Tesi Dottorato

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Tesi Dottorato
Dipartimento di Filosofia
Tesi di Dottorato (23° ciclo) – Filosofia Politica
La Democrazia Deliberativa
una ricostruzione critica
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Guido Parietti
Supervisori:
Professor Stefano Petrucciani
Professoressa Claudia Mancina
Professor Filippo Gonnelli
Sommario
Introduzione .....................................................................................................vii
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
1. Articolare una definizione ...............................................................................3
1.1. Deliberazione come razionalità della politica .................................................5
1.2. Variabili teoriche .......................................................................................18
1.3. Posizioni politiche .....................................................................................31
2. Breve storia delle teorie deliberative .............................................................43
2.1. 1980 - ’89: Una “definizione per intersezione” ..............................................45
2.2. 1990 - 2000: L’affermarsi del paradigma deliberativo ....................................56
2.3. 2001 - ’11: Approcci empirici ed applicativi .................................................63
Parte seconda: Temi e problemi
3. Le ragioni per deliberare ...............................................................................77
3.1. Dal discorsivismo alla deliberazione ............................................................80
3.2. Liberalismo, ragione pubblica e deliberazione ..............................................89
3.3. Giustificare e/o fondare la democrazia deliberativa ......................................97
4. Spazi deliberativi, tra società e politica ......................................................119
4.1. Interpretare la democrazia “a doppio binario” ............................................124
4.2. La società civile deliberativa: Öffentlichkeit e Lebenswelt .............................132
4.3. Ripercorrere il nesso fattualità-validità ......................................................142
4.4. Circa i limiti della teoria deliberativa ........................................................151
5. Soggetti e oggetti della deliberazione ..........................................................159
5.1. Chi delibera ............................................................................................162
5.2. Che cosa si delibera .................................................................................183
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme ..................................................205
6.1. Sulle modalità comunicative .....................................................................208
6.2. Il potere comunicativo..............................................................................227
6.3. Potere e deliberazione ..............................................................................247
Conclusioni ......................................................................................................251
Bibliografie
Bibliografia per argomento ..............................................................................271
Opere citate.....................................................................................................277
Introduzione
La democrazia deliberativa rappresenta attualmente il paradigma prevalente nella
teoria politica normativa – ciò è vero nel modo più evidente per il mondo accademico di lingua inglese, ma questo limite è stato oramai da tempo varcato. Vale a dire
che, oggi, tra i pensatori politici che argomentano per la democrazia come la migliore e più giusta forma di governo – che non si limitano, perciò, ad analizzarla
come un mero dato di fatto, se mai questo fosse possibile – la più gran parte ragiona, direttamente o indirettamente, in termini deliberativi. «Tanto la parola quanto i
relativi princìpi sono stati accolti con così tanto fervore da così tanti teorici che talvolta ora sembra che non soltanto siamo tutti democratici, ma democratici deliberativi».1 Discorrere attorno alla deliberazione significa, in buona misura, occuparsi di
come oggi la democrazia venga pensata dai teorici democratici.
Il successo della teoria ha fatto sì che, impiegata in modi tanto diversi, l’endiadi
sia difficile da riportare ad un significato univoco. Perciò, la prima parte di questa
tesi è dedicata alla delimitazione dell’oggetto di studio. Nel primo capitolo proporrò
una definizione molto generale, dunque necessariamente vaga, della democrazia deliberativa, accanto alle principali articolazioni teoriche nel dibattito contemporaneo,
mentre nel secondo esporrò brevemente lo sviluppo delle teorie deliberative negli ultimi tre decenni, mirando con ciò ad essere per quanto possibile esaustivo nello spiegare il ‘cos’è’ di questa teoria politica – o per meglio dire, di questa famiglia di teorie, che attraversa il repubblicanesimo contemporaneo, il liberalismo e la teoria
critica, per arrivare fino alle scienze politiche empiriche.
I primi due capitoli rimarranno, dunque, su un piano prevalentemente descrittivo:
anche se sono consapevole di affrontare l’argomento da una prospettiva forzatamente
particolare, ritengo doveroso tentare di offrire dapprincipio un approccio inclusivo.
Ciò per evitare di ridurre un dibattito complesso ad un mero movimento della storia
del pensiero politico, elegantemente conchiuso secondo una logica comunque imposta. Anche se nella democrazia deliberativa si colgono delle costanti, mentre d’altro
canto si può ben comprenderla nel quadro dello sviluppo storico della teoria demo1. J. Parkinson, Deliberating in the Real World: problems of legitimacy in deliberative democracy,
Oxford: Oxford University Press, 2006, p. 2, traduzione mia.
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cratica – ed avanzerò entrambi i punti di vista nel corso della tesi – non sarebbe corretto né produttivo dimenticare la varietà, talvolta contraddittoria, delle prospettive
teorico-politiche che vi confluiscono e la elaborano. È un fatto che, ad oggi, l’approccio deliberativo domini la teoria politica normativa (benché il complessivo stato di
salute di quest’ultima sia più dubbio), avendo già da tempo superata la massa critica necessaria per ispirare programmi d’implementazione dal rilevante valore politico
ed economico; persino l’attuale presidente degli Stati Uniti si richiama esplicitamente all’ideale della deliberazione.2 Se è vero che l’ampiezza del successo della democrazia deliberativa rischia di oscurarne il significato, sfaldandone la consistenza al
punto da trasformarla nell’ennesimo slogan, adattabile indifferentemente a qualsiasi
scopo, merita d’essere compiuto il tentativo di offrire un quadro espositivo e critico
più comprensivo di quanto finora non sia stato fatto.
Come si vedrà, già solo il numero degli autori coinvolti pone seri problemi al tentativo di fornire una definizione unitaria. Le esposizioni generali della democrazia
deliberativa sono state quasi sempre scopertamente parziali, superficialmente insoddisfacenti o entrambe le cose. Questo perché, come facilmente accade nel corso dello
sviluppo di una teoria giovane, ogni autore legittimamente ne presenta una ricostruzione funzionale alla propria versione, che pretenderà di esserne al contempo uno
sviluppo originale. Perciò, ci sarà chi vedrà la democrazia deliberativa interamente
inscritta nella storia del repubblicanesimo, del pragmatismo americano, o puramente
come l’ultimo sviluppo della teoria critica; chi invece la riporterà alla filosofia morale
liberale o alla democrazia radicale/partecipativa oppure, ancora, chi la concepirà
come un metodo squisitamente empirico-applicativo. Ciò per quanto riguarda i sostenitori, ma anche gli avversari tenderanno a definirla in modo unilaterale, magari
per costruire un bersaglio più semplice da criticare, senz’altro anche perché oggettivamente manca una “mappa” efficace delle teorie deliberative – mentre quelle che,
implicitamente od esplicitamente, si presentano come “standard”, sempre più spesso,
non tengono adeguatamente conto della propria, sia pur breve, storia. Elaborare e
presentare questa “cartografia” mancante sarà lo scopo precipuo della prima parte
ma, in un senso più ampio, e certo accanto a sviluppi maggiormente analitici, anche
dell’intera tesi.
Nella seconda parte mi occuperò degli aspetti filosoficamente e politicamente più
rilevanti della democrazia deliberativa. L’obiettivo d’insieme è quello di coniugare ad
una critica puntuale la ricostruzione di una teoria deliberativa coerente. Di qui, do2. B. Obama, L’ audacia della speranza: il sogno americano per un mondo nuovo, Milano: Rizzoli, 2008, cap. 3. Qualunque cosa si possa pensare sull’efficacia della sua azione politica, questa non
è meramente una postura propagandistica, la formazione intellettuale di Obama è stata direttamente influenzata da alcuni tra i più importanti teorici deliberativi, si veda: J. T. Kloppenberg,
Reading Obama: Dreams, Hope, and the American Political Tradition, Princeton: Princeton University Press, 2010.
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vrò abbandonare il tentativo di fornire una descrizione “neutrale” o “equidistante”,
perché un’analisi significativa dei nodi teorici degni di interesse richiede inevitabilmente posizioni determinate con cui confrontarsi; il che significa, nei limiti dello spazio disponibile, alternativamente scegliere le parole di un singolo pensatore oppure
ricostruire astrattamente una posizione, in entrambi i casi facendo inevitabilmente
torto alle differenze e alle sfumature esistenti tra i diversi teorici. A fronte della varietà di temi e metodologie presenti nel campo deliberativo, che pure non dovrà essere dimenticata, il focus di questa seconda parte della tesi si troverà sulle varie articolazioni della democrazia deliberativa come teoria politica normativa in senso
proprio. Questo vorrà dire, da un lato, lasciare sullo sfondo le questioni circa l’applicabilità pragmatica della deliberazione, se non nella misura in cui hanno implicazioni dirette nella definizione della teoria. D’altro canto, in ciascun caso tenterò di
adottare un punto di vista per quanto possibile “interno” alle varie posizioni, che saranno dunque analizzate e criticate in primo luogo riguardo la loro coerenza intrinseca, e solo alla luce di ciò inserite nel quadro complessivo. Perciò, la scelta delle
questioni stesse e del loro ordine di presentazione dovrà ora corrispondere alla struttura che considero adeguata per la teoria complessiva, sebbene questa non possa essere esposta prima d’essere passati attraverso l’intero discorso, fino alle conclusioni.
La trama generale di questo gruppo di capitoli si troverà nella doppia constatazione che, mentre la filosofia discorsiva rappresenta il fondamento più convincente
per la democrazia deliberativa, consentendo di cogliere il senso in cui essa corrisponde alla possibile razionalità della politica, proprio perciò ne mette in evidenza i
punti più problematici; in particolare riguardo le difficoltà intrinseche alla polarità
tra società (sfera pubblica, società civile) e politica istituzionalizzata e alla definizione dei soggetti della deliberazione, pretesi al contempo autonomi e incarnanti un
telos verso risultati equi e intelligenti. Al centro della questione c’è il dato che una
teoria deliberativa coerente deve essere deontologica e procedurale. Non si tratta
d’altro che della posizione più coerentemente avanzata da Habermas negli anni novanta, soprattutto in Fatti e norme, però poi pressoché abbandonata, tanto a causa
delle obiezioni avanzate contro di essa, quanto della tensione interna con altri aspetti del progetto della teoria critica. Riprendere questo punto e svolgerne le implicazioni al di là dello specifico progetto filosofico habermasiano è necessario, se della
democrazia deliberativa si vuole avere un concetto chiaro.
Nel terzo capitolo affronterò le due modalità di giustificazione che sono state più
influenti per lo sviluppo (non però in termini cronologici) della teoria deliberativa: il
liberalismo ispirato a Rawls e, per l’appunto, la filosofia discorsiva come sviluppo
teoreticamente più raffinato della teoria critica. Apparirà immediatamente chiara
una certa difformità tra i due approcci, perché mentre Habermas – anche se non tutti gli autori che si rifanno al discorsivismo concordino con gli sviluppi da lui impres-
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Introduzione
si – presenta esplicitamente la democrazia deliberativa come parte dell’esito politico
della propria teoria della società e della razionalità, l’influenza esercitata dal liberalismo di Rawls è meno diretta e diffusa d’altronde attraverso autori su posizioni
maggiormente differenziate. Perciò, mentre per il discorsivismo sarà possibile poggiare l’analisi su una teoria definita piuttosto canonicamente, la posizione liberal-deliberativa dovrà essere ricostruita, sia pur riferendosi ampiamente alla letteratura
esistente, in qualche misura ad hoc. Nondimeno, le diverse modalità impiegate
nell’argomentare a favore della deliberazione definiscono linee teoriche distinguibili
fin nelle loro conseguenze politico-pratiche. Si vedrà come la differenza che importerà maggiori conseguenze nel prosieguo della tesi sia quella tra un approccio teleologico alla giustificazione della deliberazione democratica – giudicata positivamente
perché si ritiene possa produrre esiti conformi a qualche criterio esterno – ed una
sua fondazione di tipo deontologico, per cui la procedura deliberativa sarebbe normativamente valida in quanto corrispondente a princìpi che non dipendono dai risultati volta per volta conseguiti.
Quest’ultima posizione corrisponde all’elaborazione più radicalmente procedurale
della teoria deliberativa – contrapposta agli approcci contenutistici, che non separano il giudizio sulla democrazia da quello dei suoi esiti concreti, oppure dei valori cui
essa corrisponderebbe. Proprio l’esame del proceduralismo, in chiusura del terzo capitolo, introdurrà la considerazione di quell’“oggetto” molto particolare che è la società civile. Entro un complesso incrocio tra filosofia e sociologia, infatti, la società
civile occupa un luogo centrale nelle teorie deliberative; soprattutto, ma non soltanto, in quelle d’ispirazione habermasiana. L’analisi della società civile e la critica del
suo ruolo teorico occuperà la maggior parte del quarto capitolo, entro però la più
generale rubrica degli “spazi” deliberativi, intesi come quei luoghi delimitati da
norme, formali e informali, nei quali può darsi quella particolare interazione che è la
deliberazione. Sosterrò come la definizione di tali spazi costituisca il compito principale della teoria democratico-deliberativa; si vedrà però come la proposta della democrazia “a doppio binario” (che distingue, appunto, tra la deliberazione informale
nella società civile e quella formale nelle istituzioni), nonostante la sua prevalenza,
sia insufficiente. Ciò porterà a riconsiderare gli appropriati limiti della teoria deliberativa, lasciando parzialmente aperta la spinosa questione della motivazione per un
approccio puramente procedurale, che ora non potrà più poggiare su una concezione,
in fondo ancora teleologica, della società civile.
Da un punto di vista molto generale, gli elementi che definiscono questi spazi deliberativi si possono ridurre al ‘chi’ delibera, e ‘in che modo’, riguardo ‘che cosa’. Le
tre questioni sono certo connesse, tuttavia il quinto capitolo sarà dedicato a chiarire
l’appropriata concezione dei soggetti e degli oggetti della deliberazione, ‘chi’ delibera
riguardo ‘cosa’; mentre la vexata quaestio delle modalità discorsive accettabili (di-
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scorso argomentativo/razionalistico, retorica, narrazione, emotività, e così via) potrà
essere discussa nel capitolo sesto, proprio alla luce degli aspetti precedentemente evidenziati. Sotto queste rubriche relativamente astratte saranno riuniti temi anche apparentemente distanti, proprio allo scopo di mostrarne la connessione dal punto di
vista normativo. Perciò, per comprendere il soggetto della deliberazione sarà necessario riconsiderare l’opposizione tra rappresentanza e partecipazione, assieme ad una
più generale critica della sovranità come modello dell’azione politica (posizione,
però, da tenere separata dall’uso del medesimo concetto in senso giuridico e/o descrittivo), nonché tentare di riunire le questioni sollevate dal multiculturalismo rispetto all’identità, individuale e collettiva, con le loro implicazioni più direttamente
politiche. Si vedrà come questi stessi discorsi richiameranno intrinsecamente, per
completare la propria definizione, la questione degli oggetti della deliberazione, tanto nel senso della forma assunta dalle decisioni democratiche quanto in quello del
dominio – qui inteso prevalentemente come ambito territoriale, fino a considerare,
pur molto brevemente, la possibilità di un ordinamento cosmopolitico – nel quale si
esercitano.
L’insieme di questi temi, ciascuno dei quali di per sé meriterebbe certo più spazio
di quello che potrò loro concedere, convergerà nell’illuminare la tensione sempre presente tra le istanze pratiche e cognitive della teoria deliberativa. La deliberazione
come prassi democratica, infatti, presuppone di fondare non soltanto la propria legittimità morale, ma anche la qualità cognitiva dei propri risultati sull’essere inclusiva – come minimo nel senso della rappresentazione, sia pur sempre mediata,
dell’universalità e dell’imparzialità dal punto di vista di tutti i coinvolti. È però innegabile che le istanze normative, che definiscono la tendenza della democrazia deliberativa verso “buoni” risultati, rischino di produrre effetti indebitamente esclusivi,
perciò antidemocratici. Al fondo, è su questo problema che si appuntano gli attacchi
più radicali contro la democrazia deliberativa. Nel capitolo sesto, dopo aver gradualmente allargato il campo d’indagine dalla rivalutazione della retorica alle concezioni
agoniste e “postmoderne” della democrazia, questa considerazione condurrà a mettere in discussione la concezione del rapporto potere-discorso al momento prevalente
tra gli approcci deliberativi; il che, a sua volta, rappresenta una condizione necessaria per porre in modo sensato la pervasiva tensione tra inclusione ed esclusione, in
modo tale da poterla affrontare nella prassi, non certo farla scomparire nella teoria.
Ricomponendo i risultati parziali raggiunti nei precedenti capitoli, nelle conclusioni tenterò brevemente di descrivere la democrazia deliberativa come una teoria coerente. Questo dovrà avvenire, una volta riconosciuta l’effettiva varietà degli approcci, mettendo ordine nelle pretese che ciascuno di essi può avanzare come teoria
democratica (si può dire: teoretico-descrittiva, pratico-normativa, tecnico-pragmatica). Lo statuto di una famiglia di teorie, diverse nelle origini e plurali negli esiti
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come sono quelle deliberative, non può che presentarsi anch’esso composito. Tuttavia, mentre nel corso di tutta la tesi tenterò di presentare le alternative, talvolta disgiuntive talaltra sovrapponibili, senza pretendere di forzare una sintesi, piuttosto
evidenziando i punti d’apertura, qui dovrò, nello sciogliere le questioni lasciate precedentemente sospese, presentare una prospettiva necessariamente unitaria, almeno
per quanto riguarda i fondamenti teorici. Abbandonato il terreno di un’argomentazione analitica, proverò a dire in breve cosa significhi e quali conseguenze generali
implichi l’accostamento alla democrazia del paradigma deliberativo – qui finalmente
considerato unitariamente come tendenza di fondo, nonostante le numerose articolazioni più volte evidenziate.
***
Prima di entrare nel merito degli argomenti sopra schematizzati, una breve nota metodologica può essere utile alla comprensione. L’approccio complessivo di questa tesi
sarà spiccatamente astratto, nel senso di limitarsi all’analisi delle teorie in quanto
tali, avventurandosi ben poco, e in modo non particolarmente rilevante, in giudizi
circa lo stato di cose corrente nelle società democratiche, attuali o passate. Persino
nel trattare quegli sviluppi pragmatici per definizione, in quanto direttamente applicativi, il punto di vista primario, differentemente da come perlopiù avviene nel dibattito odierno, rimarrà quello della coerenza teorica.
Questa scelta, che certo rischia di somigliare ad una caricatura della tendenza del
pensiero verso l’astrazione, è però motivata in modo molto concreto. In primo luogo,
è sempre opportuno procedere nella consapevolezza dei propri limiti; poiché non
posso davvero figurarmi di avere in mano un quadro delle condizioni reali delle nostre molto complesse società democratiche (e tanto meno della loro intricata storia)
sufficientemente accurato da poterne trarre implicazioni significative – mentre d’altronde capita spesso di registrare quanto fallaci siano le pretese di averlo laddove,
invece, vengano avanzate – ne consegue che non posso pretendere di trattare argomenti che tale quadro presupporrebbero.
C’è però un altro motivo, di validità più generale, a confortare la scelta del punto
di vista dal quale osservare l’oggetto. Proprio perché l’approccio deliberativo alla democrazia sta rapidamente divenendo parte del senso comune, non solo nell’accademia ma anche in ambiti direttamente politici e applicativi, è tanto più importante
ricostruirne criticamente il significato sul piano teorico. Prima di entusiasmarsi per
le possibili implementazioni pragmatiche di un ideale, ovvero mostrarsi scettici circa
le probabilità di realizzazione nel mondo reale, sarebbe bene avere un quadro solido
di che cosa si sta proponendo, od osteggiando, e perché. In mancanza di ciò, il rischio è che un’idea mal compresa si presti a coprire, come un’accattivante etichetta
apposta su prodotti di non eccelsa qualità, pratiche e pensieri non soltanto da essa
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difformi (il che, magari, potrebbe essere di scarso interesse al di fuori del circolo dei
teorici), ma proprio contravvenenti gli intenti normativi che motivano l’intera costruzione della democrazia deliberativa.
È sufficiente gettare uno sguardo d’insieme sulla letteratura degli ultimi anni, ormai non più soltanto accademica, per comprendere quanto sia reale questo rischio di
contrabbandare, sotto la categoria di deliberazione democratica, contenuti in flagrante contraddizione con il suo significato. In altre parole, proprio nel caso di un
concetto che così bene si presta all’uso politico, l’intento di analizzarlo e ricostruirlo
attraverso un approccio astrattamente teorico è quantomai praticamente motivato.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia
deliberativa
1. Articolare una definizione
Il compito della politica non consiste soltanto nell’eliminare l’inefficienza, ma anche nel
creare giustizia – un fine per il quale l’aggregazione di preferenze pre-politiche è un mezzo
alquanto incongruo. (Jon Elster, The Market and the Forum)
Per definire l’oggetto di questo studio, conviene iniziare con un caveat introduttivo –
necessario per il lettore italiano e invero banale, sebbene non privo di implicazioni
più ampie – riguardante proprio il significato del termine centrale: deliberazione. In
inglese, ‘deliberation’ e suoi derivati assumono un senso pressoché speculare rispetto
a quello italiano corrente.1 Mentre nella nostra lingua la deliberazione è la decisione
che ‘segue’ una discussione, o anche soltanto una solitaria valutazione dei pro e dei
contro, in inglese il termine indica perlopiù il ponderato scambio di argomenti che
‘precede’ la scelta. In altre parole, tra i due significati si osserva uno spostamento
dell’enfasi verso il pluralismo della discussione e la centralità di questa rispetto alla
conseguente decisione.
Così, in una formulazione tra le più generali:
La democrazia deliberativa, definita in senso ampio, è dunque una qualsiasi tra la
famiglia di concezioni secondo cui la deliberazione pubblica tra cittadini liberi ed
eguali è il nucleo della legittimità del processo decisionale politico e
dell’autogoverno.2
1. G. Bosetti e S. Maffettone, a cura di, Democrazia deliberativa: cosa è, Roma: Luiss University
Press, 2004, p. 7. La differenza nell’uso potrebbe trovare radici anche in una diversa interpretazione
etimologica, vedi: M. Bonanni e M. Penco, “Modelli deliberativi: una ricognizione critica”, in La
deliberazione pubblica, a cura di L. Pellizzoni, Roma: Meltemi, 2005, p. 160. Ad oggi, almeno nella
letteratura specialistica, l’uso anglicizzante è relativamente scontato. Ma qualche tempo fa era necessario, nelle traduzioni, premettere una nota esplicativa, vedi ad esempio: J. Habermas, L’inclusione dell’altro: studi di teoria politica, Milano: Feltrinelli, 2002, p. 11. Verso la metà degli anni novanta il termine era ancora «fuorviante»: J. Habermas, Fatti e norme, Napoli: Guerini e Associati,
1996, p. 324, nota del traduttore.
2. J. Bohman, “The Coming of Age of Deliberative Democracy”, Journal of Political Philosophy
6, no. 4 (1998), p. 401, traduzione mia. Si confronti questo però con la definizione offerta solo
l’anno prima, che lasciava cadere l’accento sulla centralità della legge, «... la democrazia deliberati-
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1. Articolare una definizione
Perciò, non è sufficiente che tutti abbiano pari diritto ad influenzare le decisioni –
per esempio limitandosi al solo esercizio del voto – è anche richiesto che ogni votazione sia preceduta, e seguita, da una discussione pubblica e aperta alla partecipazione.3 E questo non soltanto nel senso, relativamente poco controverso,4 che l’aggiunta di una discussione ragionevole sia preferibile alla sola votazione, bensì
avanzando la più forte pretesa che la deliberazione sia di per sé determinante – è da
discutere poi se, ed eventualmente in che senso, soltanto necessaria o anche sufficiente – per legittimare la politica democratica.
Già soltanto limitandosi all’aspetto puramente normativo, la democrazia deliberativa include idee divergenti, varie al punto che, più che di una singola ‘teoria’, si
deve parlare piuttosto di un ‘approccio’ deliberativo. In altre parole, si tratta di teorie al plurale, talvolta strettamente intrecciate, in altri casi più debolmente connesse
attraverso “somiglianze di famiglia” – una trama di influenze dirette e indirette, non
sempre lineari, la cui ricostruzione sarà tra gli obiettivi principali di questa tesi. E
però l’influenza della democrazia deliberativa non è limitata a quest’unico ambito.
Sebbene al di là della teoria politica normativa l’approccio deliberativo non sia altrettanto prevalente, è oramai enorme la mole di studi politologici e di scienze sociali che variamente impiegano, sia descrittivamente sia in senso applicativo, il concetto
di deliberazione. Un conteggio accurato non sarebbe molto significativo, anche a
causa delle difficoltà di catalogazione, ma è persino probabile che, in termini numerici, gli studi empirici abbiano già sorpassato quelli normativi.5
Ciò considerato, nel trattare il tema, è d’obbligo evidenziare l’estrema varietà di
posizioni e punti di vista, talora non solo diversi ma anche divaricati attraverso livelli discorsivi e metodologici alquanto difformi. Rendere conto di tali differenze sarà il
primo obiettivo di questa tesi, considerando, da un lato, quanto possano essere fuorvianti prospettive parziali o unilaterali, specie in un campo di ricerca ancora in fase
di sviluppo, privo di canoni interpretativi consolidati, e, d’altro canto, come proprio
va si riferisce all’idea che le legittima legislazione proviene dalla deliberazione pubblica dei cittadini»: J. Bohman e W. Rehg, a cura di, Deliberative Democracy: Essays on Reason and Politics,
Cambridge MA: MIT Press, 1997, p. IX, traduzione mia.
3. Tuttavia, anche su questo punto si trovano sfumature diverse; si può, ad esempio, enfatizzare la
rilevanza della deliberazione riflessiva-interna: R. E. Goodin, “Democratic Deliberation Within”,
Philosophy and Public Affairs 29, no. 1 (2000): 81-109; R. E. Goodin, Reflective Democracy, Oxford: Oxford University Press, 2003.
4. Tuttavia, vedi anche: J. D. Fearon, “Deliberation as Discussion”, in Deliberative Democracy, a
cura di J. Elster, Cambridge: Cambridge University Press, 1998.
5. La tendenza è anche più pronunciata nel nostro paese dove, perlopiù mancando la figura del
political theorist nel senso anglosassone, la deliberazione ha finora interessato maggiormente sociologi, politologi e psicologi che non filosofi. Si vedano ad esempio i contributi inclusi nel volume: L.
Pellizzoni, a cura di, La deliberazione pubblica, Roma: Meltemi, 2005.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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nell’esame ravvicinato dei punti di articolazione o di frattura tra le diverse opinioni
si possano trovare tanto gli elementi comuni, utili per una descrizione significativa
della democrazia deliberativa in genere, quanto i nodi più problematici, e perciò di
maggiore interesse. La scelta di affrontare il tema da un angolo visuale tanto ampio
porta senz’altro con sé il rischio di un’esposizione dispersiva; tuttavia, volendo rappresentare la realtà complessa e magmatica di una famiglia di teorie tuttora in evoluzione, l’alternativa di ridurle ad un ordine artificiosamente compatto non sarebbe
neanche da prendere in considerazione.
In questo primo capitolo saranno presentate le coordinate teoriche in cui inquadrare la deliberazione. Ciò comporterà una certa semplificazione, si deve bensì tenere presente che una definizione per quanto possibile completa – anche se, nel proseguire, la tesi dovrà assumere un tono più analitico – potrà considerarsi acquisita
solo al termine di questo lavoro. Per iniziare, accontentarsi di una introduzione inevitabilmente schematica non deve né vuole far dimenticare la plurivoca complessità
del campo di studio.
1.1. Deliberazione come razionalità della politica
Per spiegare la democrazia deliberativa conviene dapprincipio accostarla a ciò
‘contro’ cui essa si definisce. Le teorie deliberative prendono slancio, a partire dagli
anni ottanta del secolo scorso, come posizioni critiche rispetto all’approccio più
diffuso nelle scienze sociali e nella teoria politica; in primo luogo sarà perciò utile richiamare alcuni elementi di quest’ultimo, spesso definito ‘aggregativo’. In un senso
più ampio, d’altronde, l’elaborazione dell’approccio deliberativo dev’essere inserita
nel quadro della reazione contro le molteplici correnti di pensiero che hanno concorso a far quasi una tabula rasa della teoria politica normativa, almeno fino agli ultimi
decenni del ventesimo secolo. Di queste linee teoriche dagli effetti variamente antinormativi non si potrà certo offrire qui un’esposizione esaustiva, mi limiterò perciò
ad evocare brevemente alcuni punti utili per comprendere il senso in cui la democrazia deliberativa è parte del ritornare della teoria politica verso il piano normativo.
1.1.1 Deliberazione contro aggregazione
Una parte consistente degli studi politici del ventesimo secolo, con l’intento di offrire
una descrizione realistica ed empiricamente verificabile della democrazia, ha adottato un modello di interazione fondato sulla razionalità strumentale, diretta cioè soltanto a determinare i mezzi più appropriati per raggiungere un determinato fine,
quale che esso sia. Questo modello, sistematizzato nella rational choice theory,6 parte
6. Per una introduzione e alcune critiche a questo tipo di teorie, si vedano: M. Allingham, Rational Choice, New York: Palgrave Macmillan, 1999; M. Scotford Archer e J. Q. Tritter, a cura di, Ra-
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1. Articolare una definizione
dal presupposto che gli individui possiedano delle preferenze, date a priori rispetto
alla politica, verso la cui realizzazione sono egoisticamente interessati (anche se le
preferenze stesse potrebbero essere altruistiche, invero il loro contenuto è indifferente) e sulla base di ciò agiscano e interagiscano con gli altri in modo razionale rispetto allo scopo, analogamente all’idealizzazione degli agenti nel mercato economico. Questo approccio agli studi politici è spesso detto aggregativo, e l’aggettivo si
riferisce al fatto che qui la democrazia, è pensata come un metodo per sommare
(‘aggregare’, per l’appunto) le preferenze individuali di ciascun elettore, considerate
pre-politiche e come tali esprimibili. Le teorie aggregative, nelle parole di Jon Elster:
... condividono la concezione che il processo politico sia strumentale piuttosto che
un fine in sé, e il punto di vista per cui l’atto politico decisivo è un’azione privata
anziché pubblica, varrebbe a dire il voto individuale e segreto. Da ciò di solito consegue l’idea che l’obiettivo della politica sia l’ottimale compromesso tra interessi
dati, privati e irriducibilmente contrapposti.7
Nello specifico, le teorie della social choice, che dell’approccio aggregativo sono
state la parte più ampia e influente, assumono come dati: «(i) l’insieme degli individui, (ii) le loro preferenze, (iii) le opzioni che si trovano di fronte e (iv) i diritti loro
assegnati».8 Applicando a questo quadro la strumentazione matematica della teoria
della rational choice (un ramo della teoria dei giochi, del quale la social choice è un
ulteriore sottoinsieme, rappresentandone l’applicazione a contesti decisionali collettivi), si possono descrivere vari teoremi – il più famoso è quello di Arrow9 – che dimostrerebbero l’impraticabilità della democrazia come procedura decisionale.
I criteri individuati da Kenneth Arrow per definire il metodo democratico erano
cinque (qui esposti in forma semplificata):
1) Universalità: la funzione di scelta sociale dovrebbe creare un ordinamento determinato e completo delle preferenze sociali, a partire da qualsiasi insieme di preferenze individuali.
tional Choice Theory, Routledge, 2000; W. Gaertner, A Primer in Social Choice Theory, Oxford:
Oxford University Press, 2006.
7. J. Elster, “The Market and the Forum: Three Varieties of Political Theory”, in Foundations of
Social Choice Theory, a cura di J. Elster e A. Hylland, Cambridge: Cambridge University Press,
1986, p. 103, traduzione mia.
8. J. Elster e A. Hylland, a cura di, Foundations of social choice theory, Cambridge: Cambridge
University Press, 1986, p. 7, traduzione mia. Una simile descrizione delle teorie aggregative può
però essere giudicata semplicistica, vedi: A. Follesdal, “The Value Added by Theories of Deliberative Democracy”, in Deliberative democracy and its discontents, a cura di S. Besson e J. L. Martí,
Aldershot: Ashgate, 2006.
9.
K. J. Arrow, Scelte sociali e valori individuali, Milano: Etas, 2003.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
-7-
2) Non imposizione: qualsiasi preferenza sociale può essere ottenuta a partire da un
appropriato insieme di preferenze individuali.
3) Non dittatorialità: la funzione di scelta sociale non deve corrispondere alle preferenze di un singolo individuo, o sottoinsieme di individui, ignorando le preferenze
degli altri.
4) Monotonicità: se uno o più individui modificano il proprio ordinamento di preferenze, ferme le altre condizioni, la funzione di scelta sociale deve variare nello
stesso senso oppure rimanere invariata.
5) Indipendenza dalle alternative irrilevanti: applicando la funzione di scelta sociale
ad un sottoinsieme di opzioni, il risultato deve essere compatibile con il caso in
cui la funzione sia applicata all'insieme di tutte le alternative possibili (in altre
parole, l’ordine di preferenza tra x ed y, non deve variare in base alla disponibilità
o meno di una terza opzione z).10
Il risultato è che, in presenza di più di due opzioni, nessuna procedura di scelta
potrebbe soddisfare tutte queste condizioni contemporaneamente. Il problema su cui
più spesso si punta l’attenzione è quello della ciclicità degli esiti – il cosiddetto ‘paradosso di Condorcet’ – che conseguirebbe da certe distribuzioni delle preferenze. Ad
esempio, ipotizzando un caso in cui si debba scegliere fra tre alternative qualsiasi (x,
y, z) e i decisori si dividano in altrettanti gruppi (A, B, C), tra loro di dimensioni
analoghe, con il seguente rispettivo ordinamento di preferenze:
◦ il gruppo A preferisce x ad y e y a z, cioè: x > y > z
◦ il gruppo B preferisce y a z e z a x, cioè: y > z > x
◦ il gruppo C preferisce z ad x e x ad y, cioè: z > x > y
ci sarebbe una maggioranza che preferisce x ad y (A + C), una maggioranza che
preferisce y a z (A + B) e una terza maggioranza che preferisce z ad x (B + C). Si
incontrerebbe così una circolarità che, tenendo ferme le preferenze, potrebbe essere
interrotta solo da una arbitraria, e necessariamente antidemocratica, scelta della
sequenza delle votazioni – il che rimanda poi alla vexata quaestio del controllo
dell’ordine del giorno, o agenda setting.
10. Esistono varie formulazioni analoghe, vedi ad esempio: C. List e P. Pettit, “Aggregating Sets of
Judgments: An Impossibility Result”, Economics and Philosophy 18 (2002): 89-110; C. List e P.
Pettit, “Aggregating Sets of Judgments: Two Impossibility Results Compared”, Synthese 140
(2004): 207-35. Qui però non importa approfondire le differenti versioni del formalismo matematico, eventualmente si veda: M. J. Pivato, “Voting, Arbitration, and Fair Division. The mathematics
of social choice”, http://xaravve.trentu.ca/pivato/Teaching/voting.pdf
-8-
1. Articolare una definizione
Un analogo problema cade sotto la denominazione di «dilemma discorsivo» o
«paradosso dottrinale».11 In questo caso non è l’ordine delle votazioni ad essere rilevante, bensì il modo in cui si sceglie di determinare il risultato, se votando sulle premesse o sulle conclusioni. Considerando, ad esempio, un collegio composto da tre
giudici A, B e C, che deve emettere un verdetto di colpevolezza o assoluzione dopo
aver accertato se il fatto sussista e se per la legge sia un reato, si potrebbe avere la
seguente situazione:
Giudice
Il fatto costituisce reato?
Il fatto sussiste?
Giudizio
A
si
no
assoluzione
B
si
si
condanna
C
no
si
assoluzione
Se ciascun giudice votasse secondo il proprio giudizio, come potrebbe più spesso
essere il caso, l’imputato sarebbe assolto. Se però la corte votasse separatamente sulla quaestio iuris e sulla quaestio facti, troverebbe che c’è stato un reato e che l’accusato lo ha commesso, e non potrebbe far altro che condannare. Questo dilemma discorsivo – in linea di principio non certo limitato all’ambito giudiziario – potrebbe
essere considerato anche più insidioso della ciclicità del paradosso di Condorcet, perché più difficile da rendere manifesto, ed allo stesso tempo forse più comune.12
Questi ed altri simili esiti sono stati impiegati – non sempre coerentemente con le
intenzioni di chi li aveva inizialmente proposti – per sostenere visioni pessimiste della democrazia, criticata per la sua presunta intrinseca irragionevolezza e quindi, nel
migliore dei casi, da ridurre ai termini minimi della scelta delle ristrette oligarchie
governanti; scelta che potrebbe anche essere irrazionalmente casuale, in piena coerenza con la teoria medesima.13 È in questo senso che un’opera come quella di
11. Si vedano rispettivamente: P. Pettit, “Deliberative Democracy and the Discursive Dilemma”,
Nous-Supplement: Philosophical Issues 11 (2001): 268-99; L. A. Kornhauser e L. G. Sager, “Unpacking the Court”, Yale Law Journal 96 (1986): 82-117; L. A. Kornhauser e L. G. Sager, “The Many
as One: Integrity and Group Choice in Paradoxical Cases”, Philosophy and Public Affairs 32, no. 3
(2004): 249-76.
12. J. Elster, Ignorance, Secrecy, Publicity: in Juries, Assemblies, and Elections, di prossima pubblicazione, 2011, cap. 1 § 5. Sono grato al professor Elster per avermi permesso di consultare il
manoscritto.
