sempre che il paziente,
se adulto, non abbia dato a priori ragione di non volere la presenza dei familiari).
Raramente i familiari chiedono di essere presente durante l’RCP se non sono stimolati a farlo dagli operatori sanitari. I membri del team rianimatorio dovrebbero essere sensibili alla presenza dei familiari durante l’RCP, assegnando un membro dell’equipe al fianco della famiglia per rispondere alle loro domande, chiarire le informazioni
date dal resto del team e dare supporto.”
Posizione dell’Emergency Nurses Association (ENA) riguardo la presenza dei
familiari durante l’RCP ed altre manovre invasive (1994, revisione ed approvazione
del 2005)
3. “I dipartimenti d’emergenza devono supportare la presenza dei familiari durante le manovre invasive e la
rianimazione cardiopolmonare.”
4. “E’ necessaria collaborazione fra le organizzazioni (incluse, ma non limitate a queste, infermieri, servizi sociali e familiari, medici) per creare linee guida relative alla presenza dei familiari durante le manovre invasive
e la rianimazione cardiopolmonare.”
3-4. “Le organizzazioni dei sanitari dovrebbero, coinvolgendo i sanitari stessi, sviluppare ed implementare la creazione di formali linee guida scritte e procedure che permettano la presenza dei familiari durante le manovre
invasive e le rianimazione cardiopolmonare.”
9. “Le organizzazioni dei sanitari dovrebbero sviluppare materiale informativo come linee guida, procedure e
programmi che supportano la presenza dei familiari, da dispensare agli infermieri dei reparti dell’emergenza
e anche a tutti gli altri sanitari.”
10. “Le organizzazioni dei sanitari dovrebbero sviluppare materiale informativo come linee guida, procedure
e programmi che supportano la presenza dei familiari, da dispensare ai cittadini per renderli consapevoli
dell’opzione che a loro viene data.”
11. “Gli infermieri dell’emergenza dovrebbero essere continuamente aggiornati e formati sull’argomento.”
12. “Gli infermieri dell’emergenza dovrebbero essere attivamente coinvolti in ricerche sulla presenza dei familiari
durante l’RCP e le manovre invasive e conoscere gli effetti immediati e tardivi che questa pratica può provocare sui pazienti, i familiari ed i sanitari.”
Linee guida del 2005 dell’American Heart Association sulla presenza
dei familiari durante l’RCP
“Nonostante i migliori sforzi, molti tentativi rianimatori falliscono. Comunicare ai familiari la morte del loro caro è
un’ importante aspetto del momento rianimatorio ed andrebbe fatto compassionevolmente, con cura, cercando di
rispettare le credenze culturali e religiose e le pratiche della famiglia. I familiari sono spesso stati esclusi dall’essere
presenti durante la rianimazione di un proprio caro. Studi hanno dimostrato la presenza di diverse opinioni dei
sanitari a proposito della presenza dei familiari durante l’RCP. Molti sottolineano la possibilità che il familiare potrebbe cedere emotivamente ed interferire con le procedure rianimatorie, altri che il parente potrebbe sincopare, e
che la loro presenza aumenterebbe l’esposizione a responsabilità legali. Comunque molti studi hanno dimostrato
il desiderio da parte dei familiari di volere essere presenti durante l’RCP. Membri di famiglie senza un background
medico hanno confermato che essere al fianco del proprio caro e poterlo salutare per l’ultima volta è confortante.
Altri familiari hanno riportato che l’essere presenti li ha aiutati a sopportare meglio la morte del proprio caro e,
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Special Articles
ancor più indicativo, lo rifarebbero. Altri studi dimostrano reazioni positive dei familiari, molti di loro hanno sentito
di aiutare il loro caro e questo ha facilitato la loro elaborazione del lutto. (…)
Quindi, in assenza di dati che documentano danni e alla luce dei dati che suggeriscono che può essere utile,
offrire ai familiari la possibilità di assistere all’RCP sembra cosa ragionevole e desiderata (sempre che il paziente,
se adulto, non abbia dato a priori ragione di non volere la presenza dei familiari).
Raramente i familiari chiedono di essere presente durante l’RCP se non sono stimolati a farlo dagli operatori sanitari. I membri del team rianimatorio dovrebbero essere sensibili alla presenza dei familiari durante l’RCP, assegnando un membro dell’equipe al fianco della famiglia per rispondere alle loro domande, chiarire le informazioni
date dal resto del team e dare supporto.”
Richiesta estratti: Massimo Monti e-mail: [email protected] cell. 3384424335
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Edizioni Libreria Cortina Verona, 2007, pp. 62-63.
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Articoli originali
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Febbre da West Nile Virus in un Pronto Soccorso Italiano
Matteo Brambati*, Eleonora Setti**, Fiorangela Marletta***, Denise Provvidenza Comina***,
Giuseppina Cassetti***, Ngambe Mandi Preston***, Antonio Labate***, Roberto La Rocca^
* Medico frequentatore Unità Operativa di PS/DEA, IRCCS Policlinico San Donato, San Donato Milanese (MI)
** Specializzanda in medicina d’emergenza urgenza Università Vita-Salute San Raffaele, frequentante Unità Operativa di PS/DEA, IRCCS Policlinico San Donato, San Donato Milanese (MI)
*** Unità Operativa di PS/DEA, IRCCS Policlinico San Donato, San Donato Milanese (MI)
^ Direttore dell’Unità Operativa di PS/DEA, IRCCS Policlinico San Donato, San Donato Milanese (MI)
Abstract
West Nile Virus is a mosquito-borne flavivirus belonging to the Japanese encephalitis serocomplex. It is maintained
in an enzootic cycle between birds (amplifying hosts) and ornithophilic mosquitoes (vectors). The incubation period
is 2-14 days. Most of the infections (approximately 80%) are asymptomatic, while 20% present as a mild illness
characterized by fever, headache, chills, excessive sweating, fatigue, muscle pain, malaise, arthralgia, nausea,
anorexia, diarrhea, vomiting, rash, and swollen lymph nodes, known as West Nile fever; less than 1% of the infections present as a neuroinvasive disease, since symptoms of the CNS are present (mainly encephalitis, but also
meningitis, meningoencephalitis, or acute flaccid paralysis).
Keywords: Pronto Soccorso, infezione virale, West Nile Virus, febbre e rash cutaneo.
Introduction
West Nile Virus (WNV) is a mosquito-borne flavivirus belonging to the Japanese encephalitis serocomplex. It is
maintained in an enzootic cycle between birds (amplifying hosts) and ornithophilic mosquitoes (vectors), mainly of
the Culex species, while humans, horses and other mammals are incidental hosts. The first WNV strain was isolated
from a febrile patient in 1937 in the West Nile area, in northwestern Uganda; 20 years later, the virus was associated with central nervous system (CNS) infections. For many years it has been restricted to Africa, while since 1950,
several WNV cases, including outbreaks, occurred in humans and/or equines in the Mediterranean countries (1).
Two important events characterize the history of WNV: the outbreak in Romania in 1996 with 393 human cases (2),
and the introduction of the virus into the Americas in late summer 1999 (3). Since its first introduction in New York
City in 1999, WNV has rapidly spread across the USA. By 2012, more than 36,000 cases of WNV disease had
been reported to the Center for Disease Control (CDC) resulting in more than 1500 deaths within the United States.
The incubation period is 2-14 days. Most of the infections (approximately 80%) are asymptomatic, while 20%
present as a mild illness characterized by fever, headache, chills, excessive sweating, fatigue, muscle pain, malaise, arthralgia, nausea, anorexia, diarrhea, vomiting, rash, and swollen lymph nodes, known as West Nile fever;
less than 1% of the infections present as a neuroinvasive disease, since symptoms of the CNS are present (mainly
encephalitis, but also meningitis, meningoencephalitis, or acute flaccid paralysis).
The purpose of this article is to present a case of WNV infection to help emergency clinicians in remembering the
classical clinical presentation of this forgotten disease.
Case report
A 35-years-old healthy female presented to the Emergency Department with a 1 week history of fever, cough and
cutaneous rash. The fever was sudden in onset, continuous, constant and responsive to acetaminophen. Following
her general physician’s prescriptions she started an antibiotic therapy that generated no improvement in clinical
signs. She didn’t suffer of any other disease and she didn’t take any medication routinely. She had never gone out
of Italy in the last three years. Her vital signs were: temperature 40 °C, heart rate 280 beats per minute, oxygen
saturation 98% in ambient air and blood pressure 115/75 mmHg. In consideration of her high heart frequency, it
was assigned a high priority code. Physical examination revealed a form of maculopaular non pruritic cutaneous
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Articoli originali
Figura 1. Chest x-ray examination: parenchymal inflammatory
thickening without signs of acute pneumonia.
rash on torso and extremities, sparing palms and soles. There were no others clinical signs of interest. Blood examination revealed a positivization of liver enzymes, AST 63 U/l and ALT 63 U/l, a positivization of C-reactive
protein, 6,5 mg/dl with low white blood cell count, 3,12 103/µl, with relative neutrophilia, 87,5%. Her chest x-ray
examinations showed a nuanced parenchymal inflammatory thickening but no signs of acute pneumonia (Figure
1). After 3 days of Emergency Department treatment (normalization of temperature but no regression of cutaneous
rash) she was discharged with the diagnosis of acute non specifical viral infection. The blood examination results,
completed one week after her discharge, demonstrated an acute West Nile infection.
Discussion
Clinical overview
West Nile fever can range from a mild infirmity lasting a few days to a debilitating illness lasting weeks to months.
Symptoms are of sudden onset and often include headache, malaise, fever, myalgia, chills, vomiting, rash, fatigue,
and eye pain. Fever may be low-grade or absent. A rash, which often appears around the time of defervescence,
tends to be morbilliform, maculopapular, and nonpruritic, and predominates over the torso and extremities, sparing
the palms and soles (4).
West Nile meningitis, similar to that of other viral meningitides, is characterized by abrupt onset of fever and
headache along with meningeal signs and photophobia. Headache may be severe, and associated gastrointestinal disturbance may result in dehydration (5). West Nile encephalitis ranges in severity from a mild, self-limited,
confusional state, to severe encephalopathy, coma and death. Extrapyramidal disorders are frequently observed,
and features of Parkinsonism may be seen (6). Patients with West Nile encephalitis frequently develop a coarse
tremor, particularly in the upper extremities. The tremor tends to be postural and may have a kinetic component
(6,7). Myoclonus, predominantly of the upper extremities and facial muscles, may occur and may be present during sleep. Cerebellar ataxia, increased intracranial pressure, cerebral edema, and seizures have been described
but are uncommon (7,8).
Full recovery is the norm for patients with uncomplicated West Nile fever or meningitis; however, initial symptoms,
particularly extreme fatigue, may be prolonged (9). West Nile fever may precipitate death among persons of
advanced age or with underlying medical conditions (10). Outcomes of West Nile encephalitis are variable and
may not correlate with severity of initial illness. Patients hospitalized with West Nile Virus encephalitis frequently
require assistance with daily activities following acute care discharge (11) and often report substantial functional
and cognitive difficulties for up to a year following acute infection. Only 37% of patients in the 1999 New York
City outbreak achieved full recovery at 1 year (12).
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Case fatality rates among patients with neuroinvasive disease generally approximate 10% (13). Advanced age is
the most important risk factor for death, ranging from 0.8% among those aged less than 40 years to 17% among
those aged at least 70 years (13). Encephalitis with severe muscle weakness, changes in the level of consciousness,
diabetes, cardiovascular disease, hepatitis C virus infection, and immunosuppression are possible risk factors for
death (13). Patients discharged from the hospital following acute West Nile Virus illness experience a 2 to 3-fold
increase in long-term, all-cause mortality compared with age-adjusted population norms, although not all of this
increase may be attributable to West Nile Virus (14).
Diagnosis
The best test to verify WNV infection is measurement of IgM antibody in cerebrospinal fluid, the sensitivity of which
approaches 80% on the first sample. False negative results can be caused by hypogammaglobulinemia (15).
Following exposure to WNV, both IgM and IgG antibodies are produced. In most cases, IgM antibodies can be
detected within 4 to 7 days after the initial exposure and may persist for more than one year (16). IgM in CSF
appears before it appears in serum and probably indicates a local production of antibody in the central nervous
system rather than a transudation from systemic circulation (17). As the infection subsides, IgM antibody title decrease whereas IgG antibodies remain. There is no specific treatment for West Nile Virus.
Treatment
Treatment of West Nile Virus infection remains supportive. Several investigated therapeutic approaches include
immune γ-globulin, West Nile Virus-specific neutralizing monoclonal antibodies, corticosteroids, ribavirin, interferon α-2b, and antisense oligomers (18). No study has documented efficacy, in part due to difficulty in recruiting
sufficient numbers of patients. Case reports or uncontrolled clinical series suggesting efficacy should be interpreted
with extreme caution due to West Nile Virus’s highly variable clinical course. No vaccine is licensed for humans.
Conclusion
Another round of emerging infections is causing great concern among health authorities and the public. This
February, a newly recognized novel influenza subtype (H7N9) appeared in China. By June, at least 38 deaths
were attributed to Middle East respiratory syndrome coronavirus, a worrisome relative of the virus that spawned
the 2003 severe acute respiratory syndrome outbreak. Although that outbreak occurred only 10 years ago, severe
acute respiratory syndrome seems to have been erased from the collective memory of many health professionals.
The same can be said of novel influenza. Today, the 2009 influenza A (H1N1) pandemic seems like ancient history. When it comes to emerging infections, short attention spans and poor memories often prevail, with serious
consequences. How easy has it been to forget that West Nile Virus was the last major emerging infection of the
20th century?
Since the treatment of WNV is mainly supportive, prevention of WNV infection should be a priority. But not only
by effective prevention can human morbidity and mortality be reduced. In fact, the clinical ability of diagnosing a
forgotten disease is the first step towards a better prognosis. Reminding emergency physicians the typical presentation of this disease could be a concrete action to avoid future mistakes.
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Articoli originali
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Gestione del paziente con fibrillazione atriale di recente insorgenza e
troponina elevata in medicina d’urgenza
Erica Canuti, Niccolò De Bernardis, Margherita Giampieri, Andrea Alesi, Simone Bianchi,
Alessandro Coppa, Simona Gualtieri, Caterina Grifoni, Delia Lazzeretti, Stella Squarciotta,
Claudia Casula, Alberto Conti
Medicina di Emergenza e Urgenza, Ospedale Careggi Firenze
Abstract
Patients presenting with recent onset atrial fibrillation (AF) and troponin (cTnI) elevations show poor outcomes.
