karin slaughter - 10 righe dai libri

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karin slaughter - 10 righe dai libri
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karin slaughter
Tra due fuochi
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Annalisa Biasci
Della stessa autrice abbiamo pubblicato:
L’ombra della verità
Tre giorni per morire
Genesi
Prima edizione: gennaio 2013
Titolo originale: Broken
© 2010 by Karin Slaughter
© 2012 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.
Il marchio Timecrime è di proprietà
di Sergio Fanucci
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384
Indirizzo internet: www.timecrime.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
karin slaughter
Tra due fuochi
romanzo
Traduzione dall’inglese
di Annalisa Biasci
A Victoria
Prologo
Allison Spooner avrebbe voluto lasciare la città per le feste,
ma non aveva dove andare. Qui, almeno, aveva un tetto sopra
la testa. Almeno il riscaldamento del suo schifoso appartamento, di tanto in tanto, funzionava. Almeno avrebbe potuto
mangiare un pasto caldo al lavoro. Almeno, almeno, almeno...
Perché, nella sua vita, aveva sempre dovuto accontentarsi? Ci
sarebbe mai stato qualcosa di meglio per lei?
Il vento riprese a soffiare e Allison serrò i pugni nelle tasche
della sua giacca leggera. Più che di pioggia, si trattava di una
fredda nebbiolina umida, che ti dava l’impressione di camminare nel naso di un cane. Il freddo gelido che veniva dal lago
Grant rendeva il tutto ancora più seccante. Ogni volta che la
brezza si alzava, la ragazza si sentiva come trafitta da gelide
lame di rasoio.
Dovrebbe essere il Sud della Georgia, non il Polo.
Mentre avanzava a fatica lungo le rive alberate, ebbe l’impressione che ogni onda che lambiva le sponde fangose abbassasse di un ulteriore grado la temperatura. Si domandò
se le sue scarpe leggere sarebbero state sufficienti a evitarle
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di congelare. In tv aveva visto un tizio che aveva perso le dita
delle mani e dei piedi a causa del freddo. L’uomo aveva dichiarato di essere felice di aver avuto salva la vita, ma la gente
è disposta a dire qualsiasi cosa pur di apparire in televisione.
Per come le stavano andando le cose, l’unico programma nel
quale sarebbe potuta finire era il telegiornale della sera. Avrebbero mostrato una sua foto, probabilmente quella orribile dell’annuario scolastico, e di fianco il titolo ‘Tragica morte’.
Allison era conscia che, paradossalmente, il mondo le avrebbe riservato più attenzione da morta. A nessuno fregava niente di lei, adesso; dell’esistenza grama che conduceva,
degli sforzi costanti che faceva per stare in pari con le lezioni,
mentre si barcamenava tra le altre incombenze della vita.
Niente di tutto ciò avrebbe avuto importanza per qualcuno,
a meno che non l’avessero trovata congelata sulla sponda del
lago.
Il vento si alzò di nuovo. Allison voltò le spalle al freddo, che
con le sue dita gelide le premeva sul petto, serrandole i polmoni. Fu percorsa da un brivido. Il suo respiro era una nuvola che
saliva di fronte a lei. Chiuse gli occhi. Battendo i denti, scandì i
suoi problemi. Jason. Lo studio. I soldi. La macchina. Jason. Lo studio. I soldi. La macchina.
Il mantra proseguì ben oltre la pungente raffica. Aprì gli occhi. Si voltò. Il sole stava calando molto più in fretta di quanto
aveva previsto. Si voltò a guardare la scuola. Meglio tornare
indietro? O andare avanti?
Scelse di proseguire, a testa china nel vento ululante.
Jason. Lo studio. I soldi. La macchina.
Jason: il suo ragazzo si era rivelato un coglione, da un
giorno all’altro.
Lo studio: l’avrebbero buttata fuori dall’università se non
avesse trovato più tempo per studiare.
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I soldi: non sarebbe stata in grado di vivere, e tantomeno
di studiare, se avesse ridotto ulteriormente le ore di lavoro.
La macchina: aveva cominciato a fumare quella mattina,
mentre la metteva in moto, il che non era nulla di eccezionale, visto che erano mesi che fumava, ma stavolta il fumo era
all’interno e veniva dalle bocchette del riscaldamento. Per
poco non era soffocata lungo il tragitto verso la scuola.
Allison avanzò a stento, aggiungendo ‘congelamento’ alla
sua lista mentre costeggiava l’ansa del lago. Ogni volta che
sbatteva le palpebre, le sembrava fossero ricoperte di sottili
lastre di ghiaccio.
Jason. Lo studio. I soldi. La macchina. Il congelamento.
La paura del congelamento le pareva più immediata, anche se era riluttante ad ammettere che più se ne preoccupava,
più sentiva caldo. Forse il cuore le batteva più forte o il passo
si stava affrettando mentre il sole cominciava a calare e lei si
accorgeva che il suo lamentoso timore di morire nel freddo
avrebbe potuto avverarsi, se non si fosse sbrigata.
Allungò una mano, tenendosi forte a un albero per superare un intrico di radici protese verso l’acqua. La corteccia era
umida e muschiosa. Un cliente aveva rimandato indietro un
hamburger, oggi, perché secondo lui il pane era troppo spugnoso. Era un omone burbero, vestito da cacciatore, non il
genere di persona da cui ci si aspetterebbe di sentire una parola come ‘spugnoso’. Aveva flirtato con Allison e lei era stata
al gioco, e quando l’uomo se n’era andato c’era una mancia
da cinquanta centesimi vicino ai resti del suo piatto da dieci
dollari. Le aveva addirittura fatto l’occhiolino mentre usciva,
quasi le avesse fatto un favore.
Allison non sapeva quanto ancora avrebbe sopportato quella situazione. Forse sua nonna aveva ragione. Le ragazze come
Allison non vanno all’università. Trovano lavoro nella fabbrica
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di pneumatici, incontrano un ragazzo, restano incinte, si sposano, mettono al mondo uno o più figli, poi divorziano, a volte
in quell’ordine, a volte no. Se fosse stata fortunata, il tizio non
l’avrebbe picchiata più di tanto.
Era quella la vita che Allison voleva per sé stessa? Era il
genere di vita scritto nel suo sangue. Sua madre l’aveva vissuta. Anche sua nonna. Sua zia Sheila l’aveva vissuta finché
non aveva puntato un fucile contro suo zio Boyd, staccandogli quasi la testa. Tutte le donne Spooner, prima o poi, buttavano tutto al vento per un uomo che non valeva niente.