13. W. H. Riker, Liberalism against populism, San Francisco: W.H. Freeman, 1982, p. 244. L’opera
rappresenta efficacemente il paradigma contro il quale la democrazia deliberativa si è definita. Per
una critica puntuale degli argomenti di Riker si veda: G. Mackie, Democracy Defended, Cambridge,
New York: Cambridge University Press, 2003. Il problema più immediato dei tentativi di tradurre
sul piano politico gli esiti della social choice theory è che, storicamente, i casi di ciclicità decisionale
appaiono rari, per non dire assenti, vedi anche: I. Budge, The New Challenge of Direct Democracy,
Cambridge: Polity Press, 1996; M. Regenwetter, et al., Behavioral Social Choice, Cambridge: Cambridge University Press, 2006. Per una critica della rilevanza politica dei modelli della social choice
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
-9-
William H. Riker, direttamente basata su una interpretazione radicale dei teoremi di
impossibilità, ben si accosta ai precedenti autori di orientamento elitista,14 e più in
generale a tutti quegli approcci che separano nettamente la spiegazione del funzionamento effettivo della società dalle pretese normative presentate (illusoriamente, secondo le teorie di questo tipo) dalla e nella politica democratica. Si può affermare
che la prevalenza di un approccio “aggregativo” abbia caratterizzato gli studi sulla
democrazia e la politica per gran parte del ventesimo secolo, rimanendo a tutt’oggi
assai influente soprattutto nelle scienze sociali.15
Contro questo modo di concepire la democrazia, l’approccio deliberativo mette in
discussione tutti e quattro gli elementi sopra citati da Elster. Dal punto di vista della democrazia deliberativa, non è corretto considerare come dati e non problematici
né (i) l’insieme degli individui che decidono (vale a dire i confini del demos), né (ii)
le loro preferenze, né (iii) le opzioni disponibili e neppure (iv) i diritti loro assegnati
(ovvero, anche, il quadro istituzionale nel quale si trovano ad agire). L’aspetto su cui
più spesso si è insistito è la contrapposizione tra la trasformazione delle preferenze e
la loro mera aggregazione,16 ma il punto è che tutto l’insieme di questi elementi, secondo l’approccio deliberativo, dev’essere discutibile e discusso, tanto teoricamente
quanto nella pratica politica. Questo significa, inoltre, che la contrapposizione è da
intendere primariamente sul piano normativo. Perciò, anche nel caso in cui si riconoscano corrette, del tutto o in parte, le più pessimiste descrizioni “aggregative”, que-
si veda anche: T. Christiano, “Social Choice and Democracy”, in The Idea of Democracy, a cura di
D. Copp, et al., Cambridge: Cambridge University Press, 1995.
14. Vedi: R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Bologna: il Mulino, 1976; G. Mosca, La classe politica, Roma-Bari: Laterza, 1994; V. Pareto, Trattato di sociologia
generale, Torino: Utet, 1988; J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano:
Etas, 2001. La scuola pluralista americana, per il suo impianto teorico (si veda soprattutto: R. A.
Dahl, Introduzione alla scienza politica, Bologna: il Mulino, 1967), è ascrivibile all’approccio aggregativo, benché abbia guardato con maggior ottimismo alla democrazia e nonostante il fatto che
Dahl, suo maggiore esponente, si sia poi parzialmente avvicinato alla teoria deliberativa.
15. Nonostante la più o meno costante ricerca di alternative, la teoria della scelta razionale è ancora considerata il modello “standard” con il quale confrontarsi: J. R. Bond, “The Scientification of
the Study of Politics: Some Observations on the Behavioral Evolution in Political Science”, The
Journal of Politics 69, no. 4 (2007): 897-907.
16. J. Elster, “Introduction”, in Deliberative Democracy, a cura di J. Elster, Cambridge: Cambridge University Press, 1998; J. S. Dryzek, Deliberative Democracy and Beyond, Oxford, New
York: Oxford University Press, 2000; M. R. James, Deliberative Democracy and the Plural Polity,
Lawrence: University Press of Kansas, 2004, p. 4; A. Gutmann e D. Thompson, Why Deliberative
Democracy?, Princeton: Princeton University Press, 2004, pp. 13-14; I. Shapiro, The State of Democratic Theory, Princeton: Princeton University Press, 2005, p. 21. Contro una contrapposizione
troppo semplificata tra aggregazione e trasformazione delle preferenze si veda però: C. F. Rostbøll,
Deliberative Freedom: Deliberative Democracy as Critical Theory, Albany: SUNY Press, 2008, cap.
1.
- 10 -
1. Articolare una definizione
ste potranno essere considerate soltanto come diagnosi di un problema, non dati di
fatto immodificabili, né tanto meno normativamente accettabili così come sono.
In altre parole, in questione non sono (non devono essere) solo giudizi descrittivi,
magari meramente tecnici, circa il funzionamento della democrazia contemporanea,
bensì proprio concezioni diverse della razionalità pratico-politica. Dunque, per comprendere meglio il senso dell’approccio deliberativo alla democrazia lo si dovrà porre
a contrasto con la diffusa tendenza ad oscurare, nel pensiero politico e filosofico in
genere, non soltanto nelle analisi strettamente scientifico-empiriche, la rilevanza della dimensione normativa. È perciò nel contesto della reazione contro le molte diverse
istanze anti-normative che hanno percorso gli studi politici – reazione esemplificata
in primo luogo dalle opere di Jürgen Habermas e di John Rawls – che si possono
meglio intendere la nascita e il successo dell’approccio deliberativo alla democrazia.
1.1.2 Teoria politica e normativismo
La filosofia politica, ma ciò vale per qualsiasi pensiero orientato alla prassi, è percorsa da una tensione tra i discorsi normativi – volta a volta orientati verso il bene, la
giustizia, la virtù, l’onore, e così via – e quelli descrittivi, attenti a dar conto della
realtà delle relazioni umane per come è, o pare che sia, piuttosto che per come dovrebbe o vorrebbe essere. Se il discorso descrittivo assumesse un carattere puramente apologetico (cosa tutto sommato rara, anche per i teorici più conservatori)
potrebbe darsi una relazione pienamente armonica con quello normativo. Diversamente, ci sarà pur sempre uno iato tra l’osservazione di quel che è e ciò che si ritiene
dovrebbe essere. Se, inoltre, si parte da una posizione in senso lato realista – che dia
priorità all’osservazione descrittiva, ad esempio tentando di subordinare logicamente
la validità delle prescrizioni alla loro presumibile realizzabilità fattuale – la spaccatura tra essere e dover essere può allargarsi al punto da far apparire di per sé futile
qualunque discorso normativo. Così, non è sorprendente come il crescente privilegio
conferito alla prospettiva dell’osservatore – che il punto di vista sia scientifico o filosofico è, in questo caso, lo stesso – abbia contribuito alla diffusione del cinismo circa
il valore e le potenzialità della democrazia.17
I tempi della filosofia e del dibattito teorico non coincidono, certo, con quelli dei
movimenti dell’opinione pubblica, ed è però solo dei primi che qui intendo, pur molto brevemente, occuparmi. Così, si può osservare come gli “smascheramenti” delle
pretese normative in forza dell’osservazione della realtà fattuale, a partire almeno da
Trasimaco, siano quasi tanto vecchi quanto la politica – si potrebbe pur dire che la
politica e la possibilità di un atteggiamento scettico verso le norme siano tra loro
coessenziali. Tuttavia, più rilevante per il nostro quadro è la linea di pensiero mo17. J. Habermas, Fatti e norme, p. 36n.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 11 -
derna, che si può grossolanamente delimitare tra Thomas Hobbes e Carl Schmitt,
talvolta definita come ‘realismo politico’.18 Da questa fonte provengono in particolare
due posizioni teoriche, poi più largamente diffuse, contro le quali la democrazia deliberativa è andata definendosi. Da un lato, è la stessa premessa circa la natura egoisticamente calcolatrice della razionalità umana che si ritrova, quasi par pari nonostante la differenza di contesto, tanto nello stato di natura secondo Hobbes, quanto
nelle più recenti concezioni aggregative delle quali sopra si è detto.19 D’altro canto,
in termini più generali è rilevante la declinazione del concetto dell’autonomia del politico nel senso della sua netta separazione dall’ambito morale, riportando la sfera
politica ad una conflittualità inserita in un orizzonte di necessità fattuale.20 Contro
questo tipo di pensiero, la democrazia deliberativa si definisce per la connessione
stabilita tra l’ambito morale e quello politico,21 arrivando al punto di fondare la possibile validità del secondo sulla corrispondenza con il primo (sia pure attraverso argomentazioni complesse e differenziate, come si vedrà).
Ancora seguendo la metafora dello “smascheramento”, pur sempre senza andare
oltre un’interpretazione assai semplificata, si possono citare i tre «maestri del sospetto»:22 Marx, Nietzsche, Freud. Che tra loro nessuno coltivasse sic et simpliciter
18. Un’etichetta che può essere estesa fino ad includere Machiavelli, Foucault, Weber o Tucidide
(vedi: P. P. Portinaro, Il realismo politico, Roma-Bari: Laterza, 1999), ma che nel presente contesto
è utile intendere entro i suddetti confini, vaghi pur sempre, ma più ristretti.
19. È proprio alla divergenza tra Hobbes e Rousseau che talvolta si ricorre per distinguere le teorie
aggregative da quelle deliberative: da un lato individui isolati e calcolo freddamente razionale,
dall’altro cittadini inseriti in un contesto sociale già carico di valori. Si tratta certo di una semplificazione interpretativa – perché non solo questo si trova nella filosofia di Hobbes e d’altronde d’una
lettura deliberativa di Rousseau si può quantomeno dubitare (infra, p. 44) – ma può essere utile a
inquadrare la questione.
20. Il bellum omnium contra omnes, riletto però attraverso la radicalità della coppia amico-nemico
in Schmitt: C. Schmitt, “Il concetto di «politico»”, in Le categorie del ‘politico’, Bologna: il Mulino,
1998. Tra l’altro, proprio nella ripresa schmittiana della critica di Donoso Cortés contro la borghesia quale «clasa discutidora» si trova espressa, ante litteram, la critica tipicamente realistico-decisionista contro la democrazia deliberativa: C. Schmitt, “Teologia politica: quattro capitoli sulla
dottrina della sovranità”, in Le categorie del ‘politico’, Bologna: il Mulino, 1998, pp. 79-80. Vedi
anche: J. Habermas, “Sovranità popolare come procedura. Un concetto normativo di sfera pubblica”, in Morale, Diritto, Politica, Torino: Einaudi, 1992, pp. 90-91.
21. Con ciò la posizione deliberativa più diffusa accomuna sotto un segno negativo non soltanto le
linee di pensiero “realistiche” à la Hobbes, ma proprio tutte quelle (comprese le più radicalmente
democratiche) che intendono affermare in qualsivoglia forma l’autonomia della sfera politica da
quella morale; vedi: S. Benhabib, “Toward a Deliberative Model of Democratic Legitimacy”, in Democracy and Difference, a cura di S. Benhabib, Princeton: Princeton University Press, 1996, pp.
70-71.
22. P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Milano: Jaca Book, 1995, p. 164. La celebre definizione è stata da Ricoeur offerta, certo, in un contesto molto distante da quello nel quale si parla di
democrazia deliberativa; anche qui, tuttavia, è significativa la caratterizzazione dei tre pensatori
nel senso del loro mettere in dubbio quella «illusione della coscienza di sé», che nella filosofia mo-
- 12 -
1. Articolare una definizione
l’intento di negare la rilevanza della dimensione normativa è poco controverso, ed è
chiaro d’altronde come il pensiero dei tre abbia implicazioni bene al di là della teoria politica in senso stretto. Tuttavia, si può osservare come la psicoanalisi, la filosofia nitzscheana, il marxismo e le teorie che hanno influenzate, abbiano di fatto
contribuito (si può certo discutere se, ed in che misura, ciò sia dovuto a “tradimenti” interpretativi) alla rimozione delle argomentazioni normative dall’ambito della
teoria politica.
Il caso di Nietzsche è forse il più chiaro. Benché le più viete interpretazioni nazionaliste e reazionarie del filosofo tedesco possano essere delle forzature (a partire
dall’arbitraria composizione postuma de La volontà di potenza), resta vero che lo
slancio iconoclasta contro il razionalismo unilateralmente “apollineo” – con le sue
pretese, considerate ingenue, deboli e/o arroganti, di verità e giustizia – non soltanto
è ampiamente dispiegato nelle stesse opere nietzscheane, ma ha anche influenzato le
successive posizioni filosofiche variamente scettiche, e in modo particolarmente rilevante proprio per l’interpretazione delle pretese normative della politica. È facile intendere che se già non si considerano districabili dal conflitto delle volontà le idee di
verità e giustizia, a maggior ragione sarà illusorio attendersi che esse possano giocare
un ruolo normativo proprio nell’ambito, particolarmente tormentato, della politica.
Il postmodernismo di Lyotard, l’approccio decostruttivo di Derrida e quello archeologico/genealogico di Foucault – benché a loro volta non facili da ridurre ad una
lettura univoca, e peraltro includendo esiti eticamente connotati – rappresentano
esempi influenti di questa linea di pensiero che, se pure può non essere irrazionalista
com’è stata talvolta descritta, certamente tende a negare la rilevanza, o persino la
possibilità, di pretese normative distinte dai rapporti di forza storicamente dati in
ogni società, ed in tal senso ha influenzato sia la teoria politica sia gli studi storici
ed empirici.23 Questa è una brutale semplificazione, eppure il gesto che rivela la violenta esclusione dietro pretese normative apparentemente universali e incontestabili
ha potuto diventare un cliché solo perché ha trovato un’infinità di ripetizioni – forse
anche al di là delle intenzioni dei principali autori postmoderni (che tra l’altro, a
parte il caso di Lyotard, di solito rifiutavano questa ed analoghe etichette).
Di qui si può far risaltare il punto di contatto con una tradizione teorica così diversa come il marxismo. Senz’altro Marx, da hegeliano, era schierato per la razionaderna è stata la principale, se non proprio l’unica, sorgente di normatività pienamente valida.
23. Il successo più ampio, dalla filosofia alle scienze sociali, è probabilmente quello ottenuto da
Foucault. Certo, si può constatare una certa distanza, talvolta consapevolmente affermata (ad
esempio nel caso della biopolitica: G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi, 2005; R. Esposito, Bios: Biopolitica e filosofia, Torino: Einaudi, 2004), tra Foucault,
che insisteva spesso sulla validità locale e situata delle proprie indagini, e i progetti che gli si sono
ispirati. Poiché qui si stanno brevemente citando tendenze complesse, che si tratti proprio di Foucault, o dell’uso di alcuni suoi pensieri per scopi diversi, è relativamente marginale.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 13 -
lità tanto quanto lo si può essere; d’altra parte, la sua visione della società comunista, benché vaga, doveva corrispondere alla realizzazione terrena degli ideali
normativi per eccellenza: la giustizia, la libertà e il pieno sviluppo delle facoltà
umane. Eppure, benché questa carica emancipativa si sia in parte attualizzata nelle
vicende politiche del movimento operaio, già il nucleo teorico del marxismo, nella
forma del materialismo storico, era tendenzialmente contraddittorio con la possibilità di articolare normativamente la dimensione politica. Nella misura in cui, da un
lato, si concepisca la politica in funzione delle relazioni economiche e, dall’altro, si
pretenda di prevedere scientificamente che la dinamica storica di queste ultime tenda proprio verso la realizzazione della società giusta, è chiaro che per una teoria politica distintamente normativa non rimarrà molto spazio.24 Certo, dal punto di vista
di chi aderisca ad un pensiero del genere, l’impegno normativo resta relativamente
poco problematico – ed anzi più saldamente motivato di quanto non lo sarebbe entro coordinate teoriche meno rigide – soltanto però finché si mantiene la credenza
nella pretesa teleologia storica.25 Se questa vacilla o viene a mancare – perché il capitalismo non si decide a crollare, o perché in situazioni di crisi appaiono vincenti soluzioni reazionarie – può accadere che, persa la speranza verso la migliore delle società possibili, l’iniziale intento critico-emancipativo finisca per avvitarsi in un
pessimismo anomico, che giudica passare poca o punta differenza tra la società democratica e quella totalitaria. In certa misura, questo è quanto accaduto alla prima
generazione della Scuola di Francoforte,26 dacché la radicale messa in questione della
dialettica interna alla razionalità – che pure voleva darsi appunto come dialettica,
chiarendo la relazione tra elementi positivi e negativi, ma riconoscendoli entram-
24. Benché si possa sostenere che la contrapposizione rigida struttura-sovrastruttura, e la subordinazione della seconda alla prima, rappresenti una forzatura del pensiero di Marx (così ad esempio
polemizzava Godelier contro Althusser: M. Godelier, L’ideale e il materiale, Roma: Editori Riuniti,
1985), resta il fatto che è in questa forma che ha esercitato la più ampia influenza, né d’altronde la
considerazione di altri elementi può oscurare la centralità dei rapporti di produzione.
25. Per dirlo con Habermas, così è perché: «Dai processi storici la filosofia della storia può ricavare
solo quel “quantum” di ragione ch’essa vi ha anticipatamente inserito tramite concetti teleologici»:
J. Habermas, Fatti e norme, p. 10.
26. Lo stesso Foucault, pur critico, riconosceva l’interesse per i francofortesi, ambiguamente rammaricandosi d’averli scoperti relativamente tardi: D. Trombadori, Colloqui con Foucault: pensieri,
opere, omissioni dell’ultimo maître-à-pense, Roma: Castelvecchi, 2005, pp. 79 ss. Da un punto di
vista più simpatetico, la vicinanza tra la Scuola di Francoforte e Foucault è stata rilevata già da:
T. McCarthy, “The Critique of Impure Reason: Foucault and the Frankfurt School”, Political
Theory 18, no. 3 (1990): 437-69. Certo, da allora ad oggi la letteratura foucaultiana, per non dir
nulla di Derrida, è divenuta un ginepraio tale che posizioni così generali sarebbero difficili da difendere, impresa che qui mi guardo dal tentare.
- 14 -
1. Articolare una definizione
bi27 – ha rischiato d’essere sempre meno distinguibile da una condanna della ragione
tout court.28
Proprio la Scuola di Francoforte ha impiegato largamente la psicanalisi freudiana
come chiave per descrizioni socio-politiche, e persino (soprattutto con Marcuse) per
definire in positivo i valori sociali che sarebbe stato desiderabile realizzare,29 ed è
difficile negare che ciò abbia ulteriormente contribuito ad allontanare la prima generazione francofortese da un orizzonte normativo. Anche se lo stesso Freud aveva in
parte corretto le precedenti posizioni di Le Bon circa la psicologia delle masse,30 più
che il giudizio negativo in sé (diffuso fin dall’antichità, e perlopiù condiviso dai moderni repubblicani e liberali), è la pretesa di spiegare in termini psicologici l’agire e
il pensare a contraddire la possibilità di ragionare in termini normativi. Si può discutere se un tale “psicologismo” riduzionista sia o meno da attribuire a Freud, o
alla Scuola di Francoforte, ed eventualmente in che misura; ma certo è che esso sia
stato, e ancora sia, molto influente, tanto nella cultura popolare quanto in quella accademica. Se si abbandona poi la raffinata ermeneutica del rapporto paziente-analista, per muovere verso l’applicazione della psicologia ai fenomeni sociali, sempre alla
moda in varie e diverse forme, ancor più difficilmente rimarrà spazio per un’idea di
soggetto come agente autonomo. Queste affermazioni richiederebbero molte specificazioni – non significando certo che chiunque abbia impiegato concetti psicanalitici o
psicologici debba essere, ipso facto, escluso da ogni possibile considerazione sulla validità delle norme, rappresentando soltanto un indizio del fatto che non è in questo
tipo di approccio, ma al più in una tesa coesistenza con esso, che una teoria normativa può trovare radici – e però nella loro unilateralità chiariscono una volta di più
come il discorso normativo sia ostacolato dal tentativo di ricondurlo ad una dimensione fattuale e descrittiva.
Questo elenco, semplicistico e arbitrariamente incompleto, è pur utile a far risaltare due punti rilevanti per inquadrare le teorie deliberative entro la più ampia “ri27. Come ha evidenziato, sebbene con toni nel tempo diversi, Stefano Petrucciani: S. Petrucciani,
Ragione e dominio: l’autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Roma: Salerno Editrice, 1984; S. Petrucciani, Introduzione a Adorno, Roma-Bari: Laterza, 2007.
28. M. Horkheimer, Eclisse della ragione, Torino: Einaudi, 2000; T. W. Adorno e M. Horkheimer,
Dialettica dell’Illuminismo, Torino: Einaudi, 1997; T. W. Adorno, Dialettica negativa, Torino: Einaudi, 2004.
29. H. Marcuse, Eros e civiltà, Torino: Einaudi, 2001; M. Horkheimer, et al., Studi sull’autorità e
la famiglia, Torino: Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1974. Sul ruolo della psicanalisi nella teoria critica vedi anche: J. Whitebook, “The marriage of Marx and Freud: Critical Theory and psychoanalysis”, in The Cambridge Companion to Critical Theory, a cura di F. Rush, Cambridge:
Cambridge University Press, 2004.
30. S. Freud, “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino: Bollati Boringhieri, 2003. Del 1895 è la prima edizione di: G. Le Bon, Psicologia delle folle, Milano: TEA, 2004.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 15 -
nascita” della filosofia politica, a partire dal secondo dopoguerra. In primo luogo, la
contrapposizione che qui ci interessa non è riducibile a quella tra filosofia politica e
scienze sociali empiriche. I due saperi si intrecciano a più riprese, e già nella filosofia
sono ben presenti gli elementi che hanno contribuito alla tendenza anti-normativa.
Da ciò consegue il secondo punto, vale a dire che la contrapposizione rilevante è
quella, più generale, tra fattualità e normatività, tra quelle teorie politiche che danno priorità al primo termine o ad esso tutto riducono, e quelle che, invece, riconoscono alla dimensione normativa un significato proprio e distinto.
***
Anche in diretta risposta alle linee di pensiero variamente anti-normative, una
contro-tendenza teorica e filosofica si è manifestata nel secondo dopoguerra, ma con
particolare evidenza a partire dagli anni settanta del secolo scorso.
Quasi non si trova libro di filosofia o teoria politica pubblicato in lingua inglese
negli ultimi decenni del novecento la cui prefazione non contenga un grato riconoscimento a John Rawls per avere riportato in gioco (nel 1971, con A Theory of Justice)
un atteggiamento schiettamente normativo verso i problemi politici – in un momento in cui la stessa filosofia morale, nella misura in cui sopravviveva come oggetto di
studio a sé, rischiava di ridursi, almeno nel mondo anglosassone, ad un utilitarismo
profondamente affine alle più diffuse tendenze anti-normative delle quali si è accennato. Successivamente, a partire dalle lezioni degli anni ottanta, poi confluite nel Liberalismo politico, Rawls ha posto al centro del dibattito la questione del «fatto del
pluralismo», che della democrazia deliberativa diverrà un motivo centrale.31 L’influenza dell’opera di Rawls è stata ampia al punto che, poco meno di vent’anni dopo
A Theory of Justice, un’introduzione alla filosofia politica poteva essere dedicata
pressoché per intero a questioni morali, iniziando con l’affermare esplicitamente che
non avrebbe trattato:
... temi che pure un tempo erano considerati il nucleo principale della filosofia politica – è il caso dell’analisi concettuale del significato di potere o sovranità, nonché
dell’approfondimento della natura del diritto. Tutti questi argomenti hanno conosciuto una notevole fortuna fino a venticinque anni fa; negli ultimi decenni, invece,
l’accento è caduto su quegli ideali di giustizia, libertà e comunità che vengono invocati in sede di valutazione delle istituzioni e delle scelte politiche di fondo.32
31. Della filosofia rawlsiana non potrò offrire un’esposizione esaustiva, per la quale rimando invece
a: S. Freeman, Rawls, New York: Routledge, 2007; S. Maffettone, Rawls: An Introduction, Cambridge: Polity Press, 2010. La silloge più ampia, anche se ormai datata, della letteratura secondaria
la si può trovare nei cinque volumi di: H. S. Richardson e P. Weithman, Philosophy of Rawls: a
Collection of Essays, New York: Routledge, 1999.
32. È del 1990 la prima edizione in inglese (poi rivista ed accresciuta nel 2001) di: W. Kymlicka,
Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Milano: Feltrinelli, 1996, p. 9. D’altra parte, Philip Pettit fa coincidere quasi del tutto la storia della filosofia politica, in ambito analitico, con le di-
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1. Articolare una definizione
Quindi, coerentemente proseguendo:
... la filosofia politica [...] è materia di argomentazione morale, e l’argomentazione
morale non può evitare di fare appello alle nostre convinzioni ponderate. Dicendo
queste cose, io do voce a quella che considero la visione corrente dell’argomentazione morale e politica, ossia all’idea che tutti noi abbiamo delle credenze morali,
che queste credenze possono essere giuste o sbagliate, che noi abbiamo determinate
ragioni per pensare che sono giuste o sbagliate, e che ragioni e credenze possono venir organizzate in princìpi morali e in teorie della giustizia sistematiche.33
Guardando retrospettivamente alla produzione filosofica degli ultimi vent’anni, il
giudizio di Kymlicka appare un poco affrettato, e tuttavia dà bene il segno del cambiamento di tono prodottosi, in buona parte grazie all’iniziale impulso di Rawls.
L’influenza di Habermas è stata altrettanto grande, e il suo intento persino più
ambizioso dato che, attraversando molteplici discipline, a partire dalle radici nella
stessa teoria critica francofortese, egli si è proposto di rielaborare la ragione pratica
in chiave inter-soggettiva, nel quadro di una complessiva ristrutturazione teorica
delle forme del discorso razionale. Questo vale a dire, per semplificare al massimo,
che è in una ragione ricostruita in base ai propri presupposti situati nell’ordinaria
comunicazione linguistica che sarà ancorata anche la validità dei princìpi politici.34
Conseguentemente, forse più di qualunque altro pensatore contemporaneo, Habermas ha intrapreso un confronto serrato con i pensieri scettici e anti-normativi, dovunque si trovassero, dalla filosofia teoretica alla sociologia. È al culmine di questo
lungo e faticoso discorso che l’idea di «politica deliberativa» diviene la chiave di volta d’una teoria dello Stato democratico di diritto che intende rappresentare anche il
compimento della concezione comunicativa della razionalità.35 Perciò, chi sprezzanteverse reazioni all’opera di Rawls, vedi: P. Pettit, “Analytical Philosophy”, in A Companion to
Contemporary Political Philosophy, a cura di R. E. Goodin, et al., Oxford: Wiley-Blackwell, 2007.
33. W. Kymlicka, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, p. 16.
34. Una sintetica ricostruzione del passaggio da questa filosofia discorsiva alla teoria deliberativa
sarà presentata nel terzo capitolo. Non potendo offrire, invece, un’introduzione complessiva al discorsivismo, anche qui rimando ad alcune indicazioni bibliografiche. Per un’esposizione complessiva
del pensiero di Habermas si vedano: S. Petrucciani, Introduzione ad Habermas, Roma-Bari: Laterza, 2000; E. O. Eriksen e J. Weigård, Understanding Habermas: Communicative Action and Deliberative Democracy, London: Continuum, 2003. Per comprendere le basi filosofiche del discorsivismo
è fondamentale il pensiero di Karl-Otto Apel, per il quale i riferimenti principali, in lingua italiana,
sono: K.-O. Apel, Etica della comunicazione, Milano: Jaca Book, 1992; K.-O. Apel, Discorso, Verità, Responsabilità, Napoli: Guerini e Associati, 1997. Per una introduzione al pensiero di Apel, si
vedano: S. Petrucciani, Etica dell’argomentazione. Ragione, scienza e prassi nel pensiero di KarlOtto Apel, Genova: Marietti, 1988; V. Marzocchi, “L’etica dell’argomentazione di K.-O. Apel, una
presentazione ed alcune critiche”, Fenomenologia e Società 17, no. 1 (1994): 101-32; V. Marzocchi,
Ragione come discorso pubblico: la trasformazione della filosofia di K.-O. Apel, Napoli: Liguori,
2001.
35. J. Habermas, Fatti e norme. Si deve notare come, benché soltanto in quest’opera, la cui prima
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 17 -
mente accusava questa concezione di essere troppo “settecentesca” per la società
contemporanea,36 se non nel giudizio di valore aveva perfettamente ragione almeno
nella diagnosi. Il progetto, dichiaratamente radicato nell’illuminismo, era proprio
quello di ridefinire la relazione tra una ragione criticamente avvertita – dunque ora
intesa come comunicativa e procedurale – e la sua attuabilità entro un giusto sistema politico.
In poche parole, riassume bene Andrew Arato:
Jürgen Habermas è rimasto fedele al retaggio della Teoria Critica – al metodo e
alla prospettiva della critica immanente della società. Il suo concetto di un “paradigma procedurale del diritto” è pienamente intelligibile soltanto nel contesto di
questo sfondo. Ciò significa, in primo luogo, illuminismo nella società contemporanea con un preciso progetto normativo: l’attualizzazione del sistema dei diritti nel
senso più pieno.37
S’intende che non necessariamente la democrazia deliberativa condividerà integralmente la concezione comunicativa della razionalità, né la diagnosi habermasiana
circa la modernità quale progetto incompiuto;38 posizioni talvolta contraddette, e più
spesso non esplicitamente messe a tema, negli studi sulla deliberazione. E però, l’intero approccio deliberativo è caratterizzato dal tentativo, sia pur diversamente articolato, di coniugare democraticamente la razionalità – vale a dire, dar conto di un
possibile orientamento al bene comune nel quadro di una libertà individuale a sua
volta non più garantita da alcuno sfondo trascendente – ed è questo il dato che inevitabilmente accosta l’approccio deliberativo, anche laddove sia declinato secondo
modalità niente affatto storicizzanti, agli snodi centrali della filosofia politica
moderna.
Perciò, la democrazia deliberativa è da interpretare come parte del ritorno – del
quale Rawls ed Habermas sono stati i principali alfieri, ma certo non gli unici – verso i temi classici della teoria democratica, dell’illuminismo e ancor prima del
edizione tedesca è del 1992, Habermas faccia propria l’etichetta di democrazia deliberativa, già la
sue posizioni precedenti erano state, come si vedrà anche nel prossimo capitolo, tra le basi dell’elaborazione del concetto nel decennio precedente. Ciò ha prodotto la curiosa situazione per cui la declinazione habermasiana della democrazia deliberativa deriva in parte dal lavoro di autori, come
Jon Elster, John Dryzek e Joshua Cohen, a loro volta influenzati dalle precedenti opere di Habermas, rispetto alle quali, però, Fatti e norme ha introdotto variazioni strutturalmente rilevanti.
36. E. Vitale, “Habermas e le teorie della democrazia”, Paradigmi XV, no. 43 (1997): 137-55.
37. A. Arato, “Procedural Law and Civil Society. Interpreting the Radical Democratic Paradigm”,
in Habermas on Law and Democracy, a cura di M. Rosenfeld e A. Arato, Berkeley: University of
California Press, 1998, p. 26, traduzione mia.
38. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari: Laterza, 2003; M. Passerin
d’Entrèves e S. Benhabib, a cura di, Habermas and the Unfinished Project of Modernity, Cambridge MA: MIT Press, 1997.
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1. Articolare una definizione
contrattualismo liberale e del repubblicanesimo. Radici normative che hanno subìto
una lunga serie di attacchi fondati sulla considerazione di diversi “fatti” – dalle forze
di produzione al “bio-potere”, passando per la volontà di potenza e il comportamentismo della social choice – che invariabilmente smentiscono le pretese delle teorie democratiche, liberali e repubblicane, facendole apparire poco realistiche e ancor meno
applicabili. Differentemente dalla più gran parte della filosofia moderna, però, la democrazia deliberativa non intende porre al centro della politica, e della ragion pratica in generale, la volontà di un soggetto unitario (individuale, collettivo, storico e/o
spirituale che sia) tendenzialmente sostituendola proprio con la prassi intersoggettiva della deliberazione.39 Sfortunatamente, andare al di là della formula e spiegare
che cosa ciò significhi non è semplice, giacché il concetto che la democrazia deliberativa ha di se stessa si presenta tutt’altro che univoco, talvolta persino contraddittorio, come proseguendo si potrà osservare.
1.2. Variabili teoriche
Inquadrato l’approccio deliberativo in modo molto generale, sia rispetto ai suoi avversari teorici sia nei suoi intenti di fondo, si può ora tornare su un livello più analitico, e definire, attraverso sei elementi caratterizzanti, l’ampio insieme degli approcci
deliberativi come composto da:
1. teorie politiche
2. secondo le quali il processo pubblico e pluralistico
3. di discussione e confronto argomentativo
4. finalizzato ad una decisione pratica,
5. giustifica e legittima la democrazia
6. favorendo risultati moralmente e cognitivamente migliori
Questa definizione, pur esplosa nei suoi elementi costitutivi, è tanto ampia quanto
indeterminata, giacché mentre ciascuno dei termini che vi compaiono necessita di ulteriori specificazioni, nella sua vaghezza essa è anche attribuibile quasi a chiunque
parli di democrazia – escluse soltanto le varianti più esplicitamente demagogiche e
populiste che, pur sempre floride nella pratica, non trovano molti apologeti nella
teoria. Tuttavia, resta preferibile iniziare da una definizione così generica perché, da
un lato, ogni spiegazione dettagliata di cosa la democrazia deliberativa sia, data la
39. Habermas separa nettamente le filosofie della coscienza, con quelle che considera le loro propaggini post-moderne, dalla propria posizione discorsiva/intersoggettiva, vedi: J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità. Un’analoga interpretazione della democrazia deliberativa è esplicita anche in Bernard Manin: B. Manin, “On Legitimacy and Political Deliberation”, Political
Theory 15, no. 3 (1987): 338-68; B. Manin, La democrazia dei moderni, Milano: Anabasi, 1992.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 19 -
varietà di cui sopra, finisce per peccare di particolarismo e, d’altro canto, è proprio
nel diverso modo d’intendere i termini in gioco che si manifestano le più rilevanti divergenze tra i teorici.40
Dunque, si dovrà procedere esaminando quali possano essere le opzioni percorribili per ciascuno dei punti della definizione:
1. Si tratta di ‘teorie’ deliberative e non di ‘filosofie’, proprio a sottolineare la pluralità disciplinare degli approcci. Ma anche solo l’essere ‘politiche’ di queste teorie è
già controverso. Possono corrispondere alla parte politica di filosofie comprensive,
oppure presentarsi come ‘politiche’ in senso autonomo.41 È poi possibile intendere
tale qualifica più ampiamente, considerando la deliberazione applicabile a qualsiasi aspetto della società, oppure restringerla in qualche misura a specifici contesti
istituzionalizzati – questi a loro volta possono essere quelli classicamente politici,
i parlamenti e gli altri organi tipici dello Stato democratico moderno, oppure costruiti ad hoc per favorire una migliore deliberazione. Ancora, dalla teoria si può
passare all’applicazione, e così la democrazia deliberativa diventa politica in un
senso più immediatamente pragmatico, come sta avvenendo con crescente intensità negli ultimi anni, con le opportunità e i rischi che ciò comporta.42
2. Caratterizzare concretamente un ‘processo pluralistico’ significa in primo luogo
indicarne i limiti interni ed esterni. Tutti concordano nell’affermare il carattere
egalitario della deliberazione,43 ché altrimenti non sarebbe democratica, ma la necessità di definire i vincoli che danno forma al processo deliberativo, come anche
chi debba esservi incluso, in quali luoghi e a quali condizioni, solleva notevoli problemi. La definizione del demos, un tema classicamente aporetico per la democrazia e tanto più attuale oggi, è ampiamente ripreso dai teorici deliberativi.44 Su di
40. Questo approccio è anche opportuno per evitare il rischio di “nascondere” una discutibile teoria all’interno di una “semplice” definizione; critica che è stata effettivamente avanzata contro la
democrazia deliberativa, si veda: A. Pintore, I diritti della democrazia, Roma-Bari: Laterza, 2003.
41. Divergenza che coincide, grosso modo, con quella tra le posizioni di Habermas e Rawls in merito, perlomeno per come intese da quest’ultimo: J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas”, Micromega Almanacco di filosofia (1996): 51-106. Il senso di questa contrapposizione sarà comunque approfondito a partire dal capitolo terzo.
42. C. M. Hendriks e L. Carson, “Can the market help the forum? Negotiating the commercialization of deliberative democracy”, Policy Sciences 41, no. 4 (2008): 293-313; D. Thompson, “Deliberative Democratic Theory and Empirical Political Science”, Annual Review of Political Science 11
(2008): 497-520.
43. Talvolta, però, si afferma anche la necessità di sottrarre alla partecipazione politica egalitaria
alcuni tipi di decisioni; la predilezione di Rawls e dei teorici liberal per le corti giudiziarie è nota,
ma idee non dissimili possono venire da parte repubblicana, si veda ad esempio: P. Pettit, “Depoliticizing Democracy”, Ratio Juris 17, no. 1 (2004): 52-65.
44. Si vedano ad esempio: F. Cheneval, “The People in Deliberative Democracy”, in Deliberative
democracy and its discontents, a cura di S. Besson e J. L. Martí, Aldershot: Ashgate, 2006; J. Bohman, Democracy across Borders: From Dêmos to Dêmoi, MIT Press, 2007.
