La bici di Coppi

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La bici di Coppi
La bici di Coppi e la sfida del Ghisallo
Forse aveva davvero esagerato. Il Resegone era pur sempre il Resegone
e non avrebbe dovuto salirlo e scenderlo di corsa, saltando da un sasso
all’altro neanche fosse un camoscio, proprio nel giorno in cui il nonno
contava sul suo aiuto per svuotare e risistemare la legnaia.
Che poteva aspettarsi, a quel punto, se non un bel mal di gambe?
Nino scosse la testa, rimproverandosi di non averci pensato prima, ma
strinse i denti e si alzò sui pedali. Cominciò a far oscillare il manubrio
come un pendolo e a far danzare ritmicamente la bicicletta, da destra a
sinistra e poi da sinistra a destra, per cercare di rilanciare l’andatura aggiungendo alla spinta dei muscoli il peso del corpo.
Conosceva come le sue tasche la salita che portava alla stazione di partenza della funivia. L’aveva percorsa decine di volte e di solito arrivava
in cima ancora abbastanza fresco, eppure quel pomeriggio era tutto diverso. Che fatica, quanti tornanti mancavano? Si era appena rassegnato
al fiatone e a una velocità ben al disotto del normale quando, sentendo
un altro ciclista sopraggiungergli alle spalle, punto sull’orgoglio si pentì
di non aver provato a insistere con un ritmo più alto.
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«Tutto qui quel che sai fare, schiappa?» lo sferzò il nuovo arrivato.
Era Bruno, l’insopportabile Bruno, il ragazzo più antipatico e prepotente di tutta la scuola. Affiancato da quella montagna di muscoli che
pedalava senza apparente sforzo, in sella a un fiammante rampichino con
tanto di freni a disco – una della mezza dozzina di biciclette d’ogni tipo
che teneva allineate in garage, super collezione da vero figlio di papà –,
Nino si sentì in dovere di giustificarsi.
«Se anche tu fossi già stato al Resegone stamattina, forse non faresti il
di più…» sibilò tra i denti.
«Urca, che caratterino! Comoda, come scusa. A occhio e croce, direi che
le cose stanno diversamente. È tutto molto più semplice, dammi retta.
Quando uno è una schiappa, è una schiappa, non credi?»
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Non aveva mai pensato di risolvere un problema venendo alle mani, eppure fu tentato di farlo. Tuttavia rinunciò anche questa volta, e non perché fosse più mingherlino dei rivali e di sicuro ne sarebbe uscito pesto.
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Non voleva dare soddisfazione ai due compari, ecco la ragione, così
ostentò indifferenza e mentì spudoratamente: «Grazie, sì. Tutto bene»
rispose costringendosi a sorridere. Mosse qualche passo per andarsene,
poi però si fermò folgorato da un pensiero improvviso e girò lentamente
sui tacchi. «A proposito…» disse rivolto a Bruno «quando vuoi io ci sto.
Scegli la salita e il giorno, per me sarà un piacere batterti.»
L’altro lo guardò incredulo e sbottò: «Battere me? Tu? Chi credi di essere?»
«Quello che ti arriverà davanti» rispose Nino sorprendendosi della sua stessa
frase e del tono tagliente con il quale l’aveva pronunciata. Era impazzito?
«Naturalmente…» riprese lasciando la parola sospesa nell’aria.
«Naturalmente?» chiese Bruno.
«Naturalmente, visto che hai un anno in più e che sei grosso una volta e mezzo
me, mi sembra sportivo che tu mi conceda almeno un piccolo vantaggio.»
«Sembra giusto anche a me, pensa un po’. Che abbuono vuoi?»
«Decidi il percorso, sul resto sono sicuro che ci metteremo d’accordo.»
«Il Ghisallo!» disse di getto Bruno. «Ti sembra troppo duro, schiappa?»
«Ci mancherebbe: se va bene a te, a me andrà benissimo.» Cosa stava dicendo?, pensò Nino ascoltandosi parlare. Al Ghisallo non c’era mai andato, lo aveva visto non più di un paio di volte in tivù nel finale di una tappa
del Giro d’Italia, e gli era bastato per capire che quella salita non era soltanto durissima, ma addirittura – come si diceva? – mitica, ecco sì: mitica.
Chissà se la Madonna dei ciclisti, nella chiesetta che si trovava lassù, faceva
anche miracoli: messo com’era, a lui ne sarebbe giusto servito uno.
«Sei ammattito? Che ti è saltato in testa di sfidare Bruno? Ma l’hai visto?