Lo aveva visto fare a sua madre Judy. Quando finì all’ospedale per l’ultima volta, ormai consumata dal cancro, Allison
rifletté su come sua madre avesse sciupato la sua vita. Era
sciupata perfino nell’aspetto. A trentotto anni, aveva i capelli
radi e quasi tutti grigi. Aveva la pelle avvizzita. Le si erano
deformate le mani per il lavoro alla fabbrica di pneumatici:
prendi gli pneumatici dal nastro trasportatore, controllane la
pressione, rimettili sul nastro, poi prendi lo pneumatico successivo, e così via, per più di duecento volte al giorno; a sera,
al momento di andare a letto, le facevano male le articolazioni. Accolse il cancro con gioia. Accolse la morte con gioia. A
trentott’anni.
Una delle ultime cose che disse alla figlia fu che era felice
di morire, felice di non essere più sola. Judy Spooner credeva
nel paradiso e nella redenzione. Credeva che un giorno strade lastricate d’oro e ville lussuose avrebbero preso il posto
dei vialetti di ghiaia e dei parcheggi per roulotte. L’unica cosa che Allison sapeva era di non essere mai stata abbastanza
per sua madre. Il bicchiere di Judy era sempre mezzo vuoto,
e tutto l’amore che Allison vi aveva riversato negli anni non
avrebbe mai appagato sua madre.
Judy era sprofondata nella merda. La merda del suo lavo-
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ro senza prospettive. La merda di un uomo da niente dopo
l’altro. La merda di una figlia che limitava le sue libertà.
L’università sarebbe stata la salvezza di Allison. Era brava in Scienze. Cosa strana, considerando la famiglia, ma per
qualche ragione le era facile capire come funzionavano le sostanze chimiche, intuire i processi di sintesi delle macromolecole. La sua comprensione dei polimeri sintetici era perfetta. E soprattutto, sapeva che sulla terra, da qualche parte,
c’era un libro dove trovare le risposte che si cercano, e che il
modo migliore per trovare quelle risposte era leggere ogni
libro su cui si riusciva a mettere le mani.
Dall’ultimo anno delle superiori aveva imparato a stare
lontana dai ragazzi, dall’alcol e dai cristalli di metanfetamina,
che avevano rovinato quasi tutte le sue coetanee di Elba, la
sua piccola città natale in Alabama. Non aveva intenzione di
ridursi a essere una di quelle ragazze senz’anima e sfinite a
cui toccava fare i turni di notte al lavoro e che fumavano le
Kools perché erano eleganti. Non aveva intenzione di ritrovarsi con tre figli avuti da tre uomini diversi prima di compiere trent’anni. Non aveva intenzione di svegliarsi una mattina senza riuscire ad aprire gli occhi, perché un uomo l’aveva
presa a pugni la sera prima. Non aveva intenzione di morire
da sola in un letto d’ospedale come sua madre.
Perlomeno era questo ciò che aveva pensato quando se
n’era andata da Elba tre anni prima. Il signor Mayweather,
il suo professore di Scienze, si era speso moltissimo per farla entrare in una buona università. Voleva che la ragazza si
allontanasse il più possibile da Elba. Voleva che avesse un
futuro.
Il Grant Tech era in Georgia, ma la distanza tra il suo vecchio mondo e quello nuovo non era tanto geografica quanto
ambientale. L’università era enorme rispetto alla sua scuola
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superiore, che aveva una classe di ventinove alunni. Allison
aveva trascorso la sua prima settimana al campus domandandosi come fosse possibile essere innamorati di un posto.
I suoi corsi erano pieni di ragazzi cresciuti con ogni genere di
opportunità, che non avevano mai preso in considerazione
l’ipotesi di non andare all’università, una volta finite le superiori. Nessuno dei suoi compagni ridacchiava quando lei
alzava la mano per rispondere a una domanda. Non ti ritenevano una traditrice se stavi ad ascoltare l’insegnante o cercavi
di imparare qualcosa di più oltre a come farsi la manicure o
le extension ai capelli.
E poi, la zona attorno all’università era molto carina. Elba
era orrenda, per essere nel Sud dell’Alabama. Heartsdale, la
città dove si trovava il Grant Tech, sembrava una di quelle città che si vedono in televisione. Tutti curavano i loro giardini.
A primavera, la via principale era decorata di fiori. Perfetti
sconosciuti ti salutavano con un sorriso sul volto. La gente che
frequentava la tavola calda dove lavorava Allison era gentilissima, nonostante non lasciasse molto di mancia. La città non
era grande a sufficienza da consentirle di perdersi. Sfortunatamente, non era neppure grande a sufficienza da impedirle
di conoscere Jason.
Jason.
Lo aveva conosciuto durante il primo anno di università.
Aveva due anni più di lei, aveva più esperienza, era più fine.
L’idea di appuntamento romantico di Jason non era quella
di entrare di nascosto in un cinema e farlo in tutta fretta sui
sedili in fondo, prima che il padrone ti buttasse fuori a calci.
La portava in veri ristoranti, con tovaglioli di stoffa sui tavoli. Le teneva la mano. La ascoltava. Quando fecero sesso,
Allison finalmente capì perché la gente diceva ‘fare l’amore’.
Jason non voleva il meglio solo per sé stesso. Lui voleva il
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meglio anche per Allison. La ragazza aveva creduto che la
loro storia fosse una cosa seria; gli ultimi due anni della sua
vita li aveva trascorsi a costruire qualcosa con lui. Di punto
in bianco, però, tutto ciò che c’era stato di bello nella loro relazione divenne la causa dei loro problemi.
E, come era successo a sua madre, Jason era in qualche modo riuscito a dare la colpa di tutto a Allison. Era fredda. Era
distante. Chiedeva troppo. Non aveva mai tempo per lui. Come se Jason passasse le sue giornate a chiedersi come renderla felice. Non era lei a sbronzarsi tutte le sere con le amiche.
Non era lei a frequentare tipi strani a scuola. E di sicuro non
era lei ad avere rapporti con quel cretino, lì in centro. Come
poteva essere colpa di Allison, dato che lei quel tizio non lo
aveva mai visto in faccia?