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1. Articolare una definizione
un piano più astratto, se limiti e vincoli debbano essere intesi in modo formale
oppure includere anche elementi contenutistici rappresenta una delle questioni
fondamentali del dibattito tra le teorie deliberative.45 Inoltre, è da stabilire come
debbano essere considerati i soggetti coinvolti – singole persone, partiti politici,
istituzioni, gruppi sociali, “pubblici” differenziati per ampiezza e composizione,
circuiti comunicativi senza soggetto46 – sia dal punto di vista normativo sia fattualmente, e come ciò influisca sugli altri aspetti della deliberazione, segnatamente su legittimità e qualità dei suoi esiti.
3. Strettamente connesso al precedente è il problema di che cosa possa valere come
‘discussione e confronto argomentativo’. Il punto è evidentemente centrale poiché
è attraverso la buona qualità del discorso – a sua volta intesa come soltanto procedurale oppure anche contenutistica – che ci si aspetta emergano i positivi effetti
trasformativi sulle opinioni delle persone coinvolte.47 Però, mentre la ragionevolezza del discorso è necessaria affinché si possa parlare di democrazia deliberativa,
qualità e quantità di essa possono variare notevolmente, in senso più o meno restrittivo verso forme non strettamente argomentative,48 rendendo manifesta la polarità tra l’istanza dell’inclusione democratica e quella della ragionevolezza degli
esiti. Anche lo “spazio”, fisico e concettuale, in cui questo discorso dovrà svolgersi
costituirà, ancora intrecciato con il punto precedente, un nodo centrale per la
teoria.
4. L’obiettivo di giungere ‘ad una decisione pratica’ può apparire scontato, ma le
opinioni divergono sia circa l’ambito da sottoporre alla deliberazione sia riguardo
45. Nel prosieguo della tesi adopererò ‘contenutistico’ come contrapposto a ‘formale’ e, soprattutto, ‘procedurale’. Sebbene spesso sia utilizzato il calco dall’inglese, ‘sostantivo’, non mi sembra che
questo possa essere un termine adeguato in italiano.
46. Vedi: P. De Greiff, “Deliberative Democracy and Group Representation”, Social Theory and
Practice 26, no. 3 (2000): 397-415; I. M. Young, Inclusion and Democracy, Oxford: Oxford University Press, 2000; J. Bohman, Public Deliberation: Pluralism, Complexity, and Democracy, Cambridge MA: MIT Press, 1996; J. Habermas, Fatti e norme, p. 356.
47. È questo uno dei principali elementi dell’opposizione rispetto alle teorie della social choice;
come già accennato, è però possibile sostenere che questo aspetto della democrazia deliberativa
funzioni come correttivo dei rischi indicati, dunque correttamente, dalle teorie della social choice,
vedi: D. Miller, “Deliberative Democracy and Social Choice”, in Debating Deliberative Democracy,
a cura di J. S. Fishkin e P. Laslett, Malden MA: Blackwell, 2003.
48. Si può spaziare dal negare cittadinanza deliberativa a qualsiasi espressione che non sia argomentativa: J. L. Martì, “The Epistemic Conception of Deliberative Democracy Defended”, in Deliberative democracy and its discontents, a cura di S. Besson e J. L. Martí, Aldershot: Ashgate, 2006;
fino all’accogliere, a certe condizioni, modalità di protesta relativamente distruttive: A. Gutmann e
D. Thompson, Democracy and Disagreement, Cambridge MA: Harvard University Press, 1996, p.
135; D. Estlund, “Democracy and the Real Speech Situation”, in Deliberative democracy and its discontents, a cura di S. Besson e J. L. Martí, Aldershot: Ashgate, 2006. In chiave deliberativa, anche
la distinzione operata da Rawls tra ragione pubblica esclusiva ed inclusiva va letta in questo modo,
vedi: J. Rawls, Liberalismo Politico, Milano: Edizioni di Comunità, 1994, lezione VI.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 21 -
la forma che la decisione dovrebbe assumere, e ciò mette in gioco anche il tema
dell’assetto istituzionale – ed è qui di nuovo una questione di spazi e di limiti –
più favorevole ad una “buona” democrazia deliberativa. Inoltre, è discutibile se al
risultato si debba giungere per consenso o per contrapposizione maggioranza/minoranza – ovvero primariamente per consenso e soltanto in subordine per
contrapposizione – e se questo consenso debba essere il consensus, moralmente informato,49 o se piuttosto, dicendola ‘pratica’, dovremmo intendere con realistico
pessimismo la ‘decisione’ che di volta in volta è possibile raggiungere; magari considerando normativamente validi, non soltanto pragmaticamente necessari, anche
metodi tipicamente strategici/aggregativi, come votazioni o trattative.
5. Il senso in cui la deliberazione contribuisce a giustificare e legittimare la democrazia può essere interpretato in modi molto diversi. Per ciascun termine dell’endiadi
si pone la questione se esso abbia un valore intrinseco oppure strumentale – ovvero in quale misura un intreccio delle due cose – ed eventualmente strumentale per
quali effettivi risultati, ed ogni opzione dimostra implicazioni diverse sulla relazione tra i due concetti. Inoltre, comunque lo si voglia intendere, il rapporto tra
deliberazione e democrazia configura già di per sé un problema, perché se da un
lato si può impiegare la prima come giustificazione normativa della seconda (la
democrazia è un buon regime politico perché consente una libera deliberazione)50
e anche giungere ad affermare una tendenziale coincidenza tra i due termini (nella
deliberazione si realizza la vera democrazia, e viceversa),51 è d’altro canto chiaro
come le rispettive istanze normative possano teoricamente divaricarsi,52 divaricazione cui puntualmente si mostrano inclini nella prassi effettiva.53 La necessità di
49. Qui la contrapposizione tra consenso (consensus) e accordo (agreement) è più netta che nel linguaggio ordinario. «Ciò che distingue il consenso dal mero accordo è che [nel primo caso] gli individui approvano l’esito essenzialmente per le medesime ragioni»: J. S. Dryzek, Deliberative Democracy and Beyond, p. 48, traduzione mia.
50. D. Estlund, “Beyond Fairness and Deliberation: The Epistemic Dimension of Democratic Authority”, in Deliberative Democracy, a cura di J. Bohman e W. Rehg, Cambridge MA: MIT Press,
1997. Da una prospettiva diversa, si veda anche: C. Misak, “Making Disagreement Matter: Pragmatism and Deliberative Democracy”, Journal of Speculative Philosophy 18, no. 1 (2004): 9-22.
51. Idea che di per sé sarebbe più congeniale alle versioni ricostruttive, e quindi discorsiviste, della
de- mocrazia deliberativa, ma che trova sostenitori anche in altri ambiti, vedi: J. L. Martì, “The
Epistemic Conception of Deliberative Democracy Defended”.
52. C. Lafont, “Is the Ideal of Deliberative Democracy Coherent?”, in Deliberative democracy and
its discontents, a cura di S. Besson e J. L. Martí, Aldershot: Ashgate, 2006.
53. Ciò accade su diversi piani, si vedano ad esempio: C. R. Sunstein, “Deliberative Trouble? Why
Groups Go to Extremes”, Yale Law Journal 110 (2000): 71-119; C. R. Sunstein, “The Law of
Group Polarization”, The Journal of Political Philosophy 10, no. 2 (2002): 175-95; D. C. Mutz,
Hearing the Other Side: deliberative versus participatory democracy, Cambridge: Cambridge University Press, 2006.
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1. Articolare una definizione
mantenersi radicalmente democratici e tuttavia rendere significativo il valore della
deliberazione richiede dunque un difficile equilibrio.
6. I ‘risultati moralmente e cognitivamente migliori’, o più brevemente ‘equi e intelligenti’, attesi dalla democrazia deliberativa ne rappresentano anche il vertice problematico; vale a dire che su questo punto convergono le principali linee del dibattito sulla deliberazione. Da un lato, tutte le condizioni poste a qualificare la
deliberazione hanno lo scopo di favorire, o perfino costituire, la giustizia e il valore cognitivo dei risultati prodotti; d’altra parte, è a partire dalla qualità di questi esiti che la democrazia deliberativa viene perlopiù giustificata.54 Da questa duplice prospettiva, per così dire ascendente e discendente, sarà quindi possibile
percorrere, e riannodare poi nelle conclusioni, tutte le linee del discorso
deliberativo.
Lo sviluppo degli aspetti indicati costituirà la struttura portante della seconda e
più ampia parte di questa tesi. Per meglio comprendere il senso di queste opzioni, è
però utile premettere un quadro sintetico della loro disposizione entro le posizioni
teoriche e politiche in cui si trovano coniugate; a ciò sarà dedicata la restante parte
di questo capitolo. Anche qui, sarebbe futile pretendere una tassonomia rigidamente
ordinata: i contenuti inquadrati, come per ogni schema, presentano eccedenze da un
lato o dall’altro. Tuttavia, almeno ai fini di un orientamento di massima, si possono
legittimamente distinguere le teorie deliberative per il tipo di pretese di validità
avanzate, per l’auto-comprensione come teorie contenutistiche o procedurali e quindi
per le diverse tradizioni politiche cui fanno riferimento.
Queste articolazioni sono qui presentate in modo piattamente sincronico, mentre
periodi successivi hanno invero mostrato la prevalenza di orientamenti diversi, ma
questa semplificazione è utile per iniziare a inquadrare contenuti da discutere poi
più approfonditamente; l’evoluzione diacronica del dibattito sarà comunque oggetto
del prossimo capitolo.
1.2.1 Pretese di validità: descrivere, prescrivere, giudicare
Che la democrazia deliberativa si sviluppi nel contesto di un recupero della teoria
politica normativa non significa, né deve oscurare, come gli studi raccolti sotto tale
etichetta includano diversi approcci, e corrispondenti pretese di validità, non limitandosi affatto a considerare il puro dover essere. Lo stesso recupero di tale dimensione è avvenuto in un quadro che fin dall’inizio intendeva contemporaneamente descrivere la politica democratica per com’essa è, vicina o lontana che sia dall’ideale.
54. Vedi ad esempio: I. Shapiro, “Optimal Deliberation?”, The Journal of Political Philosophy 10,
no. 2 (2002), p. 196.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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D’altra parte, è una teoria nel senso più classico proprio quella che descrive ciò
che è o accade, assumendo la posizione dell’osservatore ed avanzando dunque la pretesa di essere vera. Ma se ciò che è descritto include delle azioni, come certo è il caso
per la politica, allora dalla descrizione sarà facile, e spesso inevitabile, scivolare verso la prescrizione di ciò che si dovrebbe fare. Questo a sua volta potrà essere inteso
dal punto di vista della correttezza normativa,55 e allora la pretesa avanzata sarà
quella della giustizia; oppure rispetto ad una determinata finalità (la quale potrà poi
essere ulteriormente giustificata), il che produrrà discorsi applicativi o pragmatici,
volti ad individuare i mezzi più efficaci per raggiungere il fine previsto. Se il prescrivere non può che precedere le azioni, queste, dopo essere accadute, potranno esser
giudicate conformi, o meno, rispetto a quello, il che porterà a giustificazioni ancora
diversificate attraverso pretese di giustizia normativa ed efficacia pragmatica. L’approccio deliberativo interseca, combinandoli peraltro in vari modi, tutti questi discorsi; perciò, una considerazione carente o indistinta di essi rischia di rendere inintelligibile la teoria, sovrapponendo differenti piani argomentativi, riverberandosi poi
la confusione tanto nelle critiche quanto tra le posizioni più simpatetiche.
Dunque, per cominciare si vuol descrivere come la democrazia effettivamente sia,
e ciò significa tanto interpretare in modo deliberativo i sistemi politici presenti e le
tradizioni da cui originano – una via diversamente percorsa da Rawls, Habermas e
dai sostenitori del repubblicanesimo – quanto osservare quei luoghi politici reali, storici o attuali, che, almeno in parte, già agiscono o hanno agito deliberativamente. Da
questo punto di vista, la teoria si preoccuperà in primo luogo della verità delle descrizioni che propone. Però, anche prescindendo da considerazioni epistemologiche
più generali, gli stessi oggetti di studio già richiamano considerazioni normative. Le
azioni politiche, e ancor meno l’insieme della società, infatti, non si presentano mai
in modo immediato (se pure si volesse ammettere una qualche immediatezza per più
semplici oggetti), richiedendo bensì, anche solo per la sconfinata numerosità dei casi
osservabili, una basilare operazione di delimitazione, la validità della quale dovrà
pur essere difendibile. Se, ancora, si credesse di poter sfuggire da un discorso normativo – rifugiandosi magari in una metodologia sociologico-statistica, per individuare
in modo “neutrale” un insieme appropriato di azioni e situazioni sociali – comunque
la questione si ripresenterebbe nel momento in cui si volesse giudicare la qualità democratico-deliberativa di questi stessi oggetti presuntivamente “neutralizzati”.
55. Benché la distinzione tenda talvolta a sfumare, impiego “prescrizione” e suoi derivati come
concetto più generale, all’interno del quale la normatività o validità in senso più stretto, che riguarda anche il giudizio di finalità “ultime”, o perlomeno “alte”, come la libertà e la giustizia, sarà distinta da quelle raccomandazioni pragmatiche di mezzi adeguati ad un fine non direttamente messo
in discussione.
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1. Articolare una definizione
Se quanto detto vale per la teoria politica in genere, è ancor più ovvio come per
la democrazia deliberativa sia centrale il discorso prescrittivo/normativo. Su di esso,
tuttavia, si articolano istanze ulteriormente diversificate, il modo di intendere le
quali influenza profondamente la struttura delle proposte teoriche. Come sopra accennato, non è semplice neanche definire quali siano le caratteristiche della deliberazione che si vuole raccomandare, soprattutto perché alcune di queste, messe in pratica, possono ben entrare in contraddizione tra loro. D’altronde, la varietà delle
opinioni in merito poggia su differenze più profonde, riguardanti la forma stessa di
questa prescrittività. Come si è detto, della deliberazione si può fare una questione
di giustizia o di efficacia, oppure, invero più spesso, una combinazione delle due. Ma
qual è esattamente il nesso tra deliberazione e giustizia? L’idea intuitiva è che una
discussione che fosse aperta a tutti gli interessati e condotta in modo razionale e imparziale, libera dunque da ogni distorsione, condurrebbe senz’altro verso risultati
giusti.56 Si potrebbe allora pensare, grossomodo come Rousseau riguardo la volontà
generale, che in condizioni ideali ci sarebbe perfetta coincidenza tra ciò che è giusto
e ciò che risulta dalla deliberazione democratica – le decisioni deliberate sarebbero
legittime perché giuste – ma ovviamente tali condizioni non s’incontreranno mai nella realtà.57
Perciò, il problema diviene se si debba considerare quella deliberazione molto imperfetta, la sola realmente praticabile, in qualche modo costitutiva della giustizia, o
perlomeno della legittimità, dei suoi risultati, oppure soltanto come un mezzo ad
essi subordinato – il che corrisponde alla differenza tra un approccio deontologico ed
uno teleologico.58 Nel secondo caso, spostato il criterio del giusto “al di fuori” della
deliberazione, la teoria finirà per coincidere con un discorso orientato all’efficacia;
questo perché, seppure è ben diverso indicare come fine dei valori morali, quali la
56. La «situazione discorsiva ideale» è l’espediente argomentativo impiegato da Habermas per delucidare il fondamento discorsivo dell’etica (J. Habermas, “Etica del discorso”, in Etica del discorso, Roma-Bari: Laterza, 1989); si deve però notare fin d’ora come, al di là di qualche fraintendimento, l’intento dell’autore non fosse quello di costruire direttamente una teoria politica come
realizzazione concreta di una tanto forte idealizzazione.
57. Anche sul piano puramente teorico, comunque, il modo in cui questa situazione ideale, impiegata più per fondare discorsi etici che non immediatamente politici, dovrebbe essere modellata è
controverso; così ad esempio nella critica di Habermas alla posizione originaria di Rawls, e relativa
risposta, nel corso di un dibattito che qui interesserà anche per altri aspetti: J. Habermas, “Conciliazione tramite uso pubblico della ragione”, in L’inclusione dell’altro, Milano: Feltrinelli, 2002; J.
Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas”.
58. Impiego questi termini in un senso piuttosto limitato, cercando di evitare implicazioni filosofiche delle quali sarebbe impossibile rendere conto. In particolare, in luogo della teleologia avrei potuto far riferimento al consequenzialismo (etichetta usuale nel dibattito filosofico di lingua inglese,
vedi: W. Sinnott-Armstrong, “Consequentialism”, http://plato.stanford.edu/entries/consequentialism/); ho però scelto questa terminologia perché il significato più ampio della teleologia consente
di cogliere meglio il senso dei diversi tipi di argomentazioni finalistiche.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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giustizia o la libertà, anziché, ad esempio, la prosperità o il mantenimento dell’ordine sociale, in tutti i casi separare la procedura dalla finalità introduce, come minimo, la tendenza ad elaborare teleologicamente la prima in modo che possa più efficacemente condurre alla seconda. Viceversa, ad una concezione deontologica
dovrebbe corrispondere una democrazia deliberativa elaborata iuxta propria prinicipia, non consequenzialmente rispetto a questo o quel risultato politico concreto.
Alle possibili strutture della teoria normativa, corrispondono diverse modalità di
giudizio e giustificazione. Pensando come teleologica la validità della democrazia deliberativa, se ne potrà dare ragione soltanto confrontando i risultati effettivi e quelli
attesi. Ciò può assumere la forma di un ampio giudizio, politico e morale, che soppesa la qualità deliberativa di una democrazia contro i risultati storicamente ottenuti
nella corrispondente società. Il medesimo tipo di giudizio può esercitarsi in forme
più ristrette, valutando solo uno o pochi elementi di un ordinamento politico in forza della bontà degli esiti, passati o attesi per il futuro. Sfumature di tali posizioni
corrispondono all’atteggiamento di Rawls e dei liberal-deliberativi, ma, in larga
parte, anche dei teorici repubblicani – benché questi ultimi, per tradizione, insistano
maggiormente sul valore intrinseco della partecipazione politica.
Tuttavia, valori come la giustizia o la virtù civica, dal punto di vista delle scienze
sociali, appaiono spesso fumosi, e inutilmente magniloquenti. Non è dunque sorprendente che gli approcci empirici alla deliberazione desiderino poi misurare sperimentalmente, sul metro di risultati anticipatamente considerati corretti, quel che accade
entro spazi deliberativi ristretti e controllabili. Dunque, pur restando notevole la distanza tra le posizioni, schiettamente assiologiche, del liberalismo e del repubblicanesimo e quelle invece tipiche degli approcci empirici, la forma dell’argomentazione a
sostegno della democrazia deliberativa è analoga, in entrambi i casi teleologica. Il discorso giustificativo, d’altronde, deve corrispondere in qualche modo a quello normativo, e tuttavia la questione si presenta più complessa per un approccio deontologico. Infatti, mentre una struttura normativa teleologica già implica, e persino
include, un’omologa giustificazione, si potrebbe pur difendere la necessità di elaborare una teoria normativa deontologica in forza dei risultati che solo essa, magari,
sarebbe in grado di produrre – questo è spesso il caso per quelle interpretazioni della
deliberazione democratica come “generatore” di legittimità (nel suo doppio significato, normativo ma in questo caso anche fattuale) per il sistema politico. Perciò, ad
un struttura deontologica potrebbe corrispondere una giustificazione teleologica. Di
converso, è chiaro come il difendere la validità della teoria soltanto attraverso un
- 26 -
1. Articolare una definizione
giudizio deontologico, basato dunque su princìpi,59 implichi una struttura normativa
parimenti deontologica.
In altre parole, si osserva una simmetria inversa tra i discorsi normativi e di giustificazione e il loro carattere deontologico o teleologico. Ad una giustificazione teleologica potrebbe corrispondere una teoria elaborata in entrambi i modi. Diversamente, un giudizio deontologico è compatibile soltanto con una struttura normativa
omologa, e questo ne fa un fondamento vero e proprio, più che non una generica giustificazione logicamente distinguibile dalla teoria stessa. All’opposto, mentre una
teoria teleologica coincide con una giustificazione dello stesso tipo, su una normatività concepita deontologicamente è possibile convergere partendo da giudizi motivazionali di entrambi i tipi.
Sciogliere in modo appropriato l’intreccio di questi discorsi è uno dei risultati
principali che mi propongo di raggiungere con questa tesi, si vedrà dunque come
queste considerazioni iniziali torneranno più volte centrali nel proseguire
l’argomentazione.
1.2.2 Procedura e contenuti
Se la democrazia deliberativa debba considerarsi come una teoria soltanto procedurale, oppure includere elementi contenutistici, ed eventualmente in quale misura,
rappresenta una questione tra le più cariche di implicazioni. Perciò, nonostante negli
ultimi anni il dibattito sembri assestato su un punto di compromesso,60 il tema merita d’essere mantenuto in primo piano.
Il problema principale è se la dimensione epistemica e quella morale della deliberazione possano essere fondate in termini procedurali, o piuttosto non richiedano almeno alcune limitazioni contenutistiche, e come ciò interferisca con il carattere democratico della teoria. La posizione puramente procedurale può essere introdotta
59. Qui come in seguito, assumo la distinzione tra un ‘valore’, che corrisponde ad una finalità
contenutistica, dei sistemi politici come delle singole azioni, e un ‘principio’, che, lo indica già la
parola, si trova all’origine di un’azione, o sistema politico, in modo logicamente indipendente dagli
esiti. È chiaro come, tanto nell’uso comune quanto in quello filosofico, i termini si prestino a confusioni e sovrapposizioni – ad una devo cedere immediatamente, impiegando il termine ‘validità’
come riferito in generale alla normatività, senza differenziare tra valori e princìpi – il punto da tenere fermo è che, alle azioni che lo seguono, un principio richiede coerenza, mentre ciò che si fa in
vista del conseguimento di un valore, è finalisticamente valutato in termini di efficacia. Questa
differenza corrisponde da un lato a quella tra deontologia e teleologia, mentre dall’altro è profondamente intrecciata alla tensione tra aspetti formal-procedurali e contenutistici della democrazia
deliberativa.
60. Bene esemplificato dall’epistemic proceduralism Estlund, del quale si dirà nel capitolo terzo, e
dalle critiche contro quelle teorie che tentano di svincolarsi dagli esiti contenutistici delle procedure
democratiche, o che viceversa fanno troppo affidamento su di essi, vedi: D. Estlund, Democratic
Authority: A Philosophical Framework, Princeton: Princeton University Press, 2008, capp. 4, 5 e 6.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 27 -
attraverso le parole di Amy Gutmann e Dennis Thompson, dal canto loro sostenitori
di un approccio contenutistico, che così descrivono il pensiero dei loro avversari:
I princìpi della democrazia deliberativa [...] non dovrebbero prescrivere il contenuto delle leggi, ma soltanto le condizioni (come l’eguale diritto di voto) necessarie
affinché le procedure possano funzionare equamente. Questi teorici, che chiamiamo
proceduralisti puri, asseriscono che la teoria democratica non dovrebbe incorporare
princìpi sostanziali, come la libertà individuale o l’eguaglianza di opportunità, al di
là di quanto necessario per un equo processo democratico. Essi non negano che
princìpi sostanziali come la libertà di religione, l’assenza di discriminazioni o un’assistenza sanitaria di base siano importanti, ma vorrebbero tenere questi princìpi
fuori dalle loro teorie democratiche.61
Le condizioni procedurali di un accordo libero e ragionato possono essere specificate a diversi livelli di dettaglio, ma il nodo resta che soltanto a partire dalla qualità
formale della procedura è possibile giustificare e legittimare – e proprio sulla differenza tra legittimità (giuridico-politica) e giustificazione (morale o tecnico-pragmatica) si gioca buona parte della questione – gli esiti decisionali che ne derivano,62
mentre nessun contenuto può essere dato per scontato a prescindere dalla prassi deliberativa effettivamente svolta.
Da un punto di vista logico, la posizione procedurale appare più solida, dato che
la sua formulazione, deontologica, non è altro che quella della democrazia deliberativa stessa.63 Tuttavia, contro questa concezione è possibile sollevare almeno due ordini di obiezioni. Pragmaticamente, si può ben arguire quanto sia arduo stabilire una
procedura percepita come legittima senza alcun nesso con i suoi risultati effettivi –
vale a dire che gli esiti possono bensì essere osservati e giudicati, ma in linea di principio non intervengono sulla legittimità della democrazia e delle sue procedure – e
chi sostiene una concezione teleologica della democrazia deliberativa deve sempre argomentare, almeno implicitamente, in questo senso. Più radicalmente, si può anche
far notare come, senza un criterio di giudizio esterno ad essa, la deliberazione rischi
61. A. Gutmann e D. Thompson, “Deliberative Democracy Beyond Process”, The Journal of Political Philosophy 10, no. 2 (2002), p. 153, traduzione mia. In questo come in altri passaggi ben si avverte la mancanza di una distinzione adeguata tra princìpi e valori.
62. Questa posizione, in un’ottica discorsivista, può essere estesa alla conoscenza scientifica-empirica: K.-O. Apel, “Fondazione normativa della ‘teoria critica’ tramite ricorso all’eticità del mondo
della vita?”, in Discorso, Verità, Responsabilità, Napoli: Guerini e Associati, 1997, pp. 230 ss. D’altronde, seppur in un senso forse più debole, idee simili non sono estranee neanche alla tradizione
pragmatista. In senso opposto, alcune critiche contro la democrazia deliberativa si sviluppano proprio contro la pretesa, giudicata irrealistica, di estendere alla politica il modello di un discorso ragionato e consensuale, tipico dei contesti accademico-scientifici e adeguato solo per essi.
63. Anche autori che sostengono posizioni contenutistiche, in effetti, basano la propria teoria su
princìpi formal-procedurali, così gli stessi Gutmann e Thompson presentano la reciprocità, di per
sé vuota di contenuto benché a sua volta giustificata in base a ulteriori valori morali, come fondamento della democrazia deliberativa: A. Gutmann e D. Thompson, Democracy and Disagreement.
- 28 -
1. Articolare una definizione
di ridursi ad una sorta di vuota tautologia e, ancor peggio, come neanche gli stessi
partecipanti potrebbero svolgere il loro ruolo nel dibattito senza presupporre criteri
indipendenti;64 ma qualsiasi principio di giustizia, equità o intelligenza, se posto
come esterno alla deliberazione, rappresenterebbe per essa un contenuto fissato a
priori, dissolvendone quindi il preteso proceduralismo. La rilevanza di questa linea di
critica è chiara, dal momento che, rifuggendo dall’affermazione aprioristica di valori
contenutistici, porre tutti gli oneri di legittimità e giustificazione sulle qualità formali della procedura significa affidarle alla prassi discorsiva delle persone coinvolte.
Considerati questi e altri problemi,65 la maggior parte dei teorici deliberativi ha
assunto posizioni almeno parzialmente contenutistiche.66 Questo accade in maniera
particolarmente spiccata per gli autori più vicini al liberalismo di stile rawlsiano –
ben comprensibilmente dato che la posizione originaria e l’idea di ragione pubblica
configurano esplicitamente un paradigma contenutistico, sia pur “leggero” – o al repubblicanesimo, ma in generale sono molti gli autori, tra i rappresentanti del mainstream deliberativo, che sostengono da tempo posizioni intermedie, anche appoggiandosi all’evidente difficoltà di tracciare un confine netto tra ciò che è solo formale e
quel che rappresenta, invece, anche un contenuto sostanziale.67
La differenza tra il puro proceduralismo e le posizioni contenutistiche si rispecchia
nella concezione del valore legittimante della deliberazione per la democrazia. Benché in astratto la deliberazione possa essere intesa anche contenutisticamente e con
valore intrinseco, oppure strumentale e puramente formale, i proceduralisti tendono
a considerarne il valore intrinseco – prevalentemente nel senso che nella partecipazione alla deliberazione si realizza concretamente l’autonomia – mentre, al contrario,
chi vuole enfatizzare la strumentalità della deliberazione, per raggiungere risultati
definiti come moralmente e/o cognitivamente migliori, ne offre di solito una versione
più carica di determinazioni contenutistiche, sia nella forma di valori di base condivisi sia come restrizioni agli argomenti di discussione, perché soltanto a tali condizio64. F. Schauer, “Discourse and its Discontents”, Notre Dame Law Review 72 (1997), p. 1318; M.
Festenstein, “Deliberative Democracy and Two Models of Pragmatism”, European Journal of Social
Theory 7, no. 3 (2004), p. 296.
65. Un ulteriore elemento sfavorevole al puro proceduralismo è la difficoltà di applicarlo nei modi e
nei contesti considerati appropriati dalla maggior parte degli “empirici”. Di per sé, ciò non costituisce un argomento contro la concezione procedurale, ma contingentemente rappresenta un fattore
rilevante.
66. Perciò, critiche come quella della Pintore (A. Pintore, I diritti della democrazia) che attribuisce
alla democrazia deliberativa un inserimento surrettizio di valori sostanziali, non sono letteralmente
giustificate, dato che tali valori sono riconosciuti, niente affatto surrettiziamente, da molti autori.
Tuttavia, è pur vero che le accuse di “imperialismo” valoriale non sono invalidate da questo riconoscimento esplicito, semmai trovandovi delle aggravanti.
67. A. Gutmann e D. Thompson, “Deliberative Democracy Beyond Process,” p. 155.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 29 -
ni sarebbe plausibile sostenere la tendenziale bontà degli esiti.68 Anche per questo
motivo, è in concomitanza con la sempre maggiore attenzione agli aspetti pragmatici
e applicativi della democrazia deliberativa che una posizione di compromesso tra
procedura e contenuto ha acquisito maggiore plausibilità.
Le teorie deliberative contenutistiche, tuttavia, prestano il fianco all’accusa d’essere antidemocraticamente esclusive.69 Presumendo che soltanto certi contenuti siano
politicamente legittimi, mentre altri andrebbero eliminati a priori dalla deliberazione
pubblica, a prescindere da come concretamente questi siano individuati, è chiaro che
si staranno escludendo dalla possibilità di discutere su un piano di parità tutti quei
partecipanti eventualmente in disaccordo con le opzioni preventivamente determinate. Dato che difficilmente sarebbero le materie di scarsa rilevanza quelle su cui importerebbe imporre limitazioni contenutistiche, è ben comprensibile come la possibilità di esclusione manifesterebbe la spiccata tendenza ad attualizzarsi.70 Tutto ciò
non è soltanto incompatibile con la comune percezione, per poco che sia riflessiva,
della democrazia, ma anche più radicalmente in contrasto con i presupposti della
teoria deliberativa stessa, nella misura in cui è a partire confronto argomentativo, in
linea di principio pluralistico e privo di restrizioni, che ci si attendono risultati equi
e giusti. Né si dovrebbe dimenticare come la teoria deliberativa sia stata elaborata
in connessione con la necessità di legittimazione della democrazia moderna:
Dovremmo tenere a mente la ragione per cui la teoria politica normativa ha introdotto una nozione epistemica di politica deliberativa: è per risolvere il ‘problema
di legittimazione’ che lo stato laico [secular] fronteggia alla luce del ‘fatto del pluralismo’. Una volta che l’accettazione di decisioni politiche vincolanti non può più basarsi su giustificazioni derivate da una visione del mondo sostanziale che è, o ci si
può aspettare che sia, condivisa da tutti i cittadini, l’onere della legittimazione cade
finalmente soltanto su ciò che possiamo aspettarci dal processo democratico.71
68. Qui è anche interessante notare come il dibattito tra i fautori della pura procedura e quelli degli elementi contenutistici corrisponda in larga misura a quello tra i sostenitori di una legittimazione intrinseca o piuttosto strumentale della democrazia in genere. Si vedano ad esempio: C. G.
Griffin, “Democracy as a Non-Instrumentally Just Procedure”, The Journal of Political Philosophy
11, no. 1 (2003): 111-21; R. J. Arneson, “Defending the Purely Instrumental Account of Democratic Legitimacy”, The Journal of Political Philosophy 11, no. 1 (2003): 122-32.
69. Così chi, come Iris Marion Young, focalizza la sua attenzione sull’inclusione, difende anche posizioni puramente procedurali: I. M. Young, “Justice, Inclusion, and Deliberative Democracy”, in
Deliberative Politics, a cura di S. Macedo, New York, Oxford: Oxford University Press, 1999.
70. Si può pensare a quanto devono sembrare ragionevoli le rispettive posizioni, mentre irrazionali
quelle opposte, ai sostenitori e agli avversari del diritto all’aborto, della pena di morte, del pacifismo, della affirmative action o del ruolo pubblico della religione; a dispetto di discussioni pubbliche
che durano da decenni, se non secoli, anche se perlopiù portate avanti con intenti e metodi non
proprio deliberativi.
71. J. Habermas, “Concluding Comments on Empirical Approaches”, Acta Politica 40, no. 2
(2005), p. 386, traduzione mia.
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1. Articolare una definizione
La via d’uscita percorsa dai sostenitori di una democrazia deliberativa moderatamente contenutistica consiste di solito nel dichiarare che i valori inclusi nella teoria
sono essi stessi discutibili deliberativamente,72 mentre fanno anche notare come le
procedure stesse non debbano certo essere definite una volta per tutte, bensì democraticamente deliberate dai cittadini medesimi.73 Dunque, entrambi i termini in questione tornerebbero ricorsivamente alla procedura deliberativa effettivamente svolta.
Tuttavia, tale argomento sposta bruscamente l’oggetto del discorsco, con ciò non
rispondendo affatto ai problemi sollevati dal possibile antagonismo tra procedura e
contenuto. Infatti, la questione resta, come nelle stesse parole di Gutmann e Thompson, se la teoria debba prescrivere, almeno in parte, anche il contenuto della deliberazione oppure no. Percorrendo l’argomentazione di cui sopra, la posizione contenutistica non si differenzia in modo rilevante da quella procedurale, giacché si guarda
bene dall’affermare che alcune questioni debbano essere preventivamente poste al di
fuori della possibile decidibilità democratica, il che coinciderebbe con l’abbandonare
la teoria deliberativa tout court. Il fatto che la pubblica discussione, nel momento in
cui effettivamente si svolge, non possa che avere dei contenuti è persino banale, così
come è chiaro che la stessa opzione a favore della deliberazione – ma ciò vale per la
democrazia in genere, come pure per qualsiasi altra forma politica – si presenterebbe
contenutisticamente onerosa dal punto di vista di chi non la condividesse; ma questo, sebbene apra ulteriori questioni, lascia del tutto impregiudicato il problema di
come sia possibile, dati i princìpi della democrazia deliberativa, conciliare il pluralismo e l’apertura dell’ambito discorsivo con alcuni requisiti (cognitivi, morali e materiali) che, pur apparendo evidentemente necessari, non possono essere dati per scontati senza mettere in crisi i fondamenti del paradigma stesso.74
A dispetto degli anni di dibattito trascorsi, e nonostante l’attuale tendenza a non
considerare più così centrali tali questioni, non sembra che il problema sia stato risolto in modo davvero accettabile. Piuttosto, ci si trova ancora nella situazione precocemente delineata da Carlos Nino,75 per cui caricando la deliberazione democrati72. Perciò sono caratterizzati come provisional: A. Gutmann e D. Thompson, Why Deliberative
Democracy?, p. 110-11. Per un approccio simile, ma articolato in modo più vicino al discorsivismo,
si veda: P. Gilabert, “The substantive dimension of deliberative practical rationality”, Philosophy
& Social Criticism 31, no. 2 (2005): 185-210.
73. J. Bohman, Public Deliberation, cap. 1.
74. Per una critica a Gutmann e Thompson su questo tema vedi: I. Shapiro, “Enough of Deliberation”, in Deliberative Politics, a cura di S. Macedo, New York, Oxford: Oxford University Press,
1999.
75. C. S. Nino, The Constitution of Deliberative Democracy, New Haven & London: Yale University Press, 1996. Più brevemente, lo stesso fatto era stato notato precedentemente anche da Cohen,
in chiusura del saggio: J. Cohen, “Deliberation and Democratic Legitimacy”, in The Good Polity:
Normative Analisys of the State, a cura di A. P. Hamlin e P. Pettit, Oxford: Blackwell, 1989.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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ca di contenuti presupposti, allo scopo di favorire o garantire buoni risultati,
contemporaneamente se ne restringe l’ambito decisionale e quindi la rilevanza pratica, pur essendo questa stessa rilevanza a giustificare l’imposizione di vincoli preventivi.76 Vale a dire che rendere conto di alcuni problemi, pure evidenti – e.g. come è
possibile che i cittadini si impegnino paritariamente nella deliberazione se non c’è almeno qualche limite alla possibile diseguaglianza delle loro condizioni materiali? –
sembra contemporaneamente ‘richiesto da’ eppure ‘in contraddizione con’ i princìpi
della democrazia deliberativa.
La questione non ammette facili conciliazioni, né si può affrontare a partire da
una mera collezione di esempi, richiedendo piuttosto un riesame complessivo della
concezione deliberativa della politica e della società, rappresentando d’altronde un
punto imprescindibile per arrivare ad un giudizio riguardo le possibilità e i limiti di
quest’insieme di teorie. Per sciogliere questo nodo sarà necessario articolare l’esame
della democrazia deliberativa attraverso i piani discorsivi sopra delineati. Perciò, nel
capitolo terzo la questione sarà affrontata a partire dalle motivazioni di fondo per
sostenere la democrazia deliberativa, il che significherà riportare gli elementi qui indicati alla più basilare contrapposizione tra un approccio teleologico ed uno deontologico alla teoria deliberativa ed alla giustificazione/fondazione di questa. Il risultato
provvisoriamente ottenuto – favorevole ad un puro proceduralismo, però correttamente inteso – sarà quindi messo alla prova da vari punti di vista, per tornare poi
centrale nelle conclusioni.