Dico, l’hai visto? È un armadio. E poi lo sanno tutti che in bici è allenatissimo. Gli uomini! Gli uomini! Non li capirò mai!» Camilla lo stava facendo
a pezzi e Nino sapeva che aveva ragione. Aveva cercato di spiegarle che
aveva reagito d’impulso a una canagliata, che era stato provocato e che c’era
un limite a tutto. Lei però, molto più razionale, non aveva voluto sentire
ragioni: «Ti sei cacciato in un bel guaio, ecco cos’hai fatto. Complimenti!»
Pedalavano adagio sullo sterrato lungo l’Adda e loro che erano abituati
a chiacchierare fitto fitto, a parlare di ogni cosa da veri amici, dopo il
secco botta e risposta si sentivano a disagio, entrambi con qualcosa da
farsi perdonare. Amavano la silenziosa pista lungo il fiume, ci tornavano
di tanto in tanto e sempre con la stessa gioia, imboccandola subito dopo
il Ponte Vecchio di Lecco. E da lì, superati i paesi di prima cintura della
loro città – Pescate, Garlate, Olginate – si spingevano verso la Brianza
meratese, entrando in un altro mondo per quanto sapessero bene che la
strada sulla quale si muovevano le auto – la strada con i suoi ingorghi, i
gas di scarico, i pericoli – stava solo a poche decine di metri di distanza.
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Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi ed era sul punto di piangere per la
delusione, ma ricacciò indietro le lacrime perché il nonno, l’uomo più generoso del mondo, non meritava di essere trattato così.
«Mai fermarsi alle apparenze, ragazzo. Macché catenaccio: stai guardando un gioiello. Va solo un po’ ripulito e tornerà non solo a splendere,
ma anche a volare. Se Coppi la pensava così, una ragione ci sarà.»
«Mai sentito, questo… questo Doppi.»
«Coppi, Nino, non Doppi. Fausto Coppi. Ti racconterò la sua storia,
uno di questi giorni. Ora ti basti sapere che tra i ciclisti è stato il più
grande campione di tutti i tempi.»
«Un grande campione così… piccolo?»
«Ma no, ma no» scoppiò a ridere il nonno. «Questa è la bici che lui regalò
al figlio di un amico suo tifoso. La fece costruire apposta, con altre misure e con rapporti adeguati a un ragazzo, però esattamente sul modello
di quella che lui usava in corsa. Stesso colore, stesse geometrie, stessa
marca. L’ho avuta un mese fa da un mio compagno di classe delle elementari, pensa un po’. A lui l’aveva data un vicino di casa. È venuto a trovarmi, mi ha raccontato tutta la storia e mi ha detto: “Non hai un nipote,
tu? Fallo felice, dai”. Ed eccola qui. Guardala, Nino. È la bici perfetta
per te e per la tua sfida, mica puoi correre con la tua vecchia Sport a tre
cambi! Quel ragazzo di cinquant’anni fa doveva avere proprio la tua età
e la tua altezza.»
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Nino si scusò: «Nonno, lo sai che ti voglio bene: non volevo farti restar
male. Grazie del regalo, davvero. Ma non sarà troppo malridotto, il nostro gioiello?»
«Apparenze, Nino. Semplici apparenze.»
«Dici che potremo rimetterlo in sesto in tempo?»
«Ma certo. Ci faremo aiutare da Piero» lo rassicurò il nonno.
«Da chi?»
«Da Piero. Non mi dirai che non conosci neanche lui...»
Nino lo guardò perplesso e scosse la testa.
«Non te ne ho mai parlato? Davvero? Neppure una volta?»
«No, mai. Me ne ricorderei…»
«Allora sto davvero invecchiando, ragazzo mio… In ogni caso, Piero è
un caro amico ed è anche un uomo con le mani d’oro.»
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«Si può fare, si può fare…» assicurò Piero passandosi una mano sulla pelata mentre con l’altra si lisciava i baffi, che in realtà non ne avevano affatto bisogno, perché erano curatissimi.
«Lavoreremo qui, naturalmente» aggiunse rivolto a Nino, al quale si illuminarono gli occhi perché capì che avrebbe dovuto fare la sua parte se
voleva che il suo sogno si realizzasse. Non vedeva l’ora.
«Sarà il nostro segreto» gli sussurrò il suo fresco capo meccanico allungandogli una manona nella quale, stretta e scossa con forza, quella di
Nino quasi sparì. Poi chiese: «Ma dov’è questa bicicletta?»