Coronary artery disease could be considered as cause, consequence or innocent bystander.
Objective. The aim of this study was to recognize and treat masked coronary artery disease, using a tailored-up
diagnostic work-up. In patients with AF and cTnI elevations, a planned observation or stress testing may help in
recognizing and treating masked coronary artery disease reducing adverse events.
Methods. Patients with recent onset AF, lasting ≤48 hours, participated in the study (n=1840). The exclusion criteria
were acute coronary syndrome and severe comorbidities. Two consecutive groups of patients were considered:
group 1 (n=1091, 2010-2011 years) managed with standard care, and group 2 (n=749, 2012 year) managed
with observation or stress testing as required, when presenting cTnI elevations.
Primary end-point. The composite of ischemic vascular events inclusive of stroke, acute coronary syndrome, revascularization and death at six-month follow-up.
Results. Overall, 145 patients showed cTnI elevations, 80 in group 1 and 65 in group 2 (p=0.292). Troponin elevations, known ischemic heart disease and age were predictors of the primary end-point at multivariate analysis.
Among patients of group 2, 22 (34%) were admitted with positive stress testing (n=12, 18%) or high cTnI values
(n=10, 15%, mean values: 0.65±1.34 ng/mL), and eventually 6 (9%) underwent revascularization; the remaining
43 patients were discharged with negative stress testing (n=12, 18%) or very low cTnI values (n=31, 48%, mean
values 0.24±0.18 ng/mL). Nineteen patients reached the end-point, 15 (19%) in group 1 and only 4 (6%) in
group 2 (p=0.028).
Conclusions. In patients with AF and cTnI elevations, a planned observation or stress testing succeeded in recognizing and treating masked coronary artery disease reducing adverse events.
Keywords: fibrillazione atriale, troponina, Medicina d’Urgenza, Cardiologia.
Introduzione
La fibrillazione atriale (FA) rappresenta l’aritmia sostenuta di più comune riscontro nella pratica clinica ed è
previsto che il numero dei soggetti affetti aumenterà nei prossimi 50 anni fino a triplicarsi (1). Pertanto la FA è
una delle più importanti epidemie cardiovascolari del terzo millennio, seconda solo allo scompenso cardiaco. Le
ricadute in termini di costi sociali e sanitari sono rilevanti ed i ricoveri ospedalieri sono al primo posto per quanto
riguarda la spesa sanitaria correlata (2,3). Recenti evidenze mostrano che esiste un’associazione fra FA e ischemia miocardica subclinica, non solo in pazienti con comorbidità, ma anche nei pazienti con FA apparentemente
isolata (4,5). L’insidiosa associazione fra FA e coronaropatia rappresenta quindi un tema ancora dibattuto, e la
malattia coronarica può essere considerata come causa, conseguenza o evento indipendente dalla FA stessa (6-8).
L’incremento dei valori di troponina (cTnI) nei pazienti con FA risulta essere un fattore di rischio per eventi cardiovascolari e soprattutto un fattore indipendente per mortalità ed ictus (9-10). Queste considerazioni scaturiscono
da recenti pubblicazioni scientifiche che hanno mostrato come la diagnosi di sindrome coronarica acuta aumenti
la probabilità di FA del 77% (11) e come la FA sia un fattore predittivo indipendente di mortalità in pazienti con
sindrome coronarica acuta (12-14). La FA e la malattia coronarica ischemica condividono molti fattori di rischio
(15), pertanto, l’incremento dei valori di cTnI in pazienti con FA di recente insorgenza, potrebbe riflettere una
sottostante coronaropatia occulta. Allo stato attuale il significato dell’incremento dei valori plasmatici di cTnI in
pazienti con FA di recente insorgenza è stato discusso in pochi studi, dai quali emerge che l’incremento dei valori
di cTnI potrebbe essere legato a molteplici cause (15,16,18).
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Articoli originali
Van den Bos e altri hanno dimostrato il valore prognostico dell’incremento dei valori di cTnI in pazienti con FA di
recente insorgenza, indipendentemente dalla esistenza di fattori di rischio associati (9). Più recentemente, un sottostudio del RE-LY ha dimostrato che l’incremento dei valori di cTnI risulta essere un fattore prognostico indipendente
di ictus e morte in pazienti con FA di recente insorgenza (9,19).
Nonostante tutti questi studi abbiano contribuito a confermare che i markers di necrosi miocardica possono migliorare la stratificazione prognostica dei pazienti con FA, la correlazione tra FA e coronaropatia necessita di ulteriori
indagini.
Questo studio è stato effettuato nella sottoclasse di pazienti con FA di recente insorgenza ed incremento dei valori
di cTnI, perché considerati a maggior rischio di coronaropatia subclinica rispetto ai pazienti senza incremento dei
valori di cTnI. Lo scopo è stato quello di riconoscere precocemente e trattare la eventuale coronaropatia subclinica
in pazienti con FA di recente insorgenza se associata ad incremento dei valori di cTnI, per ridurre la probabilità
di eventi futuri cardio-cerebro-vascolari.
Pazienti e metodi
Popolazione oggetto dello studio
Complessivamente sono stati considerati 3445 pazienti con FA, valutati al Dipartimento di Emergenza e Accettazione (DEA) dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, Firenze, nel periodo di tempo compreso fra gennaio
2009 e dicembre 2012. Nel DEA sono presenti aree per l’accoglienza e la valutazione d’urgenza, e un’area di
Osservazione Breve Intensiva (OBI) dotata di letti monitorizzati e di personale infermieristico e medico dedicato.
Il reparto di Cardiologia è a disposizione per le consulenze. Sono stati arruolati i pazienti con FA di recente
insorgenza, determinata in base alla storia clinica (n=1840, 53%). I pazienti sono stati divisi in due gruppi in
relazione al periodo di presentazione in DEA: il gruppo 1 è costituito da 1091 pazienti arruolati fra gennaio 2009
e dicembre 2011; il gruppo 2 da 749 pazienti, arruolati fra gennaio 2012 e dicembre 2012.
Abbiamo considerato la sottopopolazione di pazienti che presentava incremento dei valori di cTnI (≥ 0.10 ng/
mL) all’ingresso e/o al picco massimo raggiunto nei prelievi seriati successivi. Un incremento dei valori di cTnI è
stato riscontrato in: 80 pazienti del gruppo 1 (7.3%) e 65 pazienti del gruppo 2 (8.7%), (p=0.292). L’algoritmo
del management dei pazienti con FA valutati al DEA della Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi, di Firenze,
è mostrato in Figura 1.
Figura 1. ????????????
Italian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
Articoli originali
29
Tabella 1.
Totale (n=1840)
Gruppo1
(n=1091)
Gruppo 2
(n=749)
p
69 ± 12
68 ± 12
70 ± 12
<0.0001
Età ≥ 65 anni, n (%)
1289 (70%)
736 (68%)
553 (74%)
<0.0001
Sesso maschile, n (%)
954 (52%)
589 (54%)
365 (49%)
0.029
1112 (60%)
639 (59%)
473 (63%)
NS
Diabete mellito, n (%)
192 (10%)
106 (10%)
86 (12%)
NS
Ipercolesterolemia, n (%)
298 (16%)
167 (15%)
131 (17%)
NS
Fumatori attivi, n (%)
214 (12%)
124 (11%)
90 (12%)
NS
70 (4%)
17 (2%)
53 (7%)
0.002
Malattia vascolare ischemica, n (%)
425 (23%)
237 (22%)
188 (25%)
NS
Cardiopatia ischemica, n (%)
270 (15%)
164 (15%)
106 (14%)
NS
76 (4%)
35 (3%)
41 (6%)
0.023
Frequenza cardiaca (bpm)
115 ± 29
116 ± 29
114 ± 30
NS
Pressione arteriosa sistolica (mmHg)
137 ± 21
137 ± 20
136 ± 22
NS
Anticoagulanti, n (%)
277 (15%)
138 (13%)
139 (19%)
0.001
Antiaggreganti, n (%)
622 (34%)
400 (37%)
222 (30%)
0.002
ACE-inibitori, n (%)
960 (52%)
552 (51%)
408 (55%)
NS
Betabloccanti, n (%)
477 (26%)
278 (26%)
199 (27%)
NS
Statine, n (%)
347 (19%)
197 (18%)
150 (20%)
NS
CHADS2
1.2 ± 1.0
1.1 ± 0.9
1.4 ± 1.1
0.001
CHA2DS2VASC
2.4 ± 1.6
2.3 ± 1.6
2.7 ± 1.6
0.001
145 (7.9%)
80 (7.3%)
65 (8.7%)
NS
Parametri
Età (anni)
Ipertensione, n (%)
Familiarità per patologia coronarica, n (%)
Ictus/TIA, n (%)
Troponina positiva, n (%)
Le caratteristiche demografiche e cliniche dei pazienti dei gruppi 1 e 2 sono state analizzate e riportate nella
Tabella 1. I pazienti del gruppo 2 mostrano un profilo di rischio cardiovascolare leggermente più elevato rispetto
ai pazienti del gruppo 1.
Criteri di inclusione ed esclusione
Criterio di inclusione è stato la presenza di FA di recente insorgenza (≤ 48 ore), confermata tramite elettrocardiogramma-standard 12 derivazioni (ECG) eseguito alla presentazione in DEA. I criteri di esclusione sono stati:
instabilità emodinamica, classe Killip ≥ 2 alla presentazione, sindrome coronarica acuta o ictus in atto, malattia
tumorale in fase attiva o comunque richiedente trattamento dedicato, scompenso cardiaco, insufficienza renale,
broco-pneumopatia cronico ostruttiva (BPCO) quando di grado severo (21,22). Tutti i pazienti inclusi hanno dato il
consenso al trattamento dei dati personali. Lo studio è stato condotto in conformità alle regole della buona pratica
clinica e ai principi della dichiarazione di Helsinki.
Gestione dei pazienti
All’ingresso in DEA tutti i pazienti sono stati sottoposti ad ECG-standard a 12 derivazioni, anamnesi, esame clinico
e prelievo ematico con dosaggio della cTnI. Esami aggiuntivi quali RX del torace, emogasanalisi, ecocardiogramItalian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
30
Articoli originali
ma ed ECG seriati sono stati eseguiti quando ritenuto necessario in base alla condizioni cliniche all’ingresso e
all’evoluzione clinica acuta. La cTnI è stata dosata in ogni paziente tramite prelievo ematico al momento dell’ingresso in DEA e ripetuta a 6 e 12 ore. Il valore di cut-off della troponina presso il nostro laboratorio a cui sono stati
inviati i campioni è stato ≥ 0.10 ng/mL. Abbiamo inserito nell’analisi statistica i valori di cTnI rilevati all’ingresso e
i valori di picco massimo raggiunti nei prelievi seriati successivi. Abbiamo quindi suddiviso i pazienti in due gruppi
sulla base della presenza di valori normali (<0.10 ng/mL) o anomali di cTnI (≥0.10 ng/mL) (19,23).
La gestione dei pazienti del gruppo 1 è stata considerata “standard” perché basata sulle convinzioni scientifiche di
prevenzione del cardioembolismo proprie delle linee guida correlate al periodo di tempo in oggetto, e soprattutto
antecedente alla pubblicazione di articoli scientifici focalizzati sul valore prognostico negativo associato all’incremento del valori di cTnI nei pazienti con FA (10,20).
I pazienti del gruppo 2 con FA e incremento dei valori di cTnI, sono stati gestiti tramite un work-up diagnostico personalizzato e finalizzato all’individuazione della possibile malattia aterosclerotica coronarica subclinica. Il workup consisteva in: osservazione clinica con ECG seriati in tutti i pazienti, esecuzione di ecocardiogramma, dosaggi
seriati della cTnI e stress test quando richiesto dal giudizio clinico integrato (ecocardiogramma normale, eventuale
minimo incremento dei valori di cTnI o completamento della curva di clearance del marker di danno miocardico
e ritorno sostanziale ai valori di riferimento della cTnI stessa). I pazienti con segni ecocardiografici sospetti per
ischemia miocardica o i pazienti con incremento marcato dei valori di cTnI, soprattutto con curva enzimatica di
ascesa e discesa suggestivi di necrosi miocardica, sono stati ricoverati ed eventualmente considerati per l’esame
coronarografico. Anche i pazienti con stress test positivo sono stati ricoverati ed eventualmente considerati per
l’esame coronarografico.
Definizione delle variabili cliniche
La patologia coronarica, carotidea e l’arteriopatia obliterante periferica sono state definite dal riscontro anamnestico o strumentale di lesioni aterosclerotiche vasali con stenosi superiori al 50% (17,20,22).
Il diabete mellito e la dislipidemia sono stati documentati tramite precedente diagnosi o terapia domiciliare con
farmaci ipoglicemizzanti o ipocolesterolemizzanti (23). Sono stati considerati come fumatori attivi quei pazienti
con storia di esposizione tabagica attuale superiore ai 6 mesi (6,24). L’ipertensione sistemica è stata definita dalla
presenza di una diagnosi anamnestica e/o dall’assunzione di terapia antiipertensiva (25).
L’instabilità emodinamica è stata definita in presenza di valori di pressione arteriosa sistolica inferiori a 100
mmHg e/o segni di ipoperfusione cutanea e/o alterati livelli di coscienza e/o insufficienza respiratoria severa o
edema polmonare (26). L’insufficienza renale moderata-severa è stata definita sulla base di valori plasmatici di
creatinina superiori a 2.3 mg/dl o di valori di filtrato glomerulare inferiori a 30 mL/min/1.73m2 (formula MDRD).
Inoltre, la presenza di ulteriori comorbidità è stata comprovata dal riscontro in cartella clinica di terapie farmacologiche specifiche o di una diagnosi specifica (6,24).
End-point
Abbiamo considerato come end-point primario il composito degli eventi cardio-cerebro-vascolari ischemici quali
ictus, sindrome coronarica acuta (con e senza innalzamento del tratto ST, angina instabile), rivascolarizzazione e
morte cardiovascolare.
Follow-up
Il follow-up è stato eseguito tramite la revisione degli archivi elettronici del DEA di Careggi e tramite intervista telefonica con i pazienti, a distanza di 6 mesi dall’ingresso in DEA. Ogni informazione ottenuta è stata confermata
attraverso l’analisi delle cartelle cliniche del paziente e dei relativi ECG e dai referti degli esami di laboratorio.