1.3. Posizioni politiche
In questo paragrafo presenterò due polarità più direttamente politiche entro le quali
articolare il dibattito deliberativo. La prima, tra “radicali” e “moderati”, pur attraversando diversi ambiti teorici, riguarda prevalentemente questioni applicative e di
finalità; mentre la seconda, tra liberalismo e teoria critica, rispecchia il diverso modo
di offrire le ragioni basilari per cui si dovrebbe deliberare.
1.3.1 Radicali e moderati: sul repubblicanesimo deliberativo
La democrazia deliberativa presenta un volto spiccatamente ancipite. Da un lato,
vuol essere una teoria radicale della democrazia, persino l’esito più compiuto di essa;
d’altra parte, fin dalle sue caratteristiche basilari, ragionevolezza e ponderazione, la
76. Su questa linea è stata avanzata la critica che in condizioni discorsive ideali, la deliberazione
non sarebbe necessaria, ma in condizioni reali potrebbe ben essere inutile, vedi: F. Schauer, “Talking as a Decision Procedure”, in Deliberative Politics, a cura di S. Macedo, New York, Oxford:
Oxford University Press, 1999. Ma sui benefici di una pur imperfetta deliberazione si veda: M. F.
Grimes, “The Civic Benefits of Imperfect Deliberation”, Journal of Public Deliberation 4, no. 1
(2008): articolo 7.
- 32 -
1. Articolare una definizione
deliberazione entra in scena quale provvido correttivo delle tendenze estremistiche,
che facilmente si manifesterebbero in una democrazia plebiscitaria e populistica. Da
un canto, la deliberazione appare come un’attività da svolgere direttamente, favorendo dunque una forma di democrazia partecipativa; d’altronde, il tempo e le conoscenze necessarie per ben deliberare sembrerebbero richiedere una forma rappresentativa, il più possibile distante dai pericoli dell’incompetenza e della mob rule,
spesso considerati intrinseci alla diretta partecipazione popolare. Ciò definisce una
posizione radicale ed una moderata per quanto riguarda la procedura democratica.
Analoga contrapposizione può però darsi sul piano contenutistico; così, ci sarà chi
enfatizza i requisiti materiali e culturali per una buona deliberazione democratica, e
chi si contenterà d’una considerazione più minimale, aperta ad esiti maggiormente
diversificati per quanto riguarda l’organizzazione della società.
Benché radicalismo e moderatismo, procedurali e contenutistici, possano combinarsi in modi diversi, è curioso osservare come i principali poli della contrapposizione siano stati entrambi spesso caratterizzati dall’etichetta di ‘repubblicanesimo’;
certo intesa secondo differenti accezioni, provocando una certa confusione. Il tema
della virtù civica, che caratterizza la prospettiva repubblicana nel senso più ampio,
può fare da snodo per questa differenziazione. Tale virtù, infatti, può essere declinata nel senso per cui tutti dovrebbero e potrebbero praticarla, dando luogo a concezioni partecipative della democrazia. Fissato il punto della partecipazione, l’etichetta
del repubblicanesimo (in questa accezione, spesso detto ‘civic republicanism’ o ‘civic
humanism’) è stata talvolta estesa ad includere da Arendt fino a Barber, passando
per Pateman, MacPherson e altri.77 Un simile uso è tipico di Habermas, che, mettendo l’accento sugli onerosi requisiti etici di questo tipo di teorie – accomunate, con
una certa ulteriore confusione, a quelle che possono ricadere sotto l’etichetta di communitarian78 – intende presentare la propria idea di democrazia deliberativa quale
punto d’equilibrio tra queste ultime e il liberalismo classico, che sarebbe di converso
troppo minimalista nella sua concezione della libertà negativa.79
77. C. Pateman, Participation and Democratic Theory, Cambridge: Cambridge University Press,
1970; C. B. MacPherson, The Life and Times of Liberal Democracy, Oxford: Oxford University
Press, 1977; B. R. Barber, Strong Democracy: Participatory Politics for a New Age, Berkeley: University of California Press, 1984. Con la parziale eccezione di Barber, questi autori non figurano
però all’interno del campo deliberativo in senso proprio, pur costituendone talvolta un’ispirazione.
Sulle diverse sfaccettature del repubblicanesimo vedi anche: B. Brugger, Republican Theory in Political Thought: Virtuous or Virtual?, London: Palgrave Macmillan, 1999.
78. E.g. M. J. Sandel, Democracy’s Discontent. America in Search of a Public Philosophy, Cambridge MA: Harvard University Press, 1996; A. MacIntyre, After Virtue: A Study in Moral Theory,
Notre Dame IN: University of Notre Dame Press, 2007.
79. J. Habermas, “Tre modelli normativi di democrazia”, in L’inclusione dell’altro, Milano: Feltrinelli, 2002. La terminologia è ulteriormente confusa dal fatto che i liberal odierni sono tali in un
senso diverso da quello, pur correlato, del liberalismo cui fa riferimento Habermas. Tra gli stessi
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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Tuttavia, partendo dal medesimo apprezzamento della virtù civica, è facile osservare come essa sia una risorsa scarsa. A ciò possono corrispondere concezioni più
moderate, che intendano la deliberazione come un modo per favorire l’emergere di
quella difficile virtù orientata verso il bene comune; perciò delineando un sistema
rappresentativo e fondato sul bilanciamento e la divisione dei poteri. Modelli privilegiati di questo repubblicanesimo sono la costituzione statunitense e il pensiero dei
Padri fondatori.80 Quest’interpretazione della democrazia deliberativa, soprattutto
attraverso Philip Pettit, si riallaccia alla ridefinizione del repubblicanesimo originata
da Quentin Skinner,81 che, distinguendo tra un filone “neo-ateniese” (corrispondente
grossomodo alle posizioni partecipative) ed uno “neo-romano” del repubblicanesimo,82 e preferendo quest’ultimo, intende presentare una teoria politica e una concezione della libertà più realistiche di quelle delle teorie partecipative, e al contempo
aperte ad accogliere i migliori frutti del liberalismo, considerato peraltro una sorta
di versione “impoverita” del più antico modello repubblicano.83 D’ora in poi, parlando di repubblicanesimo, mi riferirò a questo secondo gruppo di teorie, se non altro
perché qui l’etichetta è adottata dagli stessi teorici, anziché esser loro imposta dai
critici.
Sebbene i repubblicani siano generalmente più moderati rispetto ai democratici
partecipativi,84 posizionarli entro l’insieme del campo deliberativo è più complesso e
richiede che i due piani, procedurale e contenutistico siano disaccoppiati. La conceautori “habermasiani”, peraltro, si ripropone la polarità tra radicali e moderati, vedi ad esempio: J.
S. Dryzek, Deliberative Democracy and Beyond, pp. 27-28.
80. Su questa linea, tra l’altro, il primo articolo nel quale è stato impiegato il termine ‘democrazia
deliberativa’: J. M. Bessette, “Deliberative Democracy: The Majority Principle in Republican Government”, in How Democratic is the Constitution, a cura di R. A. Goldwin e W. A. Schambra,
Washington: American Enterprise Institute, 1980. Su questo ed altri contributi del primo periodo
del repubblicanesimo deliberativo tornerò nel prossimo capitolo.
81. Q. Skinner, Liberty before Liberalism, Cambridge: Cambridge University Press, 1998; P. Pettit,
Il repubblicanesimo: una teoria della libertà e del governo, Milano: Feltrinelli, 2000; J. W. Maynor,
Republicanism in the Modern World, Cambridge: Polity Press, 2003.
82. La distinzione corrisponde anche a quella posta da Held tra repubblicanesimo “di sviluppo” e
“protettivo”: D. Held, Modelli di democrazia, Bologna: il Mulino, 2007, cap. 2.
83. Questa considerazione passa in particolare per la contrapposizione tra la libertà come ‘non impedimento’ e il concetto, avanzato dal repubblicanesimo contemporaneo, di libertà come ‘assenza di
dominazione’ (non-domination): M. Viroli, Repubblicanesimo, Roma-Bari: Laterza, 1999; P. Pettit,
Il repubblicanesimo.
84. Sviluppatesi sullo sfondo degli anni ‘60 e ‘70, le teorie partecipative nascono in un contesto politico già di per sé più radicale di quello dei decenni successivi. Peraltro, proprio l’opera di Hannah
Arendt, spesso presa ad icona del modello “neo-ateniese”, non si adatta affatto a questo schema.
Una posizione ancora a parte è quella di Pocock, anch’egli per altri versi considerato un modello
del filone “neo-ateniese”, e tuttavia orientato ad un approccio più storiografico che teorico. Il vero
problema delle questioni, spesso confuse, attorno all’uso del termine ‘repubblicanesimo’ è che i punti qualificanti sono volta per volta intesi in modi significativamente diversi.
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1. Articolare una definizione
zione della libertà come assenza di dominazione da un lato, e un’idea relativamente
attivista della politica statale dall’altro, infatti, conducono i repubblicani – e in particolare proprio quelli più coinvolti nel dibattito deliberativo, come Sunstein e Pettit – ad avallare un modello democratico che può essere relativamente impegnativo
sul piano contenutistico, ma assai moderato, talvolta al punto di negare elementi basilari dell’ideale democratico, su quello procedurale. Nel primo caso, la posizione repubblicana si presenta concettualmente simile a quella dei liberal che sostengono una
concezione contenutistica della democrazia deliberativa,85 però concedendo una misura anche maggiore di intervento pubblico a garanzia delle possibilità di deliberare,
come più in generale del welfare della popolazione; in altre parole lasciando ampio
spazio ad un’interpretazione estensiva dei diritti sociali senza volere al contempo limitare a priori l’ambito di discutibilità della deliberazione.
Tuttavia, proprio la necessità di garantire questa dimensione contenutistica ben si
sposa con l’antica diffidenza verso il governo popolare diretto, per delineare un modello che, entro i limiti dell’approccio deliberativo, è probabilmente il più moderato
sul piano procedurale. Da un lato, non basta nemmeno garantire il governo rappresentativo e la separazione dei poteri, ma si deve porre direttamente la necessità di
de-politicizzare una parte consistente della deliberazione.86 D’altro canto, per garantire una serie di beni sociali, sono talvolta considerate accettabili forme di paternalismo, nello spingere i cittadini a compiere certe scelte presunte nel loro interesse,87
tendenzialmente incompatibili con l’autonomia discorsiva, che della deliberazione democratica è certo un principio imprescindibile.
Trovare un punto d’equilibrio – che rappresenti non una mediazione equidistante,
ma l’articolazione più coerente delle premesse deliberative – nell’intreccio tra le tendenze a moderare o radicalizzare la democrazia sarà tra i compiti di questa tesi. Nel
capitolo quinto, in particolare, si tenterà di superare la polarità tra rappresentanza e
partecipazione diretta, che corrisponde alla più appariscente differenza tra delibera85. La plausibilità dell’accostamento tra il repubblicanesimo e il liberalismo di sinistra è esplicitamente riconosciuta da Pettit: Ivi, pp. 18 ss.
86. P. Pettit, “Depoliticizing Democracy”. Dev’essere però notato come la de-politicizzazione voluta da Pettit non si risolva soltanto nell’auspicare lo spostamento di parte del potere dai rappresentanti eletti al potere giudiziario, ma anche nell’aprire nuovi spazi di partecipazione per i cittadini,
soltanto sottratti all’influenza diretta della volontà popolare, dunque a suo parere al gioco delle fazioni partitiche.
87. C. R. Sunstein, “Preferences and Politics”, Philosophy and Public Affairs 20, no. 1 (1991):
3-34; R. H. Thaler e C. R. Sunstein, “Libertarian Paternalism Is Not an Oxymoron”, University of
Chicago Law Review 70, no. 22 (2003): 1159-202; R. H. Thaler e C. R. Sunstein, Nudge: Improving
Decisions About Health, Wealth, and Happiness, 2009: Penguin, 2009. Per una discussione critica si
vedano: G. Mitchell, “Libertarian Paternalism is an Oxymoron”, Northwestern University Law Review 99, no. 3 (2005): 1245; D. M. Hausman e B. Welch, “Debate: To Nudge or Not to Nudge”,
The Journal of Political Philosophy (2009).
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 35 -
tivi radicali e moderati. L’appropriata articolazione dei limiti della deliberazione
sarà oggetto del capitolo quarto, per quel che riguarda la sua dimensione sistematica
(rispetto all’endiadi società/politica), mentre tornerà centrale nel sesto, riguardo le
modalità discorsive accettabili per deliberare.
Più in generale, è ancora la spinosa questione della relazione tra procedura e
contenuti a costituire il quadro nel quale misurare la radicalità dell’approccio deliberativo. La mia posizione sarà che, ad uno schietto radicalismo procedurale debba
corrispondere non già moderazione sulle questioni contenutistiche, bensì la netta separazione di queste dalla procedura. Ciò non per amore del formalismo, bensì in forza della considerazione che, quali che siano i valori ritenuti desiderabili, perseguirli
davvero sensatamente lo si potrebbe soltanto in un contesto politico democratico,
deliberativo e radicalmente tale. Per articolare il significato e le implicazioni di quest’affermazione di principio, tuttavia, sarà necessario attraversare l’argomentazione
svolta in questa tesi.
1.3.2 Liberalismo e teoria critica
Più complessa della contrapposizione tra “moderati” e “radicali”, peraltro ad essa
intrecciata in modo non lineare, è quella tra approcci liberali, d’ascendenza rawlsiana, e discorsivi, sulla linea della teoria critica habermasiana, alla deliberazione. Queste due tendenze, infatti, derivano da costruzioni filosofiche più estese, perciò mettendo in gioco pressoché l’intero della concezione deliberativa della democrazia,
differendo in particolare riguardo le basi di essa, secondo modalità che rimangono rilevanti anche quando alcune soluzioni d’ordine pragmatico/applicativo appaiono
simili.
La linea liberal-deliberativa può essere utilmente delimitata riprendendo per esteso i cinque punti attraverso cui la caratterizza Andreas Follesdal:
Primo, gli oggetti della deliberazione pubblica sono innanzi tutto il sistema legislativo e le altre questioni rilevanti per “gli elementi costituzionali essenziali e la giustizia di base”. Al confronto, altre teorie della democrazia deliberativa possono ritenere che la deliberazione dovrebbe determinare un’area più ampia di decisioni, per
esempio applicandosi all’intera legislazione, o a gran parte di essa.
Secondo, il dovere morale dei cittadini in queste occasioni è di votare secondo il
loro senso di giustizia. I cittadini dovrebbero votare secondo le loro preferenze per il
proprio vantaggio privato soltanto se questo è compatibile con ciò che, secondo loro,
la giustizia richiede. La “giustizia” è qui strettamente connessa alla “ragione pubblica”: ciò che i cittadini credono che tutti abbiano ragione di accettare in quanto cittadini. Questa è una alta espressione del loro senso di giustizia, una preferenza del
più alto ordine per “cooperare equamente con gli altri per il reciproco vantaggio”. I
cittadini sono quindi pronti a elaborare e modificare le proprie preferenze e i propri
- 36 -
1. Articolare una definizione
valori ultimi andando incontro a quelli degli altri concittadini.
Terzo, il senso di giustizia e i giudizi politici dei cittadini si sviluppano e si mantengono in arene istituzionalmente specificate di “deliberazione pubblica focalizzata
sul bene comune” dove “i cittadini o i loro rappresentanti effettivamente cercano di
fornire l’uno all’altro ragioni reciprocamente accettabili per giustificare le leggi che
adottano”. Queste arene devono permettere una discussione libera e aperta tra i
partecipanti ed essere accessibili ai cittadini ordinari. Queste condizioni possono sovrapporsi estesamente a quelle del discorso ideale di Habermas. Alcuni teorici vorrebbero sostenere che le arene rilevanti siano quelle che Habermas include nella
“sfera pubblica politica”; per i nostri scopi il contrattualismo liberale è caratterizzato dal più ristretto “foro politico pubblico” di Rawls: il discorso dei giudici e degli
ufficiali governativi e l’oratoria e le affermazioni dei candidati alle cariche pubbliche. Considero inclusi in ciò i rilevanti momenti di contestazione e discussione infra- e inter-partitica.
Quarto, la deliberazione in queste arene non dovrebbe soltanto riguardare e influenzare le credenze fattuali e la migliore scelta di mezzi o strategie per fini dati.
La discussione dovrebbe anche plasmare i valori ultimi degli individui, incluse le
loro concezioni di un ordine politico legittimo, della cittadinanza e del bene
comune.
Quinto, questa particolare teoria della democrazia deliberativa ritiene che tale
formazione di preferenze occorra in processi di equilibrio riflessivo. Individualmente
o congiuntamente, le persone modificano i loro giudizi morali iniziali o le loro preferenze secondo vari criteri di accettabilità razionale. L’esito è un insieme di giudizi
maggiormente coerente.88
Una articolazione puntuale dell’approccio discorsivista alla democrazia deliberativa, della quale riporto per esteso solo la parte più direttamente rilevante, si può invece trarre da Denise Vitale:
Habermas elabora il concetto di democrazia a partire da una dimensione procedurale fondata sulla teoria del discorso e la deliberazione politica. La legittimità democratica richiede che il processo decisionale politico abbia luogo nel quadro di
un’ampia discussione pubblica, nella quale tutti i partecipanti possano dibattere le
varie questioni attentamente e in modo ragionevole. Si possono produrre decisioni
soltanto dopo che questo processo di discussione abbia avuto luogo. In questo senso,
l’aspetto deliberativo corrisponde a un processo collettivo di riflessione e analisi,
permeato dal discorso che precede la decisione. Habermas è convinto del ruolo decisivo giocato sia dalla democrazia sia dal diritto nel processo di superamento della
filosofia del soggetto e, conseguentemente, nel completamento del progetto della
modernità. Il discorso, il diritto e la democrazia sono intimamente connessi. La
comprensione dell’idea democratica concerne l’analisi delle varie relazioni stabilite
tra questi tre elementi.
88. A. Follesdal, “The Value Added by Theories of Deliberative Democracy,” p. 60-61, traduzione
mia. Follesdal definisce come ‘liberal-contractarian’ questa versione della democrazia deliberativa.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 37 -
Secondo la sua visione, il discorso e la democrazia, mediati dal diritto, sono le
due facce della medaglia. Una volta istituzionalizzato legalmente, il principio del discorso si trasforma nel principio della democrazia. Entrambi, comunque, condividono una fonte comune, dato che tutto il potere politico deve essere tratto dal potere
comunicativo dei cittadini. Se, in conformità al principio del discorso, le regole che
pretendono validità devono assicurarsi l’assenso potenziale di tutti gli individui, il
principio democratico garantisce il ragionevole processo di formazione delle opinioni
e della volontà politica attraverso l’istituzionalizzazione di un sistema di diritti che
assicura eguale partecipazione a ogni individuo nel processo legislativo. L’importanza cruciale del diritto risiede nel suo potenziale di istituzionalizzare procedure che
garantiscano il principio fondamentale della teoria discorsiva. Il risultato, quindi, è
una teoria procedurale che misura la legittimità delle norme giuridiche nei termini
della razionalità del processo democratico di legislazione politica. La legittimità di
questi risultati si fonda sul corretto uso della procedura, che è discorsiva e deliberativa e, quindi, democratica.89
Queste due “presentazioni” evidenziano, in modo efficacemente complementare, i
punti più rilevanti di disaccordo tra le concezioni liberali e quelle “critiche” della
deliberazione.
Sul piano teorico, le divergenze fondamentali, tra loro intrecciate, si possono ridurre a tre: il rapporto tra la deliberazione e la sua giustificazione filosofica, la relazione tra la procedura deliberativa e la valutazione dei suoi risultati, ed infine la
concezione del nesso tra diritto e democrazia. In tutti e tre i casi, in coerenza con
l’opposizione tra l’approccio costruttivista di Rawls e quello ricostruttivo del discorsivismo,90 la posizione della teoria critica predilige un approccio che possiamo dire
“integrato”, mentre quella liberale tende a concepire ambiti separati per ciascuno dei
termini volta a volta in discussione. Come già accennato, Habermas pensa la deliberazione come elemento della propria complessiva teoria della razionalità sociale,
mentre gli autori più vicini a Rawls la intendono piuttosto come autonomamente
politica. Conseguentemente, mentre per il discorsivismo il ruolo della deliberazione è
89. D. Vitale, “Between deliberative and participatory democracy: A contribution on Habermas”,
Philosophy & Social Criticism 32, no. 6 (2006), p. 745, traduzione mia. Chiaramente, la riduzione
dell’intera democrazia deliberativa alla sola matrice discorsivista non può essere sostenuta in senso
letterale, sebbene sia vero che tale orizzonte filosofico fornisce meglio di altri i presupposti per comprendere la deliberazione.
90. Si può dire che teorie liberali si presentino come normative-costruttive, mentre quelle radicali”pretendono di essere sia normative sia descrittive e però in senso ricostruttivo (si veda: T. McCarthy, “Kantian Constructivism and Reconstructivism: Rawls and Habermas in Dialogue”, Ethics
105 (1994): 44-63). Quest’ultimo aspetto delle teorie deliberative spesso non è adeguatamente evidenziato, per una buona esposizione si veda: S. Benhabib, “Toward a Deliberative Model of Democratic Legitimacy”. Sulla distinzione tra l’approccio integrato di Habermas e quello “modulare” di
Rawls si veda: J. G. Finlayson, “The Habermas–Rawls Dispute Redivivus”, Journal of International Political Theory 3, no. 1 (2007): 144-62
- 38 -
1. Articolare una definizione
in qualche modo costitutivo della correttezza epistemica e della giustizia dei suoi esiti – sia pure non nel senso ingenuo che li produca immancabilmente91 – i “liberali”
insistono piuttosto sulla necessità di un criterio di giudizio indipendente.92 Infine, la
relazione tra diritto e democrazia è pensata dagli habermasiani come co-originaria,93
laddove i liberal-deliberativi (come in parte si è già potuto notare nella contrapposizione tra posizioni procedurali e contenutistiche) continuano a concepire i diritti prevalentemente a guisa di limiti posti alla politica – sia pur con un rilevante scostamento dalle posizioni più rigide del liberalismo classico in merito,94 ché altrimenti
non si potrebbe parlare affatto di democrazia deliberativa.
Queste divergenze teoriche si riverberano nel modo più appariscente sull’ambito
di applicazione della deliberazione, che a sua volta rappresenta il problema pratico
dalle conseguenze più ampie. Secondo la tipica posizione liberale, che la deliberazione in senso stretto debba essere applicata limitatamente agli elementi fondamentali della coesistenza politica (constitutional essentials), corrisponde all’affermazione
della neutralità delle istituzioni statali rispetto all’autonomia degli individui nel definire il proprio progetto di vita e la propria visione del mondo (‘dottrina comprensiva’, nella terminologia rawlsiana). Da questa prospettiva, la deliberazione è considerata necessaria perché consentirebbe di stabilire, in modo equo verso tutti gli
individui coinvolti, gli elementi minimi per giustificare un ordinamento politico-legale coercitivo. Al di fuori di questi elementi basilari, gli individui si comportano liberamente, e gli eventuali conflitti tra loro possono ben essere risolti con i mezzi del
compromesso e della trattativa; ciò può riguardare anche divergenze di opinione su
provvedimenti politici da adottare collettivamente sì, ma non tanto basilari da valere
come constitutional essentials.95
91. S. Benhabib, “Toward a Deliberative Model of Democratic Legitimacy”; M. E. Warren, “Deliberative Democracy”, in Democratic Theory Today, a cura di A. Carter e G. Stokes, Cambridge:
Polity Press, 2002, pp. 186-87; C. F. Rostbøll, Deliberative Freedom, p. 180.
92. J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas”; J. Cohen, “Procedure and Substance in Deliberative
Democracy”, in Democracy and Difference, a cura di S. Benhabib, Princeton: Princeton University
Press, 1996; A. Gutmann e D. Thompson, Democracy and Disagreement. Ciò corrisponde all’opposizione tra il proceduralismo e i sostenitori della necessità di alcuni elementi contenutistici; però se
è vero che una posizione puramente procedurale sarebbe incoerente per un liberale, non vale l’opposto reciproco, così la maggior parte degli autori vicini al discorsivismo non sostengono, o non sostengono più, una concezione puramente procedurale, vedi ad esempio: J. Bohman, “The Coming
of Age of Deliberative Democracy”.
93. J. Habermas, Fatti e norme, cap. 4.
94. Il riferimento principale è alla tradizione giusnaturalista. Tuttavia, anche tra i contemporanei
si può pensare a: R. Nozick, Anarchia, stato, utopia, Milano: Il Saggiatore, 2008; o, per altri versi,
a: R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna: il Mulino, 1982.
95. Tuttavia, quando Rawls limitava la ragione pubblica alla discussione di questi elementi essenziali, la sua motivazione era pragmatica, in considerazione cioè della difficoltà d’un impiego molto
più ampio, senza però che questo fosse normativamente escluso, laddove magari possibile, come
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 39 -
Perciò, il modello della prassi deliberativa sarà relativamente rigido – anche includendo presupposti contenutistici, soprattutto nella forma di prescrizioni etiche – allo
scopo di garantire la giustizia, dato che i suoi risultati saranno sovraordinati rispetto
alle altre istanze presentate nella società. D’altro canto quest’orientamento verso
una deliberazione esigente sarà limitato, per tutti i coinvolti, perlopiù ai momenti
fondativi,96 mentre nell’ordinaria quotidianità a chi ricopre una carica pubblica, o
per essa si candida. Sarà anche chiaro come questa concezione corrisponda alla separazione classicamente liberale tra la sfera dei diritti – solo non più “naturali”, bensì
corrispondenti alla ragione pubblica – e quella della quotidiana azione politica, ma
invero anche privata, non costretta da criteri di validità altrettanto esigenti.
All’inverso, il motivo di fondo per cui chi si rifà al discorsivismo ed alla teoria critica deve assegnare un ruolo più diffuso alla deliberazione è che in questo caso la sua
validità normativa si fonda sulla struttura dell’ordinaria prassi linguistica. Perciò,
non sarà possibile limitare ai constitutional essentials l’ambito dell’agire comunicativo, essendo questo per definizione esteso a tutto ciò che è, o pretende di essere, interazione linguisticamente mediata su basi non puramente strategiche/strumentali. Se
per Habermas l’ideale più rigoroso della deliberazione politica ha dei limiti precisi –
la democrazia deliberativa corrisponde alla istituzionalizzazione attraverso il diritto
del principio del discorso,97 ed è entro questi confini che si applica – perché «il procedimento democratico si trova sempre inserito dentro contesti che sfuggono al suo
controllo»,98 altri autori di orientamento analogo sostengono un’estensione ancora
maggiore dell’ambito deliberativo. Comunque ne siano definiti i limiti, è l’agire politico in quanto tale, non un suo sottoinsieme come per i liberali, che dovrebbe essere
informato deliberativamente. Dunque, almeno l’intera attività legislativa deve svolspesso è stato invece interpretato in seguito. Vedi: J. Rawls, Liberalismo Politico, pp. 184-85.
96. Talvolta qui si fa anche riferimento alla contrapposizione tra la «politica costituzionale», e
quella «ordinaria»: B. Ackerman, We the People, Volume 1: Foundations, Cambridge MA: Belknap
Press, 1993. La posizione di Rawls in merito è però più articolata di come non venga talvolta presentata. Vale ad esempio la discussione sul ruolo della religione in: C. Lafont, “Religion in the Public Sphere: Remarks on Habermas’s Conception of Public Deliberation in Postsecular Societies”,
Constellations 14, no. 2 (2007): 239-59. Per una critica della distinzione tra momenti “costituzionali” e politica ordinaria si veda: M. Vargova, “Democratic Deficits of a Dualist Deliberative Constitutionalism: Bruce Ackerman and Jürgen Habermas”, Ratio Juris 18, no. 3 (2005): 365-86.
97. Habermas afferma chiaramente come la mediazione giuridica sia necessaria, perché applicare
direttamente i princìpi discorsivi alla politica produrrebbe insensatezze: J. Habermas, Fatti e
norme, p. 188. Tuttavia, come vedremo meglio in seguito, questa sfaccettatura rischia spesso d’andare perduta tanto tra i critici quanto tra i più simpatetici, inclini piuttosto a sfumare il confine,
dal punto di vista della deliberazione, tra i contesti formalizzati giuridicamente e quelli che non lo
sono.
98. Ivi, p. 361. Da questa posizione discende il modello della democrazia «a doppio binario», che
affianca alla deliberazione formalizzata nelle istituzioni i processi discorsivi informali dell’opinione
pubblica nella società civile (infra, cap. 4).
- 40 -
1. Articolare una definizione
gersi attraverso la deliberazione, né mancano argomentazioni per un suo allargamento alla politica amministrativa;99 ma l’opinione prevalente è che il discorso politico
nella sfera pubblica informale, nella società civile, sia da ricondurre in quanto tale
all’ideale deliberativo.
Un ruolo tanto esteso comporta però la tendenza a rilassare i criteri della deliberazione, proprio per renderla realisticamente adeguata a contesti così differenziati;100
ciò è tanto più rilevante perché Habermas – peraltro in coerenza con la limitazione
della deliberazione all’ambito politico-istituzionale – si attestava inizialmente su una
posizione relativamente rigida in proposito: il consenso doveva essere raggiunto a
partire dalle medesime ragioni e soltanto le ragioni espresse attraverso argomentazioni potevano essere considerate pienamente valide.101 Tuttavia, proprio per i sostenitori più radicali della democrazia deliberativa, nel quadro del progressivo spostamento dalle condizioni deliberative ideali a quelle realmente praticabili, entrambi i
criteri tendono a divenire meno stringenti: così si è argomentato contro l’insostenibilità, anche normativa,102 di un concetto troppo rigido del consensus,103 e altrettanto a
favore di una sempre maggiore estensione delle forme di comunicazione ed espressione ammesse nei diversi contesti deliberativi.104
99. J. Bohman, Public Deliberation, pp. 187 ss.
100.Ad esempio: D. Estlund, “Democracy and the Real Speech Situation”.
101.J. Habermas, Fatti e norme, p. 196. In inglese, parlando di democrazia deliberativa e discorsivismo, spesso si differenzia il consensus, che richiede di essere raggiunto da parte di tutti per le
stesse ragioni moralmente valide, dal concetto più ampio e meno esigente di agreement che è un
semplice accordo, comunque diverso dalla mera trattativa, che può essere raggiunto a partire da ragioni diverse. Tuttavia, l’overlapping consensus rawlsiano presenta caratteristiche intermedie, essendo raggiunto sì per ragioni morali, ma non necessariamente le medesime per tutti. Per una discussione del tema, si veda: J. S. Dryzek e S. Niemeyer, “Reconciling Pluralism and Consensus as
Political Ideals”, American Journal of Political Science 50, no. 3 (2006): 634-49.
102.Habermas riconosce bensì l’inevitabilità di discorsi che non mirano al consenso in senso proprio; ma, circa il valore anche normativo di un atteggiamento più accomodante verso le necessità
pragmatiche si veda: J. Bohman, “The Coming of Age of Deliberative Democracy”.
103.Già in: J. S. Dryzek, Discursive Democracy: Politics, Policy, and Political Science, Cambridge:
Cambridge University Press, 1990. Per una interpretazione articolata del requisito del consensus
vedi anche: S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era
globale, Bologna: il Mulino, 2005, pp. 188 ss.
104.Qui la critica paradigmatica è quella di Iris Marion Young: I. M. Young, “Communication and
the Other: Beyond Deliberative Democracy”, in Democracy and Difference, a cura di S. Benhabib,
Princeton: Princeton University Press, 1996; I. M. Young, Inclusion and Democracy. L’autrice sostiene piuttosto efficacemente che l’imposizione di forme specifiche di discorso costituisca un rilevante fattore d’esclusione a danno dei gruppi più svantaggiati. Si trovano posizioni che consentirebbero a forme d’azione politica relativamente distruttive, purché utili a migliorare, o restaurare, le
condizioni di possibilità della deliberazione: J. Bohman, Public Deliberation, cap. 5; D. Estlund,
“Democracy and the Real Speech Situation”.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 41 -
Quasi paradossalmente, è proprio tra i liberal-deliberativi che si trovano autori
ancora disposti a difendere criteri rigidi per la validità della deliberazione.105 Il punto
problematico, però, è che se la posizione liberale non è in grado di offrire una giustificazione davvero convincente per la democrazia deliberativa, d’altro canto la strategia basata sul discorsivismo sembra favorire contemporaneamente esiti tra loro divergenti. Nel primo caso, la democrazia deliberativa rischia di rimanere
contraddittoria con un approccio basato sull’intangibilità di alcuni diritti e valori
contenutisticamente intesi; mentre, per quanto riguarda gli sviluppi più recenti della
teoria critica, la tendenza al rilassamento dei criteri discorsivi, giustificata con la necessità dell’inclusione democratica, patentemente si scontra con l’intento di fondare
la validità della democrazia su una teoria della razionalità. La possibile via d’uscita – verso la quale convergono, talvolta confusamente, anche posizioni liberali e repubblicane – conduce ad una concezione della società civile a sua volta assai criticabile. Per il momento mi limito ad indicare il problema, giacché affrontarlo
seriamente si può soltanto attraversando i diversi piani discorsivi in cui esso si articola, cosa che tenterò di fare nella seconda parte di questa tesi.
105.J. L. Martì, “The Epistemic Conception of Deliberative Democracy Defended,” p. 47.
2. Breve storia delle teorie deliberative
[...] era per loro impossibile salvarsi sotto un governo democratico. Nondimeno, non si possono raccontare gli avvenimenti successivi allo stesso modo di quelli accaduti fin qui. In precedenza, infatti, tutto veniva riportato al senato e al popolo, anche se accadeva in qualche
luogo lontano; e per questo motivo tutti venivano a sapere le stesse cose, e molti le scrivevano, e in conseguenza di ciò in qualche modo la verità si scopriva [...] Da allora in poi, invece,
la maggior parte delle cose ha cominciato a verificarsi di nascosto e segretamente, e se anche
qualche notizia viene diffusa, non viene creduta perché non verificabile; si sospetta infatti
che tutto si dica e si faccia secondo i voleri di quelli che di volta in volta hanno il potere e
di quelli che sono loro vicini (Dione Cassio, 53.19)
Considerandolo nel senso più ampio, per il concetto democrazia deliberativa è possibile rinvenire precedenti assai remoti. Prima ancora che Aristotele desse una teoria
della retorica deliberativa,1 Tucidide faceva già dire al suo Pericle, nel celebre epitaffio: «noi Ateniesi o giudichiamo o, almeno, ponderiamo convenientemente le varie
questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione».2 Molti secoli dopo, Edmund Burke, non particolarmente democratico ma comunque scelto dagli elettori del proprio collegio, difendeva come deliberativo il proprio ruolo di
membro del Parlamento;3 mentre la preoccupazione di favorire una discussione pub1. Lo Stagirita è largamente richiamato dai teorici deliberativi inclini al repubblicanesimo, così
come da quelli più attenti alla dimensione retorica del discorso pubblico, si vedano: J. Uhr, Deliberative Democracy in Australia: The Changin Place of Parliament, Cambridge, New York, Melbourne: Cambridge University Press, 1998, cap. 1; B. Yack, “Rhetoric and Public Reasoning”, Political Theory 34, no. 4 (2006): 417-38; B. Fontana, et al., a cura di, Talking Democracy: Historical
Perspectives on Rhetoric and Democracy, University Park PA: Pennsylvania State University Press,
2005; F. Arenas-Dolz, “Il luogo delle passioni nella deliberazione. Ciò che la democrazia deliberativa può apprendere dalla retorica aristotelica”, Filosofia politica 23, no. 3 (2009): 453-73.
2.
Tucidide, La guerra del Peloponneso, vol. 1, Milano: Rizzoli, 2004, p. 329 (II-40).
3. E. Burke, Scritti politici, Torino: UTET, 1963. Il discorso agli elettori di Bristol è quello più
spesso citato, vedi ad esempio: J. Elster, a cura di, Deliberative Democracy, Cambridge: Cambridge
University Press, 1998, p. 3.
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2. Breve storia delle teorie deliberative
blica ragionevole e ponderata ha influenzato profondamente l’opera dei Padri fondatori degli Stati Uniti, soprattutto Madison, ed è proprio a questa fonte che si richiamano i primi contributi alla democrazia deliberativa. Anche John Stuart Mill è
spesso citato come un rilevante predecessore dagli odierni teorici deliberativi,4 che
per la prima parte del secolo seguente possono invece trovare nel pragmatismo di
John Dewey un illustre antecedente.5 Un’eccezione storicamente rilevante, entro la
storia del pensiero democratico, potrebbe essere quella di Jean-Jacques Rousseau,
che affermava i cittadini dovessero esercitare la propria sovranità legislativa senza
comunicare pubblicamente,6 ma l’interpretazione anti-deliberativa del ginevrino ha
pur trovato i suoi critici.7
In poche parole, il tema della necessità di integrare ragionevolezza e orientamento
al bene comune nel dibattito politico percorre l’intera tradizione repubblicana e buona parte di quella liberale, affondando le sue radici fin nell’antichità. Tuttavia, qui
sono più rilevanti gli antecedenti immediati, verso i quali è possibile tracciare una
trama argomentativa ininterrotta, ed è perciò da questi ultimi che lascerò iniziare la
storia. Le principali linee teoriche che, nel corso degli anni ‘80 e ‘90, concorrono a
formare il paradigma deliberativo sono tre: la teoria critica nella sua declinazione discorsivista, il liberalismo vicino a Rawls e il repubblicanesimo statunitense. A questi
filoni principali se ne aggiungono altri due, forse di minore portata teorica ma che
completano il quadro contestuale e che produrranno, da versanti opposti, anche posizioni critiche del mainstream deliberativo: da un lato la democrazia radicale/parte-
4. J. S. Mill, Considerazioni sul governo rappresentativo, Roma: Editori Riuniti, 1997. Per una
lettura di Mill vicina alla deliberazione si veda: N. Urbinati, L’ethos della democrazia. Mill e la libertà degli antichi e dei moderni, Roma-Bari: Laterza, 2006.
