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DailyNet Il quotidiano del marketing in rete 072 # ANNO XIV MERCOLEDÌ 20 APRILE 2016 Il racconto della seconda giornata dell’Advertising Week di Londra Diversi i panel organizzati, a partire dal Guardian che ha proposto una riflessione sui dati. A seguire Microsoft con l’intervento di Tejal Patel, director of consumer engagement, e la nuova ricerca di Google sul valore degli investimenti in video. Infine si è parlato di programmatic con Rubicon Project, prima, e Marco Bertozzi, poi Dall’inviato a Londra Francesco Lattanzio, in redazione Giacomo broggi e ottavia I dati sono la moneta della rete e i player della industry consigliano:“Amarli, ma non troppo” Anche i più grandi studiosi teoristi del linguaggio si sono ravveduti. Certo, una frase, un disegno, un gesto, può avere un significato di per sé, ma è necessario immergere la comunicazione in un contesto per dargli il suo reale senso. Senza scomodare Wittgenstein e la 3 pagina differenza tra il suo periodo filosofico pre e post guerra, e senza forzare troppo i paragoni, anche Mike Gaffney, cro Sharethrough , Darren Goldsby, chief digital & technical officer Hearst Magazines Uk, Nick Hugh, vp Emea Yahoo, Mari Kim Novak, cmo Rubicon Project e John Sheekey, general manager International Oracle Data Cloud, si sono trovati generalmente d’accordo su questa tesi nel panel “The Marketer’s Toolbox”, che è ripartito da questo tema per affondare riflessioni sulla condizione dell’advertising. È vero, i brand stanno affondando nei contenuti, ma fanno ancora troppo affidamento su Twitter e Facebook, cornici abbastanza anonime per inquadrare contenuti pubblicitari. “Le ads nel giusto contesto hanno un uplift del 35% maggiore rispetto ai social network” afferma Sheekey. E il native è quello che più beneficia dell’ambiente in cui è immerso. Ma se per Goldsby “ci sono diversi tipi di native, tra cui il contenuto editoriale, particolarmente efficace sulle audience perché è quello che tutti si aspettano”, invece “il contenuto è irrilevante se la qualità dei dati è alta. In questo caso il contenuto è così personalizzato che è quasi automatica la sua capacità di attirare gli utenti” ribatte Hugh. Comunque sia “siamo all’inizio dell’era del native advertising, e le possibilità sono enormi. Ma senza dubbio il mobile sarà il mezzo su cui questa esploderà con più potenza - evidenzia Novak - . Brand e contenuti si stanno avvicinando sempre più per accostare il messaggio agli DailyNet Il quotidiano del marketing in rete 072 # ANNO XIV MERCOLEDÌ 20 APRILE 2016 utenti. I due si fonderanno fino al punto in cui sarà difficile dire se un contenuto è pubblicitario o solo un bell’articolo. Questo restituirà gran valore all’advertising”. Marco Bertozzi Le agenzie sono più esperte e i brand assumono specialisti. Adesso il dialogo programmatico crea davvero valore Gli strilli che recitavano “il futuro è programmatic” riposano ormai sulla carta ingiallita. A oggi il programmatic è parte della quotidianità, e come tale ha perso la carica di entusiasmo del pacchetto appena aperto per attraversare il momento di analisi e approfondimento. Nell’intervento “The Future of Programmatic Debate”, parte della giornata numero due del The Guardian Stage all’Advertising Week di Londra, Marco Bertozzi, global chief executive, performance marketing Starcom Mediavest Group, Matt Adams, managing director iProspect, Dominic Perkins, digital commercial development director Time Inc., e Ruth Zohrer, head of programmatic marketing Mindshare, si sono spalleggiati in una serie di argomenti particolarmente caldi attorno alla situazione di questa tecnologia. Trasparenza e cooperazione prima di tutto Primo di questi la trasparenza. “C’è una sorta di ritrosia da parte dei media owner a condividere le informazioni - spiega Zohrer- . Noi di Mindshare, invece, ci siamo promessi di consegnare agli advertiser tutti i dati di cui siamo in possesso. Se tutti seguissero questa strada raggiungeremmo l’obiettivo di rinvigorire una industry svalutata da cattivi attori”. Ma per stabilire nuovi obietti- 4 pagina vi è necessario cooperare. “Stiamo cercando un modo per lavorare insieme agli altri attori. Gli editori si stanno applicando per monetizzare al meglio con il programmatic, ma bisogna fare gruppo, aprire