Analisi statistica
I parametri continui sono espressi come media ± deviazione standard, mentre i dati non parametrici sono riportati
come valore assoluto e percentuale. Il confronto dei dati clinici e demografici tra i due gruppi è stato effettuato
usando il test del chi-quadrato e il test esatto di Fisher (per le variabili non-parametriche) e il t-test (per i parametri
continui). I punteggi degli score CHADS2 e CHA2DS2VASc, poiché non avevano una distribuzione normale, sono
Italian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
Articoli originali
31
Tabella 2.
cTnI < 0.10ng/mL
(n=1695)
cTnI ≥ 0.10ng/mL
(n=145)
p
69 ± 12
76 ± 12
<0.0001
Età ≥ 65 anni, n (%)
1160 (68%)
129 (89%)
<0.0001
Sesso maschile, n (%)
882 (52%)
72 (50%)
NS
1023 (60%)
89 (61%)
NS
Diabete mellito, n (%)
169 (10%)
23 (16%)
NS
Ipercolesterolemia, n (%)
275 (16%)
23 (16%)
NS
Fumatori attivi, n (%)
192 (11%)
22 (15%)
NS
63 (4%)
7 (5%)
NS
Malattia vascolare ischemica, n (%)
373 (22%)
52 (36%)
<0.0001
Cardiopatia ischemica, n (%)
232 (14%)
38 (26%)
<0.0001
64 (4%)
12 (8%)
0.015
Pressione arteriosa sistolica (mmHg)
137 ± 20
137 ± 24
0.011
Anticoagulanti, n (%)
255 (15%)
22 (15%)
NS
Antiaggreganti, n (%)
559 (33%)
63 (43%)
0.013
Antiaritmici, n (%)
548 (32%)
29 (20%)
0.002
ACE-inibitori, n (%)
881 (52%)
79 (55%)
NS
Betabloccanti, n (%)
439 (26%)
38 (26%)
NS
Statine, n (%)
313 (19%)
34 (23%)
NS
CHADS2
1.2 ± 1.0
1.6 ± 1.1
<0.0001
CHA2DS2VASC
2.4 ± 1.6
3.2 ± 1.4
<0.0001
CHADS2 ≥ 1, n (%)
1224 (72%)
121 (83%)
0.003
CHA2DS2VASC ≥ 1, n (%)
1413 (83%)
139 (96%)
<0.0001
Troponina (ng/mL)
0.02 ± 0.02
1.76 ± 7.01
0.003
Parametri
Età (anni)
Ipertensione, n (%)
Familiarità per patologia coronarica, n (%)
Ictus/TIA, n (%)
stati confrontati utilizzando il test U di Mann-Whitney. L’associazione tra parametri clinici e demografici e l’outcome primario è stata verificata tramite analisi logistica univariata. I parametri significativamente associati con l’outcome sono stati inseriti in un modello di analisi logistica (stepwise backward) per l’identificazione dei predittori
indipendenti. L’odds ratio (OR) è stato utilizzato per rappresentare la probabilità dell’evento avverso (end-point
composito primario). È stato considerato statisticamente significativo un valore di p a due code inferiore a 0.05.
Tutti i calcoli sono stati effettuati usando SPSS versione 19 (SPSS Inc. Chicago, Illinois).
Risultati
I pazienti con FA di recente insorgenza ed incremento dei valori di cTnI all’ingresso (n=145, 7.9% dei pazienti
arruolati) sono stati confrontati con quelli senza incremento dei valori cTnI. I risultati sono riportati nella Tabella 2. I
pazienti con incremento dei valori di cTnI mostrano un profilo di rischio cardiovascolare marcatamente più elevato
e compatibile con un maggior rischio di eventi rispetto ai pazienti senza incremento dei valori di cTnI.
Nei pazienti con incremento dei valori di cTnI, abbiamo confrontato tra i gruppi 1 e 2 l’end-point primario, valutato al follow-up eseguito a distanza di 6 mesi. L’end-point primario è stato raggiunto in totale da 19 pazienti, 15
Italian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
32
Articoli originali
Tabella 3.
End-point primario a sei mesi
Totale
Ictus
CAD
Morte
Gruppo 1
(n=80)
15 (18.8 %)
4 (5.0 %)
9 (11.3%)
3 (3.8%)
Gruppo 2
(n=65)
4 (6.2 %)
1 (1.5%)
3 (4.6%)
2 (3.1%)
0.028
0.380
0.226
1
p
Figura 2.
(18.8%) del gruppo 1 e 4 (6.2%) del gruppo 2 (p=0.028). L’incidenza dell’end-point primario nei pazienti con FA
di recente insorgenza e cTnI elevata è mostrata nella Tabella 3.
Fattori indipendenti associati a prognosi sfavorevole
All’analisi univariata, l’incremento dei valori di cTnI, la malattia vascolare ischemica (comprensiva di ictus/TIA,
malattia coronarica e vascolare periferica), l’età, l’ipercolesterolemia, la disglicemia (inclusi i pazienti con glicemia ≥ 140 mg/mL), sono stati riconosciuti come fattori predittori indipendenti dell’end-point primario. Tuttavia,
solamente l’incremento dei valori di cTnI, la presenza di coronaropatia anamnestica, l’età e gli elevati valori
pressori all’ingresso sono stati confermati come fattori predittori indipendenti per l’end-point primario all’analisi
multivariata (Tabella 4).
Italian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
Articoli originali
33
Tabella 4.
Univariata
Multivariata
OR
CI95%
p
OR
CI95%
p
Incremento cTnI
4.26
2.46-7.37
<0.0001
4.17
2.27-7.68
<0.0001
Cardiopatia ischemica
2.98
1.81-4.89
<0.0001
2.28
1.30-3.98
0.004
Età (anni)
1.04
1.02-1.06
<0.0001
1.03
1.01-1.06
0.013
Pressione arteriosa sistolica (mmHg)
1.01
1.00-1.03
0.019
1.01
1.00-1.03
0.015
Malattia vascolare ischemica
2.12
1.34-3.36
0.001
Disglicemia
2.29
1.37-3.82
0.001
Statine
2.29
1.41-3.73
0.001
Antiaggreganti
1.97
1.24-3.11
0.004
Dislipidemia
2.01
1.20-3.38
0.008
CHADS2 ≥ 1
1.85
1.01-3.39
0.046
Ipertensione
1.47
0.90-2.40
NS
Fumatori attivi
1.01
0.49-2.05
NS
Familiarità per cardiopatia ischemica
1.41
0.50-3.97
NS
Sesso maschile
0.85
0.54-1.35
NS
CHA2DS2VASC ≥ 1
2.25
0.97-5.24
NS
Frequenza cardiaca (bpm)
1.00
0.99-1.01
NS
Anticoagulanti
0.94
0.49-1.80
NS
ACE inibitori/ARB
1.38
0.87-2.19
NS
Betabloccanti
1.23
0.75-2.02
NS
Percorso diagnostico: osservazione in DEA, dimissione o ammissione
Dopo la valutazione all’ingresso e l’osservazione in DEA i pazienti con valori di cTnI elevata sono stati: ammessi
all’Unità di Terapia Intensiva Coronarica (23 nel gruppo 1 e 19 nel gruppo 2; p=1.0); ammessi al turno medico
(21 pazienti nel gruppo 1 e 8 nel gruppo 2; p=0.60); dimessi (36 nel gruppo 1 e 38 nel gruppo 2; p=0.133). I
pazienti del gruppo 2 ritenuti idonei in base al giudizio clinico, alla presenza di modesti rialzi dei valori di cTnI
o al completamento della curva dei markers di danno miocardico (n=24), sono stati avviati a stress test. Di questi,
10 pazienti sono stati sottoposti a stress test in elezione risultato negativo per ischemia miocardica inducibile; 3
pazienti hanno completato il percorso con stress test in osservazione e ricoverati per esame angiografico; 11 sono
stati ricoverati per completamento dell’osservazione clinica ed esecuzione di stress test, dei quali: 4 in medicina
e 7 in UTIC/cardiologia. I pazienti del gruppo 2 con stress test dubbio o positivo per ischemia miocardica inducibile sono stati considerati per l’esecuzione di angiografia coronarica (Figura 2). I pazienti del gruppo 1 sono
stati considerati per l’angiografia coronarica sulla base del solo giudizio clinico e decorso ospedaliero (Figura 2).
Rivascolarizzazione miocardica
Globalmente, sono stati sottoposti a rivascolarizzazione miocardica 1 paziente del gruppo 1 e 6 pazienti del
gruppo 2 (p=0.045) (Figura 2). �������������������������������������������������������������������������������
Un paziente del gruppo 1 e 5 pazienti del gruppo 2 sono stati sottoposti ad angioplastica coronarica percutanea; 1 paziente del gruppo 2 è stato sottoposto a by pass aorto-coronarico.
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Articoli originali
Figura 3.
Ricoveri e dimissioni
La percentuale di pazienti ricoverati nel gruppo 2 è stata inferiore del 39%, in valore relativo, rispetto al gruppo
1, anche se la differenza non ha raggiunto la significatività statistica (p=0.133). Il confronto fra la percentuale dei
pazienti ricoverati o dimessi è riportato nella Figura 3. Da notare che i pazienti del gruppo 2 sono stati dimessi con
valori di cTnI significativamente inferiori rispetto ai pazienti del gruppo 1 (0.27±0.26 ng/mL versus 1.00±2.21
ng/mL; p=0.047) (Figura 4).
Figura 4.
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35
Discussione
Risultati principali
I risultati del presente studio supportano i dati di letteratura riguardo la correlazione fra FA di recente insorgenza
associata ad incremento dei valori di cTnI da una parte ed il maggior rischio di eventi cardiovascolari avversi
dall’altra. Difatti fra i pazienti che presentavano FA ed incremento dei valori di cTnI, non sottoposti di routine a screening per la presenza di coronaropatia e categorizzati come gruppo 1 nel nostro studio, ben il 19% ha raggiunto
l’end-point primario (Tabella 4). Lo studio fornisce inoltre informazioni prognostiche riguardanti il sottogruppo di
pazienti gestito secondo un work-up diagnostico personalizzato volto all’individuazione della possibile malattia
coronarica subclinica e categorizzati come gruppo 2. Sono stati riconosciuti il 10% di pazienti con coronaropatia
critica e necessità di rivascolarizzazione miocardica, rispetto all’1% dei pazienti del gruppo 1, sottoposti a gestione
clinica standard. Di conseguenza, al follow-up, l’end point primario è stato significativamente ridotto: dal 19% dei
pazienti del gruppo 1 al 6% dei pazienti del gruppo 2 (p=0.028). Di particolare interesse è il fatto che la gestione
secondo il work-up diagnostico non ha incrementato il ricorso al ricovero per accedere ad esami diagnostici di
secondo livello. Infatti le ammissioni sono state in numero minore di ben il 39%, in valore relativo, rispetto alla
gestione clinica standard, anche se la differenza non ha raggiunto la significatività statistica. Segnaliamo che nel
contesto della gestione clinica ha avuto sostanziale importanza il valore assoluto dell’incremento dei valori di cTnI;
sono stati ricoverati prevalentemente i pazienti con valori di troponina marcatamente elevati. Abbiamo dimesso difatti solo quei pazienti con incremento dei valori di cTnI nei quali l’osservazione e lo stress test risultavano negativi.
Limiti e punti di forza dello studio
I limiti del nostro studio sono rappresentati da:
• Mancanza di un criterio randomizzato per la selezione dei pazienti;
• Consapevolezza che risulta speculativo stabilire il momento di insorgenza della FA solo tramite la storia clinica,
poiché i pazienti sono in grado di riconoscere i sintomi solo quando la frequenza cardiaca risulta elevata;
• Necessità di approfondimento con uno studio multicentrico;
• I risultati del presente studio non sono direttamente applicabili alla popolazione generale in quanto abbiamo
escluso dall’analisi i pazienti con comorbidità moderate-severe e instabilità emodinamica;
• Necessità di approfondimento con uno studio prospettico.
I punti di forza del nostro studio sono rappresentati da:
• Il considerevole numero di pazienti che sono stati arruolati consecutivamente;
• L’arruolamento di pazienti liberi da condizioni cliniche nelle quali l’incremento dei valori di cTnI può essere
considerato come un epifenomeno;
• La sovrapposizione dei nostri dati con quelli riportati in letteratura;
• Una più appropriata gestione clinica dei pazienti che esita in un minor ricorso alla ammissione ospedaliera.
Conclusioni
I dati riportati suggeriscono che la ricerca della coronaropatia nei pazienti con FA di recente insorgenza ed incremento dei valori di cTnI dovrebbe guidare la fase iniziale del processo decisionale clinico nel contesto della
Medicina di Emergenza-Urgenza.
Un appropriato work-up diagnostico clinico e strumentale dei pazienti con FA di recente insorgenza associata ad
incremento dei valori di cTnI ha permesso di identificare e trattare precocemente un sostanziale numero di pazienti
con malattia coronarica subclinica, riducendo sostanzialmente il ricorso a ricovero ospedaliero e l’incidenza di
eventi avversi.
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Italian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
Articoli originali
37
L’ipotesi più probabile non è necessariamente quella corretta. Ecografia
clinica integrata come fulcro della diagnostica differenziale in Pronto
Soccorso
Jacopo Frizzi*/**, Leonardo Delli*, Massimo Bianchi*, Giovanni Iannelli*
* UOC Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza, Ospedale S. Donato, Arezzo
** Scuola di Specializzazione in Medicina d’Emergenza-Urgenza, Università degli Studi di Siena
Abstract
In this case report a patient comes to our Emergency Department with dyspnea and hemoptysis in recent DVT
complicated by pulmonary embolism.
Even if all the initial investigations point to a new thromboembolism episode, the approach through point-of-care
ultrasound allows to identify the true underlying diagnosis.
Introduzione
Il filosofo inglese William Ockham suggerisce l’inutilità di formulare più ipotesi di quelle che siano strettamente
necessarie per spiegare un dato fenomeno quando quelle iniziali siano sufficienti, tale principio è noto come
rasoio di Ockham.
In questo case vediamo come l’approccio al paziente mediante ecografia point-of-care possa permettere l’identificazione della reale diagnosi nonostante l’anamnesi e la clinica del paziente ne suggeriscano un’altra più
probabile.
Parole chiave: embolia polmonare, ecografia, dispnea, emergenza.
Case report
Il paziente, un uomo di 84 anni, accede al nostro Pronto Soccorso (PS) per dispnea ingravescente, associata a
febbricola, dolore puntorio a livello dell’emitorace dx ed emoftoe.
In anamnesi, oltre ad ipertensione arteriosa in trattamento farmacologico, vi è trombosi venosa profonda (TVP)
all’arto inferiore sx, complicata da embolia polmonare datante 2 mesi prima, momento dal quale il paziente assume warfarin.
Obiettivamente al torace non si apprezzano grossolani rumori aggiunti, né si riscontrano edemi declivi.