Continuava a tremare. A ogni passo che faceva attorno a
quel maledetto lago, pareva che la linea di battigia si allargasse sprezzante di altre centinaia di metri. Guardò il terreno bagnato sotto i suoi piedi. Erano settimane che la tempesta infuriava. Le esondazioni avevano interrotto strade e abbattuto
alberi. Allison non aveva mai sopportato il brutto tempo. Si
faceva prendere dalla malinconia, la buttava giù. Diventava
lunatica, triste. L’unica cosa che aveva voglia di fare era dormire finché non fosse tornato il sole.
«Cazzo» sibilò, recuperando l’equilibrio dopo essere scivolata. Aveva i risvolti dei pantaloni incrostati di fango, le scarpe quasi zuppe. Guardò il lago agitato. La pioggia le si stava
attaccando alle ciglia. Scostò i capelli e fissò le acque scure.
Forse sarebbe stato meglio lasciarsi scivolare lì dentro. Forse
avrebbe dovuto lasciarsi cadere nel lago. Come sarebbe stato
lasciarsi andare? Che sensazione le avrebbe dato lasciare che
la corrente la portasse al centro del lago, dove i suoi piedi non
avrebbero più toccato terra e i suoi polmoni non avrebbero
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più trovato aria? Non era la prima volta che ci pensava. Probabilmente era colpa del brutto tempo, della pioggia incessante e del cielo cupo. Con la pioggia, tutto appariva più deprimente. E certe cose erano più deprimenti di altre. Il giovedì
precedente, il giornale aveva parlato di una madre annegata
nel suo Maggiolino insieme al figlio, tre chilometri fuori dalla
città. Erano nei pressi della chiesa battista quando l’acqua aveva invaso la strada e li aveva trascinati via. Evidentemente
i Maggiolini avevano qualcosa che permetteva loro di galleggiare, perché l’auto rimase sospesa sulla corrente. Almeno
all’inizio.
Le persone che erano appena uscite dalla chiesa non poterono fare nulla. Sgomente, aveva osservato il Maggiolino
vorticare nella corrente e poi ribaltarsi. L’acqua si era riversata nel veicolo. Una testimone, raccontando l’episodio, aveva
dichiarato che per il resto della sua vita si sarebbe coricata ogni sera e svegliata ogni mattina pensando alla mano di quel
bambino che spuntava dall’acqua, prima dell’attimo finale
in cui il piccolo era andato a fondo.
Neppure Allison riusciva a smettere di pensare al bambino. Nonostante si trovasse in biblioteca quando era successo
il fatto. Anche se non conosceva né la donna né suo figlio e
neppure la persona intervistata dal giornale, ogni volta che
chiudeva gli occhi vedeva quella manina protesa dall’acqua.
A volte, la mano si faceva più grande. A volte, era la madre
ad allungarla per aiutarlo. Altre, si svegliava gridando perché quella mano la trascinava giù.
Se Allison diceva la verità, i suoi pensieri si erano fatti cupi
ben prima di aver letto quella notizia. Non poteva attribuire
tutto al brutto tempo, ma sicuramente la pioggia incessante,
il cielo costantemente nuvoloso le avevano instillato un certo
sconforto.
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Quanto sarebbe stato più facile arrendersi? Perché tornare
a Elba a diventare una vecchia macilenta e sdentata con diciotto bambini da sfamare, quando poteva buttarsi nel lago
e, per una volta, prendere in mano il proprio destino?
Si stava trasformando in sua madre così in fretta che sentiva quasi i capelli diventarle grigi. Era sciocca quanto Judy: era
convinta di essere innamorata, quando l’unica cosa a cui era
interessato il tizio in questione era ciò che aveva tra le gambe.
Sua zia Sheila le aveva detto esattamente questo al telefono,
la settimana precedente. Allison si era lamentata di Jason, domandandosi come mai lui non le telefonasse mai.
Un lungo tiro alla sigaretta e poi, mentre buttava fuori il
fumo: «Fai gli stessi discorsi di tua madre.»
Una coltellata al petto sarebbe stata più indolore, più pulita. La cosa peggiore era che Sheila aveva ragione. Allison
amava Jason. Lo amava fin troppo. Lo amava così tanto da
chiamarlo dieci volte al giorno, anche se lui non rispondeva
mai. Lo amava così tanto da premere Aggiorna sul suo stupido computer ogni due minuti, per vedere se lui aveva risposto a una delle sue email.
Lo amava così tanto da stare fuori nel cuore della notte a
fare il lavoro sporco che lui non aveva le palle di fare.
Allison fece un altro passo verso il lago. Sentì il tacco perdere aderenza ma l’istinto di conservazione prese il sopravvento prima che cadesse. L’acqua le lambiva le scarpe. Aveva i calzini già zuppi. Le dita dei piedi erano intorpidite, al
punto che le ossa furono attraversate da un dolore acuto. Era
così che sarebbe andata? Un lento intorpidimento, fino a un
trapasso indolore?
Il pensiero di rimanere senza fiato la terrorizzava. Era
quello il problema. Aveva amato l’oceano da bambina, ma
ora le cose erano cambiate. Alla piscina comunale, quando
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aveva tredici anni, quell’idiota di suo cugino Dillard l’aveva
tenuta sott’acqua. Aveva creduto di annegare. Da quel momento non le era più piaciuto fare il bagno, perché temeva di
ritrovarsi con l’acqua nel naso e andare nel panico.
Se Dillard fosse stato lì, l’avrebbe probabilmente spinta nel
lago. Quella volta, alla piscina, non aveva mostrato il minimo
rimorso. Allison aveva vomitato, pianto. Aveva sentito i polmoni bruciarle nel petto, ma lui si era limitato a un ‘heh-heh’,
come se le avesse dato un pizzicotto sul braccio per il gusto
di sentirla gridare.
Dillard era il figlio di Sheila, il suo unico figlio. Era stato per
lei una delusione maggiore del padre, se possibile. Sniffava
così tanta vernice spray che ogni volta che Allison lo vedeva
aveva il naso di un colore diverso. Fumava cristalli. Li rubava
alla sua donna. L’ultima sul suo conto era che era finito in prigione per un tentativo di rapina in un negozio di liquori con
una pistola ad acqua. Il commesso gli aveva aperto la testa
con una mazza da baseball, prima dell’arrivo dei poliziotti. Di
conseguenza, Dillard era diventato ancor più stupido di prima, ma questo non gli avrebbe impedito di farsi sfuggire una
buona occasione. Avrebbe dato a Allison una bella spinta,
spedendola a capofitto in acqua, con la sua risatina. Heh-heh.