«Nella mia cantina» rispose il nonno. «Ci toccherà portarla qui senza
dare nell’occhio perché per qualcuno, quando verrà il momento, dovrà
essere una sorpresa.»
«E allora, pronti... via!» annunciò Piero.
Uscì in cortile, si mise al volante della sua monovolume, caricò i due
ospiti e, una volta recuperata la bici, si accordò con Nino: si sarebbero
rivisti già l’indomani mattina per fare il punto della situazione e poi ci
avrebbero dato dentro.
«Quanto tempo abbiamo?» domandò prima di ripartire.
«Ehm… ehm… la corsa è fra tre settimane e bisognerebbe che Nino
avesse più tempo possibile per allenarsi» fece il nonno, imbarazzato di
imporre tempi così stretti. Piero allargò uno dei suoi sorrisi pieni di ottimismo e fiducia: «Vorrà dire che ce la faremo in tre giorni».
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La mattina seguente, Nino arrivò puntuale alla rimessa. Aveva chiesto
a suo padre di Coppi, raccontandogli tutto, e aveva scoperto la storia e
tutte le straordinarie vittorie del leggendario campione. Era euforico.
Trovò ad aspettarlo una lunga lista di materiale e il denaro (un altro regalo del nonno) per procurarselo alla ciclofficina della “Casa don Guanella”, un posto dove il ciclismo era amatissimo.
Fili e tamponi dei freni, cavi del cambio, nuove guaine, nastro per rivestire il manubrio, copertoncini e camere d’aria, sella, catarifrangenti, fanalini, borraccia e portaborraccia, cinghietti per i pedali, catena,
contachilometri. Piero aveva già cominciato a spogliare la bici di tutte
le parti che andavano sostituite e stava lavorando di gomito con un liquido misterioso sui cerchi delle ruote, che cominciavano a brillare.
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Sotto Varenna, così, si incolonnarono via via altre parole, che altro non
erano se non nomi di paesi del circondario: Ballabio, Bellagio, Brivio,
Colle Brianza e Oggiono, Paderno d’Adda, Cortenova, Bellano, di
nuovo Bellagio. E più sotto, accanto ai nomi, comparvero dei punti
esclamativi: Piani Resinelli! Morterone! Infine, entrarono in scena anche
le maiuscole: GHISALLO!
Tutto mentre Marco, dopo cena, puntualmente telefonava all’amico al
mare per fare rapporto: «La solita pedalata di un’oretta, niente di più».
Dopo due settimane, una sera Camilla arrivò trafelata a casa di Nino.
«È tornato Bruno» annunciò. «E non è tutto» aggiunse. «Senza che mi
vedesse, al bar l’ho di nuovo sentito parlare con il suo socio. Domattina
alle dieci si farà scortare con lo scooter andando a pedalare sulla strada
per Onno, e dopodomani farà lo stesso salendo in Valsassina.»
«Buono a sapersi» fece Nino spalancando la bocca e grattandosi una
guancia. Sorrideva, e aveva una luce strana nello sguardo.
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Nei giorni successivi scelse le stesse mete dei due compari, mettendosi
in strada però con un quarto d’ora di anticipo rispetto a loro. Canticchiando sulla sua bici Sport, prese una tranquilla andatura da passeggio
e solo dopo un paio di chilometri accelerò, ma non troppo.
«Guarda chi si vede: la schiappa» gli gridò puntualmente Bruno quando
lo raggiunse, affiancandolo per qualche istante con un sorriso beffardo
e con la scorta di Marco in motoretta. Nino prese il ritmo del rivale e
resse per un po’ anche la progressione con la quale l’altro lo sfidava, poi
cominciò a fare strane smorfie e piano piano si staccò. Missione compiuta, pensò.
I due rivali si ritrovarono il pomeriggio del terzo giorno, sul sagrato questa volta, per darsi l’appuntamento decisivo per la mattina seguente.
«Sicuro di non volere una delle mie bici per la corsa?» chiese Bruno.
«Sicuro. Quel che ho mi basta.»
«Che vantaggio vuoi, allora?»
«Lecco-Ghisallo? Dieci minuti saranno sufficienti» rispose Nino guardando dritto negli occhi il rivale. E aggiunse, per provocarlo: «Sempre
che non ti sembrino troppi…»
«Uno scarso come te lo straccio anche se parte venti minuti prima. Venti
minuti, sì. Venti.»
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I primi chilometri erano i più duri, potevano far diventare di piombo le
gambe. Nino decise di salire in agilità, alzandosi spesso sui pedali.
