Capolavori d`inutilità Giacomo Coniglione Il Filo, Roma, 2007. pp. 97

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Capolavori d`inutilità Giacomo Coniglione Il Filo, Roma, 2007. pp. 97
Capolavori d’inutilità
Giacomo Coniglione
Il Filo, Roma, 2007.
pp. 97
Anche Capolavori d’inutilità, come molte opere prime che mi è capitato di leggere, condivide con queste la
necessità esistenziale di attraversare l’Io: checché ne dica la critica (che da una motivato rifiuto dell’Io lirico
e autoriflessivo è giunta al suo attacco quasi aprioristico), credo che questo testimoni di una necessità
genuina, quasi terapeutica della scrittura, con alle spalle il grande precedente sabiano.
In Coniglione il soggetto poetico è diretto, più che esporsi fa mostra di sé al lettore quasi con spavalderia, ma
votandosi all’abbassamento e alla riduzione (“Sono in vendita non più a cari prezzi / e nemmeno nelle vetrine
d’alta moda”; Realtà), talvolta in chiave neocrepuscolare, memore di Corazzini (“Chi sono? […] Cane che si
lascia accarezzare. / Cane che non sa più abbaiare”, Epigono). Del resto, il candore infantile che qua e là
emerge (“Il mio cuscino è bianco perché / batte contro i meandri di un cuore puro”, Fantasmi) è un’arma a
doppio taglio, perché se da un lato porta a guizzi di freschezza (“A letto come un sicomoro / al vento. / Di
notte e di giorno è impossibile chiudere / le palpebre ad un gatto”, Sicomoro; “Sorride la luna coi suoi
quarti di chilo. // Un sole pallido aspetta un pupazzo di neve”, Stagioni), a volte cade preda del naivismo o
del canzonettistico (“T’amo più delle onde: contale e saprai quanto!”, Onde). È l’autore stesso a mettere le
mani avanti sul valore dell’opera: “Capolavori d’inutilità è il mio frutto acerbo”, scrive in una poesia che dà
alla raccolta il suo ossimorico titolo, servendosi di una metafora morta (“frutto acerbo”), salvo poi
rivitalizzarla (è il caso di dirlo!) con riferimenti a Eva e al serpente che è “la mia penna”.
Il rischio del pietismo, implicito in questa posizione, è però quasi sempre scongiurato a favore di un’ironia
forse non immemore dell’ultimo Montale: così nei versi “mi hai lasciato / perché il mio profumo mancava di
etichetta”, il tema dell’abbandono amoroso, di per sé classico e abusato, viene vòlto in una denuncia alla
società dei consumi, senza monumentalizzare il dolore privato. Da questo punto di vista, Coniglione sembra
istintivamente orientato verso l’esterno, perché l’io sembra più che altro un pretesto, un contenitore per
parlare del mondo: il contrario del paradigma lirico, dunque.
In questa linea anti-estetizzante leggo il titolo “Capolavori d’inutilità”, un rovesciamento ironico e amaro del
concetto dell’arte per l’arte, impraticabile oggi se si vive appena a contatto con la realtà e ci si lascia
permeabili ad essa. Per questo sull’espressionismo prevale il senso comune, la narrazione, la necessità di
restare aderente alle cose. Non è allora un caso che la permeabilità di Coniglione sia fisica, sensuale e
materica più che intellettuale; sia insomma tattile, gustativa e olfattiva molto più che visiva, con frequenti
richiami al cibo: “Le mie fette di pane non ungi di marmellata / e ti accontenti / di briciole”, Fette di pane;
“Di lacrime amare ne occorrono ancora / se ti ostini a fare la pasta in casa”, Rondine).
Strettamente correlato a questa materialità è il campo semantico dello sporco, del vischioso, che spesso si
carica di connotazioni di colpa, l’abdicare a una presunta innocenza (“Finisci di lavare il fango delle tue
espressioni / tutte da decifrare col pane”, Modifiche). La sintassi semplice, quasi sempre paratattica, la
sostanziale convergenza di sintassi e verso, la facilità di lettura che ne consegue contribuisce anch’essa a
rendere il medium della scrittura il meno mediato possibile, malgrado alcuni passaggi troppo letterari, seppur
di ottima tenuta ritmica (“Di nuovo dispare il giorno / tra i palmizi del deserto”, Rewind).
Più incerto si fa invece il tono quando l’oggetto dell’attenzione diventa la cosa pubblica, e la denuncia –
forse non potendosi o non sapendosi appoggiare alla stessa evidenza terrestre – corre sul filo del
qualunquismo, della rabbia non affinata dalla pazienza della comprensione (“i burini / politichesi –
accozzaglia di bacarozzi legittimati – / mostrano il meglio del peggio”, Noocrazia). Serve un lavoro di
sgrossatura, che nel frattempo, ne sono certo, si è almeno in parte realizzato (il libro è stato pubblicato
quattro anni fa). Scrivendomi, l’autore si è chiesto se sarei riuscito a “rintracciare nel nulla quel poco di
buono che forse c’è”, con un richiamo alla dedica leopardiana in esergo al suo libro (“A chi sa vedere nel
nulla il tutto”); ma, soprattutto, con un’umiltà e una disponibilità all’ascolto non nuova negli esordienti che
finora ho recensito, antidoto all’immagine dello scrittore come individuo vanesio e presuntuoso, refrattario
alle critiche e alla crescita, rovello del critico che non sa se smussare i toni o ricorrere al silenzio.
E in questo libro del buono, o più che buono, c’è senz’altro, come dimostrano i seguenti brani, dove i punti
di forza di Coniglione (fisicità, partecipazione, immediatezza, estrosità) si coniugano a una maggiore tenuta
del testo e a un’articolazione più ricca del contenuto:
Temuto l’inganno e ordita la tela
il ragno
è mangiato dal suo stesso parto.
Comincio ad usare forbici e colla.
Finisco con corde e sacchi di gomma.
Scoppia la plastica
e anche mio figlio disperde la cenere.
(Prigioniero)
D’incanto si spezza la trave
per colpa di una pagliuzza,
delicata come il bucato che stende al sole
di giugno i panni sporchi di aprile.
(Panni sporchi)
Qualche bavaglio rimane
per coprirci la faccia
che ora brucia al sole della casa vuota.
(Partenza)
Prima di concludere e scusandomi con l’autore e con i lettori per l’apparente divagazione, sento necessaria
una precisazione, che vuole essere soprattutto una messa in guardia a tutti gli aspiranti poeti: noi redattori di
CL siamo schierati contro gli editori a pagamento (di cui Il Filo è quasi un esempio per antonomasia; per
discussioni all’interno di questo sito, rimando all’intervento di Paolo Mantioni qui e; interessante anche un
post su Nazione Indiana, qui). Ora, è vero che per la poesia il discorso è un po’ diverso e perfino case editrici
di qualità non si esimono dal chiedere un contributo ad autori anche affermati: ma sarebbe bene distinguere
tra case editrici che operano delle scelte e mettono dei filtri tra l’arrivo dei manoscritti e la loro
pubblicazione, e altre che pubblicano a occhi pressoché chiusi e lasciando l’autore a se stesso subito dopo la
pubblicazione. Insomma, poiché alcuni editori vengono meno al loro dovere di selezione e promozione, è
necessario che sia lo scrittore a selezionare una rosa di editori seri (utilissima dunque la mappatura fatta dalla
nostra rubrica Editori in ascolto), e a pretendere che il proprio lavoro venga preso in seria considerazione.
Pubblicato su www.criticaletteraria.org
@ Davide Castiglione