Quanto tempo ci sarebbe voluto per perdere i sensi? Quanti
secondi di terrore prima di morire? Chiuse di nuovo gli occhi,
cercando di immaginarsi circondata dall’acqua, inghiottita
dall’acqua. Sarebbe stata così fredda che inizialmente Allison
avrebbe provato uno strano calore. Non si poteva vivere a
lungo senz’aria. Avrebbe perso i sensi. Forse il panico avrebbe
preso il sopravvento, portandola a uno stato di incoscienza
isterica. Oppure, forse, l’avrebbe fatta sentire viva, eccitata
dall’adrenalina, agitata come uno scoiattolo intrappolato in
una busta di carta.
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Sentì un ramo spezzarsi dietro di lei. Si voltò, sorpresa.
«Gesù!» Scivolò di nuovo, stavolta sul serio. Agitò le braccia. Le ginocchia cedettero. Il dolore le tolse il fiato. Sbatté con
la faccia sul fango. Una mano l’afferrò alla nuca. Inalò il freddo
pungente che trasudava dalla terra, l’odore del fango umido
e limaccioso.
D’istinto, si dimenò, combattendo l’acqua, combattendo il
panico che le offuscava il cervello. Sentì un ginocchio premerle alla base della spina dorsale, bloccarla saldamente a terra.
Non voleva. Voleva vivere. Doveva vivere. Aprì la bocca per
gridare a squarciagola.
Poi ci fu il nulla.
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Lunedì
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Il gelo doveva aver mantenuto il cadavere sul fondo del
lago in buone condizioni. Il freddo era talmente intenso da
far male alle ossa, il genere di sensazione che ti faceva rimpiangere i giorni afosi d’agosto, con il sole in faccia, il sudore
che corre lungo la schiena, il condizionatore dell’auto che fatica perché non ce la fa a contrastare la calura. Ma nonostante
Lena Adams si sforzasse di ricordare, tutti i pensieri legati
al caldo svanivano in quella piovosa mattina di novembre.
«Trovatela» gridò il comandante della squadra di sommozzatori. Dirigeva i suoi uomini dalla sponda, la voce soffocata
dallo scrosciare costante della pioggia. Lena sollevò una mano in segno di saluto, e l’acqua le scivolò lungo la manica della voluminosa giacca a vento che si era infilata in tutta fretta
quando alle tre del mattino le era giunta la chiamata. La pioggia picchiettava sull’ombrello che teneva poggiato sulla spalla. La visibilità era di circa dieci metri. Oltre quella distanza,
tutto era avvolto dalla foschia. Chiuse gli occhi, ripensando
al letto caldo, al corpo caldo avviluppato al suo. Lo squillo
acuto di un telefono alle tre del mattino non era mai un buon
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Karin Slaughter
segno, specialmente se facevi la poliziotta. Lena si era svegliata da un sonno profondo, con il batticuore, sollevando in
maniera automatica la cornetta, premendosela all’orecchio.
Era l’investigatrice in servizio più alta in grado, perciò aveva
dovuto a sua volta far squillare altri telefoni in tutto il Sud
della Georgia. Il suo capo. Il medico legale. I vigili del fuoco.
Il Georgia Bureau of Investigation. L’Autorità per la gestione
delle emergenze, con i suoi volontari sempre pronti a mettersi alla ricerca di un cadavere.
Erano tutti sulla sponda del lago, ma i più furbi attendevano in auto, con il riscaldamento al massimo, mentre un vento freddo li faceva dondolare nelle macchine come fossero
bambini nelle culle. Dan Brock, il proprietario dell’agenzia
di pompe funebri locale, che lavorava anche come medico
legale, stava dormendo nel suo furgoncino, la testa reclinata
sul sedile, la bocca aperta. Perfino i volontari dell’Autorità
per le emergenze erano al calduccio nell’ambulanza. Lena li
vedeva sbirciare dai vetri del portellone posteriore. Di tanto
in tanto poteva scorgere la luce di una sigaretta ardere nel
chiarore dell’alba.
Lena aveva in mano una busta per reperti. Conteneva una
lettera trovata nei pressi della riva. La carta era stata strappata
da un foglio più grande, a righe, di circa venti centimetri per
quindici. Le parole erano tutte in stampatello. Scritte con una
penna biro. Una riga unica. Senza firma. Non il solito addio
sprezzante o pietoso, ma comunque chiaro: voglio farla
finita.
Per certi versi, i casi di suicidio erano più complicati rispetto agli omicidi. Nel caso di una persona uccisa, c’era sempre
qualcuno da incolpare. C’erano indizi da seguire, un chiaro
schema di fondo da sviluppare per spiegare esattamente ai
familiari della vittima per quale ragione erano stati privati
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del loro caro. O, se non la ragione, chi era il bastardo che aveva rovinato le loro vite. Nel caso dei suicidi, la vittima coincideva con l’assassino. La persona su cui far ricadere la colpa
era anche la persona di cui si sentiva la più profonda mancanza. Non era lì a prendere su di sé il rancore causato dalla sua
morte, la rabbia di coloro ai quali veniva a mancare. Ciò che
la morte lascia è un vuoto che nessun dolore riesce a colmare.
La madre e il padre, le sorelle, i fratelli, gli amici e altri parenti
si ritrovano senza un colpevole da punire. E tutti desiderano
punire qualcuno, quando una vita viene stroncata.
Era anche per questa ragione che un investigatore aveva
il dovere di assicurarsi che si analizzasse e prendesse nota di
ogni centimetro della scena del crimine. Ogni mozzicone di sigaretta, ogni cartaccia. Tutto andava catalogato, sottoposto al
controllo delle impronte, e inviato al laboratorio per le analisi.
Le condizioni atmosferiche venivano annotate sul rapporto iniziale. Gli agenti e i soccorritori presenti venivano registrati. Si
scattavano fotografie alle persone accorse sul luogo. Venivano
controllate le targhe. Si indagava sulla vita del suicida con la
stessa accuratezza riservata alle vittime di omicidio. Chi erano
i suoi amici? Chi erano i suoi amanti? Aveva un marito? Un
ragazzo? Una fidanzata? C’erano vicini arrabbiati o colleghi di
lavoro invidiosi?
Lena al momento aveva in mano solo un paio di scarpe
da ginnastica da donna, numero trentotto, trovate insieme al
messaggio. Nella scarpa sinistra c’era un anello di poco valore, un anello d’oro venti carati con un rubino opaco al centro.
