Per non dimenticare Santo Della Volpe e un progetto nato dal basso

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Per non dimenticare Santo Della Volpe e un progetto nato dal basso
stefano mencherini - giornalista indipendente
Per non dimenticare Santo Della Volpe e un progetto nato dal basso
Dalla crisi del talk alla
ricchezza del reportage
Duilio Giammaria – L’Unità 26
Ottobre 2015
Il
mercato internazionale dell’audiovisivo di Roma, proprio in contemporanea con
il festival del Cinema, è stata un’importante occasione per riconoscere ruolo e
peso all’industria dell’audiovisivo in Italia e metterla in relazione con il
resto del mondo. Non è una novità: in Italia chi ha una visione e un’attività
capace di dialogare con il mondo regge alla crisi e cresce, chi ha una visione
nazionale, se non locale, delle vicende e dei mercati, perisce.
Questa
constatazione si applica tanto più e meglio all’audiovisivo, in cui “emergono,
con grande evidenza, due pattern: produttori capaci di sviluppare progetti
internazionali (uno per tutti la Wild Side che sta lavorando con la regia di
Paolo Sorrentino a una serie intorno sul “giovane Papa” in collaborazione con
HBL e Canal+) e chi si accontenta che la committenza interna, essenzialmente
quella della RAI, copra i costi di produzione di fiction che non hanno nessuna
ambizione di “superare” le Alpi ed essere esportate.
In
questo contesto si inserisce anche il dibattito, tutto italiano, sulla crisi
del talk-show. Basta scorrere le rassegne stampa di quotidiani e settimanali
per accorgersi che qui da noi l’informazione di approfondimento televisiva è
del tutto schiacciata su questa questione. La ragione è che i nostri
palinsesti, dalla primissima mattina alla tarda notte, sono un susseguirsi di
studi televisivi in cui una pletora di ospiti, sempre più o meno gli stessi,
tra politici e commentatori, gioca una sempre più logora partita di ping-pong,
in cui si perde senso e significato. Le voci si sovrappongono, e numeri e
cifre, anche su questioni cruciali macroeconomiche, diventano materia di
conversazione da Bar dello Sport: “… Guarda che il mio attaccante è meglio del
tuo; il mio schema di gioco è vincente …”. E via commentando. Che questo genere
d’informazione sia poco utile alla formazione di un’opinione ragionata è del
tutto evidente, come appare chiaro che sia un rischio persino per la democrazia
stessa: se la politica e il giornalismo si prestano al gioco del casting
televisivo, se accettano il funzionamento “drammatico” allo scopo di creare
un’artificiosa rappresentazione adatta solo a trattenere l’attenzione del
pubblico, e quindi degli ascolti, perdono entrambi il senso della propria
missione. Tornando al MIA, ho avuto il piacere di moderare una tavola rotonda
con i rappresentanti dei principali gruppi televisivi pubblici europei (BBC,
Arte France, France 5, Danimarca DR, Svezia SVT, Canada SRC e Australia SBS), e
per l’Italia lo stesso Ministro della Cultura e Turismo Dario Franceschini,
Giancarlo Leone direttore di RAI e David Bogi di Raicom. L’ambizioso titolo “Il
servizio pubblico internazionale a un punto di svolta”, in realtà sottendeva
una domanda ben più specifica: perché tutti i servizi pubblici europei e
internazionali dedicano ampie risorse al genere documentario e reportage? La
risposta è doppia: dal punto di vista industriale produrre reportage e
documentari, pur con costi molto più elevati del talk show, realizza un
plusvalore molto maggiore. Un documentario, ad esempio non perde valore alla
messa in onda, può essere utilizzato e riutilizzato (programma di stock, in
gergo), può essere distribuito e venduto; allarga immensamente la filiera degli
addetti ai lavori che ci lavorano e, se ben realizzato, si ripaga e produce
utili. La seconda risposta è più “politica”: documentari e reportage offrono la
possibilità di una seria e circostanziata analisi e riflessione, consentono di
portare le telecamere là dove avvengono i fatti, evita quella fastidiosa distorsione
di sentir parlare di cose ed eventi che gli stessi commentatori conoscono
appena.