PA: 120/70 mmHg; FC: 103 aritmico. Tc 37,1°C. All’ECG aritmia da FA (non nota) a risposta ventricolare di
103 bpm con BBdx completo. EGA: pH 7,46 mmHg, pCO2 32,6 mmHg, pO2 54,4 mmHg, HCO3 23,4 mmHg.
Gli esami ematochimici di routine mostrano INR 1,47 (indice di scarsa compliance alla TAO) e alterazione della
PCR 12,5 mg/dl. Il d-dimero non è stato eseguito essendo il paziente portatore già di TVP documentata, i restanti
valori sono risultati sostanzialmente nella norma.
Iter diagnostico
In PS il paziente è sottoposto a valutazione CUS degli arti inferiori che mostra presenza di materiale iperecogeno,
già presente 2 mesi prima, che occlude quasi completamente il lume della vena poplitea sx (Fig. 1); risultano invece pervie e normocomprimibili la vena poplitea controlaterale e le vene femorali comuni.
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Articoli originali
Figura 1. Trombosi venosa profonda poplitea sinistra.
Il quadro clinico-laboratoristico e strumentale, fortemente supportato dai dati anamnestici, fa propendere per un
nuovo episodio di embolia polmonare, epifenomeno della TVP ancora presente e della scarsa compliance alla
TAO (1).
L’unica nota stonata del quadro è rappresentata dagli elevati valori di PCR, troppo per un episodio tromboembolico (2,3). Si procede quindi ad inquadramento mediante ecografia clinica integrata (point-of-care), la quale mostra
una vena cava inferiore nei limiti per dimensione e reattività, le sezioni cardiache destre non si presentano dilatate
e non è presente il segno ecocardiografico di McConnel (4,5).
L’ipotesi di embolia polmonare inizia adesso a perdere di forza (6).
Si procede così all’esplorazione ecografica del torace che esclude impegno interstiziale diffuso, pneumotorace e
versamenti pleurici e identifica a livello dell’emitorace dx, sede del dolore puntorio, la presenza di una sindrome
interstiziale focale (Fig. 2) contigua ad un addensamento polmonare in fase iniziale con caratteristiche fortemente
suggestive per eziologia flogistica (7,8) (Fig. 3).
Figura 2. Sindrome interstiziale focale in campo medio destro.
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Articoli originali
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Figura 3. Addensamento parenchimale contiguo.
Viene quindi iniziata terapia antibiotica endovena, copertura eparinica e si trasferisce il paziente in OBI (9). Alcune ore dopo, a scopo di completamento diagnostico, il paziente è comunque sottoposto a TC del torace ad alta
risoluzione che conferma l’addensamento polmonare flogistico a livello del campo medio dx ed esclude fenomeni
tromboembolici (Fig. 4).
Figura 4. TC torace ad alta risoluzione che conferma l’addensamento flogistico ed esclude processi embolici.
Key message
Questo breve case mostra come una metodica facilmente disponibile, a costo zero, ripetibile ed eseguibile bedside possa essere dirimente nell’approccio al paziente (10). Pur facendo propendere tutti i dati iniziali per un
episodio tromboembolico, la valutazione ecografica point-of-care, eseguita dal medico di Pronto Soccorso, ha
permesso l’individuazione della diagnosi sottostante corretta (11).
Italian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
40
Articoli originali
Bibliografia
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Area Nursing
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Formazione versus esperienza, nessuno è il più bravo. Indagine
conoscitiva condotta presso il servizio di Emergenza territoriale 118 di
Bologna
A. Monesi, F. Mugelli, S. Musolesi, R. Ridolfi, F. Salvafondi
Servizio di Emergenza territoriale 118 di Bologna
Sintesi
Obiettivo. L’obiettivo di questo articolo è stato di confrontare la metodologia lavorativa tra le varie generazioni di
infermieri all’interno del servizio 118, attraverso l’analisi dei dati registrati sulla scheda del soccorso territoriale.
Metodo. È stata condotta un’analisi delle schede del soccorso compilate dal personale infermieristico, sono state
analizzate singolarmente 2672 schede infermieristiche, delle quali solo 2083 sono state inserite nel campione
(77,9%), il personale è stato diviso in base agli anni di servizio e se aveva conseguito o meno un master in area
critica.
I gruppi in cui sono stati inseriti gli operatori sono i seguenti: master ed esperienza lavorativa tra i cinque e i dieci
anni, master e meno di cinque anni di esperienza, master e più di dieci anni di esperienza, no master ed esperienza tra i cinque e i dieci anni e no master e più di dieci anni di esperienza.
Risultati. I risultati migliori in merito alla compilazione della scheda sono stati ottenuti da parte del personale che
ha effettuato un master in area critica. Indipendentemente dagli anni di esperienza, la compilazione dei campi
da parte degli infermieri con master è stata rilevata circa nel 90% dei casi, mentre per le persone senza master
la percentuale va dal 60% per quelli con esperienza tra i cinque e i dieci anni, al 70% per quelli con esperienza
oltre i dieci anni. L’attivazione del mezzo ALS da parte degli infermieri con master è minore rispetto ai colleghi
che non hanno il master.
Conclusioni. I dati a nostra disposizione mostrano che gli infermieri che hanno effettuato un corso post-base come
un master prestano maggiore attenzione nel riportare i dati rilevati all’interno della scheda. Inoltre nel campione
esaminato gli infermieri che hanno effettuato un master richiedono con minore frequenza l’intervento del mezzo
medicalizzato.
Parole chiave: competenza, responsabilità, performance.
Abstract
Objective. The aim of this study was to evaluate the performance of nurses, as determined by the completion in
filling mission reports, according to the length of working experience and the presence of a master degree in critical care.
Methods. We evaluated the record card compiled by nurses. We analyzed 2672 records, but only 2083 were
included in our sample (77,9%). The crews were divided according to the number of years of work of the nurses
and if they had a master degree in critical area. The following groups were individuated: master degree and work
experience between five and ten years, master degree and less of five years of work experience, master degree
and more of 10 years of work experience, absence of master degree and work experience between five and ten
years, absence of master degree and more of ten years of work experience.
Outcomes. The best results in completing patient cards were obtained by those who had a master degree in critical care regardless the years of experience (90% of patient cards completed, vs 60% for nurses without master
degree and 5-10 years of experience and 70% for those without a master degree and over 10 years of working
experience).
Conclusions. In conclusion we found that nurses who have a master degree pay greater attention in filling mission
reports. Data also showed that nurses with a master degree have more appropriateness in Advanced Life Support
requests.
Keywords: Competence, Responsability, Performance.
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Area Nursing
Introduzione
È irrinunciabile considerare discorsi ormai all’aspetto ridondanti, parole che sembrano così astratte ma così indispensabili per descrivere qualsivoglia argomento in termini di assistenza infermieristica. Mansionario. Evoluzione
scientifica. Cambiamento della domanda. Sviluppo tecnologico. Aumento delle conoscenze, delle richieste e delle
aspettative da parte dell’utente.
Quantificando in termini di tempo il tutto si manifesta nel giro di una ventina di anni, e a livello pratico pressoché
qualsiasi infermiere sarebbe in grado di raccontare di almeno cinque o sei grandi cambiamenti apportati al proprio lavoro per “colpa” anche solo di una di quelle parole. Alcuni di loro hanno la capacità di lasciare tutti gli
altri a bocca aperta, parlano degli stessi argomenti in maniera così dissimile e impensabile da non credere che
il periodo trascorso sia in realtà così breve. Menzionano siringhe di vetro, ambulanze vuote, aghi riutilizzabili, si
riferiscono al numero unico 118 come un’utopia, cose strane. Nel dipartimento di Emergenza, in particolar modo,
al giorno d’oggi convivono operatori che hanno dato vita al sistema e persone che sono cresciute al loro interno
senza la consapevolezza di ciò che era prima. Inutile negare che esistono interferenze che portano a chiedersi
prima o poi se sia meglio avere una buona formazione o una grande esperienza, ma se si apprezza il contesto è
facile intuire che il potenziale e la complementarietà di questo binomio rappresentano l’aspetto più ragguardevole.
Obiettivo
L’obiettivo dello studio è stato di confrontare la metodologia lavorativa tra gli infermieri generalisti, quelli esperti e
quelli specialisti, attraverso i dati registrati sulla scheda del soccorso.
Materiali e metodi
È stato effettuato uno studio osservazionale retrospettivo mediante l’analisi delle schede del soccorso territoriale
compilate dagli infermieri delle ambulanze del 118 di Bologna (area urbana) nel 2012. Il campione è stato suddiviso in cinque fasce: master ed esperienza lavorativa tra i cinque e i dieci anni, master e meno di cinque anni
di esperienza, master e più di dieci anni di esperienza, no master ed esperienza tra i cinque e i dieci anni, no
master e più di dieci anni di esperienza.
Si è voluto analizzare la metodologia lavorativa, e i parametri di valutazione sono riconducibili alla registrazione
dei parametri vitali degli assistiti (frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, pressione arteriosa, dolore), alla
somministrazione di farmaci e all’intervento del mezzo ALS.
Risultati
Sono state analizzate singolarmente 2672 schede infermieristiche delle quali solo 2083 (77,96%) sono entrate a
far parte del campione in quanto non sempre è stato possibile risalire all’infermiere compilatore.
Tabella 1. Suddivisione in classi.
Classi
Master ed esperienza tra 5 e 10 anni
Master e meno di 5 anni di esperienza
Master e più di 10 anni di esperienza
No master ed esperienza tra 5 e 10 anni
No master e più di 10 anni di esperienza
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N. schede
% sul totale
Lettera identificazione
57
113
124
491
1298
2,14
4,23
4,65
18,38
48,56
A
B
C
D
E
Area Nursing
Master e > 10 anni di esperienza
No master ed esperienza tra 5 e 10 anni
Master e > 5 anni di esperienza
No master e più di 10 anni di esperienza
43
Master e meno di 5 anni di esperienza
Figura 1. Formazione-Esperienza. Suddivisione in classi.
Il campione non è omogeneo (Tab. 1 e Fig.1), una grossa fetta viene rappresentata da infermieri senza master e
con più di dieci anni di esperienza (48,56%), seguita da persone senza master e con un’esperienza che va dai
cinque ai dieci anni (18,38%), operatori con master ed esperienza di più di dieci anni (4,65%), infermieri con
master e meno di cinque anni di esperienza (4,23%) ed infine gli operatori con master ed un’esperienza che varia
dai cinque ai dieci anni (2,14%).
Parametri vitali
Tabella 2. Percentuale di compilazione in relazione alla classe di appartenenza.
Classe
Indicatore PV
FC
PA
FR
Glicemia
Dolore
A
95%
89.47%
71.93%
89.47%
10,53%
42,10%
B
95%
87.61%
90.27%
71,68%
8,85%
74,33%
C
95%
90.32%
95.97%
65,33%
20,61%
42,72%
D
95%
60.90%
57.84%
62,52%
12,21%
24,23%
E
95%
69.41%
80.67%
40.60%
10,55%
5,23%
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Area Nursing
Pressione arteriosa
L’analisi dei dati mostra come gli infermieri con master abbiano ottenuto prestazioni migliori, anche se quelli che
associano più di dieci anni di esperienza hanno riportato performance più accurate (Tab. 2). Se si parla della prima
rilevazione della frequenza cardiaca, gli infermieri con master, indipendentemente dagli anni di esperienza, hanno
rilevato il dato circa nel 90% dei casi mentre le persone senza master lo hanno rilevato per una percentuale che
va dal 60% per quelli con esperienza tra i cinque e i dieci anni al 70% per quelli con esperienza oltre i dieci anni.
La seconda rilevazione varia dal 14% al 22% per gli infermieri con master e dal 7% all’11% per quelli senza master ma con esperienza rispettivamente tra i cinque e i dieci anni e di più di dieci anni. L’ultima rilevazione viene
rilevata per circa il 7% dei casi dagli infermieri con master e meno di cinque anni di esperienza mentre per tutte
le altre fasce il valore si aggira intorno al 3%.
Anche in questo caso sono possibili tre differenti rilevazioni. I dati analizzati mostrano anche in questo caso una
performance migliore negli infermieri con master e più di dieci anni di esperienza, i quali lo rilevano nel 95,97%
dei casi. La prima rilevazione viene effettuata per il 90,27% dagli infermieri con master e meno di cinque anni di
esperienza, nell’80,67% da infermieri senza master e più di dieci anni di esperienza, nel 71,93% dagli infermieri
con master e più di cinque anni di esperienza, e nel 57,84% da infermieri con master ed esperienza che va dai
cinque ai dieci anni.
La seconda rilevazione viene effettuata nel 23,39% dei casi dagli infermieri con master e più di dieci anni di
esperienza, mentre negli altri casi il valore rimane intorno al 5-7%. La terza rilevazione mostra percentuali molto
basse, che variano dallo 0,53% al 6,22%, in cui gli infermieri con master e meno di cinque anni di esperienza
risultano aver ottenuto la performance migliore.
Frequenza respiratoria
Le percentuali di rilevazioni risultano più elevate per quanto riguarda gli infermieri con master (89,47% per gli infermieri con più di cinque anni di esperienza, 71,68% per quelli con meno di cinque anni di esperienza e 65,33%
per quelli con esperienza di più di dieci anni) mentre gli infermieri senza master rilevano il dato nel 62,52% dei
casi per quanto riguarda coloro che hanno esperienza tra i cinque e i dieci anni e nel 40,60% per coloro che hanno più di dieci anni di esperienza. La seconda rilevazione invece mostra dati sovrapponibili per quanto riguarda
le fasce con master (circa il 12,5%) mentre per gli infermieri con esperienza dai cinque ai dieci anni il valore è
del 9,97% e del 3,31% per quelli con esperienza sopra i dieci anni. Come per la pressione arteriosa, anche in
questo caso le percentuali relative alla terza rilevazione rimangono basse, per valori che oscillano dallo 0,46%
(riferiti ad infermieri senza master ma con esperienza di più di dieci anni) al 3,53% (riguardanti gli infermieri con
master e meno di cinque anni di esperienza).
Glicemia
La rilevazione della glicemia viene ritenuta un parametro caso-dipendente, viene considerata solo la prima rilevazione, e in questo caso la fascia di infermieri che ha mostrato performance più elevate è rappresentata dagli
infermieri con master e dieci anni di servizio.