La scarpa destra conteneva un orologio svizzero bianco, con
diamanti finti al posto dei numeri. Al di sotto c’era il biglietto
ripiegato.
Voglio farla finita.
Non molto consolatorio per chi era rimasto.
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Karin Slaughter
Alcuni spruzzi sulla superficie dell’acqua anticiparono la riemersione dei sommozzatori. Riguadagnata la riva, combatterono con il limo per trascinare il cadavere fuori dall’acqua,
sotto la pioggia gelida. La ragazza era minuta, il che avrebbe
fatto apparire esagerato lo sforzo dei due uomini, se non fosse
stato per la spessa catena a cui erano attaccati due blocchetti
di cemento. Lena notò il lucchetto giallo che pendeva come la
fibbia di una cintura. Facendo il poliziotto, a volte capitava di
assistere a piccoli miracoli. La vittima voleva evidentemente
assicurarsi di non riemergere. Se non fosse stato per i blocchetti di cemento, la corrente avrebbe probabilmente spinto il corpo più al largo, rendendone quasi impossibile il ritrovamento.
Il lago Grant era uno specchio d’acqua artificiale di tredici chilometri quadrati, in alcuni punti profondo anche cento metri. Sotto la superficie riposavano case, baracche, dove
un tempo la gente viveva e lavorava, prima che l’area fosse
trasformata in un bacino idrico. C’erano negozi, chiese, un
cotonificio dei tempi della Guerra civile che chiuse i battenti
durante la Depressione. Tutto era stato sepolto dalle acque
del fiume Ochawahee, allo scopo di assicurare alla contea di
Grant una fonte sicura di energia elettrica.
Gran parte dei terreni che circondavano il lago erano di pro­
prietà della forestale, più di cento acri incastrati tra le insenature dello specchio d’acqua. Uno dei rami lambiva la zona
residenziale dove vivevano i più fortunati, l’altro costeggiava
il Grant Institute of Technology, una piccola ma fiorente università pubblica con quasi cinquemila iscritti.
Il sessanta percento della linea di battigia, lunga centotrenta chilometri, apparteneva alla Divisione forestale statale. L’area di gran lunga più frequentata era quella che la gente del
posto chiamava ‘zona degli innamorati’. Vi era un’area adibita a campeggio, frequentata soprattutto da adolescenti a cui
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piaceva andare su di giri, che spesso si lasciavano dietro bottiglie di birra e profilattici usati. Capitava di frequente che ai
vigili del fuoco arrivassero richieste d’intervento per focolari
lasciati incustoditi, e una volta fu addirittura dato l’allarme
per un orso che alla fine si era rivelato essere un vecchio labrador color cioccolato sfuggito al controllo dei padroni.
Ogni tanto vi si ritrovava anche qualche cadavere: una ragazza sepolta viva, adolescenti annegati. L’estate precedente,
un bambino si era rotto il collo tuffandosi nelle acque basse
dell’insenatura.
I sommozzatori fecero una pausa, lasciando colare via l’acqua dal corpo prima di ritornare al lavoro. Trascinarono la
giovane a riva. I blocchetti di cemento lasciarono dei solchi
sul terreno sabbioso. Erano le sei e mezzo del mattino e la luna pareva ammiccare al sole, mentre questo intraprendeva la
sua lenta ascesa oltre l’orizzonte.
Le portiere dell’ambulanza si spalancarono. I soccorritori
imprecarono per il freddo mentre facevano uscire la barella.
Uno di loro aveva un paio di tronchesi caricate in spalla. Sbatté la mano sul tettuccio del furgoncino del medico legale che
sussultò, agitando comicamente le braccia in aria. Dan Brock
lanciò all’uomo un’occhiataccia, ma rimase dov’era. Lena non
lo biasimava per il suo scarso entusiasmo alla prospettiva di
precipitarsi sotto la pioggia. Tanto, la vittima sarebbe finita
comunque all’obitorio. Non c’era bisogno di lampeggianti e
sirene.
Lena si avvicinò al cadavere, ripiegando con cura nella
tasca della giacca la busta per reperti contenente il biglietto suicida e tirando fuori una penna e un taccuino a spirale.
Stringendo l’ombrello tra il collo e la spalla, appuntò l’ora, la
data, le condizioni atmosferiche, il numero di soccorritori, il
numero di sommozzatori, il numero di auto e poliziotti, il
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Karin Slaughter
tipo di terreno, l’assenza di spettatori, tutti dettagli che andavano inseriti con esattezza nel rapporto.
La vittima era all’incirca della stessa altezza di Lena, intorno al metro e sessantacinque, ma di corporatura molto più
esile. Aveva i polsi delicati, sottili. Le unghie erano irregolari,
mangiate fino alla carne. Aveva i capelli neri e una pelle bianchissima. Doveva aver passato da poco i vent’anni. I suoi occhi aperti erano nebulosi come il cotone. La bocca era chiusa.
Aveva le labbra rovinate, come se se le fosse morse. O forse
si era imbattuta in un pesce affamato.
Il suo corpo era più leggero senza il peso dell’acqua, e ci
vollero soltanto tre sommozzatori per issarla sulla barella in
attesa. Il fango del fondo del lago la ricopriva da capo a piedi.
L’acqua le gocciolava dai vestiti: dei jeans blu, un pile nero,
calzini bianchi, una giacca della tuta blu scuro aperta con il
logo della Nike sul davanti. La barella si mosse e la testa della
ragazza si girò dalla parte opposta rispetto a Lena. Smise di
scrivere. «Un momento» disse. C’era qualcosa che non andava. Mise il taccuino in tasca e avanzò verso il cadavere. Aveva
visto un bagliore sul retro del collo della ragazza, qualcosa di
argenteo, forse una collana. Le alghe avviluppavano la gola e
le spalle della vittima come un lenzuolo funebre. Lena usò la
punta della penna per allontanare quegli scivolosi viticci verdi. Qualcosa si muoveva sotto la pelle, increspando la carne
come la pioggia increspava le onde.
Anche i sommozzatori lo notarono. Si chinarono tutti per
osservare meglio. La pelle palpitava come in un film dell’orrore. «Ma che diavolo...»
«Gesù!» Lena fece un balzo all’indietro quando un piccolo
pesce scivolò fuori da un taglio nel collo della ragazza.