una discussione costruttiva tra agenzie, publisher e partner tecnologici” spiega Bertozzi. “In realtà una delle sfide più grandi è all’interno dello stesso settore tech, nello specifico su come tutti i pezzi tecnologici possano lavorare assieme al meglio. I clienti stanno imparando come usare il programmatic e sono già a un buon livello di conoscenza, ma ora dobbiamo insegnargli come trattare i dati in modo da creare valore nel segmento viewability” aggiunge Adams. Il rapporto tra agenzie e advertiser ha subito però alcune frizioni nel tempo , “molti dei problemi tra i due sono nati dal fatto che gli interlocutori erano sbagliati. La maggiore cultura del segmento lato agenzia e l’assunzione di nuove risorse esperte in programmatic che si occupano di ciò che riguarda la tecnologia specifica all’interno dei brand sono fattori che hanno innalzato il livello della conversazione: adesso il dialogo tra agenzie e brand riesce davvero a trarre valore dagli investimenti” sottolinea Bertozzi. E a conferma di questo, Perkins racconta che il Time Inc. “ha assunto persone in grado di gestire tutti gli scomparti del programmatic, e ora è in grado di dare ai bu- Dati e misurazioni La terra sotto i piedi dell’advertsing digitale resta comunque una mistura di dati e strumenti per misurarli. Ma non è detto che le metriche adottate siano le più adatte. “Alcuni pretendono delle informazioni troppo specifiche sulle audience. Alla fine impostano le campagne su un target così stretto da rendere la stessa inefficace. Bisogna invece fare in modo che si valorizzino anche consumatori di altri cluster, aprirsi un po’ di più verso altri utenti. Il mio consiglio è: non innamoratevi troppo dei dati” spiega Sheekey, ma Hugh ancora controbatte: “i dati invece sono la valuta chiave, la qualità delle informazioni sta nel capire come gli utenti si comportano sui diversi dispositivi. Capire le audience crossdevice sposta gli equilibri”. Certo, però, che questi vanno usati con criterio. “La potenza dei dati è così grande che bisogna valutare il loro utilizzo – sottolinea Goldsby - . Capita infatti di ricevere ads su prodotti di cui non si è mai espresso un interesse. Questo spaventa i consumatori e certamente non fa bene al brand”. “Senza rinunciare a prendere qualche azzardo – puntualizza Novak -. Le enormi moli di dati che raccogliamo e proponiamo nel nostro marketplace indipendente sono tali da poter trovare applicazione in strategie crossmediali molto vaste. Si sta aprendo un periodo di testing molto eccitante”. DailyNet Il quotidiano del marketing in rete 072 # ANNO XIV MERCOLEDÌ 20 APRILE 2016 tejal patel di microsoft Con il mobile, i banner spariranno nel giro di pochi anni, per lasciare spazio a native e social I banner su mobile non esisteranno più entro l’inizio del 2020. A dirlo è Tejal Patel, director of consumer engagement di Microsoft, nel corso dell’Ad Week London. “I Millenials tendono sempre di più a sacrificare la propria privacy. Ma non sono disposti a farlo per i banner”. Questo perché ci vuole un rapporto di scambio, che per essere valido, deve presupporre contenuto e rilevanza di contesto. E poi Patel ha rincarato la dose: “Penso che la parola banner non do- vrebbe nemmeno esistere e probabilmente sarà così nel giro di tre, quattro anni, forse meno”. Anche Graham Moysey, head of international for Aol, che stava conducendo la sessione, si è trovato d’accordo. Gli annunci banner, secondo Patel, saranno rimpiazzati da un uso più intensivo della pubblicità nativa e da advertising veicolata direttamente sui social, due concetti di per sé molto vicini. La pubblicità in-app, tra efficienze e punti di yer quello di cui hanno bisogno. Dalla viewability al target. La prossima assunzione arricchirà l’area analytics”. Uno sguardo al fenomeno Ad Blocking L’adblocking, altro tema dilagante nelle pagine di marketing, costituisce una seconda area tematica della discussione. “Siamo di fronte a una chiamata da parte di questi strumenti. Mentre cercavano di espandere il bacino delle ads ci siamo dimenticati delle persone. Dobbiamo fare un passo indietro e creare pubblicità che assomiglino a servizi, invece di cercare di estrarre soldi dalle tasche delle persone. Questa è la soluzione per riportare il programmatic fuori dall’angolino in cui è stato messo” ricorda