Dolore
Viene tenuto conto di questo parametro poiché rappresenta la prima fonte di disagio per il paziente oltre che
essere un parametro vitale. La prima rilevazione mostra una performance maggiore per gli infermieri con master
ed esperienza minore di cinque anni (74,33%). Le altre fasce di infermieri con master raggiungono valori del
42% mentre gli infermieri senza master rilevano il dato nel 24,23% nel caso di quelli con master dai cinque ai
dieci anni, e del 5,23% per quelli con esperienza oltre i dieci anni. La seconda rilevazione mostra come in larga
parte le percentuali siano aumentate per gli infermieri con master che abbiano meno di cinque anni di esperienza
(17,7%) e più di dieci anni di esperienza (18,54%), mentre per le restanti fasce prese in considerazioni i valori
sono nettamente più bassi (circa 1-2% per le fasce senza master e 3,51% per quelli con master e più di cinque anni
di esperienza). La terza possibilità di rilevazione del dolore risulta in generale poco considerata da tutto il campione, non si arriva pressoché mai all’1% eccetto nei casi di infermieri con master che abbiano più di dieci anni
di esperienza o meno di cinque anni, i quali raggiungono performance rispettivamente del 4,03% e del 3,54%.
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Area Nursing
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Attivazione mezzo ALS
Per quanto riguarda questo dato è necessario precisare in quali casi generalmente viene considerato l’intervento
di un mezzo avanzato. Esso si avvicina al target nei casi di servizi primari definiti con il codice rosso base, e può
essere confermato o annullato in base alle valutazioni svolte dall’infermiere dell’ambulanza che per primo vede il
paziente e ne determina la reale criticità. In caso di servizio rosso Echo il mezzo avanzato risulta già confermato
in partenza, per cui l’infermiere dell’ambulanza non è tenuto a prendere nessuna decisione in merito alla conferma
o all’annullamento dell’intervento di tale mezzo. Una volta intervenuto il medico del mezzo di soccorso avanzato,
sarà lui a decidere se accompagnare o meno il paziente fino alla struttura ospedaliera o se affidarlo al mezzo
ILS (ambulanza con infermiere) in modo da liberarsi e rendersi operativo per altri eventuali servizi. Nello studio
vengono prese in considerazione tre possibilità: mezzo ALS accompagna, mezzo ALS non accompagna, mezzo
ALS annullato.
Parlando della componente infermieristica che possiede un master, nei casi in cui il personale abbia più di cinque
anni di esperienza, si nota un’attivazione del mezzo ALS nel 17,55% dei casi, mentre quelli che hanno meno di
cinque anni di esperienza lo hanno attivato nel 35,4% dei casi. In entrambi i casi i dati riportano che nel 70%
degli interventi il mezzo avanzato ha poi accompagnato il paziente verso la struttura, per cui la decisione di attivarlo è stata corretta nella gran parte degli interventi. Gli infermieri con master e più di dieci anni di esperienza
hanno attivato il mezzo avanzato nel 29% dei casi mostrando un’appropriatezza di tale decisione del 41%. Per
quanto riguarda gli infermieri senza master, quelli che hanno più di cinque anni di esperienza hanno attivato il
mezzo ALS nel 23,62% riportando un’adeguatezza del 20,68%, mentre quelli con più di dieci anni di esperienza
l’attivazione è del 20,5% e l’appropriatezza del 55% (Fig. 2 e 3).
Figura 2. Rapporto tra attivazione mezzo ALS ed accompagnamento (differenziata per esperienza e ponderata
in base al numero di schede missione).
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Area Nursing
master e 1-5aa
master e oltre 5aa
master e più di 10aa
esperienza 5-10aa
esperienza oltre 10aa
Figura 3. Percentuali conferme ALS da parte dell’infermiere (differenziata per esperienza e ponderata in base
al numero di schede missione).
Farmaci
Nella compilazione riguardante la somministrazione di farmaci è possibile inserire cinque somministrazioni. Dallo
studio sono state escluse tutte le somministrazioni di soluzione fisiologica endovenosa, successivamente si è tenuto
conto del numero di somministrazioni per ogni fascia del campione preso in considerazione. Gli infermieri con
master e meno di cinque anni di esperienza ricorrono fino alla quarta somministrazione rispetto ad un numero
di casi corrispondente a 113. Gli operatori con master e più di cinque anni di esperienza hanno somministrato
farmaci in 57 casi e sono arrivati solo alla prima somministrazione. Per quanto riguarda gli infermieri con master
e più di dieci anni di esperienza i casi contati sono 124 in cui in buona percentuale si arriva fino alla quinta
somministrazione (che corrisponde al 3,22% dei casi considerati). Gli infermieri senza master hanno apportato il
maggior numero dei casi considerati in cui vengono somministrati farmaci (491 per quelli con esperienza che va
dai cinque ai dieci anni e 1298 per quelli con più di dieci anni di esperienza) anche se solo in minima parte si
raggiunge la quinta somministrazione (rispettivamente 0,21% e 0,08%) (Fig. 4).
Limiti e criticità
I tempi di percorrenza per il trasporto del paziente in ospedale sono di breve durata, in media 7-10 minuti. La
tipologia dei pazienti soccorsi è molto disomogenea e quindi è difficile confrontare i trattamenti effettuati.
Conclusioni
All’interno delle unità assistenziali risiedono infermieri che hanno conseguito il titolo tramite percorsi formativi
differenti, si è passati dalla scuola regionale al percorso universitario, e a questo primo step di differenziazione
nei percorsi di formazione dobbiamo aggiungere un’altra quota di colleghi che ha frequentato dei Master di I°
livello o ha conseguito la Laurea Specialistica. Questa difformità nei percorsi formativi può determinare obiettivi
e aspettative che sono differenti tra le singole categorie dei professionisti. Il tutto si può riflettere nei risultati che
abbiamo analizzato ed alcune tra le cause che possono determinare resistenza al cambiamento sono: l’importazione, l’unione di due o più unità assistenziali, dove il personale ha competenze divese; l’innovazione, gap culturali al cambiamento da parte del pesonale; la differenziazione ideologica, dovuta a percorsi formativi differenti
o aspettative differenti.
Inoltre si può affermare che ciò che determina buone performance per un infermiere dell’emergenza è senza
dubbio il binomio “esperienza e formazione”, in quanto fornisce al professionista tutto ciò di cui ha bisogno. La
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Area Nursing
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Figura 4. Percentuali compilazione campo registrazione somministrazione farmaci (differenziata per esperienza).
sola formazione di base non è sufficiente a fornire al professionista sanitario tutte le competenze di cui necessita,
sarebbe auspicabile mantenere uno standard formativo specifico durante tutto l’arco della carriera lavorativa di
ogni infermiere. La maturazione di esperienza sul campo determina il consolidamento di tali competenze oltre che
l’acquisizione di una buona pratica, poiché completa il percorso formativo teorico.
Ciò che è stato descritto rappresenta una circoscritta indagine conoscitiva retrospettiva che già da sola è in grado
di fornire dati altamente indicativi circa l’efficacia della formazione post base. Sicuramente ulteriori studi prolungati e considerevoli di un campione più elevato ed eterogeneo darebbero forza a questa ipotesi. Magari cambiando
metodo, o proseguendo su questa strada, o cambiando schede, o aggiungendo parametri, ma indubbiamente,
in nome di tutto ciò che deve ancora cambiare e con uno sguardo volto a chi con le siringhe di vetro ha fatto la
differenza, a questo processo di continua analisi e verifica non può essere attribuita la parola fine.
Bibliografia
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Area Giovani
Un caso di abuso di paroxetina
Marco Barchetti*, Lucio Brugioni**, Cristina Gozzi**
* Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza, Ospedale di Sassuolo, Modena
** Medicina Interna Area Critica, Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena
Parole chiave: paroxetina, overdose, Hepatitis, suicide.
Introduzione
La paroxetina è un farmaco efficace per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo, dell’ansia generalizzata,
del disturbo post-traumatico da stress, della depressione maggiore. Appartiene al gruppo di farmaci che non
hanno effetti sul reuptake della noradrenalina o di altri neurotrasmettitori; rientra infatti tra gli inibitori selettivi del
reuptake della serotonina (SSRIs). Sono farmaci ampiamente utilizzati nella pratica clinica per il loro favorevole
profilo di sicurezza.
Caso clinico
Una donna di 37 anni giungeva in PS in seguito ad un tentato suicidio. Aveva infatti volontariamente ingerito 36
compresse di lorazepam (36 mg), 1 fiala da 20 ml di diazepam soluzione allo 0,5% (100 mg) e 1 fiala da 20
ml di paroxetina soluzione al 2% (400 mg). Aveva inoltre assunto anche alcool in notevole quantità (1 bottiglia
di whisky).
La paziente era stata inizialmente valutata dal 118 al domicilio ed il medico dell’ambulanza, a causa di uno stato
di coscienza ridotto, aveva somministrato 1 mg di flumazenil ev. Una volta giunta in PS la paziente si presentava
vigile e responsiva nonostante un eloquio rallentato. Affermò di avere assunto i farmaci circa 1 ora prima. Era in
terapia domiciliare con paroxetina 40 mg al giorno e lorazepam 3 mg die.
In PS veniva effettuata una lavanda gastrica; l’ECG non rilevava alterazioni dell’intervallo QT e gli esami bioumorali urgenti erano nella norma eccetto i valori di ALT. La paziente veniva quindi ricoverata in Medicina d’Urgenza
dove era sottoposta a monitoraggio continuo elettrocardiografico. Gli esami bioumorali della mattina seguente
mostravano valori di transaminasi molto alterati ALT 458 U/l (v.n. 1-40) e AST 382 (v.n. 1-37). Nei giorni successivi i valori continuarono a salire con un picco di AST in terza giornata (512 U/l) e di ALT in sesta giornata (827
U/l). In accordo con il Centro antiveleni di riferimento (CAV di Pavia) la paziente veniva trattata con N-acetilcisteina al dosaggio di 600 mg 3 volte al giorno. Continuò la terapia fino alla diminuzione delle transaminasi sotto il
valore di 200 U/l.
La bilirubina e gli altri indici di colestasi non risultarono mai alterati. La formula leucocitaria presentava una ipereosinofilia (10,8%). Durante la degenza la paziente veniva sottoposta ad un’ecografia addome completo che
risultava nei limiti di norma. I marker epatite erano negativi. Non fu effettuata una biopsia epatica. La paziente
non presentò mai dolore addominale nei giorni di ricovero e in anamnesi non aveva storia di potus. Dopo 9 giorni, stabilizzata dal punto di vista clinico, veniva trasferita nel reparto di psichiatria. Dopo 45 giorni, i valori di
transaminasi erano rientrati nei limiti di norma.
Discussione
La paroxetina è un antidepressivo ampiamente metabolizzato da 2 enzimi epatici tra cui il citocromo P 450
(CYP92D6) (10). In caso di overdose il farmaco è relativamente sicuro se paragonato agli antidepressivi triciclici
ed è raramente fatale se assunto dal solo (11); si ritiene che dosi fino a 3600 mg non siano mortali (12). L’assunzione di grandi quantità provoca tremori, sonnolenza, nausea e vomito; dosi molto elevate di SSRI possono
provocare convulsioni, modificazioni ECG, depressione dello stato di coscienza, flushing, mioclonie ed iperiflessia
(11,12,13,14,15,16).
La paroxetina provoca inoltre gravi epatiti acute autolimitantisi attraverso un meccanismo idiosincrasico
(1,2,3,4,5,6,7,8,). L’epatotossicità è anche associata ad un trattamento a lungo termine. Secondo la nostra espeItalian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
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rienza e anche in seguito ad una ricerca nella letteratura internazionale, questa è la prima descrizione di epatotossicità da paroxetina dovuta ad una overdose. Il danno epatico infatti nel caso sopra descritto, caratterizzato
da ipereosinofilia nella formula leucocitaria, è stato provocato da una overdose con progressivo e lento miglioramento dopo la sospensione del farmaco. La diminuzione del livello ematico degli indici di citolisi epatica è infatti
iniziato dopo 4 giorni dall’intossicazione acuta e solo dopo 45 giorni le transaminasi sono rientrate nei limiti di
norma. Questa osservazione associata al riscontro di ipereosinofilia ematica e alla negatività di altre cause di
danno epatico conferma l’ipotesi di tossicità epatica da paroxetina.
Conclusioni
L’epatotossicità con caratteristica di epatite eosinofila è un raro evento durante terapia con paroxetina. Può avvenire nel contesto di overdose come nel caso sopra descritto ma con una prognosi comunque favorevole. Il meccanismo di danno epatocellulare sembra essere un effetto idiosincrasico dose-dipendente. Il trattamento consiste
nella sospensione del farmaco. Il possibile effetto positivo nell’N-acetilcisteina non è documentato in letteratura.
Bibliografia
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Commento
a cura di Federica Stella
Medico in Formazione Specialistica Scuola di Specializzazione in Medicina di Emergenza-Urgenza, Università degli
Studi di Padova
Il caso clinico presentato dai colleghi di Modena ci permette di mettere a fuoco un argomento di frequente riscontro nella pratica clinica: l’intossicazione, volontaria o accidentale, da inibitori selettivi del re-uptake della serotonina (SSRIs). Gli SSRIs sono farmaci di largo utilizzo per il trattamento iniziale della depressione lieve o moderata,
del disturbo d’ansia o ossessivo-compulsivo, ed hanno avuto un utilizzo sempre più estensivo alla luce del numero
ridotto di effetti collaterali rispetto ad altri farmaci antidepressivi usati in precedenza, come i triciclici.
I sintomi che vengono riscontrati in corso di sovradosaggio sono solitamente lievi e includono vomito, sonnolenza
lieve reversibile con lo stimolo vocale, midriasi e sudorazione. La sintomatologia maggiore è invece caratterizzata
da severo stato soporoso, convulsioni ed alterazioni ECGrafiche con allungamento del QT, fino ad arrivare alla
sindrome serotoninergica, caratterizzata dalla coesistenza di alterato stato di coscienza, convulsioni, sindrome
extrapiramidale con rigidità muscolare ed ipertermia, sino ad arrivare talvolta al decesso.