5. J. Dewey, Comunità e potere, Firenze: La Nuova Italia, 1999; J. Dewey, Democrazia e educazione, Milano: Sansoni, 2004. Vedi anche: R. J. Bernstein, “Dewey’s vision of radical democracy”,
in The Cambridge Companion to Dewey, a cura di M. Cochran, Cambridge: Cambridge University
Press, 2010.
6. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, Torino: Einaudi, 2003, pp. 97-98. Per ‘decidere’, Rousseau
utilizza proprio il termine ‘deliberare’, il che ben evidenzia la persistente ambiguità del significato.
7. J. Cohen, “Reflections on Rousseau: Autonomy and Democracy”, Philosophy and Public
Affairs 15, no. 3 (1986), pp. 291 ss.; D. Estlund e J. Waldron, “Democratic Theory and the Public
Interest: Condorcet and Rousseau Revisited”, The American Political Science Review 83 (1989):
1317-28; P. Pettit, “Deliberative Democracy and the Discursive Dilemma,” pp. 3- 4. Di converso,
l’interpretazione anti-deliberativa di Rousseau è ribadita e articolata da Nadia Urbinati: N. Urbinati, “Representation as Advocacy: A Study of Democratic Deliberation”, Political Theory 28, no. 6
(2000): 758-86; N. Urbinati, “La democrazia rappresentativa e i suoi critici”, in Democrazia. Storia
e teoria di un’esperienza filosofica e politica, a cura di C. Altini, Bologna: il Mulino, 2011. Vedi
anche infra, p. 169.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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cipativa,8 dall’altro gli approcci empirico-sperimentali che, a partire dal deliberative
poll di James Fishkin, influenzeranno sempre di più anche il dibattito normativo.
Da questi punti d’avvio, presenterò un’esposizione dello sviluppo delle teorie deliberative negli ultimi tre decenni. Con ciò disegnerò un tragitto relativamente lineare, ma proprio allo scopo di mostrare, entro una divisione così semplice, la complessità dello sviluppo del nostro campo teorico. Questo significa, ancora una volta,
rinunciare a presentare un percorso artificialmente ridotto ad una serie di sviluppi
logici. Ciò è necessario per tentare di rispettare, più di quanto talvolta non accada,
l’articolazione dei diversi contributi ad un campo teorico che, in coerenza tanto con
le proprie origini quanto con i propri princìpi, rimane a tutt’oggi plurale e
multiforme.
2.1. 1980 - ’89: Una “definizione per intersezione”
È negli anni ottanta del secolo scorso che compaiono i primi scritti dedicati esplicitamente alla democrazia deliberativa. Si tratta di opere originate in contesti teorici
difformi, che da questi diversi punti di partenza arrivano a convergere sul concetto,
prima della sua più ampia diffusione nel decennio successivo.
I primi contributi nei quali compare l’endiadi ‘democrazia deliberativa’ provengono dall’area del repubblicanesimo statunitense.9 Si tratta di saggi inscritti nell’infinito dibattito ermeneutico sulla costituzione degli Stati Uniti, per la quale presentano,
appunto, una chiave di lettura deliberativa. Questi scritti sono caratterizzati in particolare da due elementi, peraltro tipici del repubblicanesimo: l’enfasi sulla rappresentanza contro la partecipazione diretta e l’interesse per la dimensione giuridica
della deliberazione – con particolare riguardo al ruolo della corte suprema. Inoltre,
l’attenzione all’applicabilità concreta delle teorie, non ancora nel senso di una sperimentazione empirica ma focalizzata piuttosto sulle strutture istituzionali, è un tema
che, pur caratteristico della democrazia deliberativa in genere, si presenta con particolare evidenza in questo filone.10
8. L’esempio relativamente più vicino alla deliberazione è quello di Benjamin Barber: B. R. Barber, Strong Democracy, specialmente capp. 8 e 9.. Per un quadro delle teorie partecipative e radical-democratiche, si vedano anche: C. Pateman, Participation and Democratic Theory; C. B. MacPherson, The Life and Times of Liberal Democracy; J. Mansbridge, Beyond Adversary Democracy,
Chicago: University of Chicago Press, 1983; S. S. Wolin, Politics and vision: continuity and innnovation in Western political thought, Princeton: Princeton University Press, 2004.
9. Per un’introduzione complessiva al repubblicanesimo contemporaneo vedi: I. Honohan, Civic
Republicanism, New Yok: Routledge, 2002; J. W. Maynor, Republicanism in the Modern World.
10. Si vedano anche i successivi: J. Uhr, Deliberative Democracy in Australia; C. R. Sunstein, A
cosa servono le costituzioni, Bologna: il Mulino, 2009. Non mancheranno, in seguito, voci critiche
proprio contro la tendenza a tenere troppo vicini i temi pratico-politici e l’elaborazione del quadro
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2. Breve storia delle teorie deliberative
Il tono del saggio di Joseph Bessette è esemplificativo:
È indiscutibile che i fondatori desiderassero imporre certi limiti su certi tipi di
maggioranze popolari. Leggendo le loro opere in questa età più democratica, si è
continuamente colpiti dal modo franco e diretto in cui i fondatori spiegano al popolo perché chi governa debba talvolta resistere alle inclinazioni popolari. (Difficilmente potrebbe essere più netto il contrasto con il Presidente Carter, che ripetutamente e pubblicamente ha dichiarato il desiderio di rendere il governo tanto buono
quanto il popolo). È stata precisamente la mancata volontà dei fondatori di oscurare o sfumare tale questione, questo principio del loro sistema, che li ha messi in
difficoltà con i più recenti interpreti. I fondatori sono stati presi in parola, ma soltanto una parte del loro messaggio è stata accettata. Questo non era altrettanto
vero all’epoca del confronto sulla ratifica. Il successo della proposta dei fondatori di
fronte a convenzioni statali democraticamente elette è una prova che nel 1787-1789
tra il popolo Americano i due aspetti dell’argomento dei fondatori – la necessità di
limitare le maggioranze popolari ma anche di implementare il governo della maggioranza – non erano considerati incompatibili. La tesi del saggio è che la chiave per
riconciliare queste intenzioni apparentemente contraddittorie si trovi nel più ampio
proposito dei fondatori di stabilire una “democrazia deliberativa”.11
Come si nota già da queste poche righe, l’autore assume un posizione storico-interpretativa, non rinunciando a cercare connessioni con l’attualità, nel trattare un
problema saldamente ancorato ad una rilevanza legale e politica pragmaticamente
diretta, lasciando per il momento da parte il confronto con argomentazioni filosoficamente più esigenti.
Nonostante si limiti a discutere il carattere democratico della costituzione,
nell’articolo di Bessette già si intravvedono alcuni temi che saranno centrali per la
teoria deliberativa in genere, accanto ad altri che resteranno influenti in particolare
tra gli autori orientati al repubblicanesimo. Il centro dell’argomentazione di Bessette
si trova, infatti, nel valore cognitivo attribuito alla deliberazione – fondata sulla rappresentanza, coerentemente con l’ispirazione repubblicana – contrapposto all’irriflessivo e ondivago dominio diretto della maggioranza, che finirebbe per tradire quella
che sarebbe la reale volontà dei cittadini, se soltanto fossero sufficientemente informati e avessero a disposizione il tempo necessario per discutere e ponderare ogni
questione – un argomento controfattuale che, in forme diverse, percorrerà per intero
lo sviluppo delle teorie deliberative. Così, il governo di una «deliberative majority»,
parzialmente distaccata dalle maggioranze popolari presenti in ogni dato momento,
consentirebbe la migliore realizzazione della democrazia proprio nel senso della corrifilosofico: D. Estlund, Democratic Authority, cap. 1.
11. J. M. Bessette, “Deliberative Democracy: The Majority Principle in Republican Government,”
p. 104, traduzione mia. Il brano citato è il primo in cui compare la nostra endiadi.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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spondenza tra la volontà del popolo e le decisioni collettivamente assunte. Pur brevemente, Bessette non manca neanche di mettere a contrasto la propria interpretazione con quelle che, non cogliendo l’aspetto deliberativo della costituzione,
sostengono una concezione meramente privatistica della composizione degli interessi
individuali attraverso trattative e contrattazioni, limitando il ruolo dei cittadini alla
sola scelta dei rappresentanti.12 Pur senza essere ancora approfondite, le principali
divergenze tra la democrazia deliberativa e gli approcci aggregativi si trovano già al
loro posto.
Il valore della deliberazione viene rilanciato verso l’intreccio tra politica e morale – e qui inserito entro un’interpretazione più tecnico-giuridica – da Cass Sunstein, nel saggio dedicato a sostenere che l’intento di disinnescare il pericolo costituito dall’espressione delle «nude preferenze», attraverso i meccanismi tesi a favorire la
deliberazione pubblica, possa essere la chiave per una interpretazione unitaria della
costituzione.13 Questa posizione viene ripresa e approfondita, sul triplice piano dei riferimenti storici (il dibattito tra federalisti e anti-federalisti), della dottrina legale (a
giustificazione di un ruolo relativamente interventista del potere giudiziario) e della
polemica contro gli approcci pluralisti (contro Dahl e le concezioni interest-based),14
nell’ampio articolo, di un anno successivo, dedicato alla discussione del ruolo dei
gruppi di interesse nel diritto pubblico statunitense,15 che per molti versi, a dispetto
dell’apparente tecnicismo dell’oggetto, rappresenta ancora una tra le migliori esposizioni dell’approccio repubblicano alla deliberazione. Un punto di vista ulteriormente
ribadito – entro una più ampia ripresa del repubblicanesimo, messo a confronto con
le teorie pluraliste, liberali e radical-identitarie – nel corposo saggio del 1988, Oltre il
revival repubblicano,16 nel quale la deliberazione è posta come primo principio del repubblicanesimo, consentendo peraltro di interpretarlo in modo coerente con il meglio
12. Ivi, pp. 112-14.
13. C. R. Sunstein, “Naked Preferences and the Constitution”, Columbia Law Review 84, no. 7
(1984): 1689-732.
14. En passant, è interessante notare come Dahl – benché avvicinandosi alle posizioni della democrazia deliberativa abbia al contempo ridotto la propria distanza dal pensiero repubblicano – anche
in tempi più recenti sostenga un’interpretazione ingenerosamente critica della costituzione statunitense, vedi: R. A. Dahl, Quanto è democratica la costituzione americana, Roma-Bari: Laterza,
2003.
15. C. R. Sunstein, “Interest groups in American public law”, Stanford Law Review 38 (1985):
29-87.
16. C. R. Sunstein, “Beyond the Republican Revival”, The Yale Law Journal 97, no. 8 (1988):
1539-90. Un approccio analogo è applicato da Sunstein alla questione dell’interpretazione giuridica,
tema evidentemente importante da un punto di vista deliberativo, vedi: C. R. Sunstein, “Interpreting Statutes in the Regulatory State”, Harvard Law Review 103, no. 2 (1989): 405-508. Un altro
testo centrale per l’elaborazione del repubblicanesimo in questi anni, che pur non essendo direttamente centrato sulla deliberazione sarà poi importante nel dibattito, è: F. Michelman, “Law’s Republic”, Yale Law Journal 97 (1988): 1493-537.
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2. Breve storia delle teorie deliberative
dei valori liberali, con particolare riguardo al riconoscimento del pluralismo. Nella
seconda parte di questo articolo, dedicata allo sviluppo pratico dei princìpi teorici
precedentemente enunciati, l’apprezzamento del sistema elettorale proporzionale è
accostato alla deliberazione attraverso la questione della rappresentanza dei gruppi
sociali,17 tema che sarà poi oggetto di ampio dibattito.18
La prospettiva repubblicana, però, manca di argomentare approfonditamente il
valore cognitivo e morale della deliberazione, che pure non può evitare di presupporre. Vale a dire che si comincia il discorso dalla posizione che la deliberazione sia
benefica per la politica, ma questa impegnativa asserzione non è ancora giustificata
o fondata filosoficamente. L’intreccio delle due istanze di validità, etica e cognitiva,
della deliberazione non poteva che avvenire sul piano della trasformazione delle preferenze individuali, principale punto di distinzione rispetto alle teorie aggregative. I
primi contributi espressamente centrati su questo tema provengono da Jon Elster. A
sua volta, Elster si trova sul crocevia di almeno tre influenze rilevanti: la social
choice e la game theory,19 un’opzione marxista eterodossa20 e, come principale pre17. Sunstein vorrebbe sostenere che nella stessa tradizione costituzionale statunitense si trovino
elementi a favore di una rappresentanza politica per gruppi (verso la quale la sua posizione non è
comunque acritica) al punto che: «Non sarebbe difficile argomentare che i gruppi razziali ed etnici
(tra gli altri) siano gli analoghi contemporanei dei gruppi definiti in termini geografici nel periodo
della fondazione» (C. R. Sunstein, “Beyond the Republican Revival,” p. 1586, traduzione mia.).
Sembra però un argomento debole contro la prevalente tradizione individualistica “una testa-un
voto”; vedi anche infra, pp. 175 ss.
18. I. M. Young, “Justice, Inclusion, and Deliberative Democracy”; J. M. Valadez, Deliberative Democracy, Political Legitimacy, and Self-Determination in Multicultural Society, Boulder: Westview
Press, 2001; J. Bohman, “Reflexive public deliberation: Democracy and the limits of pluralism”,
Philosophy & Social Criticism 29, no. 1 (2003): 85-105; M. R. James, Deliberative Democracy and
the Plural Polity; M. Falbo, “On Iris Young’s subject of inclusion: Rethinking political inclusion”,
Philosophy & Social Criticism 34, no. 9 (2008): 963-86.
19. Se non altro per questo motivo, alcune interpretazioni (ad esempio: J. S. Dryzek e C. List, “Social Choice Theory and Deliberative Democracy: A Reconciliation”, British Journal of Political
Science 33, no. 1 (2003): 1-28), che a partire da una presunta contrapposizione originale tra socialchoice e democrazia deliberativa propongono un (ri)avvicinamento tra le due, nascono da un fraintendimento almeno parziale. Nei fatti, la critica agli approcci aggregativi da cui la democrazia deliberativa ha preso slancio si basava più sulla differente interpretazione di premesse e risultati che
non sul rifiuto tout court della metodologia. È certo possibile pensare che, invece, proprio tale rifiuto dovrebbe essere centrale – come lo stesso Dryzek ha sostenuto, e solo in parte sostiene ancor
oggi: J. S. Dryzek, “Discursive Designs: Critical Theory and Political Institutions”, American Journal of Political Science 31, no. 3 (1987): 656-79; J. S. Dryzek, “The Mismeasure of Political Man”,
The Journal of Politics 50, no. 3 (1988): 705-25; J. S. Dryzek, “Handle with Care: The Deadly Hermeneutics of Deliberative Instrumentation”, Acta Politica 40, no. 2 (2005): 197-211 – posizione con
la quale mi trovo in buona misura concorde; non si può però scambiare una legittima argomentazione in merito per una descrizione di quanto accaduto durante lo sviluppo della teoria
deliberativa.
20. Elster, accanto a Gerald Cohen (G. A. Cohen, Karl Marx’s Theory of History, Princeton: Princeton University Press, 1978) ed altri, ha promosso una lettura di Marx in chiave analitica, appoggiandosi in particolare alla teoria dei giochi: J. Elster, “The Case for Methodological Individua-
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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supposto normativo, la teoria critica habermasiana e il suo approccio ai problemi
della razionalità. L’intersecarsi di questi elementi conduce Elster, fin dai primi anni
‘80, a rappresentare un orientamento deliberativo assimilabile, seppur ante litteram,
a quello che si potrà poi considerare “standard”.
Già quattro anni prima del più noto The Market and the Forum,21 è nel breve
quinto paragrafo del primo capitolo di un libro dedicato ai problemi della razionalità
collettiva che si trova l’affermazione del valore democratico della deliberazione.22 Le
preferenze dei cittadini non sono da considerare esogene rispetto al processo politico,
il loro contenuto morale e razionale non è indifferente per la teoria politica, ma neppure possono essere censurate in modo eteronomo; piuttosto, per integrare l’istanza
dell’autonomia con quella della validità etica e cognitiva delle scelte collettive:
... interesse centrale della politica dovrebbe essere la trasformazione delle preferenze, anziché la loro aggregazione. In base a questa concezione, nucleo del processo
politico è la discussione pubblica e razionale del bene comune, non l’isolato esercizio
del voto secondo preferenze private. Obiettivo della politica dovrebbe essere un consenso unanime e razionale, non un compromesso ottimale tra interessi irriducibilmente contrapposti. L’agone politico [forum] non dev’essere contaminato dai princìpi che regolano il mercato, né si dovrebbe confondere la comunicazione con la
contrattazione.23
L’influenza del pensiero habermasiano è chiara, ed esplicitamente riconosciuta
dallo stesso Elster, attraverso i richiami alla razionalità del consensus e alla separazione tra l’agire comunicativo e quello strategico, adeguato quest’ultimo solo alla dilism”, Theory and Society 11, no. 4 (1982): 453-82; J. Elster, Making Sense of Marx, Cambridge:
Cambridge University Press, 1985. Sul marxismo analitico si veda: S. Petrucciani e F. S. Trincia,
Marx in America. Individui, etica, scelte razionali, Roma: Editori Riuniti, 1992.
21. Un saggio – significativamente inserito in un volume dedicato ai fondamenti della social-choice:
J. Elster e A. Hylland, Foundations of social choice theory – che sarà poi considerato paradigmatico dell’orientamento deliberativo, e in quanto tale profusamente citato, nonché ristampato all’interno di vari volumi. Tra le altre cose, in The Market and the Forum si trova il richiamo ad un “giusto
mezzo” tra gli opposti eccessi del minimalismo delle teorie aggregative e le onerose pretese etiche
del repubblicanesimo, una linea fatta propria anche da Habermas: J. Habermas, “Tre modelli normativi di democrazia”.
22. J. Elster, Uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità, Milano: Feltrinelli, 1989, pp.
45-56. Ho modificato alcuni passi in traduzione facendo riferimento all’edizione in lingua originale:
J. Elster, Sour Grapes. Studies in the subversion of rationality, Cambridge: Cambridge University
Press, 1983. Il titolo di questo libro si riferisce al problema delle “adaptive preferences” – vale a
dire l’aggiustamento etero-determinato delle preferenze rispetto alle possibilità disponibili – offrendone per la prima volta una trattazione orientata verso la deliberazione.
23. J. Elster, Uva acerba, p. 48. Queste pagine incontreranno relativamente meno fortuna tra le citazioni – concentrate piuttosto sul successivo The Market and the Forum, che d’altronde sviluppa
gli stessi temi – ma sono proprio quelle richiamate da Sunstein nel saggio dell’84 di cui si è detto
sopra.
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2. Breve storia delle teorie deliberative
mensione sistemica del mercato, dovendosi perciò evitare la contaminazione/
colonizzazione del primo ad opera del secondo.24
Anche più interessanti delle poche parole dedicate da Elster a delineare la propria
concezione sono le critiche che, a guisa d’avvocato del diavolo, avanza contro di essa.
Nello spazio concettuale precocemente delimitato da queste obiezioni, infatti, si accomoderanno buona parte delle controversie che, nei decenni successivi, interesseranno i diversi aspetti della democrazia deliberativa. Riporto qui in breve le sette questioni proposte:25
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Il problema del paternalismo: «non sarebbe, infatti, un’interferenza illegittima
imporre ai cittadini l’obbligo di partecipare alla discussione politica»? D’altronde, i presupposti necessari alla partecipazione (tempo libero, capacità retoriche, e così via) nella pratica non escluderebbero ingiustamente proprio i più
svantaggiati?
L’eventualità di un radicale pluralismo dei valori: non è forse possibile che,
anche assumendo condizioni ideali, persistano divergenze legittime, ma al
contempo irresolubili, circa il bene comune?
Inoltre, dato che non ci si troverà mai nella situazione ideale, non è forse vero
che alla fine la discussione dovrà pur chiudersi, perlopiù attraverso un voto a
maggioranza, e quindi che la trasformazione delle preferenze può aggiungersi
alla loro aggregazione ma non può rimpiazzarla?
Non solo la deliberazione non sarà mai perfetta nella realtà, ma a peggiorare le
cose c’è il fatto che spesso un discorso limitato e imperfetto può condurre a risultati peggiori e più ingiusti che non la completa assenza di discussione.
«L’assunzione implicita che il corpo politico come intero sia migliore o più saggio delle sue parti» non è affatto auto-evidente. Può darsi, ed è facilmente immaginabile, che l’egoismo e l’irrazionalità peggiorino nell’interazione politica.
Anche se si raggiungesse l’unanimità richiesta dal concetto forte di consensus,
essa «potrebbe facilmente essere dovuta al conformismo piuttosto che all’accordo razionale». D’altronde, non è forse vero che usualmente si ripone «maggior
fiducia nell’esito di una decisione democratica se c’è stata una minoranza che
ha votato contro»?
Infine, non è affatto detto che la necessità, indotta dalle condizioni intrinseche
del discorso pubblico, di «esprimere il proprio argomento nei termini del bene
comune purificherà i desideri da tutti gli elementi egoistici».26
24. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Bologna: il Mulino, 1997, capp. 6 e 8.
25. J. Elster, Uva acerba, pp. 50-56. La traduzione dei brani citati tra virgolette è mia. Vedi anche:
J. Elster, “The Market and the Forum: Three Varieties of Political Theory,” pp. 114 ss.
26. Il tema della “purificazione” delle preferenze sarà ripreso – proprio accanto a The Market and
the Forum di Elster – in primo luogo da Robert Goodin nel suo: R. E. Goodin, “Laundering Prefe-
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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La duplice conclusione di Elster è ancora una volta anticipatrice di sviluppi
successivi:
Primo, non si può assumere che ci si avvicinerà di più alla società buona [good
society] agendo come se la si fosse già raggiunta. Se, come suggerito da Habermas,
la discussione libera e razionale sarà possibile solo in una società in cui la dominazione politica ed economica sia stata abolita, non è in nessun senso ovvio che questa abolizione possa essere realizzata attraverso l’argomentazione razionale. Forse
l’ironia, l’eloquenza e la propaganda saranno necessarie [...] Secondariamente, persino nella società buona il processo di discussione razionale potrebbe essere fragile e
vulnerabile all’auto-inganno individuale o collettivo. Per renderlo stabile sarebbero
necessarie strutture – istituzioni politiche – che potrebbero facilmente reintrodurre
un elemento di dominazione. Accettando che la politica dovrebbe, se possibile, incorporare la nozione, in senso lato, di razionalità collettiva, dobbiamo ancora investigare in che misura ciò sia possibile.27
Nello stesso anno della prima pubblicazione di The Market and the Forum, L’incontro tra il tema della deliberazione e la corrente di pensiero liberal-rawlsiana trova
un preludio nella concezione epistemica della democrazia avanzata da Joshua Cohen.28 Cohen attacca l’alternativa proposta da William H. Riker tra “populismo” e
liberalismo,29 sostenendo che, se da un lato questi presenta una versione artificialmente indebolita del primo, d’altro canto ricostruisce il secondo in termini tanto minimalisti da renderlo insignificante. La proposta di Cohen è di riconoscere il valore
epistemico delle procedure democratiche, nel senso che esse tendono a dare risultati
migliori dal punto di vista cognitivo rispetto ad altri sistemi politici, evitando bensì
di considerare assoluto questo valore, come sarebbe nella caricatura del “populismo”
disegnata da Riker. Vale a dire che la procedura democratica non è considerata costitutiva in senso forte del valore dei propri esiti, ma questi possono essere giudicati
soltanto disponendo di un criterio esterno alla procedura medesima. Nonostante ciò,
le decisioni democratiche sono legittime anche nei casi in cui siano contenutisticarences”, in Foundations of Social Choice Theory, a cura di J. Elster e A. Hylland, Cambridge:
Cambridge University Press, 1986.
27. J. Elster, Sour Grapes, p. 42, traduzione mia.
28. J. Cohen, “An Epistemic Conception of Democracy”, Ethics 97, no. 1 (1986): 26-38. Si veda
anche: J. Cohen, “Deliberation and Democratic Legitimacy”. Già il primo libro di Cohen (J. Cohen
e J. Rogers, On Democracy, New York: Penguin Books, 1983) accennava al valore della deliberazione, senza però un consistente approfondimento. Più recentemente, una linea simile a quella di
Cohen è stata ripresa da Estlund, attraverso il concetto di ‘proceduralismo epistemico’: D. Estlund,
Democratic Authority. Vedi infra, § 3.3.1.
29. Vedi sopra, p. 9. Per comprendere le obiezioni di Cohen, si deve considerare come negli Stati
Uniti il termine ‘populismo’ non sempre implichi l’accezione pressoché univocamente negativa che è
usuale in Europa, vedi: N. Urbinati, “Democracy and Populism”, Constellations 5, no. 1 (1998):
110-24; M. Canovan, The People, Cambridge MA: Polity, 2005, p. 77.
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2. Breve storia delle teorie deliberative
mente ingiuste o errate, in forza del fatto che, nell’insieme, la democrazia produce
meno risultati scorretti dei sistemi non democratici, a patto però di presupporre che
gli elettori condividano un insieme di princìpi di fondo, pur discordando sulle applicazioni concrete, che votino secondo il proprio giudizio su quale sia la “volontà generale”, anziché secondo le proprie preferenze individuali, e che la loro competenza nello scegliere un’opzione o l’altra sia mediamente migliore della pura casualità.30
Conseguentemente, il problema politico principale diviene quello di elaborare istituzioni e procedure decisionali che favoriscano la realizzazione di ciascuno dei requisiti,
metodo che la democrazia deliberativa vorrà poi rappresentare.
Negli stessi anni, Bernard Manin presenta la deliberazione come soluzione dei
problemi caratteristici dei vari tentativi di derivare la legittimità del principio di
maggioranza dall’ideale accordo tra le leggi e la volontà di tutti.31 Manin mette in
evidenza la già citata differenza tra l’uso consueto (in francese come in italiano) di
‘deliberazione’ quale esito decisionale, individuale o collettivo, e quello classico/filosofico (ma corrente in inglese) che rimanda alla considerazione e alla discussione dei
vari aspetti di una questione prima di decidere. Attraverso il secondo e più forte di
questi significati, considerando la trasformazione delle volontà individuali, si può superare la contraddizione sempre latente in quelle teorie liberali e democratiche che,
in omaggio all’individualismo, richiedono l’adesione volontaria e unanime alle norme
coercitive (o quantomeno ai loro princìpi ultimi) ma che, per evidenti ragioni pragmatiche, sono costrette a ripiegare sull’incongruo sostituto della scelta
maggioritaria.32
La deliberazione riconosce il conflitto intrinseco a qualsiasi situazione politica
perché – proprio grazie all’incontro tra differenti punti di vista, in opposizione a
quello unitario postulato dalla volontà generale – consente ad ogni partecipante la
migliore riflessione sui propri reali interessi, accanto a quelli altrui. Essa trascende
l’individualismo in una dimensione collettiva, senza però richiedere l’imposizione di
un’unica verità, poiché l’argomentazione attraverso cui si svolge (differente dalla di30. Il riferimento, anch’esso ricorrente nella letteratura deliberativa, è al teorema della giuria di
Condorcet (vedi: D. Estlund e J. Waldron, “Democratic Theory and the Public Interest: Condorcet
and Rousseau Revisited”; R. E. Goodin e C. List, “Epistemic Democracy: Generalizing the
Condorcet Jury Theorem”, Journal of Political Philsophy 9, no. 3 (2001): 277-306; F. Dietrich,
“The Premises of Condorcet’s Jury Theorem Are Not Simultaneously Justified”, Episteme 5, no. 1
(2008): 56-73), che dimostra come, supponendo che mediamente gli individui abbiano una probabilità anche di poco superiore al 50% di individuare la soluzione corretta tra due opzioni, il voto della maggioranza sarà tanto più affidabile quanti più individui partecipano alla votazione.
31. B. Manin, “On Legitimacy and Political Deliberation”. L’articolo è una traduzione, con lievi
modifiche, dell’originale francese apparso in: Le Débat, 33 (1985): 72-94.
32. Tra Rousseau e Rawls, si può notare come i bersagli della critica di Manin corrispondano specularmente ai modelli positivi di Joshua Cohen, nonostante le rispettive interpretazioni deliberative
della regola di maggioranza siano invero piuttosto vicine.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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mostrazione logica) è portata avanti da ciascun singolo ma rivolta all’attenzione e al
potenziale consenso di tutti. Il risultato del voto che segue la deliberazione rifletterà
gli argomenti che hanno trovato maggior consenso in quel momento, ma anche le ragioni della minoranza, benché risultate meno convincenti, saranno state pubblicamente espresse e valutate.33 Perciò la deliberazione pubblica – non la volontà generale, né la posizione originaria di Rawls – può legittimare la produzione della legge,
pur sempre fallibile e contestuale, senza dover ricorrere a pericolose ipostasi. In questo senso, il contributo di Manin è originale, perché mentre evita di concepire la deliberazione nei modi della volontà generale, neppure ne offre una visione puramente
epistemica/razionalista, grazie alla distinzione operata tra il discorso deliberativo e
quello logico-dimostrativo.34
È ancora Joshua Cohen, nel 1989, con un denso saggio su deliberazione e legittimità democratica,35 a riunire i fili del discorso, riprendendo da Sunstein e Bessette il
titolo di ‘democrazia deliberativa’, ma declinandolo in una prospettiva volta all’incontro tra gli approcci teorici di Rawls e Habermas. Cohen ritiene che la deliberazione – nella forma moralmente orientata al bene comune prefigurata nel citato An
Epistemic Conception of Democracy – sia un principio già incorporato nella comune
percezione normativa della democrazia, sul piano filosofico corrispondente alla “traduzione” politica delle condizioni della posizione originaria rawlsiana. Cohen vuole
però interpretare la posizione originaria in modo più direttamente politico di quanto
non faccia Rawls: non un dispositivo filosofico (“contratto sociale ideale”, scrive Cohen) per giustificare la scelta dei princìpi basilari di giustizia – dai quali discenderebbe poi l’opzione a favore di una democrazia deliberativa – bensì un modello
ideale che, per quanto possibile, le istituzioni politiche concrete dovrebbero rispecchiare.36 Il modello viene delineato attraverso cinque condizioni formali (D1-5) alle
33. Questa concezione è stata ripresa più recentemente da: C. Lafont, “Is the Ideal of Deliberative
Democracy Coherent?”. Leggendo Manin, tuttavia, è chiaro come la concezione di un «continuativo
processo deliberativo intervallato da elezioni» sia tutt’altro che una novità recente, pace: D. Held,
Modelli di democrazia, p. 439. D’altra parte, anche il concetto di democratic iteration della Benhabib può essere riportato a questa fonte: S. Benhabib, Cittadini globali: Cosmopolitismo e democrazia, Bologna: il Mulino, 2008; S. Benhabib, “Toward a Deliberative Model of Democratic
Legitimacy”.
34. La divisione tra ragioni politiche e “prove”, logiche o empiriche, è peraltro un luogo classico
della riflessione politica, presente già in Aristotele e ben ricordata, ad esempio, da Passerin d’Entrèves nel difendere il ruolo della filosofia politica: A. Passerin d’Entrèves, “Scopo e necessità della
filosofia politica”, in Potere e libertà politica in una società aperta, Bologna: il Mulino, 2005, pp.
46-47.
35. J. Cohen, “Deliberation and Democratic Legitimacy”. Anche questo saggio, costituendo uno
snodo fondamentale della teoria deliberativa, è stato più volte ristampato in vari volumi.
36. La pretesa di trasporre le condizioni ideali nelle istituzioni sarà poi recisamente criticata proprio da Habermas, sia pur nel quadro di un complessivo apprezzamento della posizione di Cohen:
J. Habermas, Fatti e norme, pp. 360-62.
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2. Breve storia delle teorie deliberative
quali corrispondono quattro caratteristiche di una procedura deliberativa ideale
(I1-4), che tra l’altro esemplificano bene l’intreccio di temi rawlsiani e habermasiani
tipico di questo autore.37 Riporto qui in sintesi le une e le altre:
D1) Una democrazia deliberativa è una associazione indipendente, che i suoi
membri si aspettano prosegua indefinitamente nel tempo.
D2) I membri dell’associazione si impegnano ad agire insieme entro istituzioni
compatibili con la deliberazione e secondo norme a loro volta stabilite deliberativamente. La deliberazione è la base della legittimità.
D3) Una democrazia deliberativa è un’associazione pluralista. I membri possono
avere obiettivi divergenti e non pensano vi sia alcuna convinzione obbligatoria.
D4) È preferibile che le connessioni tra la deliberazione e i suoi esiti siano il più
possibile evidenti a tutti, e le istituzioni devono essere costituite di conseguenza.
D5) I membri si riconoscono l’un l’altro la capacità di impegnarsi in un pubblico
scambio di ragioni e agire conformemente al risultato di tale deliberazione.
I1) Per essere libera, la deliberazione deve soddisfare due condizioni:
a. I partecipanti si considerano obbligati soltanto dai risultati della deliberazione e dalle precondizioni di essa, e non da altre autorità.
b. Il fatto che una decisione sia presa deliberativamente è per i partecipanti una
ragione sufficiente per rispettarla.
I2) Nella deliberazione ideale l’unica forza in gioco è quella del miglior argomento, l’eventuale differenza di potere tra le parti in causa non influenza il risultato.
I3) Nella deliberazione ideale le parti sono formalmente e sostanzialmente eguali.
Le regole della procedura sono eguali per tutti e la preesistente distribuzione delle
risorse non influenza la possibilità di contribuire alla deliberazione. I partecipanti
considerano anche il sistema politico come possibile oggetto di una scelta deliberativa, eccetto che per le condizioni necessarie alla deliberazione stessa.
I4) La deliberazione ideale cerca ragioni convincenti per tutti i partecipanti. Tuttavia, anche in condizioni ideali, non c’è garanzia di consenso, perciò la deliberazione può concludersi con un voto maggioritario. Questo però non elimina la distinzione tra deliberazione e mera aggregazione delle preferenze, poiché la stessa
votazione, se preceduta da una procedura deliberativa, darà probabilmente risultati differenti.
Cohen intende anche anticipare alcune possibili obiezioni alla concezione deliberativa. Contro l’accusa di settarismo – per cui la democrazia deliberativa corrisponderebbe ad una dottrina comprensiva nel senso rawlsiano, e sarebbe quindi discriminante e illiberale imporla a chi non la condividesse – si obietta che anche se è
37. Tra le righe di Cohen sembra di leggere in trasparenza perlomeno gli aspetti propriamente politici del già citato confronto diretto tra Rawls e Habermas (sul quale si tornerà più avanti, in questo
e nel prossimo capitolo), che pure avrà luogo solo anni dopo.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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plausibile che la democrazia deliberativa, come qualsiasi teoria democratica, richieda
fattualmente la diffusa adesione all’ideale di una cittadinanza attiva, tuttavia (differentemente da altre possibili concezioni) non è su questo ideale di condotta di vita
che è fondata filosoficamente, bensì sull’idea di giustificazione politica già precedentemente affermata nell’articolo sulla concezione epistemica della democrazia. L’argomento dell’incoerenza, portato dalle teorie aggregative contro la democrazia in genere, è superato considerando la deliberazione proprio come possibile soluzione delle
aporie evidenziate dalla social choice.38 L’eventualità che la democrazia deliberativa
violi le libertà fondamentali – soprattutto d’espressione, classica critica liberale – è
rigettata, perché queste libertà fanno parte delle condizioni normativamente necessarie affinché la deliberazione possa avere luogo. Infine, la democrazia deliberativa potrebbe essere considerata irrilevante, giacché le condizioni per un dialogo diretto tra
i cittadini non esistono e non potrebbero esistere nelle ampie e complesse società
moderne. A ciò Cohen non replica con qualche utopia di “democrazia elettronica”;39
al contrario apprezzando i vantaggi deliberativi della rappresentanza, sostenendo
bensì la necessità di partiti politici organizzati e finanziati pubblicamente, che sarebbero una forma ottimale di associazione deliberativa perché consentirebbero l’accesso alla politica anche a chi non possiede ingenti risorse, costituendo d’altronde (in
contrapposizione ad associazioni dagli interessi più specifici) arene discorsive ampie e
38. Si osserva qui di nuovo il punto di incontro tra teorie deliberative ed aggregative: le prima vorrebbero risolvere i problemi indicati, pure correttamente, dalle seconde. Vedi anche: D. Miller, “Deliberative Democracy and Social Choice”; J. Knight e J. Johnson, “Aggregation and Deliberation:
On the Possibility of Democratic Legitimacy”, Political Theory 22, no. 2 (1994): 277-96. Le teorie
della scelta razionale possono persino essere integrate alla teoria critica, proprio perché mostrano la
disfunzionalità delle interazioni puramente strategiche, vedi: J. Johnson, “Is Talk Really Cheap?