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Documentari
e reportages diventano strumento di formazione di opinione “informata” per il
proprio pubblico. Quando poi, tale “prodotto audiovisivo” viene venduto e
circola sui palinsesti di altri paesi, è un’ottima opportunità di irraggiamento
culturale, portando all’estero opinioni e modi di vedere che rappresentano le
sensibilità nazionali. Così la rete televisiva franco-tedesca ARTE(voluta da
Mitterand e Kohl) che produce migliaia di ore all’anno di documentari di
altissima qualità, sta per trasmettere un reportage sulla repressione del
regime di Assad: torture e veri e propri sistematici massacri, immagini che ci
ricordano che non basta essere contro l’ISIS per giustificare l’appoggio ad
Assad (posizione della Russia, per intenderci), ma cercare la strada di un
riconoscimento della opposizione civile e militare al regime (posizione
certamente francese, ma anche europea in genere). Discorso ulteriore per il
nostro Paese meriterebbe poi il documentario dedicato ai beni culturali: quale
migliore settore per l’Italia di trovare un modello di business e uno stile
narrativo che consenta di valorizzare al meglio il nostro formidabile
giacimento di storia e bellezza?
Un laboratorio Rai per ricordare
Della Volpe
Stefano Mencherini – Giornalista
indipendente e regista RAI – L’Unità 27 Ottobre 2015
Inutile
dire che le considerazioni di Duilio Giammaria su l’Unità del 26 ottobre, da
“addetto ai lavori” ma anche da telespettatore accorto, non possono che essere
ampiamente condivisibili. Il chiacchiericcio dei talk; la taverna degli ospiti,
sempre gli stessi, sempre apparecchiata secondo i possibili favori
dell’Auditel; i temi seri e profondi che stanno sulla pelle dei cittadini
trattati troppo spesso senza una riflessione, un approfondimento, con una
superficialità nauseante; e così via …
Del
resto il gradimento insieme ai dati di ascolto di chi la televisione la guarda
ancora, stanno lì ad indicare la fuga, il disinteresse, a volte anche il
disgusto per l’elettrodomestico un tempo più amato dagli italiani. Certo non
conviene mai fare di tutte le erbe un fascio: parlando di servizio pubblico
televisivo infatti resistono ancora alcuni baluardi di qualità come “Report” e “Presa
Diretta”. Ma non bastano. E il conduttore di “Petrolio” giustamente affonda la
riflessione sul tema reportage e documentari. Con una piccola dimenticanza,
però. Che anche e proprio da questo giornale ha avuto ampia risonanza solo
qualche manciata di mesi addietro: la proposta di un Laboratorio di
produzione-scuola di documentari, targato Rai, che neppure Bbc ha mai avuto, e
che potrebbe onorare non solo la mission dell’azienda in tempi di grandi e
auspicati cambiamenti, ma portarci anche sui mercati esteri con dignità e
ritorni economici. Ci provammo con alcuni colleghi Rai come Santo Della Volpe a
spingere il progetto che nasceva dal basso e non aveva padrini politici.
Mettemmo
in piedi “LaboreRai”, una rassegna di tre giorni all’Isola del Cinema di Roma
con incontri e proiezioni, andammo persino alle Giornate degli autori a Venezia
per parlarne pubblicamente, organizzammo (a nostre spese) la prima Assemblea
Pubblica per la costituzione del Laboratorio alla Casa del Cinema di Roma, con
molti documentaristi del Servizio Pubblico e non, con ospiti autorevoli e
interessati come l’allora membro del CdA Gherardo Colombo, come Giorgio
Gosetti, critico e oggi direttore della Casa del Cinema, come Sergio Zavoli che
fin troppo generosamente seguiva l’evolversi della situazione con la
disponibilità a garantire una sua supervisione al progetto nel momento in cui
sarebbe decollato. Sarebbe. Perché nonostante l’interesse mostrato anche dall’allora
presidente Tarantola e dal Dg Gubitosi, tutto finì nel dimenticatoio. Anche i
rapporti avviati col Centro Sperimentale di Cinematografia e con l’Istituto
Rossellini per la parte della formazione.
Ecco,
se oggi a qualcuno tornasse in mentre quel progetto in meno di un anno Rai
potrebbe essere operativa ed iniziare a competere su vari fronti. Magari
proprio intitolando il Laboratorio a Santo Della Volpe che ci ha lasciato,
sgomenti, pochi mesi fa. Altro che chiacchiere. Con una sorpresa, anche per i “miscredenti”:
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un buon reportage, un bel documentario, costano molto meno di un’ora di talk e,
come scrive Giammaria, hanno il fiato lungo. Molto più lungo.
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