Quanto vantaggio conservava? Gli sarebbe bastato? Bruno scelse un
rapporto più pesante e l’andatura in sella. Era certo di essersi molto avvicinato all’avversario nel primo tratto. Almeno dieci minuti, si disse, li
aveva di sicuro già guadagnati. Si sentiva in gran forma e non gli restava
che completare l’opera sulla salita. La conosceva come le sue tasche per
averla affrontata almeno dieci volte e dunque sapeva come distribuire al
meglio lo sforzo, come sfuggire alle sue trappole.
Cominciò a innervosirsi dopo quattro chilometri, perché aveva pensato
che avrebbe agguantato Nino da quelle parti, trovandolo spompato e
forse addirittura fermo a bordo strada, e poiché tutto questo non accadde capì di aver sbagliato i conti. Fu però alla chiesetta di Guello, in
un punto in cui la strada spianava, che cominciò a sentire il cuore in gola.
Dove diavolo era quel maledetto mingherlino? Dove aveva trovato le
forze per restarsene in fuga?
Bruno piombò su Civenna spingendo sui pedali come un ossesso proprio nei tratti in discesa che avrebbero dovuto dargli respiro. Ancora
niente: del suo avversario nessuna traccia, e non restava che un chilometro e mezzo, o poco più, di salita. Come era possibile? Non mollare, si
disse, non mollare proprio adesso.
Solo qualche curva più avanti, Nino si stava facendo un’altra domanda:
quanta salita gli restava da coprire? Non riusciva a ricordare bene visto
che al Ghisallo, nei suoi allenamenti, era andato una volta sola. Sapeva
di essere quasi arrivato in fondo, questo sì, ma sapeva anche che gli restavano ben poche forze perché sulle rampe della prima parte aveva
spinto senza risparmiarsi. Pensò che se riusciva ancora ad andare avanti
era solo per l’euforia di non essere stato raggiunto. Non mollare, si disse,
non mollare proprio adesso.
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Quando la vide davanti a sé, più su, Nino si sorprese di riconoscerla: l’ultima curva, quella che precedeva il rettilineo in cima al quale si trovava
il santuario della Madonna dei ciclisti. Ce l’aveva fatta, allora, ce l’aveva
proprio fatta. Vai, vai, si incitò.
Nello stesso istante Bruno urlò di gioia in cuor suo scorgendo finalmente
davanti a sé la sagoma che aveva inseguito per tutti quei chilometri:
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Caricarono la bici su un Suv che sembrava un aeroplano, salutarono con
un colpo di clacson e un gesto svelto della mano e si infilarono giù per la
discesa, dal lato meno ripido, in direzione di Asso e Canzo.
Nino restò a guardarli mentre si allontanavano, poi senza dire una parola
puntò deciso verso il santuario. La mamma, il nonno e Camilla – che lo
aveva baciato come le miss al termine delle corse vere, facendolo arrossire
– non lo seguirono: sapevano che ciò che voleva fare, in quel momento,
riguardava lui, soltanto lui.
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Il ragazzo portava ancora a mano la sua bici e la tenne fin dentro la chiesetta, anche se forse non avrebbe dovuto, chissà. Si fece il segno della
croce e pregò sottovoce. Un’Ave Maria. Un Angelo di Dio. Poi lesse la
preghiera alla Madonna dei ciclisti incorniciata da un sottile profilo di
radica e appesa alla cancellata di ferro battuto che separava lo spazio dei
fedeli da quello dell’altare.
La rilesse più lentamente, immobile davanti ai candelabri elettrici con
la piccola feritoia per le offerte, e sentì crescergli dentro la commozione.
Era anche la sua preghiera, adesso, quella. Perché anche lui era salito al
Ghisallo, ci era arrivato addirittura da vincitore e tutto questo era semplicemente un sogno per il quale sentiva il bisogno di dire grazie. Lo
disse, il suo grazie, anche a Fausto Coppi. Non avrebbe mai immaginato
che quel leggendario corridore, di cui fino a poche settimane prima non
sapeva nulla, sarebbe entrato in modo così decisivo anche nella sua vita.
Nino strinse con più forza la presa sul manubrio, sentendo il nastro umido
di sudore. Alzò lo sguardo e vide – fissata alla parete con una catena, in
alto a sinistra proprio sopra di sé – la bicicletta con la quale il Campionissimo aveva vinto il Giro di Francia del 1949. La studiò a lungo, affascinato:
era malridotta, proprio come lo era la sua quando l’aveva vista per la prima
volta nella cantina del nonno, eppure gli sembrò bellissima.