Prompting Conversation Between Critical Theory and Rational Choice”, The American Political
Science Review 87, no. 1 (1993): 74-86; J. S. Dryzek, “How Far is It from Virginia and Rochester
to Frankfurt? Public Choice as Critical Theory”, British Journal of Political Science 22 (1992):
397-417.
39. Un tema che andava di moda, in forme molto ingenue, già negli anni ‘70-‘80, ma che con
l’avanzare della tecnologia ha trovato sempre più spazio anche nell’ambito specifico della deliberazione (pro e contro), si vedano: M. Behrouzi, Democracy and the Political Empowerment of the Citizen: direct-deliberative e-democracy, Lanham MD: Lexington books, 2005; G. M. Weiksner, “ethePeople.org: Large-Scale, Ongoing Deliberation”, in The Deliberative Democracy Handbook, a
cura di J. Gastil e P. Levine, San Francisco: Jossey-Bass, 2005; P. Muhlberger, “The Virtual Agora
Project: A Research Design for Studying Democratic Deliberation”, Journal of Public Deliberation
1, no. 1 (2005): articolo 5; D. Janssen e R. Kies, “Online Forum and Deliberative Democracy”,
Acta Politica 40, no. 2 (2005): 317-35; T. Ohlin, “Caution: Deep Philosophy, Steep History and Imminent Threat of Direct Deliberative eDemocracy Ahead”, Journal of Public Deliberation 3, no. 1
(2007): articolo 11; C. R. Sunstein, Republic.com 2.0, Princeton: Princeton University Press, 2007;
A. Chadwick, “Can We Avoid the Deliberative Assumption?: Researching Online Democracy in an
Era of Informational Exuberance” (Conferenza: Royal Holloway Media Workshop, London, 2008).
- 56 -
2. Breve storia delle teorie deliberative
aperte a temi molteplici, nelle quali sarebbe perciò possibile orientare la deliberazione verso il bene comune.40
Con ciò, Cohen per primo presenta una teoria sistematica della democrazia deliberativa, sia pur su un piano ancora piuttosto astratto,41 o meglio, per la prima volta mette a fuoco contemporaneamente il termine e il concetto che ne sarà più tipico.
L’approccio si mostra però relativamente debole nello spiegare perché la deliberazione dovrebbe proprio dare i buoni risultati attesi, non andando molto oltre un’eco
delle posizioni già affermate da Elster e Goodin. Cohen vuole tenere intrecciate l’autonomia dei partecipanti e il valore epistemico della deliberazione, che è poi il punto
centrale di tutta la concezione, ma perché ne siano meglio articolate le ragioni si dovrà ancora attendere il decennio successivo.
2.2. 1990 - 2000: L’affermarsi del paradigma deliberativo
Negli anni novanta, la democrazia deliberativa è passata dal rappresentare un approccio nuovo, intento soprattutto a superare i limiti di concezioni precedenti, all’essere una teoria capace di influenzare, seppur non univocamente, la molteplicità di
campi d’indagine cui ho accennato nel capitolo precedente. Ciò coincide con l’esplosione del numero di articoli e libri dedicati all’argomento, il che significa, di qui in
poi, dover assumere un punto di vista più distante, rinunciando a seguire nel dettaglio i singoli contributi, evidenziando solo i più rilevanti nel quadro delle principali
tendenze teoriche. Per quanto riguarda queste ultime, è proprio negli anni novanta
che si afferma la polarità tra teorie discorsiviste e liberali della deliberazione. Al
contempo, è all’inizio di questo periodo che gli approcci empirici entrano nel campo
40. Gli intellettuali liberal e progressisti erano, e sono, perlopiù contrari all’accoppiata di partiti
“deboli” e finanziamento prevalentemente privato, tipica degli Stati Uniti. Di fatto, sia gli studi
empirici (J. Steiner, et al., Deliberative Politics in Action: Analyzing Parliamentary Discourse,
Cambridge: Cambridge University Press, 2004) sia la comune osservazione politica sembrerebbero
mostrare che, di per se stessi, i partiti politici non favoriscono la deliberazione pubblica. D’altronde, il Senato degli Stati Uniti rappresenta l’assemblea deliberativa par excellence (sebbene, ovviamente, non corrisponda appieno al proprio ideale: B. A. Loomis, a cura di, Esteemed Colleagues:
Civility and Deliberation in the U.S. Senate, Washington DC: Brookings Institution, 2000), ma è
anche quella relativamente meno “partitica”. Ciò non sarà sorprendente, se si considera che proprio
per favorire la deliberazione la costituzione statunitense, al contrario di quelle europee, è stata progettata non ‘da’ e ‘per’ i partiti politici bensì in buona misura ‘contro’ di essi – progetto peraltro
foriero di problemi a fronte alla successiva ascesa dei medesimi partiti e del potere presidenziale,
vedi: B. Ackerman, The Failure of the Founding Fathers. Jefferson, Marshall, and the Rise of Presidential Democracy, Cambridge MA: Harvard University Press, 2007.
41. Cohen si addentra maggiormente in questioni economico-sociali in un articolo coevo, che tuttavia eserciterà un’influenza relativamente minore: J. Cohen, “The Economic Basis of Deliberative
Democracy”, Social Philosophy and Policy 6, no. 2 (1989): 25-50.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 57 -
deliberativo,42 mentre è nella sua ultima parte che la teoria inizia ad essere oggetto
di critiche più articolate.
***
Inizio e fine di questo periodo possono essere scanditi da una coppia di libri di John
S. Dryzek, entrambi rappresentativi di due tendenze interpretative, inizialmente tra
loro intrecciate e destinate entrambe, sebbene non nella medesima misura, ad un
certo successo.43 Dryzek contrappone nettamente la propria teoria discorsiva/deliberativa tanto al liberalismo politico, quanto, sul piano epistemologico, alle teorie della
social choice.44 Né i due aspetti procedono disgiunti poiché, a partire dalla premessa,
caratteristica della teoria critica, del nesso tra ideologia ed epistemologia, è nel «razionalismo critico popperiano» che l’autore individua il quadro di riferimento comune alle scienze sociali ed al liberalismo politico-filosofico. Con ciò, l’autore vuole
radicalizzare l’approccio habermasiano,45 dal quale esplicitamente prende le mosse,
manifestando un tratto che resterà tipico delle sue opere, anche dopo aver abbandonata la rigida opposizione alle teorie della social choice.46 Di converso, benché la tendenza “radicalizzante” di Dryzek non sia necessariamente condivisa da altri fautori
della teoria critica,47 la doppia contrapposizione di cui sopra rimarrà, in buona parte
fino ad oggi, tipica di tale approccio alla deliberazione.
42. A partire da: J. S. Fishkin, Democracy and Deliberation: New Directions for Democratic Reform, New Haven & London: Yale University Press, 1991. Fishkin rappresenta al contempo un primo trait d’union fra la democrazia deliberativa ed il mainstream della scienza politica statunitense,
influenzato soprattutto da Dahl.
43. J. S. Dryzek, Discursive Democracy; J. S. Dryzek, Deliberative Democracy and Beyond. Il libro
del 1990 include peraltro una revisione degli articoli degli anni ‘80 cui si è fatto cenno precedentemente (vedi sopra, n. 19, p. 48).
44. Si veda anche: J. S. Dryzek, “Discursive democracy vs. liberal constitutionalism”, in Democratic Innovation, a cura di M. Saward, London: Routledge, 2000.
45. Per Habermas, in modo abbastanza hegeliano, «La teoria critica della società non entra però in
concorrenza con gli orientamenti di ricerca consolidati. Procedendo dal suo concetto di genesi delle
società moderne, essa cerca di spiegare in che cosa consiste il limite specifico e la giustezza relativa
di quegli approcci»: J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, p. 1048. Nel criticare il quadro
epistemologico “liberale”, Dryzek si rifà anche alla linea partecipativa (B. R. Barber, Strong Democracy), un riferimento però affievolito nelle opere più recenti.
46. Dryzek è peraltro tra i primi a sottolineare come la teoria critica possa pensarsi come “soluzione” ai problemi correttamente indicati dalle teorie della scelta sociale: J. S. Dryzek, “How Far is
It from Virginia and Rochester to Frankfurt? Public Choice as Critical Theory”; J. S. Dryzek, Deliberative Democracy and Beyond, cap. 2.. Successivamente, l’avvicinamento della deliberazione alla
social choice diverrà anche più esplicito: J. S. Dryzek e C. List, “Social Choice Theory and Deliberative Democracy: A Reconciliation”.
47. James Bohman nel 1998 già “fa il punto”, considerando la democrazia deliberativa una teoria
matura, e dunque più moderata rispetto agli inizi: J. Bohman, “The Coming of Age of Deliberative
Democracy”.
- 58 -
2. Breve storia delle teorie deliberative
Centrale per l’affermazione della teoria,48 è l’opera habermasiana del 1992, Fatti e
norme (la traduzione del titolo tedesco suonerebbe però ‘Fatticità e validità’, e lo
scostamento semantico non è del tutto irrilevante). Qui l’autore intende completare
la ricostruzione della razionalità discorsiva intrapresa sistematicamente nella Teoria
dell’agire comunicativo. Mentre però l’opera del 1981, nella fitta trama fra sociologia
e filosofia, lasciava sullo sfondo considerazioni direttamente politiche, Fatti e norme
segna il compimento dell’avvicinamento alla filosofia del diritto ed alla teoria democratica in senso proprio;49 impiegando la deliberazione in una ricostruzione del modello di Stato democratico di diritto che, nelle intenzioni, dovrebbe sfuggire alle aporie del positivismo giuridico (che rischiano di condurre velocemente al cinismo e
all’irrazionalismo) senza però ricorrere ad alcun fondamento giusnaturalista, insostenibile così nella teoria come, oggi, anche nella pratica. Da ciò segue la cruciale rinuncia a derivare la validità del diritto dalla corrispondenza con la morale. Poiché
dal diritto non si può disgiungere una pretesa di legittimità, cui corrisponde l’aspettativa che esso, pur democraticamente stabilito, dunque non preventivamente vincolato ad alcun contenuto specifico, assicuri «l’eguale autonomia di tutte le persone
giuridiche», è soltanto il carattere discorsivo d’una politica deliberativamente intesa,
che «rende possibile il libero “scorrere” di temi e contributi, informazioni e ragioni»,
ad essere in grado di «reggere l’intero onere della legittimazione».50
Il punto di contatto tra i pre-esistenti punti di vista sociologico ed etico e quello,
più schiettamente politico-giuridico, assunto con Fatti e norme si trova nella società
civile, un campo teorico ampiamente percorso in questo come nel decennio successivo.51 L’apprezzamento (già presente nella Teoria dell’agire comunicativo,52 ma certo
ulteriormente stimolato dagli avvenimenti dell’89) per il potenziale emancipativo di
movimenti sociali sorti al di fuori della politica formalizzata – che qui vale a dire
statale – favorisce l’elevazione della società civile a secondo pilastro della democra48. In un certo senso anche temporalmente, giacché la traduzione inglese di Fatti e norme, di poco
preceduta da quella italiana, è pubblicata nel 1996.
49. Rilevanti tappe intermedie sono le Tanner Lectures del 1986 e il saggio Sovranità popolare come
procedura; entrambi tradotti in: J. Habermas, Morale, Diritto, Politica, Torino: Einaudi, 1992.
50. J. Habermas, Fatti e norme, p. 529-32.
51. La letteratura è vasta, ma il testo principale per gli anni ‘90 rimane: J. L. Cohen e A. Arato,
Civil Society and Political Theory, Cambridge MA: MIT Press, 1992. Si vedano comunque: S.
Chambers e W. Kymlicka, a cura di, Alternative Conceptions of Civil Society, Princeton: Princeton
University Press, 2002; F. C. Alford, “Civil Society and its Discontents”, The Good Society 12, no.
1 (2003): 11-16.
52. Come si vedrà meglio più avanti (infra, § 4.2, pp. 132 ss.), il tema percorre per intero il pensiero di Habermas (a partire dalla sua prima opera importante: J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari: Laterza, 2005), mentre più in generale il revival della società civile, soprattutto nella sinistra marxista e post-marxista, ha tratto slancio dalla ripresa di temi hegeliani e
gramsciani già a partire dalla fine degli anni settanta.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 59 -
zia, accanto alle istituzioni parlamentari, nel modello «a doppio binario» che diverrà
tipico degli autori deliberativi vicini ad Habermas,53 e del quale presenterò una critica dettagliata nel capitolo quarto. L’insieme di questi elementi converge a supporto
di un modello procedurale di democrazia deliberativa, costituendone peraltro la presentazione più sistematica finora avanzata; le ragioni della deliberazione, infatti,
sono qui per la prima volta in modo esplicito, seppure non esente da oscillazioni ed
oscurità, connesse alla struttura di fondo della razionalità comunicativa.
***
Gli anni novanta corrispondono anche al culmine del processo di scontro-confrontoavvicinamento tra la teoria critica e la filosofia politica liberale d’impronta analitica.
Talvolta, a ciò si è guardato come ad un ulteriore esempio del fatto che il liberalismo
sia il «più efficiente aspirapolvere nella storia del pensiero politico, capace di risucchiare tutte le dottrine che appaiono per sfidarlo, siano esse la teoria critica, l’ambientalismo, il femminismo, o il socialismo».54 Ironia a parte, da un certo punto di
vista questo può anche esser vero, ma d’altro canto non è che lo speculare riflesso
dell’ambizione egemonica nutrita dalla teoria critica. In Habermas, quest’ultima, ha
trovato sì un alfiere capace di confrontarsi con gli orientamenti più diversi, ma allo
stesso tempo inevitabilmente esposto ad esserne profondamente influenzato.
Ad ogni modo, dopo le “sortite” di Joshua Cohen negli anni ottanta, il successo
dell’approccio liberale alla deliberazione è rilanciato dall’opera di Amy Gutmann e
Dennis Thompson.55 Prendendo le mosse dall’idea di ragione pubblica, nel frattempo
elaborata da Rawls,56 volendone però estendere i limiti percepiti come troppo angusti per la democrazia, Democracy and Disagreement comunque enfatizza assai la dimensione morale della deliberazione.57 In questo probabilmente eccedendo, fino a ris53. È vero che sul tema Habermas è stato criticato anche da autori a lui vicini, ad esempio: J.
Bohman, Public Deliberation, pp. 172 ss. Tuttavia queste critiche mirano a riformulare parti del
modello, senza mettere in discussione l’impiego di una descrizione sociologica della società, che rappresenta invece il punto più problematico per la democrazia.
54. J. S. Dryzek, Deliberative Democracy and Beyond, p. 27, traduzione mia. La contrapposizione
tra il modello deliberativo liberale e quello della teoria critica è posta in modo netto, e non del tutto condivisibile, anche in: S. Benhabib, “Toward a Deliberative Model of Democratic Legitimacy”.
55. A. Gutmann e D. Thompson, Democracy and Disagreement.
56. J. Rawls, Liberalismo Politico, lezione VI.. L’edizione in inglese è del 1993, ma i saggi che compongono il volume sono il risultato di riflessioni condotte lungo tutti gli anni ottanta, in parte già
pubblicate come articoli. Circa il passaggio da Rawls alla democrazia deliberativa, si veda anche:
D. Estlund, “Who’s Afraid of Deliberative Democracy? On the Strategic/Deliberative Dichotomy
in Recent Constitutional Jurisprudence.”, Texas Law Review 71, no. 7 (1993): 1437-77. Il saggio è
tra l’altro critico, contro corrente per l’epoca, della rigida separazione tra interpretazioni “strategiche” e deliberative della democrazia.
57. Proseguendo una tendenza tipica non solo dei due autori – A. Gutmann, “Moral Philosophy
and Political Problems”, Political Theory 10, no. 1 (1982): 33-47; A. Gutmann e D. Thompson,
“Moral Conflict and Political Consensus”, Ethics 101, no. 1 (1990): 64-88 – ma, come già accennato
- 60 -
2. Breve storia delle teorie deliberative
chiare di rappresentare più una lista di raccomandazioni su come si dovrebbero
perseguire buone finalità che non un’opera di teoria politica. Nonostante ciò, o forse
proprio per tale motivo, il libro ha molto contribuito alla notorietà della democrazia
deliberativa, suscitando numerosi dibattiti,58 ed essendo probabilmente ancora oggi,
perlomeno negli Stati Uniti, l’opera più spesso citata (benché a torto) come esempio
paradigmatico dell’intero approccio deliberativo.
Nello stesso periodo, è proprio il dibattito tra Rawls ed Habermas, pur travalicandone non di poco i limiti, a rappresentare uno dei punti più alti del dibattito deliberativo.59 Se l’adesione esplicita al modello deliberativo da parte di Rawls arriva
solo verso la fine del decennio,60 il confronto tra la prospettiva liberale e la teoria critica produce nel frattempo numerosi contributi; molti tra i più rilevanti confluiti in
tre raccolte di saggi che hanno da allora assunto uno status “canonico” quali fonti
della democrazia deliberativa.61 Com’è tipico delle opere collettanee, sono molte le linee che qui si intrecciano; tuttavia, sebbene quella di cui sopra rimanga nel complesso la contrapposizione più rilevante, si possono individuare ulteriori caratterizzazioni. Democracy and Difference è una raccolta dedicata al confronto con posizioni
variamente “radicali”, dalla democrazia partecipativa,62 a quella “agonistica”,63 ma
più in generale, come annunciato dal titolo, alle varie declinazioni del pensiero della
differenza (femminismo, multiculturalismo, post-modernismo).64 Il volume a cura di
nel primo capitolo, della filosofia liberale contemporanea in genere: W. Kymlicka, Contemporary
Political Philosophy: An Introduction, Oxford: Oxford University Press, 2002.
58. In parte raccolti nel volume: S. Macedo, a cura di, Deliberative politics: essays on democracy
and disagreement, New York, Oxford: Oxford University Press, 1999.
59. J. Habermas, “Conciliazione tramite uso pubblico della ragione”; J. Rawls, “Risposta a Jürgen
Habermas”; J. Habermas, “Ragionevole contro vero. La morale delle visioni del mondo”, in L’inclusione dell’altro, Milano: Feltrinelli, 2002.
60. Prima nel dibattito con Habermas: J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas,” pp. 102-03. Poi
più esplicitamente in: J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, in Il diritto dei popoli,
Torino: Edizioni di Comunità, 2001, p. 185. Il saggio era stato pubblicato per la prima volta nel
1997: J. Rawls, “The Idea of Public Reason Revisited”, The University of Chicago Law Review 64,
no. 3 (1997): 765-807. Qui Rawls equipara la propria concezione alla democrazia deliberativa; precedentemente la deliberazione politica era stata talvolta evocata, ma senza riferimenti alla democrazia deliberativa in quanto tale.
61. S. Benhabib, a cura di, Democracy and Difference, Princeton: Princeton University Press,
1996; J. Bohman e W. Rehg, Deliberative Democracy; J. Elster, Deliberative Democracy.
62. B. R. Barber, “Foundationalism and Democracy”, in Democracy and Difference, a cura di S.
Benhabib, Princeton: Princeton University Press, 1996; S. S. Wolin, “Fugitive Democracy”, in Democracy and Difference, a cura di S. Benhabib, Princeton: Princeton University Press, 1996.
63. C. Mouffe, “Democracy, Power, and the “Political””, in Democracy and Difference, a cura di S.
Benhabib, Princeton: Princeton University Press, 1996.
64. B. Honig, “Difference, Dilemmas, and the Politics of Home”, in Democracy and Difference, a
cura di S. Benhabib, Princeton: Princeton University Press, 1996; C. C. Gould, “Diversity and Democracy: Representing Differences”, in Democracy and Difference, a cura di S. Benhabib, Prince-
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 61 -
Bohman e Rehg è “centrale” sia temporalmente che per l’arco di posizioni rappresentate, ripubblicando d’altronde alcuni fra i contributi più significativi del decennio
precedente (in particolare: The Market and the Forum e Deliberation and Democratic Legitimacy). L’opera curata da Elster, infine, è caratterizzata dalla prevalenza di
contributi di orientamento analitico e, segnando in questo il passaggio degli anni, include vari interventi critici rispetto alle possibilità d’applicazione concreta degli
ideali deliberativi.65
***
Come osservato nel paragrafo precedente, la nascita della democrazia deliberativa
coincideva con quel revival repubblicano che, avendo preso avvio dalla revisione storiografica,66 passava ad influenzare l’interpretazione costituzionale e l’ambito legale
in genere. Forte di un retroterra divenuto ormai ampio, però, negli anni novanta il
repubblicanesimo ambisce ad una posizione preminente anche nell’ambito della teoria/filosofia politica in senso più stretto. Come già anticipato (§1.3.1), sono autori
come Quentin Skinner, Philip Pettit e Maurizio Viroli ad elaborare una teoria della
libertà come non-dominio, il cui dichiarato intento è di competere con la concezione
“standard” della libertà secondo la filosofia liberale,67 considerata troppo povera per
cogliere adeguatamente il suo stesso oggetto. Nel perseguire tale via, il fuoco dell’interesse dei repubblicani si allontana parzialmente dalla deliberazione,68 considerandola magari come un dato acquisito, rimanendo relativamente ai margini del dibattito
ton: Princeton University Press, 1996; A. Phillips, “Dealing with Difference: A Politics of Ideas, or
a Politics of Presence?”, in Democracy and Difference, a cura di S. Benhabib, Princeton: Princeton
University Press, 1996; I. M. Young, “Communication and the Other: Beyond Deliberative
Democracy”.
65. J. Johnson, “Arguing for Deliberation: Some Skeptical Considerations”, in Deliberative Democracy, a cura di J. Elster, Cambridge: Cambridge University Press, 1998; A. Przeworski, “Deliberation and Ideological Domination”, in Deliberative Democracy, a cura di J. Elster, Cambridge: Cambridge University Press, 1998; S. C. Stokes, “Pathologies of Deliberation”, in Deliberative
Democracy, a cura di J. Elster, Cambridge: Cambridge University Press, 1998.
66. È del 1975 la prima edizione di: J. G. A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, Bologna: il Mulino, 1980. Da parte della
“scuola di Cambridge”, dopo Pocock, sarà soprattutto Quentin Skinner a contribuire alla rivalutazione del repubblicanesimo. Il versante americano di questa ondata “revisionista”, critica delle interpretazioni liberali (whiggish, varrebbe a dire ingenuamente progressiste), può essere ben rappresentato da Gordon Wood: G. S. Wood, Le Origini degli Stati Uniti, Bologna: il Mulino, 1987; G. S.
Wood, Figli della libertà. Alle origini della democrazia americana, Firenze: Giunti, 1996.
67. A dispetto dei decenni trascorsi, si può dire che questa sia ancora la concezione proposta (nel
1958, peraltro ancora sulle orme di Constant) da Isaiah Berlin: I. Berlin, “Due concetti di libertà”,
in Libertà, Milano: Feltrinelli, 2005.
68. Sebbene, soprattutto nel decennio seguente, Pettit continui ad intervenire sul livello teorico del
dibattito deliberativo: P. Pettit, “Deliberative Democracy, the Discursive Dilemma, and Republican
Theory”, in Debating Deliberative Democracy, a cura di J. S. Fishkin e P. Laslett, Malden MA:
Blackwell, 2003; P. Pettit, “Depoliticizing Democracy”.
- 62 -
2. Breve storia delle teorie deliberative
teorico che, invece, va ampliandosi notevolmente.69 Nondimeno, il repubblicanesimo
continua a produrre contributi focalizzati sul piano istituzionale, che in questo decennio si presentano spesso nella forma di libri capaci di raggiungere un pubblico
più ampio dei soli lettori delle varie law review.70
Joseph Bessette, che per primo aveva parlato di democrazia deliberativa, sulla
base dell’interpretazione storica largamente condivisa tra i repubblicani, dedica la
sua opera alla difesa della qualità deliberativa del governo degli Stati Uniti, con particolare attenzione al ruolo del congresso.71 Al centro dell’interesse di Bessette rimane la contrapposizione fra una volontà popolare cieca, perché disinformata, e la
più articolata opinione pubblica che è raggiungibile soltanto attraverso la
deliberazione.
Su una linea analoga, sebbene in modo più complesso, continua a muoversi anche
Cass Sunstein, sempre spingendo sul controfattuale delle preferenze più illuminate
che i cittadini potrebbero avere se fossero messi in grado di deliberare. Sunstein propone un repubblicanesimo decisamente “attivista” (contro il pregiudizio di una neutralità imparziale, che in realtà coinciderebbe con la santificazione dello status quo)
nella promozione di una deliberazione orientata verso il bene comune.72 Rispetto ai
contributi precedenti, l’autore intende ora enfatizzare maggiormente la necessità di
una deliberazione estesa all’intera società; mantenendo tuttavia un fondo di scetticismo verso le capacità, da parte della cittadinanza, di deliberare “spontaneamente”.
Perciò, benché Sunstein sia critico dell’eccessiva centralità delle corti giudiziarie tipica del dibattito statunitense, ritiene nondimeno che esse, però ora assieme agli altri
69. Un’eccezione rilevante è quella di Frank Michelman, che ritorna in più occasioni sul confronto
con Habermas: F. Michelman, “How Can the People Ever Make the Laws? A Critique of Deliberative Democracy”, in Deliberative Democracy, a cura di J. Bohman e W. Rehg, Cambridge MA:
MIT Press, 1997; F. Michelman, “Family Quarrel”, in Habermas on Law and Democracy, a cura di
M. Rosenfeld e A. Arato, Berkeley: University of California Press, 1998.
70. Talvolta anche al di là dell’ambito accademico, ad esempio George Will, noto giornalista conservatore negli Stati Uniti, è una delle pochissime voci “di destra” a raccogliere il tema della deliberazione, impiegandolo a sostegno della proposta di limitare la ri-eleggibilità dei membri del
congresso: G. F. Will, Restoration: congress, term limits and the recovery of deliberative democracy,
New York: Free Press, 1992. Negli ambienti conservatori, circa la deliberazione, sono comuni toni
molto diversi: J. Bovard, ““Deliberative Democracy” Dementia”, The Freeman 57, no. 4 (2007).
71. J. M. Bessette, The Mild Voice of Reason: deliberative democracy and american national government, Chicago: The University of Chicago Press, 1994 Benché lo stesso Bessette accetti la
scherzosa caratterizzazione della sua opera come «Boy Scout theory of American governement» (p.
10), questa non è certo esclusivamente apologetica.
72. C. R. Sunstein, The Partial constitution, Cambridge: Cambridge University Press, 1993. Il titolo si riferisce all’idea che la costituzione sia stata interpretata in modo soltanto falsamente imparziale, proprio in forza della tacita e fallace presupposizione della status quo neutrality. Sunstein intende anche promuovere una reinterpretazione del primo emendamento, nel senso di dare priorità
alla libertà di parola negli ambiti strettamente politici: C. R. Sunstein, Democracy and the Problem
of Free Speech, New York: Free Press, 1993.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 63 -
organi governativi, debbano assumere un ruolo attivo nel favorire la più ampia deliberazione tra i cittadini.73 A dispetto dell’impulso a democratizzare la deliberazione,
tuttavia, questo quadro, assieme all’idea di fondo che una buona deliberazione implichi una tendenza reale verso risultati corretti, già sospinge Sunstein verso le problematiche posizioni “paternaliste” per le quali si distinguerà nel decennio successivo.74
A parere di Sunstein, infatti, l’accento sulla trasformazione delle preferenze, che
differenzia la democrazia deliberativa dagli approcci aggregativi, può essere interpretato in modo alquanto aggressivo:
Invero, potremmo difendere la stessa democrazia costituzionale non sulla base del
fatto che essa rispetti le preferenze esistenti, ma in forza della teoria, piuttosto
differente, che essa contribuisca ad inculcare i tipi migliori, o più elevati, di desideri
e credenze.75
Il problema di fondo che qui inizia ad emergere è che partendo dall’idea che la deliberazione, e la democrazia, siano desiderabili in tanto in quanto producono buoni
risultati, è effettivamente difficile sottrarsi ad esiti del genere. Se la democrazia deliberativa è pensata in modo integralmente teleologico – magari appoggiandosi su
qualche versione criticamente non troppo accorta delle idee pragmatiste circa la sperimentazione sociale – viene effettivamente a mancare qualsiasi seria ragione per non
trattare i cittadini come oggetti da manipolare; nonostante ciò rappresenti l’inversione più completa dell’ideale dell’autogoverno repubblicano e democratico.
2.3. 2001 - ’11: Approcci empirici ed applicativi
Nell’ultimo decennio, la teoria deliberativa si è sviluppata soprattutto su due linee:
l’apertura verso l’orizzonte della politica internazionale e globale, e il netto incremento del numero e della rilevanza degli approcci empirici alla deliberazione. Inoltre, critiche in precedenza solo accennate o marginali, hanno trovato maggiore spazio, in coerenza con la più ampia diffusione delle teorie deliberative. In effetti,
73. Vedi anche: C. R. Sunstein, “Public Deliberation, Affirmative Action, and the Supreme Court”,
California Law Review 84, no. 4 (1996): 1179-99. La relazione tra la democrazia deliberativa e il
potere giudiziario è stata ampiamente discussa: C. S. Nino, The Constitution of Deliberative Democracy; M. Van Hoecke, “Judicial Review and Deliberative Democracy: A Circular Model of Law
Creation and Legitimation”, Ratio Juris 14, no. 4 (2001): 415-23; R. Gargarella, “Should Deliberative Democrats Defend the Judicial Enforcement of Social Rights?”, in Deliberative democracy and
its discontents, a cura di S. Besson e J. L. Martí, Aldershot: Ashgate, 2006; C. F. Zurn, Deliberative Democracy and the Institutions of Judicial Review, Cambridge: Cambridge University Press,
2007.
74. R. H. Thaler e C. R. Sunstein, “Libertarian Paternalism Is Not an Oxymoron”. I primi segnali
dello spostamento verso questa posizione si possono trovare nell’articolo: C. R. Sunstein, “Preferences and Politics”. Vedi anche sopra, § 1.3.1.
75. C. R. Sunstein, The Partial constitution, p. 175, traduzione mia.
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2. Breve storia delle teorie deliberative
semplicemente il numero dei testi di cui si dovrebbe rendere conto per offrire una
panoramica completa rende il compito impossibile. Nella seconda parte della tesi,
d’altronde, gran parte dei riferimenti alla letteratura teorica saranno concentrati
proprio su quest’ultimo periodo.
Perciò, dedicherò questo paragrafo ad un veloce sguardo d’insieme sugli approcci
empirici alla deliberazione, la cui rilevanza, allargando lo sguardo al di là dei confini
della sola teoria politica, è invero divenuta preponderante. Inoltre, anche dal punto
di vista concettuale, alcuni di questi approcci rappresentano effettivamente un punto
d’arrivo, uno tra gli esiti possibili benché non il più auspicabile, della democrazia deliberativa. Così è perché l’atteggiamento sempre più strumentale assunto nei
confronti dei partecipanti – del quale si sono potuti cogliere alcuni accenni, ancora
relativamente innocui, nei paragrafi precedenti – rappresenta la conseguenza più
estrema del tentativo di giustificare teleologicamente la deliberazione, in base cioè
alla qualità dei suoi risultati.
***
La crescente diffusione delle teorie deliberative ha favorito un notevole interesse di
tipo applicativo,76 nell’ambito del quale il problema principale diviene se davvero la
deliberazione democratica funziona come promette – e quel che promette viene spesso inteso diversamente da “teorici” ed “empirici” – o non sia piuttosto l’ennesima irrealizzabile utopia filosofica. Di qui, l’empiria può essere declinata principalmente in
due modi. Da un lato, diversi metodi d’indagine possono concorrere all’analisi della
qualità deliberativa di istituzioni politiche esistenti.77 D’altro canto, l’approccio può
76. Varie iniziative, successivamente definite in termini di democrazia deliberativa, precedono il più
ampio successo di questa. Vale a dire che si è verificato un processo di incontro e appropriazione
ex-post tra la teoria ed alcune prassi già relativamente consolidate, incontro che a sua volta ha poi
favorito una nuova e più vasta ondata di esperimenti e studi empirici. Il rovescio della medaglia è
che, sulla base di esperienze pragmatiche originali, hanno continuato a svilupparsi linee di pensiero
tendenzialmente estranee alle successive elaborazioni deliberative e da queste ultime spesso non
adeguatamente considerate. Curiosamente, può accadere che l’ignoranza delle teorie deliberative da
parte della letteratura empirica sia presentata con un certo apparente compiacimento, mentre
poche righe prima l’opposto reciproco era stato recisamente stigmatizzato: L. Bobbio, “Quando la
deliberazione ha bisogno di un aiuto”, in La deliberazione pubblica, a cura di L. Pellizzoni, Roma:
Meltemi, 2005, pp. 177-78.
77. M. R. Steenbergen, et al., “Measuring political deliberation”, Comparative European Politics 1,
no. 1 (2003): 21-48; J. Stromer-Galley, “Measuring Deliberation’s Content: A Coding Scheme”,
Journal of Public Deliberation 3, no. 1 (2007): articolo 12. Importanti per lo sviluppo della democrazia deliberativa sono state la analisi, condotte da Elster, della qualità della comunicazione nelle
assemblee costituenti: J. Elster, “Forces and Mechanisms in the Constitution-Making Process”,
Duke Law Journal 45, no. 2 (1995): 364-96; J. Elster, “Deliberation and Constitution Making”, in
Deliberative Democracy, a cura di J. Elster, Cambridge: Cambridge University Press, 1998. Si vedano anche: P. Johnston Conover, et al., “The Deliberative Potential of Political Discussion”, British
Journal of Political Science 32 (2002): 21-62; J. Gardner, “Deliberation and Representation in
Congress: Allies or Adversaries?” Oakland CA, 2005); J. Svensson, “It’s a Long Way from Helsing-
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 65 -
focalizzarsi sulla progettazione di contesti deliberativi adeguati a realizzare le “promesse” della teoria. Non si tratta però di proporre o criticare in termini deliberativi
riforme istituzionali da realizzare politicamente,78 tema che, invece, trova ampia cittadinanza tra i teorici;79 quanto piuttosto di costruire esperimenti ad hoc per verificare gli effetti concreti della deliberazione.80
Dunque, anche il campo degli approcci empirici è articolato al suo interno,81 sia
per quanto riguarda gli effettivi metodi di implementazione sia per le prospettive generali su cui, spesso implicitamente, si fondano. Circa la relazione con l’insieme del
pensiero deliberativo, si possono però distinguere tre posizioni generali.
In primo luogo, ci sono degli “empirici” relativamente più vicini ai teorici, che
hanno contribuito ad elaborare la democrazia deliberativa quasi dai suoi inizi;
l’esempio principale è costituito da James Fishkin, con le sue proposte del deliberative poll82 e del deliberation day.83 Il primo modello prevede che ad un gruppo di alborg to Porto Alegre: A Case Study in Deliberative Democracy in Late Modernity”, Journal of Public Deliberation 4, no. 1 (2008): articolo 4.
78. Con alcune eccezioni, come la proposta di applicare il modello del deliberative poll per istituzionalizzare un quarto ramo, popolare, del governo americano: E. J. Leib, Deliberative democracy in
America: a proposal for a popular branch of government, University Park: Pennsylvania State University Press, 2004.
79. Vedi ad esempio: S. Besson, “Deliberative Demoi-cracy in the European Union”, in Deliberative
democracy and its discontents, a cura di S. Besson e J. L. Martí, Aldershot: Ashgate, 2006; M. R.
James, Deliberative Democracy and the Plural Polity; C. S. Nino, The Constitution of Deliberative
Democracy; C. F. Zurn, Deliberative Democracy and the Institutions of Judicial Review.
80. S. W. Rosenberg, “The Empirical Study of Deliberative Democracy: Setting a Research Agenda”, Acta Politica 40, no. 2 (2005): 212-24; J. S. Fishkin e R. C. Luskin, “Experimenting with a
Democratic Ideal: Deliberative Polling and Public Opinion”, Acta Politica 40, no. 2 (2005): 284-98;
S. W. Rosenberg, “The Empirical Study of Deliberative Democracy: Setting a Research Agenda”;
E. Schneiderhan e S. Khan, “Reasons and Inclusion: The Foundation of Deliberation”, Sociological
Theory 26, no. 1 (2008): 1-24.
81. Una utile rassegna, con una prospettiva diversa da quella qui adottata, si può trovare in: M.
Bonanni e M. Penco, “Modelli deliberativi: una ricognizione critica”. Più specifico, sulla classificazione dei differenti approcci alla deliberazione nella pratica, è: L. Bobbio e G. Pomatto, “Il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche”, Meridiana 58 (2007): 45-68. Si veda anche: A. Fung,
“Recipes for Public Spheres: Eight Institutional Design Choices and Their Consequences”, The
Journal of Political Philosophy 11, no. 3 (2003): 338-67.
82. J. S. Fishkin, Democracy and Deliberation; J. S. Fishkin, The Voice of the People: Public Opinion and Democracy, New Haven & London: Yale University Press, 1995; J. S. Fishkin, “Il sondaggio deliberativo, perché e come funziona”, in Democrazia deliberativa: cosa è, a cura di G. Bosetti e
S. Maffettone, Roma: Luiss University Press, 2004. Diversi deliberative poll sono stati organizzati
negli Stati Uniti e nel resto del mondo, per l’elenco completo e aggiornato si veda: http://cdd.stanford.edu/.