Ma come ci si può orientare nella gestione del paziente con intossicazione da SSRIs? Che indicazioni troviamo in
letteratura per stratificare il rischio di un paziente che si rivolge ad un sistema di emergenza pre-ospedaliero o di
primo soccorso? Quali parametri devono essere tenuti in considerazione per identificare pazienti a maggior rischio
di sviluppo di effetti da sovradosaggio? Come puntualmente i colleghi ci fanno notare, riferirsi sempre per una consulenza specialistica al Centro Anti-Veleni (CAV) di competenza rappresenta un passaggio iniziale fondamentale per
la gestione delle intossicazioni, per ottenere indicazioni dettagliate sulla terapia più opportuna ed il monitoraggio
clinico e bioumorale più adeguato da adottare. Oltre alle indicazioni del CAV di riferimento, però, l’associazione
americana dei centri antiveleno (American Association of Poison Control Centers) ha sviluppato delle linee guida pratiche di estremo interesse per il medico d’urgenza, e che meritano senza dubbio una attenta lettura (1). Riassumendo
i concetti principali che vengono messi in evidenza, ci viene segnalato come i pazienti che meritano maggiori attenzioni ed un controllo più approfondito in Pronto Soccorso con eventuale monitoraggio clinico e bioumorale sono:
• tutti i pazienti con intossicazione a scopo suicidiario o abuso intenzionale;
• tutti i pazienti che presentino sintomatologia al di fuori dei sintomi lievi (vomito, lieve sonnolenza, midriasi e
sudorazione);
• tutti i pazienti asintomatici che hanno assunto incidentalmente una dose maggiore a cinque volte il dosaggio
giornaliero terapeutico.
Per i pazienti che si ritiene quindi non necessitino controllo e monitoraggio ospedaliero, i colleghi americani suggeriscono comunque un follow-up telefonico ad otto ore dall’ingestione, il controllo clinico da parte di un familiare,
ed una eventuale terapia domiciliare con carbone attivo.
Nella gestione del paziente con intossicazione da SSRIs è inoltre importante ricordare che vi è un aumento della
tossicità in caso di assunzione contemporanea di farmaci metabilizzati dallo stesso citocromo epatico (CYP2D6),
quali ad esempio gli inibitori della monoamino-ossidasi, il litio, il clonazepam e l’Ecstasy (MDMA). Un’attenta
anamnesi farmacologica può essere quindi fondamentale per valutare correttamente la probabilità di insorgenza
di complicanze maggiori (2,3,4).
Infine è importante ricordare il potenziale teratogeno del farmaco. È stato dimostrato che la paroxetina è associata
ad un aumentato rischio di alterazioni a carico del tratto di efflusso del ventricolo destro, quindi qualora si presenti
una giovane donna con assunzione di SSRIs, può essere valutata l’opportunità di eseguire un test di gravidanza (5).
Take home message del caso clinico
1. Riferirsi sempre ad un Centro Anti-Veleni per indicazioni specialistiche nella gestione delle intossicazioni, focalizzando sulle possibili complicanze precoci e tardive che potrebbero insorgere.
2. Tenere a mente i parametri che permettono di individuare i pazienti potenzialmente a maggior rischio può
aiutare nella gestione in emergenza delle intossicazioni da SSRIs.
3. L’assunzione contemporanea di farmaci che inibiscono l’attività del CYP2D6 può precipitare una crisi serotoninergica anche con assunzioni di SSRIs ridotte.
4. Ricordare che gli SSRIs hanno un potenziale teratogeno sul feto, quindi un test di gravidanza nella donna in
età fertile con intossicazione da SSRIs può essere indicato.
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Utilizzo dell’endoscopia digestiva in un caso di intossicazione da
magnesio valproato
Stefania Magon*, Daniela Lombardini**, Sossio Serra**
* Scuola di Specializzazione in Medicina Interna - Dipartimento di Scienze Mediche, Arcispedale Sant’Anna,
Cona (Ferrara)
** Pronto Soccorso - Medicina d’Urgenza, Ospedale M. Bufalini, Cesena
Case report
We describe a case of a suicidal intention in a 28 years old man admitted in the ED after major ingestion of
magnesium valproate and sertraline. After gastric lavage there were no obvious signs of tablet retrieval and after 2
hours from ingestion gastroscopy was carried out to remove the remaining tablets. This inbound sinus tachycardia
resolved completely after 4 hours from gastroscopy without top levels of valproatemia. The clinical course in this
case suggests that tablet removal by gastroscopy should be considered in selected cases of drug poisoning.
Keywords: magnesium valproate, sertraline, poisoning, gastric lavage, gastroscopy.
Parole chiave: magnesio valproato, sertralina, intossicazione, lavanda gastrica, EGDS.
Giunge presso il Pronto Soccorso (Ospedale Bufalini, Cesena), accompagnato dalla sorella, un paziente di 28
anni di nazionalità cinese che ha assunto, a scopo autolesivo, circa 80 minuti prima, 37 compresse di magnesio
valproato da 0.2 gr ciascuna (per un totale di 7.4 gr) e dubbia assunzione di altro farmaco non specificato (informazioni limitate anche dalla presenza di barriera linguistica). Ad una prima valutazione appare vigile (GCS 15)
e collaborante, i parametri vitali risultano stabili, si riscontra al monitor presenza di tachicardia sinusale (Fc 150
bpm) in assenza di ulteriori alterazioni elettrocardiografiche significative. Si procede a gastrolusi con emissione
difficoltosa di compresse semiformate frammiste a residui di cibo (ultimo pasto riferito circa 14 ore prima). Contattato il Centro Antiveleni di Pavia vengono date indicazioni specifiche: controllo della funzionalità epatica nel
tempo con dosaggio dell’ammoniemia, somministrazione di bicarbonato di sodio (2-3 mEq/kg) in caso di comparsa di aritmie maligne con target emogasanalitico di pH 7.5, idratazione con soluzione fisiologica ed esecuzione
in urgenza di EGDS finalizzata alla rimozione di eventuali farmacobezoari. Entro due ore dall’ingestione viene
eseguita indagine endoscopica, previa sedazione con midazolam, e recuperate con retino un numero cospicuo di
compresse semiformate frammiste a residui di cibo.
Si procede quindi a ricovero c/o UO di Medicina d’Urgenza. Dopo più approfondito colloquio con la sorella si
desumono altri dati di rilievo: oltre all’acido valproico risulta assunzione di 28 cp di sertralina da 50 mg ciascuna
(per un totale di 1.4 gr). In anamnesi il paziente presenta pregresse coliche renali recidivanti e sindrome depressiva da circa 5 anni in trattamento con magnesio valproato (600 mg/die) e sertralina (100 mg/die). Coniugato
con figli, vive presso domicilio proprio in totale autonomia funzionale, tabagista, con anamnesi fisiologica priva di
elementi di rilievo. Alla valutazione in ingresso (ore 16.30) appare soporoso ma facilmente risvegliabile (recente
sedazione per esecuzione di indagine endoscopica), stabile emodinamicamente, obiettività neurologica, polmonare ed addominale nei limiti di norma, permane tachicardia sinusale (140 bpm). Dopo posizionamento di SNG
si procede a somministrazione di 30 gr carbone attivo e solfato di magnesio. Dopo circa 7 ore dall’accesso in PS
si ricontatta il CAV di Pavia con indicazione a somministrazione di catartico oltre a continuo monitoraggio elettrocardiografico e laboratoristico. Il paziente nelle ore successive si è sempre mantenuto stabile, vigile e collaborante; si è assistito inoltre ad una progressiva risoluzione della tachicardia sinusale in assenza di incremento della
valproatemia a dosaggi tossici (max 125 mg/l) e di alterazione degli indici di funzionalità epatica e pancreatica.
In terza giornata dopo consulenza psichiatrica accetta ricovero presso SPDC di competenza per la prosecuzione
delle cure del caso.
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Conclusione
Nonostante con la lavanda gastrica eseguita in PS si siano rilevate solo tracce di compresse, l’EGDS fatta a due
ore dall’ingestione ha rilevato e rimosso i farmacobezoari presenti a livello gastrico contribuendo ad evitare l’incremento della valproatemia e dei sui potenziali effetti tossici.
Discussione
L’approccio al paziente con intossicazione ha i suoi cardini fondamentali nel supporto delle funzioni vitali, nella
prevenzione dell’assorbimento della sostanza tossica (decontaminazione), nell’aumento della eliminazione della
sua quota biodisponibile ed infine nell’antagonismo o quanto meno riduzione dell’azione sistemica del tossico
(antidotismo). Nel paziente con intossicazione secondaria ad assunzione di compresse assume particolare rilievo
la decontaminazione gastrica. Non esistono al momento linee guida ufficiali sull’argomento, ma disponiamo di
alcune position statement redatte dalle più importanti società scientifiche internazionali (American Academy of
Clinical Toxicology, AACT, European Association of Poisons Centres and Clinical Toxicologists, EAPCCT) che ci
forniscono norme di indirizzo da adoperare ai fini pratici (e non con valenza medico-legale). La lavanda gastrica
è indicata solo in caso di assunzione di quantità di tossici potenzialmente rischiosi per la vita, andrebbe eseguita
entro un’ora dall’ingestione, non va effettuata come terapia routinaria del paziente intossicato e ne vanno sempre
considerate le complicanze (lesioni gastroesofagee, polmoniti da aspirazione, laringospasmo, disionie) e controindicazioni (pazienti con GCS bassi e non in grado di proteggere le vie aeree, ingestione di sostanze irritanti, schiumogeni, caustici). Il Carbone attivato (1-2 g/Kg) andrebbe somministrato entro un’ora dall’ingestione di tossici (è
inutile la sua somministrazione se il tossico non viene assorbito come nel caso di ferro, glicole etilenico, metanolo,
litio), presenta anche esso diverse controindicazioni (rischio di ab ingestis in caso di pazienti comatosi e rischio di
perforazione gastrica in caso di coassunzione di caustici/irritanti) che vanno sempre attentamente ponderate. Di
ausilio, inoltre, possono essere l’induzione del vomito, specie in età pediatrica, mediante la somministrazione di
sciroppo di percacuana, nonché la somministrazione di catartici per accelerare il transito intestinale del complesso
carbone attivato-tossico. Da ricordare però che gli statement position dell’AACT/EAPCCT non raccomandano queste tecniche come routinarie. Studi clinici hanno dimostrato che la quantità di sostanze che possono essere rimosse
con le tecniche di depurazione gastrica è assai variabile e dipendente da diversi fattori tra cui le caratteristiche
della sostanza, la sua formulazione, il tempo dall’assunzione, la dose assunta. La formulazione di agglomerati
di compresse (farmacobezoari) può rappresentare un fattore limitante l’efficacia dello svuotamento gastrico quali
l’emesi e la lavanda gastrica. Talvolta le compresse possono aderire alla mucosa gastrica e le tecniche di decontaminazione tradizionali possono risultare inefficaci. In questi casi l’esecuzione di una Rx addome diretto può
esser utile nell’identificazione di macroaggregati di compresse. In alcuni casi può essere presa in considerazione
la rimozione meccanica mediante esofago-gastro-duodenoscopia (EGDS). In letteratura non esistono studi mirati
relativi all’uso della EGDS nei pazienti intossicati. Saeki et al. hanno descritto un caso di tentato suicidio con ingestione di 50 compresse di teofillina a lento rilascio, la lavanda gastrica non era riuscita a rmuovere le compresse
evidenziate con la diagnostica radiologica, l’EGDS, eseguita a più di 3 ore dall’ingestione, ha evidenziato 31
compresse che sono state rimosse nella stessa seduta endoscopica. Un ulteriore caso di farmacobezoario successivo ad intossicazione volontaria di venlafaxina risolto dopo rimozione delle compresse mediante EGDS viene
descritto da Djogovic et al. Altri due casi di utilizzo della endoscopia digestiva per la rimozione di un farmacobezoario da overdose di clorimipramina vengono riportati da Hojer e Personne. In uno dei due casi l’EGDS è stata
esguita con una latenza di più di 5 ore dall’assunzione. Schwerk et al. riportano un caso di assunzione a scopo
anticonservativo di etilefrina in una giovane adolescente, dopo il fallimento della decontaminazione gastrica con
gastrolusi, l’EGDS ha evidenziato e rimosso numerose compresse contribuendo alla risoluzione del quadro di
intossicazione. Gli autori dei casi citati mettono in evidenza come l’EGDS dovrebbe essere considerata in caso di
ingestione di compresse quando il trattamento con carbone attivo o la lavanda gastrica non riescono ad eliminare
le sostanze tossiche.
La nostra esperienza non si discosta da quelle riportate in letteratura e mette in evidenza come anche a distanza
di ore dall’ingestione l’EGDS possa rilevarsi utile alla rimozione di compresse evitando l’insorgenza degli effetti
tossici dello xenobiota.
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Commento
a cura di Isabella Di Zio
Dirigente Medico I livello DEA San Benedetto del Tronto (AP)
Gli avvelenamenti e la tossicologia in generale rappresentano da sempre una branca avvincente della Medicina
d’Urgenza; basti solo pensare che la gastrolusi è una procedura utilizzata da oltre 200 anni.
Il primo aggiornamento del documento di posizione lavanda gastrica 1997 è stato pubblicato dalla American
Academy of Clinical Toxicology. Una analisi sistematica della letteratura dal gennaio 2003 al marzo 2011 ha
prodotto alcuni dati che riguardano direttamente l’utilità della lavanda gastrica nel trattamento di pazienti avvelenati, con una revisione di sessantanove di essi. Al momento non ci sono prove che dimostrano che la lavanda
gastrica dovrebbe essere utilizzata di routine nella gestione di avvelenamenti (1). Pubblicazioni recenti continuano
a mostrare che la lavanda gastrica può essere associata a gravi complicazioni quali laringospasmo, aritmie, perforazioni esofagee o gastriche e soprattutto la polmonite da aspirazione.
Diversi studi hanno proposto l’utilizzo della esofago-gastro-duodenoscopia (EGD) ultrasottile (endoscopio di 4.9
mm) per via trans nasale nelle intossicazioni per esaminare il tratto gastrointestinale superiore. Questa procedura
non richiede sedazione e non influisce sui segni vitali del paziente. L’EGD può aumentare le indicazioni, l’efficienza e la sicurezza della lavanda gastrica nei pazienti con intossicazione (2), sia nei conglomerati di farmaci (3)
come indicato da questo interessante case report che nelle forme solubili, prevenendo le complicanze gastrolusirelate (4) e verificando “real time” l’efficacia della stessa.
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Utilità dell’ecografia integrata in Pronto Soccorso in un caso di dispnea
acuta
Ilaria Francesca Martino, Serena Marra, Giulia Statti, Fabiana Fancoli, Simona Negri, Barbara
Katia Guglielmana, Maria Antonietta Bressan
UO di Pronto Soccorso-Accettazione, IRCCS Policlinico S.Matteo di Pavia
Parole chiave: Linee B, sliding pleurico, broncogramma aereo statico e dinamico, ARDS, endocardite batterica.