Poi si accorse che proprio accanto all’altare, accostata al muro sul lato
opposto, c’era una seconda bici del grande Fausto. Un cartello diceva
che l’aveva usata nel 1947 per correre la Parigi-Roubaix e che era stata
rimessa a nuovo e donata da un appassionato collezionista. Nino la
esplorò centimetro per centimetro con lo sguardo, la immaginò tra le
mani sapienti di uno sconosciuto meccanico e, istintivamente, prese a
confrontare il risultato con quello ottenuto dal suo amico Piero.
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In salita con gli occhi al cielo
Fu papa Pio XII a proclamare la Madonna del Ghisallo “patrona celeste”
dei ciclisti. Era il 13 ottobre del 1949, un anno esatto dopo la staffetta in
bicicletta che – ultimi tedofori Gino Bartali e Fausto Coppi – aveva portato al santuario una fiaccola accesa e benedetta dallo stesso pontefice.
Ogni fine settimana sono centinaia gli appassionati del pedale che affrontano la salita verso i 754 metri del colle in territorio di Magreglio,
per mettersi alla prova e per alzare lo sguardo al cielo. Il versante più
duro, il “vero” Ghisallo, è quello settentrionale che si attacca sopra Bellagio: otto chilometri e mezzo in tutto, con il tratto più brutale nel primo
terzo dove le pendenze toccano il 14 per cento. Più su la strada si fa meno
ripida prima di tuffarsi in discesa verso Civenna, dove torna a impennarsi
fino alla sospirata chiesetta.
Sullo stesso piazzale si affaccia dal 2oo6 il Museo del ciclismo, voluto da
un grande corridore del passato: Fiorenzo Magni. In cinque sezioni
narra la storia della bicicletta, e ne custodisce la memoria con una straordinaria collezione di cimeli.
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Fausto Coppi ha legato il suo nome al Ghisallo (dove di lui si conservano
maglie, bici e tante immagini) anche per l’impresa del ’48, quando lo
scalò in 25’ 3o”: migliorò di un minuto e 43 secondi il precedente primato
e tutto solo andò a vincere il terzo dei suoi cinque Giri di Lombardia.
Cinque anche i Giri d’Italia conquistati dal Campionissimo, due i Tour
de France. E poi la Parigi-Roubaix, la Freccia Vallone, tre Milano-Sanremo, un campionato del mondo e tre italiani su strada, due titoli iridati
e cinque tricolori di inseguimento su pista. Nel 1942, al Vigorelli di Milano, Coppi con 45 chilometri e 798 metri stabilì anche il record dell’ora,
battuto solo nel ’56 dal francese Jacques Anquetil.
Quando era ragazzo, il primo biciclo a pedali doveva ancora essere inventato: ci avrebbe pensato il maniscalco scozzese Kirkpatrick MacMillan
nel 1839. Aveva invece 44 anni ed era un geologo di fama – fondatore
anche della paleontologia italiana – quando l’orologiaio parigino Guilmet
e il meccanico tedesco Meyer, nel 1868, costruirono la prima bicicletta
moderna, cioè con due ruote di identico diametro e trasmissione a catena
sulla posteriore.
Si chiamava Antonio Stoppani, era nato a Lecco ed era un sacerdote dei
Rosminiani. Nel 1876 pubblicò “Il Bel Paese”, il libro che avrebbe tenuto
a battesimo e dato larga diffusione in Italia alla narrazione divulgativa di
carattere scientifico-naturalistico.
È proprio Stoppani, identificato graficamente con l’inconfondibile sagoma del monumento a lui dedicato sul lungolago della città natale,
l’abate sulle cui orme si pone questa collana di libri, che vuole essere un
invito a riscoprire le bellezze del territorio lecchese.
A riscoprirle anche in bicicletta, perché no? Il veicolo dei romantici e dei
poeti, non solo degli sportivi. Là dove c’è una strada – ma anche solo una
mulattiera o persino un sentiero praticabile con la mountain bike –, un
mezzo perfetto per entrare nel paesaggio, per contemplarlo e conoscerlo
quasi con la stesso livello di dettaglio consentito dal camminare, ma con
in più la possibilità di allungare i percorsi.
È ciò che fanno anche i ragazzi protagonisti di questo racconto, in fondo,
consapevoli che vivere in luoghi d’incanto, o già solo frequentarli da visitatori, significa ricevere un dono: nel loro sguardo e nel loro girovagare
tra lago e montagne rivive l’amore di Stoppani per la sua terra e per la natura che vi dà spettacolo.
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La bici di Coppi
e la sfida del Ghisallo
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In salita
con gli occhi al cielo
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