I sommozzatori risero, come fanno gli uomini quando
non vogliono ammettere di essersela fatta addosso. Lena si
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Tra due fuochi
portò una mano al petto, sperando che nessuno notasse che
le era esploso il cuore. Fece un respiro profondo. Il pesce si
dibatteva nel fango. Uno degli uomini lo prese e lo rigettò
nel lago. Il capo dei sommozzatori commentò: «A questo
punto, non so più che pesci pigliare.»
Lena gli lanciò un’occhiataccia e poi si chinò sul cadavere.
Il taglio da dove era spuntato il pesce era sulla parte posteriore del collo, appena sulla destra rispetto alla colonna vertebrale. A occhio e croce, calcolò che la ferita dovesse essere
ampia due centimetri e mezzo al massimo. La carne aperta
era raggrinzita dall’acqua, ma la ferita era stata netta, precisa,
il genere di incisione procurata da un coltello affilatissimo.
«Qualcuno vada a chiamare Brock» disse Lena.
Non si trattava più di un caso di suicidio.
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2
Frank Wallace non fumava mai nella sua Lincoln di servizio, ma la tappezzeria aveva assorbito una puzza di nicotina
che emanava da ogni poro. A Lena, quell’uomo ricordava
Pig Pen dei Peanuts. A prescindere da quante volte si lavasse
e si cambiasse d’abito, la puzza lo seguiva come una nube di
polvere.
«Che c’è?» chiese lui, senza darle neppure il tempo di richiudere la portiera.
Lena buttò la giacca a vento bagnata sul tappetino ai piedi
del sedile posteriore dell’auto. Sotto la giacca aveva indossato
due camicie, per contrastare meglio il freddo. Ciononostante,
malgrado il riscaldamento al massimo, batteva i denti. Era
come se il suo corpo avesse assorbito il freddo e lo lasciasse
uscire solo adesso che era al riparo.
Tenne le mani davanti ai bocchettoni. «Accidenti, sto congelando.»
«Che c’è?» ripeté Frank. Con ostentazione, sollevò il guanto di pelle nero per guardare l’orologio.
Lena rabbrividì involontariamente. Non riusciva a nascon-
31
Karin Slaughter
dere l’eccitazione dalla sua voce. Nessun poliziotto lo avrebbe mai ammesso davanti a un civile, ma gli omicidi erano i
casi più eccitanti su cui lavorare. Era così carica di adrenalina
che si stupì di sentire freddo. Con i denti che continuavano
a batterle, disse: «Non è un suicidio.» Frank parve ancor più
infastidito.
«Brock la pensa allo stesso modo?»
Brock era tornato a dormire nel suo furgoncino, nell’attesa che tagliassero la catena; lo sapevano entrambi perché da
dove erano seduti riuscivano a scorgere la bocca spalancata
dell’uomo. «Brock non sa distinguere il suo buco del culo da
un buco nel terreno» ribatté subito Lena. Si massaggiò le braccia per far tornare il calore nel suo corpo.
Frank tirò fuori la fiaschetta e gliela porse. Ne bevve un
goccio, e il whisky le scese giù bruciandole la gola e lo stomaco. Frank bevve a sua volta un grosso sorso prima di rimettersi la fiaschetta nella tasca del cappotto.
«C’è una ferita da taglio sul collo» disse Lena.
«Sul collo di Brock?»
Lena gli lanciò un’occhiata fulminante. «Della ragazza
morta.» Si chinò a cercare nella giacca a vento il portafoglio
che aveva trovato nella tasca della giacca della vittima.
«Potrebbe trattarsi di una ferita autoinflitta» disse Frank.
«Impossibile.» Si poggiò una mano sul retro del collo. «La
lama è entrata più o meno in questo punto. L’assassino l’ha
aggredita alle spalle. Probabilmente l’ha colta di sorpresa.»
Frank borbottò: «Questo lo hai imparato dai tuoi manuali?»
Lena frenò la lingua, cosa che non era solita fare. Frank era
capo della polizia ad interim da quattro anni. Tutto ciò che
accadeva nelle tre città all’interno del territorio della contea
di Grant ricadeva sotto la sua giurisdizione. Madison e Avondale avevano i loro problemi di droga e crimini violenti, men-
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Tra due fuochi
tre Heartsdale era un luogo relativamente tranquillo. C’era
l’università, e i ricchi del posto si facevano sentire quando veniva commesso un crimine.
A prescindere da questo, i casi complicati tendevano a trasformare Frank in uno stronzo. In realtà, era la vita in generale a trasformarlo in uno stronzo. Il fatto che il suo caffè si
freddasse. Che il motore della macchina non si avviasse al
primo colpo. Che l’inchiostro gli si seccasse nella penna. Non
era sempre stato così. Certo, Lena lo aveva sempre conosciuto come un uomo facilmente irritabile, ma nell’ultimo periodo aveva notato che quell’atteggiamento era stato acuito da
una rabbia latente. Poteva esplodere da un momento all’altro.
In un batter d’occhio era passato dall’essere ragionevolmente
irritato all’essere freddamente cattivo.
Ma in quella particolare circostanza Lena comprendeva la
riluttanza di Frank. Un caso di omicidio era l’ultima cosa che
gli ci voleva in quel momento. Dopo trentacinque anni passati nella polizia, era stufo del suo lavoro, stufo delle persone
con cui quel lavoro lo portava a contatto. Negli ultimi sei anni aveva perso due dei suoi più cari amici. Avrebbe preferito
i laghi assolati della Florida a quella distesa di acqua congelata. Avrebbe voluto tenere in mano una canna da pesca e
una birra, non gli oggetti personali di una ragazzina morta.
«Sembra contraffatto» fece Frank, maneggiando il portafoglio. Lena assentì. La pelle era troppo lucida. Il logo di
Prada era di plastica.
«Allison Judith Spooner» disse Lena, osservando Frank
cercare di separare l’una dall’altra le custodie per fotografie
rese appiccicose dall’acqua. «Ventun anni. La patente è di Elba, Alabama. Dietro c’è il tesserino universitario.»
«Andava all’università.» Frank sussurrò quelle parole con
un tono all’apparenza disperato. Era già grave che Allison
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Karin Slaughter
Spooner fosse stata ritrovata all’interno o nei pressi di una
proprietà statale. Se a questo si aggiungeva che la ragazza era
una studentessa del Grant Tech proveniente da un altro Stato,
il caso avrebbe potuto acquisire anche connotazioni politiche.
«Dove hai trovato il portafoglio?» le chiese.
«Nella tasca della sua giacca. Immagino non avesse una
borsa. O forse chi l’ha uccisa voleva che scoprissimo la sua
identità.»