Uomo caucasico di 75 anni giunge al Pronto Soccorso in modalità di autopresentazione per dispnea ingravescente presente da circa tre ore. Nega febbre nei giorni precedenti. In anamnesi: ex tabagismo, broncopneumopatia
cronica ostruttiva (BPCO) di grado moderato, cardiopatia ipertensiva con insufficienza mitralica lieve e fibrillazione atriale permanente. In terapia con antiipertensivo e broncodilatore topico. Al paziente viene attribuito codice
giallo ed entra direttamente in sala visita.
All’esame obiettivo: si presenta marcatamente dispnoico con atteggiamento eretistico, attivazione dei muscoli
respiratori accessori e marezzature diffuse. Temperatura corporea 37.2°C. Al torace MV marcatamente e diffusamente indebolito con alcuni sibili espiratori soprattutto ai quadranti inferiori di destra. Al cuore toni tachiaritmici
(FC 120 bpm), soffio sistolico 2/6 ubiquitario. Addome globoso per adipe, trattabile. Lieve succulenza pretibiale.
All’EGA acidosi respiratoria con marcata ipossia (pH 7.3, pO2 44 mmHg e pCO2 38 mmHg, lattati 2.7, non
disionie). All’ECG: fibrillazione atriale ad alta frequenza (120 bpm) con anomalie diffuse della ripolarizzazione.
L’RX torace mostra rinforzo diffuso della trama ilo-perilare con disventilazione basale dx e reazione pleurica consensuale. In considerazione dell’impegno respiratorio e nel sospetto che si tratti di una riacutizzazione della nota
BPCO, si decide di somministrare metilprednisolone 40 mg ev, antibiotico ed aerosolterapia con broncodilatatore.
Non appena possibile, si esegue ecotorace che mostra un quadro diffuso e disomogeneo di linee B prevalenti in
campo medio basale a destra, dove si rilevano anche broncogrammi aerei dinamici e statici, irregolarità della
linea pleurica con sliding conservato e minima falda di versamento pleurico. Quadro ecografico polmonare compatibile con ARDS.
In considerazione del peggioramento delle condizioni cliniche e della scarsa risposta alla terapia, si decide di
posizionare C-PAP con FiO2 a 60% e PEEP a 7.5 mmHg e iniziare idratazione (Ringer Acetato 1000 cc). Dal
catetere vescicale fuoriuscita di pochi cc di urine ipercromiche.
Dopo circa 1 ora di trattamento con C-PAP, le condizioni cliniche del paziente non migliorano e la diuresi rimane
contratta a circa 50 cc di urine. Nel frattempo si approfondisce l’indagine ecografica con ecografia integrata: la
vena cava inferiore appare di piccolo calibro, collassabile e l’ecocardiogramma evidenzia apposizione iperecogena flottante a livello mitralico tale da compromettere la funzione della valvola stessa. Nel frattempo agli esami
ematochimici si evidenzia marcata leucocitosi neutrofila (GB 26 x 10°3/ul di cui l’83% neutrofili). Dopo circa
un’ora e mezza di C-PAP e idratazione ev (con altri 1000 cc di cristalloidi) si assisteva a miglioramento dell’impegno respiratorio e ripresa della diuresi. Al secondo EGA normalizzazione del pH, normocapnia e riduzione dei
lattati.
Diagnosi finale: sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) con polmonite basale destra e insufficienza mitralica acuta secondaria a endocardite batterica.
Il paziente viene ricoverato in Rianimazione dove la diagnosi verrà confermata.
Questo caso clinico conferma, come già dimostrato in letteratura, l’estrema utilità dell’ecografia soprattutto in
Pronto Soccorso dove si opera in condizioni critiche su pazienti instabili. In questi casi la rapidità e la correttezza
della diagnosi sono fondamentali per l’adeguata gestione del paziente. L’ecografia del torace consente, grazie
all’identificazione delle linee B, una rapida distinzione tra dispnea cardiogena e non cardiogena e questo ha
immediati e comprensibili risvolti pratici sulla terapia da attuare in urgenza. L’integrazione dell’ecografia polmonare con la valutazione della collassabilità della vena cava inferiore e l’ecografia cardiaca migliora sensibilmente
l’accuratezza diagnostica del medico dell’urgenza. In questo caso solo grazie all’approccio ecografico integrato è
stato possibile giungere ad una diagnosi corretta in rapidi tempi. Senza l’ecografia integrata la diagnosi sarebbe
stata sicuramente più tardiva con inevitabili conseguenze sulla gestione del paziente e sull’outcome stesso.
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Area Giovani
Bibliografia
1. Lichtenstein D, Meziere G. Rilevance of lung ultrasound in the diagnosis of acute respiratory failur: the BLUE protocol.
Chest 2008; 134: 117-125.
2. Volpicelli G, Cardinale L, Garofalo G, Veltri A. Usefulness of lung ultrasound in the bedside distinction between pulmonary edema and exacerbation of COPD. Emerg Radiol 2008; 15: 145-151.
3. Cibinel GA, Casoli G, Elia F, Padoan M, Pivetta E, Lupia E, Goffi A. Diagnostic accurancy and reproducibility of
pleural and lung ultrasound in discriminating causes of acute dyspnea in the emergency department. Intern Emerg
Med 2012 Feb; 7(1): 65-70. doi: 10.1007/s11739-011-0709-1. Epub 2011 Oct 28.
4. Volpicelli G, Silva F, Radeos M. Real-time lung ultrasound for the diagnosis of alveolar consolidation and interstitial
syndrome in the emergency department. Eur J Emerg Med 2010 Apr; 17(2): 63-72.
5. Volpicelli G, Elbarbary M, Blaivas M, Lichtenstein DA et al. International Liaison Committee on Lung Ultrasound
(ILC- LUS) for International Consensus Conference on Lung Ultrasound (ICC-LUS). International evidence-based recommendations for point-of-care lung ultrasound. Intensive Care Med 2012 Apr; 38(4): 577-91. doi: 10.1007/
s00134-012-2513-4. Epub 2012 Mar 6.
6. Copetti R, Soldati G, Copetti P. Chest sonography: a useful tool to differentiate acute cardiogenic pulmonary edema
from acute respiratory distress syndrome. Cardiovasc Ultrasound 2008; 6: 16-25.
Commento
a cura di Sossio Serra
Dirigente Medico Medicina d’Urgenza-Pronto Soccorso, Ospedale “M. Bufalini” di Cesena
Il fonendoscopio del futuro
L’ecografia rappresenta ormai uno strumento essenziale per la pratica clinica del medico d’urgenza, in modo
particolare l’ultrasonografia toracica è una delle grosse novità della diagnostica d’urgenza e viene indicata tra le
principali applicazioni ecografiche nel Policy Statement dell’American College of Emergency Physicians.
La tecnica è nata tra lo scetticismo di chi riteneva che il contenuto aereo del polmone avrebbe reso impossibile
l’uso degli ultrasuoni generando solo degli artefatti, tuttavia negli ultimi anni si è compreso che la corretta interpretazione della dinamica e variabilità dei pattern ecografici artefattuali può fornire alla metodica grandi potenzialità
diagnostiche, tanto che è divenuta parte integrante di diversi protocolli ecografici adoperati in urgenza (BLUEprotocol, RUSH-exam, Extended-FAST). In questa affermazione della metodica gli intensivisti ed i medici d’urgenza
hanno giocato un ruolo rilevante e basta un rapido sguardo alla letteratura scientifica degli ultimi anni per rendersi
conto dell’importanza dell’ecografia toracica nel setting dell’emergenza-urgenza.
L’ecografia del torace si è dimostrata un valido strumento per la diagnosi di pneumotorace, con un’accuratezza
diagnostica superiore a quella della radiologia tradizionale. In modo particolare nel paziente con trauma toracico
l’ecografia ha dimostrato una specificità ed una sensibilità prossime al 100%, tanto che nel 2004 viene proposta
un’ulteriore estensione della FAST (Focused Assessment with Sonography in Trauma), finalizzata anche alla ricerca
dello pneumotorace (PNX) e l’esame ecografico diviene Extended FAST (EFAST).
Nel versamento pleurico l’ecografia raggiunge un livello di accuratezza del 93-96% e riesce ad evidenziare
quantità di fluido pleurico anche solo di 20 ml, mentre la radiografia toracica da supini non scende sotto i 175 ml.
Il riconoscimento degli artefatti da riverbero verticali, comunemente chiamate linee B o comete ultrasoniche polmonari, ha mostrato una sensibilità ed una specificità rispettivamente superiori all’85 e 95% nel riconoscimento
delle sindromi interstiziali polmonari. L’eco toracica ha una sensibilità del 100% ed una specificità del 92% nella
diagnosi differenziale fra edema polmonare acuto e BPCO.
L’ecografia toracica, pur con alcuni limiti, si è dimostrata strumento affidabile e non invasivo per la diagnosi di
consolidamento polmonare (polmoniti, atelettasie, contusioni polmonari) anche e soprattutto nei pazienti critici con
sensibilità e specificità dal 90 al 98%.
L’ecografia può essere estesa anche alle strutture ossee della gabbia toracica permettendo la diagnosi di fratture
sternali e costali con un’ottima accuratezza.
Altro grande vantaggio dell’ecografia toracica è quello di essere biologicamente innocua, a basso costo, facilItalian Journal of Emergency Medicine - Gennaio 2014
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mente e prontamente disponibile al letto del paziente, ripetibile più volte in modo da consentire il monitoraggio
delle condizioni rilevate real time.
La procedura, ormai ben standardizzata, si basa sulla ricerca di segni ecografici semplici e riproducibili, ha una
curva di apprendimento relativamente rapida e si può eseguire praticamente su quasi ogni tipo di ecografo. In
Italia sono attivi diversi corsi di formazione in Ecografia Polmonare tenuti da diverse società scientifiche (SIMEU,
WINFOCUS) che ci sentiamo vivamente di consigliare insieme alla lettura di alcuni testi che riportiamo tra le letture
consigliate.
Take home message del caso clinico
1. Nel paziente politraumatizzato estendere sempre al torace la valutazione ecografica FAST dell’addome (alla
ricerca di pneumotorace, emotorace, aree contusive polmonari, fratture sternali e/o costali).
2. Nel paziente con dispnea acuta l’ecografia toracica può rilevarsi una preziosissima arma diagnostica, specialmente quando viene integrata con la valutazione ecografica della vena cava inferiore e con l’ecoscopia
cardiaca.
3. L’eco toracica è essenziale per l’applicazione di protocolli ecografici integrati per il paziente critico in stato di
shock, con ipotensione inspiegata e/o dispena acuta (RUSCH exam, BLUE protocol).
4. L’ecografia toracica può essere adoperata per il monitoraggio del versamento pleurico e degli addensamenti
polmonari contribuendo a ridurre sensibilimente gli esami radiologici.
Bibliografia
1. American College of Emergency Physicians. Emergency Ultrasound Guidelines Policy Statement 2008.
2. Lichtenstein D, Meziere G. A lung ultrasound sign allowing bedside distinction between pulmonary edema and
COPD: the comet-tail artifact. Intensive Car Med 1998; 24 (12): 1331-34.
3. Wilkerson RG, Stone MB. Sensitivity of bedside ultrasound and supine anteroposterior chest radiographs for the
identification of pneumothorax after blunt Trauma. Acad Emerg Med 2010; 17: 11-17.
4. Kirkpatrick AW, Sirois M, Laupland KB et al. Hand-held thoracic sonography for detecting post-traumatic pneumothoraces: the Extended Focused Assessment with Sonography for Trauma (EFAST). J Trauma 2004; 57(2): 288-295.
5. Soldati G, Testa A, Sher S et al. Occult traumatic pneumothorax: diagnostic accuracy of lung ultrasonography in the
Emergency Department. Chest 2008; 133: 204-211.
6. Hwang JQ, Kimberly HH, Liteplo AS, Sajed D. An evidence-based approach to emergency ultrasound. Emerg Med
Pract 2011 Mar; 13(3): 1-27.
7. Volpicelli G, Mussa A, Garofalo G. Bedside lung ultrasound in the assessment of alveolar-interstitial syndrome. Am J
Emerg Med 2006; 24: 689-696.
8. Lichtenstein D, Lascols N, Mezière G. Ultrasound diagnosis of alveolar consolidation in the critically ill. Intensive
Care Med 2004; 30: 276-281.
9. Volpicelli G, Silva F, Radeos M. Real-time lung ultrasound for the diagnosis of alveolar consolidation and interstitial
syndrome in the Emergency Department. Eur J Emerg Med 2010; 17: 63-72.
10. You JS, Chung YE, Kim D, Park S, Chung SP. Role of sonography in the emergency room to diagnose sternal fractures.
J Clin Ultrasound 2010 Mar-Apr; 38(3): 135-7.
11. Chan SS. Emergency bedside ultrasound for the diagnosis of rib fractures. Am J Emerg Med 2009 Jun; 27(5): 617-20.
12. Perera P et al. The RUSH Exam: rapid ultrasound in shock in the evaluation of the critically ill. Emerg Med Clin N Am
2010; 28: 29-56.
13. Lichtenstein D, Mezière G. Relevance of lung ultrasound in the diagnosis of acute respiratory failure. the BLUE Protocol. Chest 2008; 134: 117-125.
Letture consigliate
1. Soldati G, Copetti R. Ecografia toracica. CG Edizioni Medico Scientifiche, Torino, 2012.
2. Feletti F, Gardelli G, Mughetti M. Ecografia Toracica. Ed. Athena Medica, Modena, 2009.
3. Magnacavallo A et al. L’ecografia polmonare nel dipartimento di emergenza-urgenza. In: Di Battista N et al. La
ventilazione meccanica non invasiva per il medico in d’urgenza. CG Edizioni Medico Scientifiche, Torino, 2010.
4. Soldati G. Patologie acute toraco-polmonari. In: Scuderi M. Ecografia clinica nelle urgenze emergenze. Ed. Minerva
Medica, Torino, 2008.
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Letteratura in Urgenza
Does Non-invasive Ventilation Have a Role in Chest Trauma Patients?
Hua A et al. Annals of Emergency Medicine 2014; in press, online first
Ecco un’altra delle “Systematic Review Snapshot” di Annals of Emergency Medicine nelle quali alcune questioni
particolarmente controverse in Medicina d’Urgenza sono affrontate secondo lo schema: specifica domanda –
analisi e sintesi della letteratura allo stato dell’arte – risposta netta (NB: sempre nella stessa “collana” è compreso
l’articolo sotto citato sull’impiego degli antibiotici nella diverticolite non complicata).
Se ne conclude qui che la ventilazione non-invasiva (NIV) nel trauma toracico sia in grado di ridurre il ricorso
all’intubazione tracheale e la mortalità.