83. B. Ackerman e J. S. Fishkin, “Deliberation Day”, The Journal of Political Philosophy 10, no. 2
(2002): 129-52; B. Ackerman, “Il deliberation day, festa per informarsi e discutere”, in Democrazia
deliberativa: cosa è, a cura di G. Bosetti e S. Maffettone, Roma: Luiss University Press, 2004.
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2. Breve storia delle teorie deliberative
cune centinaia di persone, selezionate come un campione statistico, sia somministrato un sondaggio, di solito riguardante temi di ampio interesse pubblico (il progetto
era originariamente pensato per intervenire nel corso delle primarie per le presidenziali statunitensi) subito prima e subito dopo la discussione tra loro, svolta dapprima in piccoli gruppi e poi in sessione plenaria, con il supporto di informazioni ed
esperti di controllata imparzialità. Oltre agli scopi civico-educativi, l’aspetto propriamente empirico-sperimentale consiste nella misurazione della presunta capacità
della deliberazione di trasformare le preferenze dei partecipanti. Il modello è anche
presentato, fin dal nome, come una evoluzione e un miglioramento del comune sondaggio d’opinione.84 Il deliberation day rappresenta una proposta assai più ambiziosa
(gli stessi autori la presentano come utopistica) prevedendo che non soltanto un
campione rappresentativo, ma tutti gli elettori siano chiamati ad impegnarsi nella
deliberazione, in un giorno festivo appositamente predisposto prima delle elezioni, ricevendo un indennizzo per la loro partecipazione.
Altre forme di “deliberazione applicata”, invece, si sono date indipendentemente
dallo sviluppo della teoria deliberativa, e solo successivamente sono state ad essa integrate. Il caso più noto è rappresentato dalle esperienze partecipative, da Porto
Alegre diffusesi in diversi contesti nel mondo; ma è anche da citare, più pertinentemente, il modello delle citizen juries,85 promosso dal Jefferson Center già a partire
dagli anni settanta.86 Benché anche questo modello, come il deliberative poll, sia pro84. Curiosamente, pare che già il pioniere dei moderni sondaggi, George Horace Gallup, nutrisse
analoghe speranze verso le capacità della sua creazione di contribuire al miglioramento della democrazia. Non è forse azzardato pensare che, se il successo del suo modello continuerà ad espandersi
come ha fatto negli ultimi anni, Fishkin potrebbe andare incontro alla medesima delusione.
85. A. Armour, “The Citizens’ Jury Model of Public Participation: a Critical Evaluation”, in Fairness and Competence in Citizen Participation: Evaluating Models for Environmental Discourse, a
cura di O. Renn, et al., Dordrecht: Springer, 1995; A. Coote e J. Lenaghan, Citizens’ Juries: Theory into Practice, London: IPPR, 1997; N. Crosby e D. Nethercut, “Citizen Juries: Creating a Trustworthy Voice of the People”, in The Deliberative Democracy Handbook, a cura di J. Gastil e P. Levine, San Francisco: Jossey-Bass, 2005; G. Smith e C. Wales, “Citizens’ juries and deliberative
democracy”, in Democracy as Public Deliberation, a cura di M. Passerin d’Entrèves, New Brunswick NJ: Transaction Publishers, 2006; Y. Sintomer, Il potere al popolo. Giurie cittadine, sorteggio
e democrazia partecipativa, Bari: Dedalo Edizioni, 2009. Progetti di questo genere sono quelli più
sperimentati nel nostro paese, vedi ad esempio: L. Carson, “Come migliorare l’attuazione della democrazia deliberativa: un’analisi comparata di due Giurie di cittadini”, Rivista italiana di politiche
pubbliche 2 (2007): 127-42; L. Bobbio, et al., “Cinque risposte a Lyn Carson”, Rivista italiana di
politiche pubbliche 2 (2007): 143-62. Analogo alle citizens’ jury, benché sviluppato autonomamente,
è il modello tedesco delle “cellule di pianificazione”: P. C. Dienel e O. Renn, “Planning Cells: A
Gate to “Fractal” Mediation”, in Fairness and Competence in Citizen Participation: Evaluating
Models for Environmental Discourse, a cura di O. Renn, et al., Dordrecht: Springer, 1995; H.-J.
Seiler, “Review of “Planning Cells:” Problems of Legitimation”, in Fairness and Competence in Citizen Participation: Evaluating Models for Environmental Discourse, a cura di O. Renn, et al., Dordrecht: Springer, 1995.
86. http://www.jefferson-center.org/
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 67 -
tetto da copyright, esso è applicato in modo assai più variegato. Ad ogni modo, le
caratteristiche salienti sono il minor numero di partecipanti (tipicamente tra 18 e
24), che limita la possibilità di stratificazione statistica, e la parziale imitazione del
modello delle giurie processuali, in particolare nella struttura della relazione tra i
cittadini e gli esperti chiamati a “testimoniare”.
Una terza posizione è propria di quegli “empirici” che, giunti alla teoria deliberativa quando questa era già relativamente affermata e strutturata, tentano di metterne alla prova le pretese, spesso giungendo a quelle posizioni critiche e/o scettiche
sulla realizzabilità degli ideali filosofici, ma al contempo impegnate a “gettare ponti”
tra teoria e prassi,87 tipiche del dibattito più recente. Rappresentativi di questo
orientamento sono autori come Diana Mutz, che critica la difficoltà di “provare”
scientificamente la teoria deliberativa,88 o, nel nostro paese, Luigi Bobbio, organizzatore di varie iniziative deliberative e aspramente critico dello scarso realismo dei filosofi.89 È in questo terzo insieme che perlopiù ricadono gli esempi cui farò riferimento
nelle prossime pagine.
Com’è forse inevitabile per questo tipo di studi, la differenziazione di ciascuno
passa primariamente per la metodologia, e questa spesso implica una ri-categorizzazione degli approcci concorrenti.90 Tuttavia, per quanto concerne un’analisi generale
del significato degli approcci empirici le differenze possono essere utilmente riassunte
attorno a tre fuochi: (1) la selezione dei partecipanti alla deliberazione, (2) il
controllo più o meno rigido sullo svolgimento della procedura e (3) le relazioni tra
l’esperimento deliberativo e il contesto politico nel quale si trova ad operare.
87. Un’esigenza di reciproca comunicazione che sembra essere, forse per i “teorici” più che per gli
“empirici”, tanto pressante quanto difficile da soddisfare, vedi: D. Thompson, “Deliberative Democratic Theory and Empirical Political Science”; D. M. Ryfe, “Does Deliberative Democracy
Work?”, Annual Review of Political Science 8 (2005): 49-71; M. X. Delli Carpini, et al., “Public
Deliberation, Discursive Participation, and Citizen Engagement: A Review of the Empirical Literature”, Annual Review of Political Science 7 (2004): 315-44; S. Chambers, “Measuring Publicity’s
Effect: Reconciling Empirical Research and Normative Theory”, Acta Politica 40, no. 2 (2005):
225-66.
88. La sua proposta consiste nell’elaborazione di “middle-range” theories, che rendano osservabili
in modo separato gli effetti concreti della deliberazione rispetto a ciascuna delle sue pretese teoriche: D. C. Mutz, “Is Deliberative Democracy a Falsifiable Theory?”, Annual Review of Political
Science 11 (2008): 521-36. L’altro tema rilevante sollevato dalla Mutz è l’osservazione empirica del
contrasto tra la partecipazione e la componente propriamente deliberativa, nel già citato: D. C.
Mutz, Hearing the Other Side.
89. L. Bobbio, “La democrazia deliberativa nella pratica”, Stato e mercato 1 (2005): 67-88; L. Bobbio, “Quando la deliberazione ha bisogno di un aiuto”.
90. Tra gli schemi cui si fa più spesso riferimento c’è: A. Fung, “Recipes for Public Spheres: Eight
Institutional Design Choices and Their Consequences”; ma si veda anche: D. M. Ryfe, “The Practice of Deliberative Democracy: A Study of 16 Deliberative Organizations”, Political Communication 19, no. 3 (2002): 359-77.
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2. Breve storia delle teorie deliberative
I criteri per la scelta dei partecipanti, oltre alla semplice numerosità di questi,
sono evidentemente rilevanti per tradurre in pratica l’ideale dell’inclusione democratica, ma ciò si intreccia strettamente con la definizione di quali debbano essere i soggetti della deliberazione dal punto di vista normativo. La maggior parte dei metodi
empirici, soprattutto quelli che accentuano la dimensione epistemica della deliberazione, predilige la selezione di un campione statisticamente stratificato, anziché la
partecipazione spontanea. Questo, per evitare che la voce degli “attivisti” prevalga
su quella del “comune cittadino”;91 ma anche, da una prospettiva diversa, per convalidare “scientificamente” i risultati ottenuti. La tensione tra questi criteri e la democrazia appare evidente, giacché essi influenzano largamente sia la decisione finale sia
l’intero svolgimento della deliberazione, rischiando di farla somigliare più ad un processo accuratamente pre-disposto verso certi risultati che non ad un’occasione di autonoma partecipazione.
Sempre riguardo la selezione dei partecipanti, un nodo particolarmente problematico si trova nell’opposizione tra i metodi “puramente” statistici e quelli ponderati
allo scopo di fornire pari o analoga rappresentanza agli interessi coinvolti (solo in
pochi casi, la selezione statistica viene lasciata cadere del tutto, limitandosi a includere i portatori di interessi considerati rilevanti). Entrambe le possibilità presentano
rischi “criteriologici”, ma la scelta dei portatori di interesse (stakeholders), coincide
con un’opzione deliberativa spiccatamente centrata sulla rilevanza epistemica dei
gruppi sociali, o delle opinioni “in astratto”, anziché sulla partecipazione diretta dei
cittadini. Questo implica un ulteriore surplus di progettazione da parte degli organizzatori, che a questo punto determinano non più solo l’oggetto della deliberazione,
le modalità e i tempi di svolgimento, ma anche quali opinioni e quali interessi pregressi meritino di essere rappresentati ed in quale misura.92
Circa il secondo punto, gli esperimenti deliberativi sono intrinsecamente organizzati e gestiti in modo top-down,93 ma quantità e qualità del controllo sulla procedura
possono variare notevolmente; mentre i risultati a loro volta risentono sia del numero dei partecipanti sia della loro composizione. Si può ipotizzare,94 ad esempio, che
91. Gli “attivisti”, dal canto loro, hanno qualcosa da criticare circa la democrazia deliberativa, si
vedano: I. M. Young, “Activist Challenges to Deliberative Democracy”, Political Theory 29, no. 5
(2001): 670-90; R. B. Talisse, “Deliberativist responses to activist challenges”, Philosophy & Social
Criticism 31, no. 4 (2005): 423-44; P. Levine e R. M. Nierras, “Activists’ Views of Deliberation”,
Journal of Public Deliberation 3, no. 1 (2007): articolo 4.
92. D’altronde, ciò rappresenta la preoccupante realizzazione pragmatica dell’impiego di categorie
sociologico-descrittive nel definire i gruppi sociali come soggetti deliberativi, vedi ad esempio: I. M.
Young, Inclusion and Democracy; R. Gargarella, “Full Representation, Deliberation, and Impartiality”, in Deliberative Democracy, a cura di J. Elster, Cambridge: Cambridge University Press, 1998.
93. L. Bobbio, “Le arene deliberative”, Rivista italiana di politiche pubbliche 3 (2002): 5-29.
94. Ipotesi certo povere di riscontri, perché nella letteratura empirica, per motivi ben comprensibi-
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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più ampio sarà il numero dei partecipanti, meno questi saranno manipolabili dall’intervento diretto degli organizzatori (particolarmente nella combinazione di molteplici sessioni, in gruppi ristretti prima e poi plenarie) ma, al contrario, forse più soggetti alla selezione delle informazioni rilevanti; è anche probabile che portatori di
interesse scelti in quanto tali siano meno facilmente influenzabili rispetto ad un casuale campione statistico. Il controllo delle informazioni somministrate ai partecipanti, elemento in qualche misura sempre presente nell’organizzazione degli eventi
deliberativi, può essere avocato interamente dagli organizzatori – il che di solito
coincide con un approccio dichiaratamente “neutralista” – oppure, nelle iniziative
basate sui portatori di interesse, gestito assieme a questi ultimi, allo scopo di bilanciare l’esposizione di punti di vista contrastanti. L’intervento diretto nello svolgimento della procedura può essere minimo – o addirittura nullo come nel caso, però
mai messo in pratica, del deliberation day, che prevede che anche i moderatori delle
discussioni siano eletti tra i partecipanti95 – oppure, più spesso, alquanto pervasivo,
attraverso l’uso di figure professionali specifiche (i “facilitatori”), con il compito di
favorire uno svolgimento ordinato e proficuo della deliberazione, presuntivamente da
un punto di vista non tanto neutrale quanto piuttosto «ugualmente vicino a tutti».96
È piuttosto chiaro come, sia per quanto riguarda la selezione delle informazioni
sia per il ruolo dei facilitatori, tanto più pervasivo sarà l’intervento degli organizzatori, tanto più l’esperimento offrirà il fianco a critiche di anti-democraticità, sul genere del «dispotismo illuminato».97 D’altra parte è innegabile che, per ottenere, in
un tempo molto ristretto,98 un qualunque esito considerabile come “soddisfacente”,
sia necessario strutturare accuratamente il contesto deliberativo; necessità rilevante
anche sul piano teorico, se si pretende di giudicare la validità della democrazia deliberativa in base ai risultati ch’essa è in grado di produrre.99
Infine, circa le relazioni con le istituzioni politiche dotate di potere decisionale, rilevante è, da un lato, la validità formalmente riconosciuta all’esperimento e d’altro
li, non abbondano le analisi sistematiche della manipolazione dei partecipanti.
95. Che è peraltro quel che accade nelle giurie dei processi negli Stati Uniti, e apparentemente con
rilevanti conseguenze sul verdetto finale, vedi: L. M. Sanders, “Against Deliberation”, Political
Theory 25, no. 3 (1997): 347-76.
96. L. Bobbio, “Le arene deliberative,” p. 12.
97. N. Urbinati, “Democrazia e partigianeria”, Una Città 144 (2007); L. Bobbio, et al., “Sondaggi
deliberativi e democrazia”, Una Città 148 (2007).
98. Soprattutto per ragioni logistiche ed economiche, la maggior parte delle iniziative deliberative
si svolge nell’arco di pochi giorni, al più una settimana e spesso di meno; anche dove siano previsti
periodi più lunghi, il tempo disponibile per l’effettiva discussione è sempre molto limitato.
99. Tale è l’orientamento prevalente, nonostante alcune affermazioni di segno contrario: L. Bobbio
e G. Pomatto, “Il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte pubbliche,” p. 66.
- 70 -
2. Breve storia delle teorie deliberative
canto l’influenza che esso riesce ad esercitare nella più ampia opinione pubblica.100
Nella maggior parte dei casi agli esperimenti deliberativi è riconosciuto un ruolo soltanto consultivo, che nel dettaglio più assumere forme più o meno impegnative per
le istituzioni coinvolte; mentre solo raramente i risultati delle deliberazioni sono considerati vincolanti per le istituzioni dotate del potere d’implementarli. Però, l’importanza di questi due aspetti sta nel fatto, apparentemente quasi sempre rimosso dagli
“organizzatori”, che l’atteggiamento delle persone coinvolte nella deliberazione, presupposto cruciale per il suo successo, può variare di molto in base all’auto-percezione del proprio potere e delle proprie responsabilità.101 Vale a dire che è ovviamente ben diverso impegnarsi nel discutere una decisione sapendo che sarà
effettivamente applicata, o piuttosto considerandola come un esercizio retorico praticamente ininfluente – chiunque abbia partecipato ad un minimo di attività politica
sa bene quanto possa essere distruttiva la percezione della propria impotenza.
Quel che dev’essere messo in luce è la difficoltà intrinseca nel voler giudicare la
deliberazione da un punto di vista esterno e, contemporaneamente, trarre da tale
giudizio i criteri attraverso cui organizzare la pratica stessa. La pretesa di valutare
certi risultati, non soltanto le decisioni finali ma anche le variazioni di opinione intervenute, come “migliori” di quelli che si sarebbero raggiunti senza la deliberazione
può sembrare scarsamente controversa per ogni singolo caso;102 ma proprio riflettendo sugli effetti complessivi di una eventuale applicazione di questi metodi, con tutto
il bagaglio organizzativo richiesto e con i loro “facilitatori” professionisti, appare il
rischio che l’ideale di una libertà democratica più profonda, perché informata e consapevole oltre che permeata dal reciproco rispetto tra i cittadini, si concretizzi in
una distopia della manipolazione,103 perfino elevata ad esplicito principio ordinatore.
100.Finora quest’influenza è stata relativamente scarsa (come spesso lamentato, vedi: L. Bobbio,
“Le virtù del sorteggio”, in Dopo la politica, a cura di D. Zola, Roma: Edizioni dell’Asino, 2008) ma
ciò non significa ch’essa in futuro non possa aumentare.
101.La rimozione quasi completa è tanto più rimarchevole dato che, pare, anche l’osservazione empirica condotta secondo i metodi delle scienze sociali conferma questa ovvietà: D. M. Ryfe, “The
Practice of Deliberative Democracy: A Study of 16 Deliberative Organizations,” p. 366.
102.Si veda il modo in cui Luigi Bobbio presenta i risultati di un ampio esperimento deliberativo:
L. Bobbio, “Come smaltire i rifiuti. Un esperimento di democrazia deliberativa”, Stato e mercato 1
(2002): 101-41 – è anche interessante notare la differenza tra alcuni paesi, come la Danimarca o
l’Australia, nei quali progetti deliberativi sono stati organizzati per discutere di riforme della costituzione, del sistema elettorale (L. Carson, “Creating Democratic Surplus through Citizens’ Assemblies”, Journal of Public Deliberation 4, no. 1 (2008): articolo 5) o dell’adesione alla moneta unica
europea (V. Normann Andersen e K. M. Hansen, “How deliberation makes better citizens: The Danish Deliberative Poll on the euro”, European Journal of Political Research 46 (2007): 531-56) e il
nostro, dove la maggior parte dei tentativi ha riguardato il trattamento dei rifiuti o altri temi
analoghi.
103.Il pericolo della manipolazione è reso chiaro almeno dall’enfasi posta in gran parte degli esperimenti deliberativi sullo spostamento e il rafforzamento delle opinioni dei partecipanti. Su questo
tema si veda: G. Regonini, “Paradossi della democrazia deliberativa”, Stato e mercato 1 (2005):
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
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Infatti, può capitare di leggere: «la manipolazione intesa come processo che modifica
dall’esterno atteggiamenti e preferenze individuali è un fenomeno consueto anche al
di fuori delle arene deliberative»; da tale aberrante prospettiva risulterà chiaro che:
«il problema quindi non è forse se i partecipanti a un processo deliberativo vengano
manipolati, ma se questa manipolazione sia coerente con gli obiettivi del processo e
con i princìpi deliberativi».104
Si osserva certo un notevole salto tra queste parole e quelle di Fishkin che, ancora
richiamandosi all’esempio dei padri fondatori, scriveva:
... dobbiamo connettere l'agenda della ricerca circa i cambiamenti istituzionali
con una più piena considerazione dei valori in gioco in una versione della democrazia davvero adeguata. I tre valori già notati negli scritti di Madison – deliberazione,
non-tirannia, ed eguaglianza politica – guideranno la nostra indagine.105
Tuttavia, non è necessario un grande sforzo teorico per capire come, una volta entrati nell’ordine di idee di sperimentare se ed in che modo un determinato contesto
spingerà a raggiungere un certo tipo di conclusioni oppure altre, sia più o meno fatale assumere un atteggiamento strumentalizzante nei confronti dei partecipanti.
Questo atteggiamento pseudo-oggettivante è tipico di una parte consistente delle
odierne scienze sociali, ed in quanto tale è ben criticabile per ragioni tanto scientifiche quanto politiche; ma qui non è neanche indispensabile affrontare questo punto.
Piuttosto, qualsiasi cosa si pensi circa il valore della sperimentazione in contesti sociali, il fatto è che la manipolazione ch’essa comporta rappresenta l’opposto dei
princìpi che motivano l’approccio deliberativo, comprese le sue versioni empirico-applicative. Dunque, poiché anche queste ultime basano la propria pretesa di validità
sulla qualità deliberativa dei propri metodi, la contraddizione è rilevabile anche entro la prospettiva degli stessi approcci empirici.
La replica che la manipolazione si trova dovunque sarebbe troppo banale per essere presa in considerazione, se non rappresentasse un’assunzione, implicita o esplicita, effettivamente molto diffusa. E allora, ai praticanti ansiosi di applicare le proprie
tecniche, si dovrà ricordare come il fatto, ovvio, che siamo tutti sempre immersi in
una rete di influenze non equivalga per nulla alla situazione radicalmente asimmetrica che, per definizione, caratterizza un contesto sperimentale. Al contrario, è evidente che lo scienziato sociale (come peraltro il filosofo) non può affatto saltar fuori
da se medesimo, dalla propria storia personale e condizione sociale, nel pretendere di
disegnare la manipolazione “corretta”, contrapposta a quella ordinaria nella quale
3-32. Ciò rappresenta in pratica la traduzione del rischio della “epistocrazia” che i teorici si premurano di scongiurare: C. Lafont, “Is the Ideal of Deliberative Democracy Coherent?”; D. Estlund,
Democratic Authority, cap. 11.
104.S. Ravazzi, “Una chiave per la democrazia deliberativa”, Meridiana 58 (2007), p. 38.
105.J. S. Fishkin, Democracy and Deliberation, pp. 19-20, traduzione mia.
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2. Breve storia delle teorie deliberative
l’ignorante popolazione si troverebbe comunque avvinta. Senza dover necessariamente assumere la prospettiva manichea d’una classica critica dell’ideologia, è piuttosto scontato come, non essendo disponibile ad alcuno una posizione al di là di ogni
possibile manipolazione, il compito della democrazia sia quello creare contesti che vi
si sottraggano nella misura del possibile. È in questo senso che la teoria deliberativa
può e deve radicalizzare l’ideale democratico. L’illusione di poter maneggiare il popolo, in modo da orientarlo con sicurezza verso risultati che qualcuno ha stabilito a
priori come corretti, è certo da abbandonare; a partire da ciò possono aprirsi spazi
di partecipazione che escludano, per quanto possibile, quelle influenze non discorsive
che eludono le pretese di validità normativa.
Beninteso, nulla di quanto qui sostenuto dev’essere scambiato per ostilità verso
l’empiria tout court, un atteggiamento che sarebbe certo indifendibile. Soltanto, proprio come la teoria normativa dovrebbe astenersi dal presumere descrizioni fattuali
delle quali non può dare conto adeguatamente,106 l’analogo limite per gli studi empirici sta nel sottrarsi alla tentazione di trattare fatti contingenti come prove, o viceversa confutazioni, di quelli che possono darsi soltanto come princìpi normativi. Pretendere di infrangere questi limiti, corrisponderebbe al modo più radicalmente
teleologico di pensare la deliberazione: la finalità diviene un esito concreto e definito,
talvolta persino nella forma di un’unica risposta, presunta “giusta”, e la prassi deliberativa “funziona” solo se è buona a produrre tale risultato, abbisognando altrimenti d’una consequenziale “correzione”, con tanti cari saluti all’autonomia dei
partecipanti.
Questo limite discrimina entro l’insieme degli approcci empirici, e soltanto quelli
che lo rispettano possono offrire contributi validi. Però, gran parte degli studi empirici, tutti quelli strutturati “sperimentalmente”, sono intrinsecamente incompatibili
con una concezione appropriata della deliberazione. Viceversa, meno esplorata ma
assai più promettente è l’osservazione di prassi politiche indipendenti, capaci di esercitare un effettivo potere. Osservazioni di questo tipo possono consentire di comprendere quanta deliberazione sia presente nelle pratiche democratiche, attuali o
passate, dunque anche di discutere più seriamente su come migliorarne qualità e
quantità – sfuggendo magari alla prospettiva aggregativa e funzionalista che, nonostante decenni di critiche, ancora domina il campo delle scienze sociali descrittive.
Certamente, anche chi voglia significativamente osservare esempi, storici od attuali, di deliberazione democratica si trova di fronte al problema di selezionare appropriatamente il retroterra teorico del proprio studio empirico, in modo da poter
106.Una critica ai “teorici” spesso ripetuta dagli “empirici”: P. J. Conover e D. D. Searing, “Studying ‘Everyday Political Talk’ in the Deliberative System”, Acta Politica 40, no. 2 (2005): 269-83;
S. Chambers, “Measuring Publicity’s Effect: Reconciling Empirical Research and Normative Theory”; D. C. Mutz, “Is Deliberative Democracy a Falsifiable Theory?”.
Parte prima: Che Cos’è la democrazia deliberativa
- 73 -
definire, per giudicare la validità della deliberazione, princìpi tali da non contraddire
la libertà discorsiva dei partecipanti. Il rischio della «mortifera» influenza degli strumenti impiegati per le misurazioni colpisce certo anche questo tipo di approcci,107
ma in questi casi può essere perlomeno affrontato razionalmente, cosa impossibile
per gli esperimenti, per definizione incompatibili con un ruolo politicamente autonomo dei partecipanti.
Ma se, invece, l’intento di uno studio fosse quello di produrre dati che confermino
o smentiscano la generale efficacia della deliberazione, nessuna sottigliezza interpretativa, accortezza metodologica, o qualsivoglia cautela, sarebbe sufficiente a renderlo
significativo.
Questo non cancella la basilare obiezione che una teoria politica normativa debba
trovare applicazioni possibili – altrimenti, più che utopistica, sarebbe irrilevante. Il
problema, tuttavia, non è analizzare quali siano i migliori strumenti per realizzare la
deliberazione, perché già la domanda è radicalmente mal posta. Piuttosto, si dovrà
ricostruire una teoria deliberativa che possa evitare quelle aporie, tipiche d’altronde
del discorso democratico in genere, in conseguenza delle quali le soluzioni “realistiche” spesso sembrano non già soltanto compromissorie, ma incompatibilmente
contraddittorie con gli ideali in base ai quali, pure, giustificavano la propria validità.
107.J. S. Dryzek, “The Deadly Hermeneutics of Deliberative Instrumentation”
Parte seconda: Temi e problemi
3. Le ragioni per deliberare
Penso sia perfettamente corretto ed appropriato chiedersi se tutti i modelli di democrazia
deliberativa debbano condividere gli stessi fondamenti filosofici. Chiaramente non devono.
(Seyla Benhabib, On Culture, Public Reason, and Deliberation)
La prima questione che una teoria politica normativa dovrebbe porsi riguarda il motivo per cui le sue prescrizioni meriterebbero d’essere messe in atto. Si è già accennato come entro la democrazia deliberativa coesistano due modi basilari di rispondere: l’uno teleologico, deontologico l’altro. Vale a dire che è possibile argomentare a
favore della deliberazione in senso finalistico, sostenendo che essa produrrà risultati
equi e intelligenti, comunque migliori delle alternative; oppure si può affermare che
per principio la democrazia deliberativa corrisponda ad un giusto sistema politico,
prescindendo dal giudizio circa i suoi risultati effettivi. I due approcci, in parte lo si
è già osservato, possono essere variamente articolati. Come risultati della deliberazione si possono considerare i soli esiti decisionali, oppure includere l’apprezzamento
della sua dimensione educativa e costruttiva del senso di comunità. Similmente, i
princìpi cui la deliberazione dovrebbe corrispondere possono essere intesi secondo
varie sfumature: realizzazione dell’autonomia individuale e politica, proceduralizzazione della ragione pubblica, corrispondenza con la razionalità comunicativa, e così
via.
A questo livello di generalità, tuttavia, è da considerare soltanto il carattere formale, teleologico o deontologico, dell’argomentazione. Anche prescindendo dai contenuti, infatti, la pura formalità delle due opzioni già comporta differenze praticamente rilevanti. Ad esempio, di fronte alla banale constatazione che talvolta, magari
spesso, la discussione pubblica non produce affatto risultati definibili come “buoni”,
una strategia argomentativa teleologica potrebbe ritenersi, a certe condizioni, semplicemente confutata, mentre quella deontologica ammetterebbe al più la propria
contingente impraticabilità, ma non troverebbe smentiti i propri princìpi. Viceversa,
una critica dei fondamenti filosofici metterebbe in crisi l’argomentazione deontologica, mentre potrebbe essere presa relativamente alla leggera da un punto di vista te-
- 78 -
3. Le ragioni per deliberare
leologico: significherebbe soltanto, almeno finché i risultati considerati “buoni” continuassero a verificarsi, che la teoria dovrebbe essere meglio formulata per tenere
conto delle obiezioni, ma niente affatto abbandonata. In altre parole, un punto di vista teleologico, nel senso qui inteso, richiede una giustificazione empirica a posteriori, mentre l’approccio deontologico dovrebbe avere un fondamento teorico a priori –
trascurando, per il momento, l’improba difficoltà di ottenere in modo convincente
l’una e/o l’altro.
Ad un primo sguardo, com’è stato in parte anticipato, potrebbe sembrare che
l’approccio deontologico corrisponda tout court al versante discorsivista-habermasiano della deliberazione, mentre quello teleologico apparterrebbe ai teorici più influenzati da Rawls, data l’insistenza sulla valutazione dei risultati secondo un criterio
esterno alla procedura deliberativa.1 Questa partizione non è inutile, soprattutto se
considerata come linea di tendenza, ma non regge ad un esame appena più approfondito. Infatti, né le argomentazioni discorsiviste né quelle rawlsiane sono riducibili
ad uno solo dei due aspetti. Ciò sarà meglio chiarito tra breve, ma per iniziare è
sufficiente produrre un paio di esempi. In primo luogo, un orientamento deontologico
è centrale anche per Rawls, già a partire dalla critica dell’utilitarismo di Una teoria
della giustizia.2 È possibile sostenere che, nell’evoluzione del suo pensiero, Rawls modifichi in parte questo atteggiamento,3 e i “rawlsiani” dal canto loro non sono certo
John Rawls in persona;4 tuttavia, un’impronta deontologica resta innegabile. Di
converso, come per Rawls l’equilibrio riflessivo rappresenta un punto di incontro e
reciproca influenza tra i princìpi teorici e l’osservazione delle loro conseguenze (at-
1. Come si è osservato, gli approcci empirico-applicativi, se si ponessero il problema, sarebbero
ancora più spostati verso la teleologia. Altrettanto teleologiche, sebbene in modo diverso, sono le
versioni più paternalistiche del repubblicanesimo, che anche per altri versi si trova comunque più
vicino ai liberali che non ai discorsivisti – leggerei in questa luce anche la concezione degli «accordi
non completamente teorizzati» proposta da Sunstein: C. R. Sunstein, “Incompletely Theorized
Agreements”, Harvard Law Review 108, no. 7 (1995): 1733-72; C. R. Sunstein, A cosa servono le
costituzioni, cap. 2. Analogamente teleologica è la “depoliticizzazione” di Pettit: P. Pettit, “Depoliticizing Democracy”. Qui non posso analizzare tutte le varianti, che d’altronde riguardano più le
applicazioni che non le basi della teoria deliberativa.
2. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano: Feltrinelli, 1991, pp. 38 ss. È opportuno notare
come la definizione di teleologia usata da Rawls nell’ambito della teoria morale non sia omologa a
quella qui impiegata circa le diverse concezioni deliberative.
3. La “ritirata” verso il realismo politico che Ackerman imputa a Rawls (B. Ackerman, “Political
Liberalism”, The Journal of Philosophy 91, no. 7 (1994): 364-86) potrebbe essere utilmente declinata proprio in questo senso: un “ammorbidimento” della posizione di principio, in vista di risultati
concretamente raggiungibili.
4. Ad esempio, Rawls segnala esplicitamente la differenza tra il suo pensiero e quello di Gutmann
e Thompson, che «sembra svilupparsi a partire da una dottrina comprensiva»: J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica,” p. 182n.
Parte seconda: Temi e problemi
- 79 -
tuali o possibili),5 così anche nelle basi deontologiche del discorsivismo – il principio
di universalizzazione (U) e quello del discorso (D), dei quali si dirà qualcosa tra
breve – è inscritto un riferimento a «le conseguenze e gli effetti secondari [...] per
quel che riguarda la soddisfazione di ciascun singolo»6 che inevitabilmente richiama,
sia pur mediatamente, un giudizio teleologico.7
Nondimeno, benché i due atteggiamenti teorici non siano univocamente divisi tra
discorsivisti e “rawlsiani”, la relativa prevalenza dell’uno o dell’altro ha almeno un
effetto precisamente osservabile, che si può dire consista nella differenza tra una giustificazione e un fondamento.
Il problema principale di Habermas e dei teorici a lui più vicini è quello di dare
ragioni non soltanto della bontà della democrazia deliberativa, ma anche del fatto
che essa corrisponda alla proceduralizzazione politica della ragione – come minimo
della razionalità occidentale per come si è andata definendo nella modernità.8 Si
tratta di fondare filosoficamente la validità di un approccio ricostruttivo che, proprio
in quanto è tale, non può presumere di trovare “fuori di sé” le proprie ragioni. La
possibilità di riscontrare corrispondenze nei risultati empirici è tutt’altro che preclusa, ma non può rappresentare il perno dell’intera concezione. Viceversa – benché per
lo stesso Rawls l’interpretazione della ragione moderna giochi un ruolo importante9 –
i teorici più vicini alle idee rawlsiane cercano piuttosto di valutare direttamente la
qualità della deliberazione in ragione dei suoi esiti, e ricorsivamente di definirne le
norme in base a questi ultimi; anche qui, se si vuole, in una situazione di equilibrio
riflessivo.10 Questa posizione è radicata in una concezione precisa: vale a dire
nell’idea della democrazia deliberativa come teoria politica autonoma e indipendente
da visioni comprensive. Rawls rende chiaro questo punto attraverso la critica ad Habermas,11 ma un pensiero analogo è presente anche nella definizione (presa a prestito
dalla logica matematica) della democrazia deliberativa come «teoria del secondo or5.
J. Rawls, Una teoria della giustizia, pp. 35-36, 54 ss.
6.
J. Habermas, “Etica del discorso,” p. 74.
7. Si riscontra una «presenza residuale del “bene” nel cuore del “giusto”»: J. Habermas, “Una
considerazione genealogica sul contenuto cognitivo della morale”, in L’inclusione dell’altro, Milano:
Feltrinelli, 2002, p. 43.
8. Benché questo sia l’opposto dell’intento di Habermas, l’approccio discorsivo alla deliberazione è
abbastanza semplice da piegare in senso contestualista, si veda ad esempio: M. Cooke, “Five Arguments for Deliberative Democracy”, Political Studies 48 (2000): 947-69. Le ragioni per cui ciò è
possibile, e persino facile, diverranno più chiare a partire dal prossimo capitolo.
9. La pubblicazione delle sue lezioni ha reso più chiara l’influenza dei classici del pensiero filosofico sulla teoria rawlsiana: J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia morale, Milano: Feltrinelli, 2004;
J. Rawls, Lezioni di storia della filosofia politica, Milano: Feltrinelli, 2009.
10. A. Gutmann e D. Thompson, Democracy and Disagreement, p. 5.
11. J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas”.
- 80 -
3. Le ragioni per deliberare
dine»;12 volta cioè ad accomodare entro di sé i conflitti tra le teorie del primo ordine,
che sono quelle che avanzano direttamente la pretesa di obbligare o vietare certe
azioni, approvare o rifiutare specifici modi di vita ed ordinamenti sociali, e così via.
Una democrazia deliberativa concepita secondo questi modi non ha da fondare la
propria validità su una ricostruzione filosofica, perché così facendo violerebbe la propria pretesa di autonomia teorica. Essa dovrà cercare le proprie ragioni, per così
dire, “al di fuori” di se medesima, nella forma, appunto, della giustificazione in base
ad un criterio indipendente, già osservata a partire da Joshua Cohen.13
Si tratta ora di approfondire le due linee argomentative qui introdotte, sì da definire il ruolo che possono giocare come basi della democrazia deliberativa – ricordando, una volta di più, come gli sviluppi di questa non siano riducibile ad un singolo
sistema e che i ragionamenti qui descritti come possibili componenti di una concezione unitaria appartengono a orizzonti teorici che restano difformi.14
3.1. Dal discorsivismo alla deliberazione
Questo paragrafo sintetizzerà il percorso argomentativo – che solo per certi tratti
coincide con l’ordine cronologico – attraverso cui il discorsivismo giunge a fondare
un modello deliberativo di democrazia. Nel far ciò, l’attenzione sarà concentrata sul
piano filosofico, accennando soltanto ad alcuni elementi di ricostruzione sociologica
che saranno, invece, maggiormente articolati a partire dal prossimo capitolo. Inoltre,
inizierò ad evidenziare le differenze che, al di là del progetto comune, si trovano tra
le teorie di Apel e di Habermas, differenze quasi sempre trascurate nella letteratura
deliberativa, e nondimeno centrali per comprendere questioni capaci di produrre
conseguenze rilevanti anche per gli aspetti più direttamente politici delle teorie
deliberative.