L’uomo stava guardando la foto della patente.
«Che c’è?»
«Credo fosse la cameriera che lavorava alla tavola calda.»
La tavola calda era all’estremità opposta della strada rispetto al dipartimento di polizia. Gran parte dei poliziotti pranzava lì. Lena invece si teneva lontana da quel posto. Di solito si
portava il pranzo da casa o, più spesso, non mangiava.
«La conoscevi?»
Lui scosse il capo e si strinse nelle spalle. «Era bella.»
Frank aveva ragione. Non erano in tanti ad avere una foto
della patente che valorizzasse il loro aspetto, ma Allison evidentemente era stata più fortunata. Mostrava i denti bianchi
in un ampio sorriso. Aveva i capelli tirati indietro, e le luci le
esaltavano gli zigomi. Nei suoi occhi c’era una certa allegria,
come se stesse ridendo a una battuta. Niente di quella serenità era rimasto nel corpo che avevano ripescato dal lago. La
morte gliel’aveva strappata.
«Non sapevo che studiasse» disse Frank.
«Di solito non lavorano in centro» commentò Lena. Gli
studenti del Grant Tech di solito lavoravano nel campus o
non lavoravano affatto. Non si mischiavano con gli abitanti
di Heartsdale, e gli abitanti facevano del loro meglio per non
mischiarsi con loro.
«Questa settimana l’università è chiusa per la festa del
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Tra due fuochi
Ringraziamento» sottolineò Frank. «Perché non è a casa con
la sua famiglia?»
Lena non aveva una risposta. «Ci sono quaranta dollari
nel portafoglio.»
Frank controllò comunque il compartimento per le banconote, trovando con le grosse dita guantate il pezzo da venti e i due da dieci incollati dall’acqua. «Forse era depressa. Ha
deciso di prendere un coltello e togliersi la vita.»
«Avrebbe dovuto essere una contorsionista» insisté Lena.
«È stata aggredita alle spalle. Te ne potrai accertare quando
Brock la metterà sul tavolo dell’obitorio.»
L’uomo fece un sospiro stanco. «E che mi dici della catena
e dei blocchetti di cemento?»
«Potremmo chiedere al ferramenta in centro. Forse l’assassino li ha comprati lì.»
Frank rilanciò: «Sei proprio certa della ferita da taglio?»
La donna annuì.
Frank continuava a guardare la foto della patente. «Ha
un’auto?»
«Se ce l’ha, non è nelle vicinanze.» Lena insisté su quel
punto. «Magari ha trasportato a mano venti chili di cemento
e una catena...»
Frank richiuse il portafoglio e glielo restituì. «Come mai
ogni lunedì le cose vanno sempre più di merda?»
Lena non aveva una risposta nemmeno per quello. La settimana precedente non era stata un granché meglio. Una giovane madre e suo figlio erano stati travolti da un’esondazione.
La città doveva ancora riprendersi dalla tragedia. Non c’era
modo di sapere come avrebbero reagito alla notizia dell’assassinio di una studentessa universitaria.
«Brad sta cercando di rintracciare qualcuno dell’università che abbia accesso al database degli studenti e ci procuri
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Karin Slaughter
l’indirizzo della Spooner» disse a Frank. Brad Stephens era
finalmente passato dal servizio di pattuglia al grado di investigatore, ma il suo nuovo incarico non lo metteva nelle
condizioni di fare molto di più rispetto al vecchio. Sbrigava
ancora commissioni. «Una volta ripulita la scena del crimine, mi occuperò di comunicare il decesso in Alabama.»
«L’Alabama è un’ora indietro rispetto a noi.» Frank guardò l’orologio. «Forse sarà meglio chiamare direttamente i
genitori, invece di svegliare tutto il dipartimento di Elba a
quest’ora del mattino.»
Anche Lena controllò l’orologio. Mancava poco alle sette,
perciò in Alabama erano quasi le sei. Se a Elba funzionava come nella contea di Grant, gli investigatori erano di servizio durante la notte, ma non si presentavano in ufficio fino alle otto
del mattino. A quell’ora Lena si alzava dal letto e si preparava il
caffè. «Chiamerò appena rientreremo al dipartimento.»
La macchina si fece silenziosa, a eccezione del picchiettare
leggero della pioggia sul metallo. Un lampo, sottile e malefico, scintillò nel cielo. Lena trasalì, ma Frank continuò imperterrito a fissare il lago di fronte a lui. I sommozzatori non
sembravano preoccupati dai lampi. A turno, stavano cercando di liberare la ragazza dai due blocchi di calcestruzzo con
le tronchesi.
Il telefono di Frank squillò, un trillo acuto che parve il cinguettio di un uccello. Rispose con tono sgarbato. «Sì.» Ascoltò per qualche secondo, poi chiese: «E i genitori?» Borbottò
una serie di imprecazioni sottovoce. «Allora torna dentro e
scoprilo.» Richiuse il telefono. «Che asino.»
A quanto pare Brad aveva dimenticato di prendere informazioni sui genitori. «Dove vive?» chiese Lena.
«In Taylor Drive. Al sedici e mezzo. Brad ci aspetterà lì,
sempre che la smetta di fare il rimbambito.» Ingranò la re-
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Tra due fuochi
tromarcia tenendosi al sedile di Lena per guardare dietro. Il
bosco era fitto, umido. Lena si appoggiò al cruscotto mentre
Frank tornava lentamente in strada.
«Sedici e mezzo significa che vive in un miniappartamento annesso all’abitazione principale» notò Lena. In molti in
quella zona avevano trasformato i loro garage e i loro capanni per gli attrezzi in spazi più o meni abitabili, per affittarli
agli studenti universitari a prezzi esorbitanti. Ma la maggior
parte dei ragazzi desiderava vivere fuori dal campus, e non
si lamentava.
«Il padrone di casa è Gordon Braham» disse Frank.
«Lo ha scoperto Brad?»
Presero un dosso che spinse Frank a serrare i denti. «Glielo ha detto sua madre.»
«Bene.» Lena pensò a qualcosa di positivo da dire su Brad.
«Il fatto che abbia trovato il proprietario della casa e del garage dimostra che ha iniziativa.»
«Iniziativa» ripeté Frank con tono derisorio. «Quel ragazzo si ritroverà con un proiettile in testa, un giorno o l’altro.»