Zohrer. Programmatic, un insieme di tecnologia e creatività Per i meno esperti, ma non solo, il programmatic è una criptica composizione di acronimi. Un 5 pagina domanda Patel ha quindi trattato il tema dell’efficacia degli annunci in-app. “Pensando dal punto di vista di un consumatore, sono davvero poco impressionata da questa tipologia di comunicazione. Qualcuno per favore può mostrarmi qualcosa di veramente creativo? Ancora non ho visto niente del genere”, ha provocato, sottolineando come in media vengano utilizzate solo 4-5 applicazioni delle decine che vengono scaricate. Location-based advertising, ancora tutto da dimostrare Patel ha criticato anche le prime perfomance della location-based advertising, dicendo che Microsoft ha condotto dei test in alcuni mercati, “In ogni caso ha proseguito - il legame di questa pubblicità con gli acquisti è ancora debole”. Un problema, se si considera che location-based adverti- tema spesso sottovalutato, ma che Zohrer riporta sotto la luce dei riflettori: “Parlando per acronimi abbiamo rovinato il settore. Quando le persone smettono di capire, smettono anche di utilizzare. È un danno, non solo per i brand, ma anche per l’audience”. In disaccordo Bertozzi: “Secondo me questa è una scusa che utilizzano i marketer più anziani perché non hanno voglia di imparare. Anche “tv” è un acronimo, ma con il tempo e con lo studio non è difficile raccapezzarsi tra queste sigle”. Quando si parla di programmatic, poi, viene naturale chiedersi del suo rapporto con la creatività. “Io vedo le cose o bianche o nere. Se possiamo dare valore a una campagna o a un brand lo facciamo, anche sul lato creativo. E in quel caso la marca diventa sia nostro cliente che nostro partner” specifica Zohrer. “I creativi, però, hanno dimostrato poca reattività rispetto all’evoluzione tecnologica. Quasi ogni giorno nascono nuovi formati adv, e non sempre i re- sing ha dei costi più alti, con un’incidenza da non sottovalutare per quanto riguarda il Roi. “Ciò non significa che non funziona, magari per alcune cose come gli eventi può essere utile”, ha concluso. Microsoft è uscito dal business pubblicitario l’anno scorso, affidando ad Aol e Appnexus la vendita diretta e programmatica degli spazi pubblicitari delle proprie properties. parti creativi si applicano celermente per studiare un modo per sfruttarli” continua Bertozzi. “Quando i clienti ci assegnano i budget, noi cerchiamo di raggiungere i risultati che loro si pongono. Ma contemporaneamente testiamo nuove vie per sfruttare sempre meglio le loro potenzialità. È in questo che risiede la nostra creatività” conclude Adams. < DailyNet Il quotidiano del marketing in rete 072 # ANNO XIV MERCOLEDÌ 20 APRILE 2016 I media sono tutti d’accordo: il futuro è l’automazione Nel giro di cinque anni tutte le forme cosiddette di “traditional media” potrebbero essere investite da un nuovo modo, automatizzato, di acquistare gli spazi pubblicitari. Stiamo parlando del programmatic. Se già da qualche anno questa forma di compravendita degli spazi pubblicitari nel mondo digitale ha avuto largo spazio e successo, nei media tradizionali non è stato così. Ma come anticipato precedentemente, potrebbe averlo a brevissimo, anche se la strada non è 6 pagina del tutto in discesa perché le resistenze che si riscontrano nella “vecchia guardia” del mondo della comunicazione sono molteplici, a partire dalla “tech fear”, una sorta di malattia che affligge la classe dei giornalisti vecchio stampo e che frena i potenziali benefici che potrebbe portare all’intera industry. Questo è quanto emerso dalle parole dei relatori che ieri si sono succeduti sul palco dell’Ad Week londinese all’interno del panel “The future of automation” organiz- zato da Rubicon Project e al quale hanno partecipato Sky Media e Clear Channel. A dirigere i lavori c’era l’Svp Europe della società Oli Whitten, il quale ha dichiarato che i colossi dell’ad tech dei grandi mezzi tradizionali preferiscono ancora tenersi lontani dal termine programmatic, preferendo invece utilizzare la parola “automazione” per definire il fenomeno. “Il programmatic sarà un sottoinsieme del più ampio gruppo dell’automazione. E tutto ciò che sarà scambiato trami- te programmatic ne entrerà a far parte”. È questo il coro di voci che si alza dalla sala londinese e che mette