Sono stati contemplati nell’analisi 10 studi (per un totale di 368 pazienti), 5 dei quali (per 219 casi) presentano
i dati sulla mortalità. Il gruppo NIV ha mostrato un tasso di mortalità del 3.0% rispetto al 22.9% del gruppo di
controllo non-NIV (rappresentato sia dai pazienti intubati che da quelli trattati con ossigenoterapia convenzionale).
La NIV si è inoltre associata ad un inferiore tasso di intubazione, una riduzione complessiva delle complicanze,
ed un minore tempo di permanenza in Unità di Terapia Intensiva.
L’efficacia della NIV pare indipendente dalla modalità prescelta (pressione positiva continua versus doppio livello
di pressione positiva), con miglioramento degli scambi gassosi e del livello di ossigenazione, e senza che si sia
riscontrato un aumento di incidenza di pneumotorace.
Tra i limiti evidenziati, alcuni vanno di certo sottolineati: in nessuno degli studi è stabilito un criterio oggettivo
per intraprendere la NIV o meno; è naturale che i pazienti con rilevante alterazione del sensorio o un grado più
severo di insufficienza respiratoria siano stati esclusi dall’opportunità di intraprendere la NIV, il che significa che
i casi intubati sin dall’inizio rappresentano un sottogruppo a maggiore criticità con prevedibile maggiore tasso di
mortalità.
Alcune questioni restano aperte per l’utilizzo routinario della NIV nel trauma toracico, in particolare la necessità
di definire meglio i criteri di selezione e la tempistica di intervento, così come i fattori predittivi di successo e fallimento.
Lactate Clearance for Assessing Response to Resuscitation in Severe
Sepsis. Jones AE. Academic Emergency Medicine 2013; 20(8): 844-847
Abbiamo imparato che, nell’ambito della sepsi severa, la terapia precoce di “risuscitazione” con uno specifico
obiettivo “quantitativo” è in grado di ridurre la mortalità. La Surviving Sepsis Campaign (NEJM 2001; 345: 1368)
raccomanda in tal senso di fare riferimento a pressione venosa centrale, pressione arteriosa media, escrezione
urinaria e saturazione venosa centrale in ossigeno (ScvO2) come obiettivi oggettivabili del trattamento. Numerosi
studi hanno però poi dimostrato come nel Dipartimento di Emergenza vi siano diversi ostacoli all’applicazione e
alla diffusione del protocollo di risuscitazione quantitativa nello shock settico; di conseguenza da allora molti autori hanno cercato di identificare altri criteri ed obiettivi meno invasivi come indicatori surrogati dell’adeguatezza
della risuscitazione stessa.
Questo articolo affronta il rapporto tra lattati e ScvO2, ed in particolare i pregi e difetti dell’utilizzo dei primi in
sostituzione della seconda.
Il valore iniziale dei lattati nella sepsi possiede un significato prognostico importante, correlando con un esito
infausto; allo stesso modo la clearance precoce dei lattati (cioè una riduzione del 10-20% a circa 2 ore dall’inizio
del trattamento) è associata a buon esito in termini di minore mortalità. È quindi possibile considerare la clearance
dei lattati come marcatore surrogato dell’adeguatezza della risuscitazione nella sepsi severa, ed adottarla come
obiettivo della risuscitazione stessa.
Anche sul piano fisiopatologico l’andamento dei lattati pare preferibile rispetto alle variabili derivate relative alla
ScvO2. I lattati, ed i loro parametri derivati, sono più direttamente correlati all’omeostasi complessiva dell’organismo e ai suoi processi metabolici, la clearance dei lattati è strettamente associata all’andamento dei marcatori
di infiammazione e di disfunzione d’organo, e in conclusione è in grado di fornire indicazioni più significative
riguardo all’adeguatezza del processo di risuscitazione. Al contrario la ScvO2 garantisce indicazioni per lo più
limitate al rapporto tra domanda e offerta di O2. Inoltre l’iperossia venosa (ScvO2 >89%) si riscontra in più di
un terzo dei casi di shock settico, è associata ad un aumento della mortalità tanto da risultare prognosticamente
peggiore rispetto all’ipossia venosa (ScvO2 <70%).
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Letteratura in Urgenza
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In sostanza, fornisce risultati migliori il fare riferimento ad entrambi, sia ScvO2 che lattati, ma dovendo scegliere
uno dei due, la clearance dei lattati si fa nettamente preferire.
Non vanno però dimenticati alcuni limiti: il 20-30% dei soggetti con shock settico si presenta con lattati <2 mmol/l,
ed in questi casi la valutazione della clearance dei lattati perde di validità e significato; inoltre la misurazione dei
lattati può essere condizionata da numerosi fattori di non infrequente riscontro quali l’utilizzo del ringer lattato, la
presenza di cirrosi epatica, l’uso di metformina, il ricorso a trasfusioni massive di globuli rossi concentrati.
Are Antibiotics Required for the Treatment of Uncomplicated Diverticulitis?
Smolarz CM et al. Annals of Emergency Medicine 2014; 63: 52
Sintetica review che solleva una questione tuttora irrisolta. Partiamo dalla conclusione: dati estremamente limitati
(nell’analisi finale della letteratura è stato incluso un solo trial clinico randomizzato degno di nota) indicano come
il ricorso agli antibiotici non sia superiore al placebo nel trattamento della diverticolite non complicata.
Il problema è assolutamente rilevante: la malattia diverticolare riguarda un terzo dei soggetti di età superiore ai
60 anni, ed oltre la metà degli individui di oltre 85 anni. Spesso nella diverticolite acuta non complicata si ricorre
alla combinazione orale tra ciprofloxacina e metronidazolo; i casi più severi sono usualmente trattati in regime
di ricovero ospedaliero, con antibiotici ev, digiuno e provvedimenti chirurgici in caso di ascessualizzazione o
perforazione.
Come detto, i dati sono troppo scarsi perché ne scaturisca una reale raccomandazione; il consiglio degli autori è
che, in mancanza di indicazioni specifiche, ognuno proceda seguendo il proprio giudizio clinico, l’esperienza,
ed i protocolli e gli standard condivisi localmente.
Riassunto, recensione e commento a cura di Rodolfo Ferrari. Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso. Policlinico
Sant’Orsola – Malpighi. Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna.
Venous Thromboembolism in Patients With Chronic Obstructive
Pulmonary Disease. Piazza G, Goldhaber SZ, Kroll A, Goldberg RJ,
Emery C, Spencer FA. Am J Med 2012; 125: 1010-8
Studio su 2.488 pazienti con tromboembolismo venoso, di cui 484 (il 19,5%) avevano diagnosi di BPCO. Tra
i pazienti con malattia polmonare cronica ostruttiva si è avuta una maggiore mortalità sia in ospedale (con una
percentuale di decessi del 6,8% rispetto al 4%) e a 30 gg dalla diagnosi di tromboembolismo venoso (12,6% dei
soggetti con BPCO, doppio rispetto al 6,5% dei soggetti di controllo). Gli autori concludono che nei pazienti con
BPCO il tromboembolismo ha un decorso più grave rispetto agli altri pazienti, possibilemente legato alla prolungata immobilità dei soggetti con BPCO.
C-reactive Protein, Fibrinogen and Cardiovascular Disease Prediction.
Kaptoge S, Di Angelantonio E, Pennels E et al.; Emerging Risk Factors
Collaboration. N Engl J Med 2012 Oct 4; 367(14): 1310-20
Studio di analisi su 52 studi prospettici, relativi a 246.669 soggetti senza pregresse malattie cardiovascolari,
per verificare il valore di PCR e fibrinogeno in aggiunta ai fattori di rischio tradizionali, ai fini della predizione di
rischio cardiovascolare. Gli autori concludono che includendo anche PCR e del fibrinogeno nell’assessment dei
soggetti a rischio su 100.000 soggetti con età >40 aa ne verrebbero identificati ulteriori 15.000 a rischio intermedio; se a questi soggetti venisse iniziata una terapia con statina come indicano le linee guida ci si dovrebbe
attendere il risparmio di un evento ogni 400-500 soggetti ogni 10 aa.
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Letteratura in Urgenza
Bivalirudin Started During Emergency Transport for Primary PCI. Steg
PG, van ’t Hof A, Hamm CW et al; EUROMAX Investigators. N Engl J Med
2013; 369(23): 2207-17. doi: 10.1056/NEJMoa1311096
La bivalirudina ha dimostrato di ridurre le percentuali di sanguinamento e morte nei pazienti sottoposti ad angioplastica primaria. In questo studio randomizzato su 2218 pazienti con STEMI la bivalirudina, iniziata durante il
trasporto alla sala di emodinamica, ha significativamente migliorato gli outcomes clinici studiati e a 30 gg con una
riduzione dei sanguinamenti maggiori; è stato però registrato un aumento di trombosi acuta sugli stents.
Atrial Fibrillation and the Risk of Myocardial Infarction. Soliman EZ,
Safford MM, Muntner P, Khodneva Y, Dawood FZ, Zakai NA, Thacker EL,
Judd S, Howard VJ, Howard G, Herrington DM, Cushman M. JAMA Intern
Med 2013 174(1): 107-14. doi: 10.1001/jamainternmed.2013.11912
Studio prospettico di coorte su 23.928 soggetti in USA esenti da patologia coronarica al momento dell’arruolamento e seguiti per un periodo fino a 6,9 anni (mediana 4,5). Nel campione studiato sono stati registrati 648
infarti. In questo campione la FA è associata a un rischio di infarto aumentato di circa 2 volte rispetto ai soggetti
senza FA (hazard ratio 1,96 [95% CI, 1,52-2,52]). Gli autori concludono che la FA è associata ad un aumentato
rischio di infarto specie per il sesso femminile e i soggetti di colore.
Calcium-Channel Blocker-Clarithromycin Drug Interactions and Acute
Kidney Injury. Gandhi S, Fleet JL, BaileyDG et al. JAMA 2013 dec 18;
310(23): 2544-53. doi:10.1001/jama.2013.282426
Studio retrospettivo di coorte sviluppato in Canada dal 2003 al 2012 su pazienti geriatrici (età media 76 aa) per
caratterizzare il rischio di coprescrizione fra calcio-antagonisti (che vengono metabolizzati dal citocromo P450
3A4 - CYP3A4; EC 1.14.13.97) e 2 macrolidi, la claritromicina che è un inibitore del CYP3A4 e l’azitromicina
che non lo è. Lo studio ha coinvolto 96226 pazienti che hanno contemporaneamente assunto calcio antagonisti
(amlodipina, felodipina, nifedipina, diltiazem, o verapamile) e claritromicina e 94 083 pazienti in coprescrizione
di calcio antagonisti e azitromicina. La coprescrizione di calcio antagonisti e claritromicina è associata ad un lieve
ma significativo rischio a 30 gg di ospedalizzazione per insufficienza renale (420 pz sui 96 226 in terapia con
claritromicina [0.44%] vs 208 pz dei 94 083 con azithromycin [0.22%]; absolute risk increase, 0.22% [95% CI,
0.16%-0.27%]; odds ratio [OR], 1.98 [95% CI, 1.68-2.34]). Il rischio risulta poi maggiore con i diidropiridinici,
specie la nifedipina.
Low-Dose Dopamine or Low-Dose Nesiritide in Acute Heart Failure With
Renal Dysfunction The ROSE Acute Heart Failure Randomized Trial. Chen
HH, Anstrom KJ et al. for the NHLBI Heart Failure Clinical Research
Network. JAMA 2013; 310(23): 2533-2543
Per quanto suggerita da piccoli studi l’utilità di basse dosi di dopamina e nesiritide nello scompenso congestizio,
specie per ridurre la congestione e preservare la funzione renale, non è chiaramente documentata. Questo studio
multicentrico, in doppio cieco verso placebo (119 pazienti) ha valutato l’efficacia dei due farmaci a basse dosi
(dopamina 2 μg/kg/min in 122 pz, nesiritide 0.005 μg/kg/min senza bolo in 119 pz) aggiunti alla terapia diuretica. Gli end point studiati erano la diuresi a 72 ore (per studiare la riduzione di congestione) e la cistatina C
come studio della funzione renale. Nessuno dei due farmaci ha raggiunto risultati significativi rispetto al placebo.
Sia pure su un campione modesto si conferma la mancanza di documentazione di efficacia per i bassi dosaggi
di dopamina e nesiritide.
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Induced Hypothermia in Severe Bacterial Meningitis. A Randomized
Clinical Trial. Mourvillier B, Tubach F, van de Beek D et al. JAMA 2013
Nov 27; 310(20): 2174-83. doi:10.1001/jama.2013.280506
Studio clinico multicentrico randomizzato per verificare il possibile utilizzo dell’ipotermia per migliorare la sopravvivenza nella meningite batterica severa. Lo studio è stato interrotto dopo aver arruolato 98 pazienti comatosi in
corso di meningite batterica per un eccesso di mortalità nel gruppo ipotermia ((25 of 49 patients [51%]) vs gruppo
di controllo (15 of 49 patients [31%]; relative risk [RR], 1.99; 95% CI, 1.05-3.77; P = .04). Gli autori concludono
che l’ipotermia non offre vantaggi ma può addirittura essere dannosa.
Targeted Temperature Management at 33°C versus 36°C after Cardiac
Arrest. Nielsen N et al. for the TTM Trial Investigators. N Engl J Med
2013; 369: 2197-206
I pazienti comatosi dopo arresto cardiaco hanno un alto rischio di morte o scarso outcome neurologico. L’ipotermia è terapia raccomandata ma vi sono scarse evidenze sulla miglior temperatura di trattamento. In questo studio
internazionale, randomizzato, sono stati assegnati a 2 livelli di ipotermia (33° e 36°) 950 pazienti; l’outcome
primario era la morte per ogni causa e l’outcome secondario un composito di scarso outcome cerebrale o morte
a 180 gg.
In totale l’analisi primaria ha incluso 939 pz ed alla fine del trial il 50% (235 su 473) dei pz trattati a 33° sono
morti rispetto al 48% (225 di 466) di quelli trattati a 36° (hazard ratio per 33°C, 1.06; 95% confidence interval
[CI], 0.89 to 1.28; P = 0.51). A 180 giorni di follow-up i pz morti o con outcome insufficiente erano il 54% di
quelli trattati con 33° rispetto al 52% di quelli trattati a 36° (risk ratio 1.02; 95% CI, 0.88 to 1.16; P = 0.78). Gli
autori concludono (nel loro limitato campione! N.d.r.) che l’ipotermia a 33° non conferisce un beneficio rispetto
a quella condotta a 36°.
Riassunto, recensione e commento a cura di Mauro Fallani. Responsabile UOS Medicina d’Urgenza. Ospedale
“Ceccarini” di Riccione, ASL di Rimini.
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