Lena conosceva Brad da oltre dieci anni. E Frank da ancora più tempo. Entrambi lo consideravano ancora un ragazzino, un adolescente con una fondina pericolosamente
legata in vita. Brad si era guadagnato il distintivo dorato da
investigato­re con anni di servizio e superando tutti i test, ma
Lena conosceva la differenza tra una promozione sulla carta
e una sul campo. Sperava soltanto che in una cittadina come
Heartsdale, l’ingenuità di Brad non lo mettesse nei guai. Era
bravo a stilare rapporti e interrogare testimoni, eppure, nonostante dieci anni di servizio, tendeva ancora a confondere
il bene con il male.
Lena era in polizia da neppure una settimana quando aveva capito che non esistevano persone veramente buone.
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Karin Slaughter
Compresa sé stessa.
In quel momento non aveva tempo di preoccuparsi per
Brad. Mentre attraversavano il bosco, sfogliò le fotografie nel
portafoglio di Allison Spooner. C’era l’istantanea di un gatto
rosso tigrato, il cui colore risplendeva al sole, e una foto rubata
in cui Allison era in compagnia di una donna che Lena suppose essere la madre. La terza mostrava Allison seduta sulla
panchina di un parco. Alla sua destra c’era un ragazzo all’apparenza più giovane di lei di qualche anno. Il ragazzo portava
un cappellino da baseball tirato sulla fronte e aveva le mani
infilate nelle tasche dei pantaloni a gamba larga. Alla sinistra
di Allison c’era una donna più grande con dei capelli biondi a
ciocche e un trucco pesante. Portava dei jeans aderenti. Il suo
sguardo era duro. Poteva avere trent’anni come trecento. Sedevano stretti l’uno all’altro. Il ragazzo teneva il braccio sulle
spalle di Allison Spooner.
Lena mostrò l’immagine a Frank. «La famiglia?» le chiese.
La donna studiò la foto, concentrandosi sullo sfondo. «Sembra scattata al campus.» Mostrò a Frank i dettagli. «Vedi l’edificio bianco sullo sfondo? Se non sbaglio è lo studentato.»
«A me quella ragazza non sembra una studentessa universitaria.» Intendeva la bionda più grande. «Sembra del posto.»
Aveva il look di una ragazza cresciuta in città. Nonostante
il portafoglio finto, Allison Spooner sembrava di estrazione
più alta. Non quadrava che le due fossero amiche.
«Forse la Spooner aveva problemi di droga» suppose Lena. Niente livellava le classi sociali più della metanfetamina.
Avevano finalmente raggiunto la strada principale. Gli
pneumatici posteriori dell’auto girarono ancora una volta nel
fango prima che la macchina si stabilizzasse sull’asfalto. «Chi
ha fatto la chiamata?» chiese Frank.
Lena scosse il capo. «È stata fatta da un cellulare. Un nu-
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Tra due fuochi
mero privato. La voce di una donna, ma non ha voluto lasciare il nome.»
«Che cosa ha detto?»
Lena sfogliò le pagine del taccuino con cautela, per non
strappare le pagine umide. Trovò la trascrizione e gliela lesse:
«‘Voce femminile: La mia amica è sparita da questo pomeriggio. Penso che si sia suicidata. Operatore: Cosa le fa pensare
che si sia suicidata? Voce femminile: Ieri sera ha litigato con il
fidanzato. Ha detto che si sarebbe gettata nel lago, nella zona
degli innamorati.’ L’operatore ha tentato di tenerla in linea,
ma la donna ha riagganciato quasi subito.»
Frank restò in silenzio. Lena lo vide deglutire. Aveva le spalle così ricurve da sembrare aggrappato al volante. Frank rifiutava l’idea che si trattasse di omicidio fin da quando Lena era
entrata in auto.
«Che idea ti sei fatto?» gli chiese.
«La zona degli innamorati» ripeté Frank. «Soltanto una
persona del posto lo chiamerebbe in quel modo.»
Lena avvicinò il taccuino ai bocchettoni del riscaldamento, in modo da far asciugare le pagine. «Il ragazzo nella foto
deve essere il fidanzato.»
Ma Frank non seguiva il filo del discorso di Lena. «Dunque, è arrivata la chiamata, Brad è andato al lago e ha trovato
cosa?»
«Il biglietto era sotto una delle scarpe. Dentro c’erano l’anello e l’orologio di Allison.» Lena cercò la busta di plastica
infilata nelle profonde tasche della sua giacca a vento. Frugò
tra quelli che erano gli effetti personali della vittima e trovò
il biglietto, che mostrò a Frank.
«‘Voglio farla finita’.» Fissò il pezzo di carta così a lungo
che si distrasse dalla guida.
«Frank?»
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Karin Slaughter
Una ruota sfiorò il margine dell’asfalto. Frank sterzò bruscamente. Lena si tenne al cruscotto. Sapeva che era meglio
non fare commenti. Frank non era tipo che accettava consigli sulla guida, specialmente da una donna. Specialmente da
Lena.
«Biglietto strano per un suicidio. Perfino per un finto suicidio» disse la donna.
«Breve e diretto.» Frank teneva una mano sul volante
mentre frugava nella tasca del cappotto. Si infilò gli occhiali
da lettura e osservò l’inchiostro sbavato. «Non ha firmato.»
Lena guardava la strada. Frank era di nuovo sulla striscia
bianca. «No.»
Frank sterzò deciso verso il centro della carreggiata. «A te
sembra la grafia di una donna?»
Lena non aveva preso in considerazione quell’aspetto. Studiò la frase, scritta a caratteri grandi, tondeggianti. «È chiara, ma non saprei dire se l’ha scritta un uomo o una donna.
Potremmo interpellare un esperto. Sono certa che troveremo
qualcosa con cui confrontare il biglietto, magari gli appunti
presi da Allison a lezione o gli esami scritti.»
«Ricordo quando mia figlia aveva la sua età» disse Frank,
che evidentemente non aveva ascoltato una sola parola delle
osservazioni di Lena. Si schiarì la gola. «Faceva dei cerchi sopra le i al posto dei puntini. Mi domando se lo faccia ancora.»
Lena rimase in silenzio. Lavorava con Frank da quando era
entrata in polizia, ma non sapeva granché della sua vita privata, a parte quello che sapeva chiunque altro in città. Frank
aveva avuto due bambini dalla prima moglie, ma questo molte mogli fa. I tre non vivevano più in città e Frank sembrava
non essere in contatto con loro. Non aveva mai parlato della
sua famiglia e in quel momento Lena era troppo infreddolita
e tesa per le confidenze.
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