d’accordo la maggior parte degli addetti del settore. Grandi ambizioni e grandi verità Tra i primi a parlare nel panel targato Rubicon Project c’è stato Jonathan Forster, Vp Emea di Spotify, il quale è intervenuto auspicando che l’intero business pubblicitario della piattaforma di music streaming in pochi anni sarà completamente automatizzato, con l’obiettivo principale di ridurre i costi dell’intero processo. Ha anche spiegato come già oggi il 70% delle revenue pubblicitarie di Spotify, in alcuni mercati, derivi dal programmatic,. Allo stesso modo il direttore commerciale Uk di Clear Channel, Martin Corke, ha parlato delle ambizioni della company: essere automatizzata al 100% entro il 2020. Un obiettivo che Clear Channel condivide con tutte le aziende del settore Ooh. Anche Theo Theodoru, Emea di xAd, si è trovato d’accordo con quanto espresso dai colleghi, sottolineando l’urgenza di adottare processi più automatizzati. Infine, è stata la volta del capo del digitale di Sky DailyNet Il quotidiano del marketing in rete 072 # ANNO XIV MERCOLEDÌ 20 APRILE 2016 Media David Fisher, il quale ha rivelato che il 20 - 30% delle revenue pubblicitarie provenienti dalla display advertising sono generati dal programmatic, aggiungendo che anche nel campo televisivo un buon 10% è riconducibile a questa modalità. Dimenticate la tv! L’online video genera più Roi. E ciò è vero anche per YouTube In occasione dell’Advertising Week Europe, Google ha pubblicato una nuova ricerca per comprendere il valore degli investimenti pubblicitari in video online comparati agli investimenti sulla tv. L’obiettivo è quello di aiutare le aziende a ottimizzare i budget sui diversi canali e comprendere con esattezza il ruolo svolto dai media digitali. L’analisi di 56 casi di studio raccolti in 8 Paesi tra cui anche l’Italia, è stata condotta in collaborazione con una serie di partner, tra cui BrandScience, Data2Decisions, GfK, Kantar Worldpanel, MarketingScan e MarketShare, e si è basata su metodologie condivise per comprendere a fondo l’esatta correlazione tra esposizione ai media e vendite offline. Ecco i principali risultati. Rispetto ai livelli attuali di spesa, la pubblicità su YouTube ha generato un Roi superiore a quello della TV per quasi l’80% dei casi Per oltre l’80% delle ottimizzazioni del 7 pagina media mix analizzate, i dati indicano che la spesa raccomandata su YouTube dovrebbe essere almeno doppia rispetto ai livelli attuali Google è in grado di fornire dati più completi e approfonditi, da integrare negli strumenti di pianificazione del media mix aziendale, per dimostrare più efficacemente l’impatto che si può ottenere da un aumento della spesa su YouTube Anche in Italia il digital scavalca la tv Per quanto riguarda l’Italia, i risultati confermano la recente indagine di Mec, comScore e Millward Brown, secondo cui, sulla base di oltre 30 studi econometrici realizzati in diversi settori, le attività digital hanno mostrato un incremento del 30% rispetto al Roi della tv. La nuova ricerca di Google è importante per capire non solo i risultati offerti da ciascun mezzo in sé, ma anche, e soprattutto, per definire la combinazione ottimale dei diversi canali e massimizzare l’impatto. Elementi di resistenza L’avvento del programmatic in tutto il mondo media, in particolare quello broadcasting, è frenato da alcuni aspetti legislativi. Oltre a questo, si aggiunga il fatto che molti operatori del settore, soprattutto agenzie, che non hanno l’expertise necessaria in questo campo preferiscono puntare su metodi più consolidati e tradizionali di trading. “Negli ultimi anni abbiamo sperimentato entrambe le metodologie di compravendita, sia in programmatic sia in modo tradizionale,e in certi casi alcuni inserzionisti hanno deciso, dopo averli provati entrambi, di continuare ad acquistare in modo tradizionale”, ha aggiunto Forster di Spotify. Primi passi verso una soluzione Tutti i partecipanti al panel, comunque, si sono trovati d’accordo nel confermare gli sforzi di collaborazione tra i vari media per arrivare ad avere un trading completamente automatizzato in cinque anni, a partire da Clear Channel. Thoedoru, infine, ha fatto luce sull’importanza dei dati in tutto questo processo, per capire meglio come la pubblicità stia cambiando e come sfruttarne al massimo le potenzialità. <