12. A. Gutmann e D. Thompson, Why Deliberative Democracy?, p. 13. C’è però differenza tra la
definizione di teoria del primo ordine e quella di teoria comprensiva, perché sebbene la prima categoria includa la seconda, non vale il reciproco, dato che teorie non comprensive, come il Liberalismo politico, prescrivendo alcuni contenuti specifici, possono essere del primo ordine nel senso inteso
da Gutmann e Thompson. Se, come Rawls (vedi sopra, nota 4), consideriamo comprensiva la teoria
di Gutmann e Thompson, ne segue che essa è incoerente.
13. J. Cohen, “An Epistemic Conception of Democracy”. Vedi sopra, p. 51.
14. Insisto su questo punto perché ci sono stati vari tentativi di avvicinare Habermas e Rawls, o
persino di “completare” il pensiero dell’uno con quello dell’altro, il che può essere accettabile, se
delle due filosofie si considerano gli esiti finali, ma rischia di oscurare divergenze teoriche piuttosto
profonde. Si vedano ad esempio: C. McMahon, “Why There Is No Issue between Habermas and
Rawls”, The Journal of Philosophy 99, no. 3 (2002): 111-29; A. Ron, “Rawls as a critical theorist”,
Philosophy & Social Criticism 32, no. 2 (2006): 173-91.
Parte seconda: Temi e problemi
- 81 -
La via della ricostruzione discorsiva della morale e della democrazia è piuttosto
lunga ed inizia, non sorprendentemente, dalla filosofia del linguaggio.15 Nel clima generale della svolta linguistica (qui intesa soprattutto quale superamento del paradigma soggettivistico della filosofia della coscienza) che ha caratterizzato gran parte
della filosofia novecentesca – con particolare riferimento alle idee del “secondo”
Wittgenstein e alla teoria degli atti linguistici, introdotta da John L. Austin e sviluppata soprattutto da John R. Searle16 – Habermas ed Apel elaborano, a partire
dagli anni ‘70, un originale rapporto fra il fatto del linguaggio e la validità delle
norme, teorizzando il concetto dell’agire comunicativo e applicandone poi i risultati
all’etica, alla politica, al diritto e alla democrazia.
Il punto d’avvio del discorsivismo può essere individuato in due idee, formulate
da Wittgenstein e largamente riprese dalla filosofia successiva: l’impossibilità di un
linguaggio privato e il concetto di gioco linguistico.17 L’idea che non possa darsi una
lingua parlata soltanto da un singolo, accostata alla centralità del linguaggio come
strumento e criterio di conoscenza – generalmente propria della svolta linguistica,
ma tratta in particolare dall’incontro con la semiotica di Peirce18 – implica che se è
possibile una fondazione, della ragione teoretica come di quella pratica, essa può
darsi solo nell’ottica di un discorso argomentativo (in tedesco Diskurs, da cui la denominazione di discorsivismo), condiviso intersoggettivamente fra diversi parlanti,
che devono quindi, almeno implicitamente, reciprocamente riconoscersi come tali.19
15. Per Habermas ciò costituisce però un approdo successivo ai suoi primi lavori. Circa il linguistic
turn habermasiano, vedi: G. Warnke, “Communicative Rationality and Cultural Values”, in The
Cambridge Companion to Habermas, a cura di S. K. White, Cambridge: Cambridge University
Press, 1995; J. Bohman, “Two versions of the linguistic turn: Habermas and Poststructuralism”, in
Habermas and the Unfinished Project of Modernity, a cura di M. Passerin d’Entrèves e S. Benhabib, Cambridge MA: MIT Press, 1997.
16. J. L. Austin, Come fare cose con le parole, Genova: Marietti, 1987; J. R. Searle, Atti linguistici:
saggio di filosofia del linguaggio, Torino: Boringhieri, 1976.
17. Introdotte, rispettivamente, nei paragrafi 199 e 7 di: L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino: Einaudi, 1999.
18. C. S. Peirce, Semiotica, Torino: Einaudi, 1980. Vedi anche: K.-O. Apel, “Fallibilismo, teoria
della verità come consenso e fondazione ultima”, in Discorso, Verità, Responsabilità, Napoli: Guerini e Associati, 1997.
19. Il più ampio tema del riconoscimento, in una ripresa di Hegel parallela al “kantismo” di Habermas, sarà centrale per Axel Honneth: A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, Milano: Il Saggiatore, 2002; A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato: una attualizzazione della filosofia politica di
Hegel, Roma: Manifestolibri, 2003; N. Fraser e A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una
controversia politico-filosofica, Roma: Meltemi, 2007. Honneth, almeno finora, è stato relativamente
marginale per la democrazia deliberativa, ad eccezione del saggio: A. Honneth, “Democrazia come
cooperazione riflessiva. John Dewey e l’odierna teoria della democrazia”, Fenomenologia e società
21, no. 3 (1998): 4-27. Ma si veda anche: C. F. Zurn, “Recognition, Redistribution, and Democracy: Dilemmas of Honneth’s Critical Social Theory”, European Journal of Philosophy 13, no. 1
(2005): 89-126.
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3. Le ragioni per deliberare
Il linguaggio parlato da e tra gli individui (contro l’idea, tendenzialmente irrazionalistica, di un linguaggio che “ci parla”), grazie alla sua caratteristica capacità
auto-riflessiva, diviene l’orizzonte entro il quale mettere la ragione al riparo dagli attacchi dello scetticismo. Il concetto di gioco linguistico, d’altra parte, se da un lato è
indispensabile per teorizzare un linguaggio intrinsecamente pubblico – giacché definire un ambito effettivo di validità è necessario per una concezione intersoggettiva
del linguaggio – deve però essere profondamente riformulato per evadere dalla rinuncia all’universalizzazione delle norme del discorso che potrebbe altrimenti conseguire
dal carattere limitato dei diversi giochi linguistici, magari tra loro
incommensurabili.20
Tale riformulazione in chiave pragmatico-formale coincide con l’affermazione della
possibilità, che per il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche sarebbe stata inaccettabile, di dare le regole generali di tutti gli usi linguistici; o, altrimenti detto, di rendere conto del gioco dei giochi linguistici. Questo passaggio, senza il quale non sarebbe possibile riscattare la pretesa di fondare nel linguaggio la validità della
ragione, è compiuto grazie alla teoria degli atti linguistici che Apel e Habermas traggono, rielaborandola, da Austin e Searle.21 L’aspetto praticamente più rilevante di
questo snodo teorico sta nel riconoscimento esplicito della componente performativa
che appartiene, accanto a quella proposizionale, ad ogni uso linguistico sensato; vale
a dire del fatto che ogni volta che diciamo qualcosa noi stiamo anche assumendo uno
specifico ruolo attivo. Ruolo perlopiù implicito, ma che può essere chiarito grazie
all’uso dei verbi performativi, quei verbi che esplicitano l’azione compiuta dicendo
qualcosa: ‘affermo’, ‘giudico’, ‘dichiaro’, ‘prometto’, e così via. Questo passaggio consente non solo di radicalizzare l’argomento dell’auto-contraddizione, classicamente
rivolto contro lo scetticismo, ma anche di trarne un fondamento per la validità della
ragione comunicativa. Infatti, a meno di questa considerazione sarebbe sempre possibile refutare le affermazioni scettiche riapplicandole a loro stesse, ma ciò, oltre a non
costituire un argomento immediatamente stringente – imponendo il criterio della
coerenza allo scettico che, presumibilmente, lo rifiuterebbe, si assume il demonstrandum prima di averlo giustificato22 – non consentirebbe nemmeno di ottenere alcunché come fondamento in positivo: confutando i diversi scetticismi si può giungere
20. Il che condurrebbe poi all’appropriazione postmoderna di Wittgenstein: J.-F. Lyotard, La
condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Milano: Feltrinelli, 1985.
21. Vedi: K.-O. Apel, “Significato illocutivo e validità normativa”, in Discorso, Verità, Responsabilità, Napoli: Guerini e Associati, 1997; J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, cap. 3.
22. Non a caso Aristotele equiparava lo scettico ad un vegetale: è l’impossibilità di agire, quindi
anche di compiere atti linguistici validi, che è già implicitamente imputata a chi voglia negare radicalmente il logos. Per un’esposizione accurata dell’argomentazione fondativa di Apel, vedi: S. Petrucciani, Etica dell’argomentazione, cap. 1.
Parte seconda: Temi e problemi
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bensì a presumere un fondamento valido per la ragione comunicativa, ma non a determinare quale esso sia.23
Soltanto attraverso la considerazione della componente performativa del linguaggio è possibile esplicitare le pretese di validità che avanziamo quando parliamo – riducibili a tre, verità, giustizia e autenticità/sincerità, almeno le prime due in linea di
principio sempre riscattabili argomentativamente24 – in forza delle quali individuare
l’auto-contraddizione (definita, appunto, performativa) compiuta dallo scettico radicale. Infatti, se è intrinseco all’uso del linguaggio che dicendo ‘non c’è alcun criterio
di validità’ io, dall’interno di un gioco linguistico, sto affermando che le cose stanno
così (o alternativamente non sto agendo affatto, tornando all’essere “come una pianta” d’aristotelica memoria), ne segue che sono in contraddizione, perché nello stesso
atto linguistico sto sollevando un’istanza di validità e contemporaneamente negandola. Nelle parole di Apel:
[...] chi argomenta contro il primato normativo dei criteri di validità rispetto ai
criteri della razionalità strategica, presuppone egli stesso, in modo performativo, il
primato normativo dei criteri di validità e deriva, quindi, la comprensione della propria pretesa di validità dalla prassi comunicativa, di cui contesta il primato.25
Solo accettando una concezione solipsistica del linguaggio – non considerandone
l’intrinseca pubblicità e il carattere di gioco linguistico, ovvero non tenendone presente la componente performativa, che implica sempre il riferimento ad altri parlanti – tornando con ciò a concezioni filosoficamente superate, l’eventuale scettico potrebbe pur sempre pretendere di mettersi al di fuori della ragione (ovvero di un
qualsivoglia “nostro” concetto di ragione, come tenderebbe perlopiù a sostenere in
simili casi) senza risultare immediatamente auto-contraddittorio. Al linguaggio sarebbe quindi intrinseco un orientamento verso l’intesa, dato che nell’azione stessa del
parlare solleviamo pretese di validità che in linea di principio – cioè per restare entro
le regole che definiscono il linguaggio che utilizziamo – ci impegniamo a riscattare
con argomenti nei confronti di un pubblico (perché intrinsecamente pubblica è la natura del linguaggio) tendenzialmente illimitato (trovandoci entro un gioco linguistico
universale, definito trascendentalmente dalle norme intrinseche ad ogni linguaggio).
La conformità o meno a questo orientamento definisce l’agire come comunicativo oppure strategico – categorie che sul piano politico troverebbero una corrispondenza,
pur molto mediata, rispettivamente con l’interpretazione deliberativa e con quella
aggregativa della democrazia.
23. Si veda l’introduzione di Marzocchi a: K.-O. Apel, Discorso, Verità, Responsabilità, pp. 32 ss.
24. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, cap. 1. A queste va aggiunta la “meta-pretesa”
della comprensibilità, a maggior ragione sempre presupposta in ogni scambio linguistico.
25. K.-O. Apel, “Significato illocutivo e validità normativa,” p. 186.
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3. Le ragioni per deliberare
Entro questa distinzione sono presenti però due elementi, uno puramente deontologico e l’altro anche teleologico. Il modo di considerare questi differenti aspetti
dell’agire comunicativo differenzia il pensiero di Apel da quello di Habermas. Quest’ultimo, oltre ad enfatizzare maggiormente la nettezza della distinzione fra usi
strategici e comunicativi del linguaggio, pensa il telos verso l’intesa come empiricamente riscontrabile – con strumenti prevalentemente sociologici, sia pur nel quadro
di una impegnativa ridefinizione della sociologia26 – così da dedurre il primato normativo dell’agire comunicativo dalla constatazione che l’uso strategico del linguaggio
è de facto parassitario. Varrebbe a dire che il discorso strategico presuppone comunque l’esistenza di un linguaggio socialmente operante secondo criteri di validità
che è necessario almeno fingere di accettare, anche perseguendo fini esclusivamente
strategici. Tale posizione è coerente con il fatto che, per Habermas, la costellazione
concettuale dell’agire comunicativo è funzionale al superamento della diagnosi critica
dell’eclissi della sfera pubblica nella società contemporanea, da cui il suo ragionare
aveva preso avvio.27
D’altro canto Apel, che si muove in un orizzonte parzialmente diverso dalla critica sociale habermasiana, adotta una posizione filosoficamente più onerosa, sostenendo di poter dimostrare, per la via dell’auto-contraddizione performativa, la fondazione ultima e incontestabile dei criteri di validità della ragione.28 Ciò vale a dire che
non è sul piano dell’osservazione sociologica, come vorrebbe Habermas, che si può
basare la validità dei princìpi del discorsivismo. Questa può essere attinta soltanto
attraverso l’auto-riflessione sulle condizioni di validità dell’uso linguistico – lasciando
26. Già a partire dagli anni ‘60, contro Popper e l’approccio neo-positivista, Habermas avanzava il
concetto di una sociologia comprendente, che ha poi informato il suo pensiero successivo, vedi: J.
Habermas, “Epistemologia analitica e dialettica”, in Dialettica e positivismo, a cura di H. Maus e
F. Furstenberg, Torino: Einaudi, 1972; J. Habermas, Conoscenza e interesse, Roma-Bari: Laterza,
1973; J. Habermas, “Scienze sociali ricostruttive e scienze sociali comprendenti”, in Etica del discorso, Roma-Bari: Laterza, 1989.
27. Nell’opera, che era poi la tesi di abilitazione del giovane filosofo: J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica. Su questa linea, è possibile leggere tutti gli «studi di Habermas sulla società
e la politica come un prolungato esame delle precondizioni, e delle barriere, psicologiche, culturali e
istituzionali per l’implementazione dei discorsi pratici»: T. McCarthy, “Kantian Constructivism
and Reconstructivism: Rawls and Habermas in Dialogue,” p. 48, traduzione mia.
28. K.-O. Apel, “Fallibilismo, teoria della verità come consenso e fondazione ultima”. L’aggettivo
‘incontestabile’ non è casuale, né indice di dogmatismo. Al contrario è caratteristica precipua
dell’approccio di Apel che esso possa costituirsi soltanto dialogicamente, di fronte a chi lo contesti.
Solo così la figura dell’autocontraddizione performativa diviene stringente, e perciò l’accettazione
del dialogo da parte dell’oppositore dev’essere presupposta, anche se trascendentalmente lo è “già
sempre” nel linguaggio, senza essere demandata a fattuali necessità psicologiche e sociali, come invece per Habermas. Questo però vuol dire che l’orientamento teleologico verso la realizzazione
dell’etica del discorso è presupposto come un dovere, il che, in un quadro come quello di Apel che
assume la priorità della morale sul diritto, significa che dall’etica più rigorosamente deontologica
discende un orientamento politico spiccatamente teleologico.
Parte seconda: Temi e problemi
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impregiudicata la sgradevole possibilità, certo non normativa ma puramente fattuale, di non riconoscere alcun orientamento alla validità, sottraendosi al discorso29 –
configurando così una posizione filosoficamente più rigorosa, ma relativamente povera di risorse descrittive. In questo modo, Apel deve sopportare un onere maggiore
sul piano filosofico, ma può fare a meno di un legame tanto stretto con la contingenza delle analisi empiriche (sociali, psicologiche e storiche)30 alle quali il pensiero habermasiano è inestricabilmente connesso.
Pur attraversato da questa divergenza, della quale si comprenderà meglio la rilevanza nel prossimo capitolo, il discorsivismo arriva alla formulazione di due princìpi
pratici fondamentali, quello di universalizzazione (U) – «ogni norma valida deve soddisfare la condizione che le conseguenze e gli effetti secondari derivanti (presumibilmente) dalla sua universale osservanza per quel che riguarda la soddisfazione di ciascun singolo, possano venir accettate da tutti gli interessati (e possano essere
preferite alle conseguenze delle note possibilità alternative di regolamentazione)» e il
principio del discorso (D) – «una norma può pretendere di aver valore soltanto se
tutti coloro che possono esserne coinvolti raggiungono (o raggiungerebbero), come
partecipanti a un discorso pratico, un accordo sulla validità di tale norma»31 – che
costituiscono i cardini di un’etica cognitivistica,32 però non più esposta alle classiche
obiezioni scettiche e anti-kantiane.
A partire da questa posizione, confrontandosi direttamente con il tema della politica e del diritto, in Fatti e norme Habermas ricostruisce il principio democratico:
«possono pretendere validità legittima solo le leggi approvabili da tutti i consociati
29. Vedi: K.-O. Apel, “Significato illocutivo e validità normativa,” p. 185. Mentre, al contrario, per
Habermas, «... optare per una uscita a lungo termine dai contesti dell’agire orientato verso l’intesa
[...] significherebbe ritrarsi nell’isolamento monadico dell’agire strategico – o nella schizofrenia e nel
suicidio»: J. Habermas, “Etica del discorso,” p. 114. Con ciò, Habermas ritiene chiusa la questione,
senza bisogno di ulteriori fondazioni che dar si vogliano.
30. Forse paradossalmente, la teoria di Apel rappresenta lo svolgimento più coerente della teoria
critica, solo però al prezzo di rinnegarne, quantomeno parzialmente, il presupposto di fondo
dell’impossibilità di separare l’ambito di validità della filosofia da quello delle scienze, empiriche e
storiche, della società, vedi: S. Petrucciani, Marx al tramonto del secolo, Roma: Manifesto Libri,
1995.
31. J. Habermas, “Etica del discorso,” p. 74. La formulazione in Fatti e norme è leggermente differente, «Sono valide soltanto le norme d’azione che tutti i potenziali interessati potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali»: J. Habermas, Fatti e norme, p. 131.
32. Per la quale, cioè, la validità delle proposizioni normative può essere trattata in modo analogo,
seppur non identico, ad una funzione di verità, e come tale fondato teoricamente. Si veda: J. Habermas, “Etica del discorso. Appunti per un programma di fondazione”, in Etica del discorso,
Roma-Bari: Laterza, 1989; J. Habermas, “Una considerazione genealogica sul contenuto cognitivo
della morale”. Benché i dettagli della concezione abbiano subìto molte variazioni, la struttura di
base risale agli anni ‘70, vedi: J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo,
Roma-Bari: Laterza, 1975.
- 86 -
3. Le ragioni per deliberare
in un processo discorsivo di statuizione a sua volta giuridicamente costituito».33 Questo principio – punto di coerenza tra la validità del principio D e la necessità empirica del diritto come medium regolatore dei rapporti sociali34 – corrisponde all’opzione
per un modello deliberativo di democrazia, delineato da Habermas attraverso cinque
categorie di diritti che i cittadini devono reciprocamente riconoscersi se vogliono regolare giuridicamente la propria convivenza:
(1) Diritti fondamentali derivanti dallo sviluppo politicamente autonomo del diritto
alla maggior misura possibile di pari libertà individuali.
(2) Diritti fondamentali derivanti dallo sviluppo politicamente autonomo dello status di membro associato nell’ambito d’una volontaria associazione giuridica.
(3) Diritti fondamentali derivanti dalla azionabilità dei diritti e dallo sviluppo politicamente autonomo della tutela giurisdizionale individuale.
(4) Diritti fondamentali a pari opportunità di partecipazione ai processi formativi
dell’opinione e della volontà: processi in cui i cittadini esercitano la loro autonomia politica e attraverso cui producono diritto legittimo.
(5) Diritti fondamentali alla concessione di quelle condizioni di vita che devono essere garantite – sul piano sociale, tecnico ed ecologico – nella misura necessaria
a poter ogni volta utilizzare con pari opportunità, sulla base dei rapporti esistenti, i diritti civili citati nei punti da (1) a (4).35
La posizione di queste categorie di diritti coincide con il tentativo di annodare in
una co-implicazione i diritti “negativi” delle libertà private e quelli “positivi” della
libertà pubblica. Grazie a questa strategia argomentativa sarebbe possibile, nelle intenzioni di Habermas, superare sinteticamente la frattura fra le filosofie politiche del
liberalismo e del repubblicanesimo, colpevoli di enfatizzare soltanto l’una o l’altra
categoria di diritti.36 Così, la ricostruzione procedurale e deliberativa dello stato democratico di diritto consentirebbe di esplicitarne il necessario contenuto normativo,
senza però limitare preventivamente l’intrecciato esercizio della libertà, privata e
pubblica, di cui contestualmente afferma il valore, consistente proprio nel potenziale
33. J. Habermas, Fatti e norme, p. 134. Invero, questo avviene attraverso la ridefinizione del principio D, che diventa il punto d’origine comune, ma autonomo, sia della morale (principio U, perciò
invertendo il rapporto tra gli originari due princìpi del discorsivismo) sia del diritto (principio democratico). Vedi: Ivi, p. 131. Questo spostamento architetturale (che trova una tappa intermedia,
benché più vicina alla vecchia posizione che alla nuova, nelle Tanner Lectures, tradotte in: J. Habermas, Morale, Diritto, Politica) è però assai problematico per l’intero progetto dell’etica del discorso, si vedano: M. Kettner, “Il dissolversi dell’etica del discorso in Fatti e Norme di Habermas”,
Fenomenologia e Società XIX, no. 1-2 (1996): 128-50; S. Petrucciani, “Morale, diritto e democrazia
nella teoria politica di Habermas”, La Cultura 37, no. 1 (1999): 151-64.
34. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 544-45.
35. Ivi, pp. 148 ss.
36. J. Habermas, “Tre modelli normativi di democrazia”; J. Habermas, Fatti e norme, cap. 7. Non
ci sarebbe bisogno di precisare che liberali e repubblicani ben difficilmente accetterebbero questa
ricostruzione «in senso idealtipico» delle rispettive teorie.
Parte seconda: Temi e problemi
- 87 -
di razionalità intrinseco alla deliberazione. Segue da ciò l’enunciazione formalistica
delle categorie di diritti: il filosofo non può sostituirsi ai cittadini, decidendo monologicamente cosa sarebbe meglio per loro, perché così facendo violerebbe patentemente
tanto la dimensione privata quanto quella pubblica della loro autonomia discorsiva.
Solo l’effettiva prassi deliberativa dei cittadini, nonostante le sue imperfezioni, può
legittimare adeguatamente la produzione del diritto; di converso sarebbe la struttura
giuridica, a partire dai diritti umani fondamentali, a rendere possibile la medesima
partecipazione politica.
Attraverso il richiamo alla dimensione dell’agire comunicativo, quindi, la teoria
discorsiva vuol essere formale non per svuotarsi di ogni contenuto controverso, bensì
perché, limitandosi a definire le condizioni necessarie alla democrazia, non ne pregiudica alcun esito rispetto a determinati ideali politici, progetti di vita, visioni del
mondo, e così via.37 Sarà l’effettiva deliberazione democratica, consentendo peraltro
l’espressione dell’etica particolare di ciascun singolo e/o gruppo sociale,38 a definire i
contenuti di questa politica ricostruita discorsivamente.
***
Da questa pur troppo sintetica esposizione vorrei emergessero i punti focali dell’approccio discorsivo alla deliberazione, necessari per il confronto con altre possibili
concezioni.
In primo luogo, il discorsivismo rappresenta una teoria comprensiva, che abbraccia la filosofia teoretica, morale e del linguaggio, affrontando conseguentemente l’ambito politico. La caratteristica saliente di questo approccio filosofico è il suo procedere ricostruttivamente; il che vale a dire esaminando le condizioni di possibilità
delle prassi effettivamente agite e traendo dall’osservazione di queste tanto i criteri
di validità del sapere teoretico e pratico quanto i princìpi cui dovrebbe conformarsi
la politica democratica. Perciò, il concetto normativo di democrazia deliberativa è
affermato a seguito della ricostruzione dei princìpi intrinseci, ancorché spesso disat37. Ivi, pp. 526-27. Mantenere assieme la pretesa del formalismo e di un contenuto normativo determinato risulta assai problematico, causando difficoltà nel rapporto tra i princìpi D e U ri-asseriti
politicamente, vedi: K.-O. Apel, “Dissoluzione dell’etica del discorso? Sull’architettonica della differenziazione dei discorsi in Fatti e norme di Habermas”, in Discorso, Verità, Responsabilità, Napoli:
Guerini e Associati, 1997; S. Rummens, “The Co-originality of Private and Public Autonomy in
Deliberative Democracy”, The Journal of Political Philosophy 14, no. 4 (2006): 469-81.
38. Habermas distingue tra il discorso morale, caratterizzato da imparzialità e universalismo, e
quello etico, nel quale albergano le ragioni particolari di gruppi e singoli; si danno poi discorsi
pragmatici e applicativi, che però si occupano di mezzi e non criticano le finalità. Ogni modalità
discorsiva ha la propria dimensione di validità, ma la priorità normativa è riservata al discorso morale/universalistico. Per un’esemplificazione vedi: W. Rehg e J. Bohman, “Discourse and Democracy: The Formal and Informal Bases of Legitimacy in Between Facts and Norms”, in Discourse and
democracy, a cura di R. V. Schomberg e K. Baynes, Albany NY: SUNY Press, 2002, pp. 34-35.
- 88 -
3. Le ragioni per deliberare
tesi, alle prassi politiche e sociali. L’ambizione ad una ricostruzione filosofica complessiva delle condizioni dell’agire e del conoscere rappresenta il nesso con la teoria
critica o, per meglio dire, il tentativo di superarne le percepite aporie attraverso la
ripresa – pur diversamente svolta da Habermas e Apel – in chiave comunicativa/intersoggettiva della filosofia trascendentale kantiana. Prendendo atto dell’impossibilità di separare le pretese di validità della teoria dal suo contesto storico-sociale (punto d’avvio della teoria critica della società), e abbandonata al contempo l’illusione di
poter attingere monologicamente una verità al di là dell’ideologia, la posta in gioco
diviene la ricostruzione dell’intrinseco nesso tra ragione comunicativa e stato democratico di diritto. La deliberazione democratica dovrebbe rappresentare la condizione
di possibilità di una critica della società presente, evitando di cadere nel paternalismo eteronomo di una posizione monologica. In questo senso, c’è coerenza tra l’approdo deliberativo e il progetto della teoria critica, nonostante l’evoluzione del pensiero di Habermas sia stata spesso attaccata a causa dell’abbandono, vero o
presunto, della più radicale ispirazione originaria.39
Alla basilare domanda del perché si dovrebbe sostenere la democrazia deliberativa, il discorsivismo offrirebbe dunque una risposta duplice: da un lato la deliberazione corrisponde all’istituzionalizzazione di un discorso pubblico che, sebbene non
possa essere direttamente informato sulla situazione discorsiva ideale,40 tuttavia rappresenta la conseguenza sul piano politico dei princìpi discorsivi; d’altra parte, nelle
disincantate società post-tradizionali, l’onere della legittimazione del potere politico
non potrebbe che ricadere sulla presumibile ragionevole qualità dei risultati della
procedura democratica.41 Perciò: in primo luogo corrispondenza (sia pure mediata)
con la razionalità comunicativa, e poi, nelle odierne condizioni di pluralismo, ineludibile necessità sociale. Queste, dal punto di vista discorsivo, le ragioni fondanti della
deliberazione democratica.
39. W. E. Scheuerman, “Between Radicalism and Resignation: Democratic Theory in Habermas’s
Between Facts and Norms”, in Habermas: A Critical Reader, a cura di P. Dews, Oxford, New York:
Wiley-Blackwell, 1999. Contro questo tipo di interpretazioni vedi: S. Grodnick, “Rediscovering Radical Democracy in Habermas’s Between Facts and Norms”, Constellations 12, no. 3 (2005):
392-408. Il problema è che gli elementi “socialisti” nella visione habermasiana, ben evidenziati da
Scheuerman (pp. 160-161), non trovano una compiuta realizzazione non semplicemente perché, invecchiando, Habermas sia diventato meno radicale, bensì perché inserirli nella teoria democratica
come finalità contenutistiche sarebbe in patente contrasto con l'ideale dell'auto-organizzazione dei
cittadini.
40. Tornerò su questo punto, vedi infra, p. 153 e pp. 209 ss.
41. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 359-62.
Parte seconda: Temi e problemi
- 89 -
3.2. Liberalismo, ragione pubblica e deliberazione
La relazione di Rawls con la democrazia deliberativa è in parte problematica. Talvolta è considerato un sostenitore perfino paradigmatico della concezione,42 talaltra
ne è escluso «perché, anche se discute alcuni aspetti della democrazia, la sua non è
di per sé una teoria democratica».43 Certamente, almeno due fattori contribuiscono
ad allontanare Rawls dal mainstream deliberativo. In primo luogo il fatto che, lo si è
già notato, egli sia giunto tardi a definirsi come sostenitore della democrazia deliberativa.44 Inoltre, il filosofo statunitense si è sempre mosso sul piano della teoria normativa, distante dall’intreccio di metodologie molteplici che ha caratterizzato l’approccio deliberativo, ma che sarebbe stato incompatibile con la pretesa di elaborare
una concezione politica indipendente (freestanding).
Tuttavia, anche considerando questi aspetti, la rilevanza dell’opera di Rawls per
la democrazia deliberativa non può essere sminuita. In primo luogo, Rawls è stato
tra i principali artefici della “riabilitazione” della filosofia politica normativa, senza
la quale la stessa svolta deliberativa non sarebbe stata affatto possibile.45 Inoltre, le
idee centrali di una parte consistente dei teorici deliberativi sono direttamente tratte
dalla sua filosofia. Evitando di tentare un riassunto in poche righe del pensiero di
Rawls, è su queste specifiche idee che conviene concentrarsi, perché è attorno ad esse
che giocano le giustificazioni impiegate dai liberal-deliberativi. Tali limiti nell’esposizione della filosofia rawlsiana non sono comunque pregiudizievoli, dato che l’autore
stesso – su questo punto con un atteggiamento diametralmente opposto a quello del
discorsivismo – insiste spesso sulla “modularità” delle proprie teorie e sul fatto che il
Liberalismo politico, che qui interessa più che non la concezione della giustizia come
equità, non sia una teoria comprensiva, neppure nel senso di una concezione morale
non metafisica come quella precedentemente presentata in Una Teoria della
giustizia.
42. Vedi ad esempio: A. S. Laden, Reasonably Radical: Deliberative Liberalism and the Politics of
Identity, Ithaca NY: Cornell University Press, 2000; S. Freeman, “Deliberative Democracy: A Sympathetic Comment”, Philosophy and Public Affairs 29, no. 4 (2000): 371-418.
43. S. Chambers, “Deliberative Democratic Theory”, Annual Review of Political Science 6 (2003),
p. 308, traduzione mia. Che l’esclusione sia in qualche misura arbitraria è comunque riconosciuto
nel medesimo articolo.
44. Vedi sopra, n. 60, p. 60.
45. Vedi sopra, § 1.1.2, pp. 10 ss. Ciò è riconosciuto anche da chi, troppo nettamente, esclude
Rawls dal campo deliberativo: M. Saward, “Rawls and Deliberative Democracy”, in Democracy as
Public Deliberation, a cura di M. Passerin d’Entrèves, New Brunswick NJ: Transaction Publishers,
2006.
- 90 -
3. Le ragioni per deliberare
Rawls accosta esplicitamente il proprio concetto di ragione pubblica alla democrazia deliberativa nel saggio Un riesame dell’idea di ragione pubblica, che è una
rielaborazione della concezione alla luce delle obiezioni sollevate dalla trattazione
offertane nel precedente Liberalismo politico.46 Nella ragione pubblica si troverà
dunque il motivo per sostenere la deliberazione da un punto di vista liberale. Per
comprendere il significato dell’idea di ragione pubblica, è bene partire dalle stesse
parole di Rawls:
Una società politica [...] ha un certo modo di formulare i suoi piani, assegnare un
ordine di priorità ai suoi fini e prendere le proprie decisioni tenendone conto. Il
modo in cui fa queste cose è la sua ragione; e anche la sua capacità di farle lo è,
benché in un senso diverso – quello di un potere morale e intellettuale le cui radici
stanno nelle capacità dei suoi membri umani.
Non tutte le ragioni sono ragioni pubbliche: ci sono anche quelle non pubbliche
delle chiese, delle università e di molte altre associazioni della società civile. [...] la
ragione pubblica è pubblica in tre sensi: come ragione dei cittadini in quanto tali è
ragione del pubblico; è soggetta al bene pubblico e alla giustizia fondamentale; è
pubblica nella natura e nel contenuto, che sono dati dagli ideali e princìpi espressi
dalla concezione che la società ha della giustizia politica, e viene pubblicamente gestita su questa base.47
Inoltre, la struttura dell’idea di ragione pubblica è caratterizzata da cinque
aspetti:
1) le questioni politiche fondamentali cui si applica; 2) le persone per le quali è
valida (gli eletti e i candidati alle cariche pubbliche); 3) il suo contenuto, costituito
da una famiglia di concezioni politiche della giustizia ragionevoli; 4) il ricorso a queste concezioni nelle discussioni sulle norme coercitive da promulgare in quanto elementi del diritto legittimo di un popolo democratico; e 5) l’esame che i cittadini
conducono sui princìpi che derivano dalle loro concezioni della giustizia, un esame il
cui scopo è verificare se essi soddisfino il criterio di reciprocità.48
46. Proprio l’ampiezza, talvolta la confusione, del dibattito sull’idea di ragione pubblica ha contribuito a rendere problematico l’accostamento di Rawls alla deliberazione. Si potrebbe osservare, ad
esempio, la variabilità tra gli usi del concetto in diversi contributi: J. Bohman, “Citizenship and
Norms of Publicity: Wide Public Reason in Cosmopolitan Societies”, Political Theory 27, no. 2
(1999): 176-202; T. Rättilä, “Deliberation as public use of reason – or, what public? whose reason?”, in Democratic Innovation, a cura di M. Saward, New York: Routledge, 2000; C. List, “The
Discursive Dilemma and Public Reason”, Ethics 116, no. 2 (2006): 362-402; F. Peter, “Rawls’ Idea
of Public Reason and Democratic Legitimacy”, Journal of International Political Theory 3, no. 1
(2007): 129-43.
47. J. Rawls, Liberalismo Politico, p. 182.
48. J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica,” p. 177.
Parte seconda: Temi e problemi
- 91 -
Il criterio di reciprocità definisce il contenuto normativo della ragione pubblica
dal punto di vista dell’attore politico, vale a dire l’obbligo di sostenere le proprie
opinioni con argomenti accettabili dal punto di vista di tutte le dottrine ragionevoli:
... la concezione deliberativa della democrazia [...] limita le ragioni che i cittadini
possono utilizzare nell’appoggiare atti legislativi a quelle ragioni che sono coerenti
con il riconoscimento degli altri cittadini come eguali.49
Attraverso questa formulazione il nesso appare ovvio: l’idea di ragione pubblica
definisce le norme che chi delibera dovrebbe rispettare, di converso la deliberazione
offre condizioni e prassi appropriate per l’esercizio della ragione pubblica.50 Tuttavia
è proprio a partire da qui che il punto di vista di Rawls diverge parzialmente da
quello più tipico della democrazia deliberativa.
Dopo la pubblicazione di Liberalismo politico, la discussione ha riguardato soprattutto le implicazioni del criterio di reciprocità – che definisce quali concezioni politiche siano ragionevoli e perciò accettabili – ed i confini più appropriati per il «foro
politico pubblico», come ambito nel quale la ragione pubblica dovrebbe ottenere piena validità. Sulla seconda questione converge anche l’interesse della democrazia deliberativa, ma proprio a tale riguardo la posizione di Rawls risulta eccentrica. Ciò appare evidente se si predilige la caratterizzazione più “ristretta” del foro politico.51
Tuttavia, se è vero che Rawls offre anche una concezione più ampia dell’ambito della
ragione pubblica, questa appare comunque restrittiva rispetto alla maggior parte
delle teorie deliberative.
La differenza di accento si comprende meglio esaminando le divergenze riguardo il
primo punto, le implicazioni del criterio di reciprocità. Rawls, ponendosi idealmente
nella posizione di un partecipante al pubblico dibattito,52 si è preoccupato soprattutto della tipologia di argomenti accettabili per tutti i cittadini; in un primo momento
49. J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas,” pp.102-03.
50. È anche chiaro come, all’atto pratico, il criterio di reciprocità sia ben compatibile, se non proprio coincidente, con i princìpi del discorsivismo. Si veda d’altronde: J. Rawls, “Un riesame
dell’idea di ragione pubblica,” p. 189.
51. Cristina Lafont individua lo spostamento di accento in Un riesame dell'idea di ragione pubblica, nel quale il foro politico appare limitato ai pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni
(o comunque candidati ad una carica politica, come specificato anche nel brano sopra citato), rispetto al Liberalismo politico, dove i doveri della ragione pubblica erano estesi anche ai comuni cittadini nella misura in cui si occupassero di politica. Vedi C. Lafont, “Religion in the Public Sphere:
Remarks on Habermas’s Conception of Public Deliberation in Postsecular Societies,” pp. 241-43. Si
trovano peraltro elementi per pensare che i due aspetti coesistessero già all’altezza di Liberalismo
politico, ma qui non è particolarmente rilevante discutere quando siano effettivamente apparsi negli
scritti di Rawls.
52. Ricordando peraltro che «Nella giustizia come equità non esistono esperti di filosofia. Per carità di Dio!»: J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas,” p. 99. Vedi anche: J. Rawls, Lezioni di storia
della filosofia politica, pp. 1- 2.
- 92 -
3. Le ragioni per deliberare
apparentemente inclinando verso l’esclusione tout court delle dottrine comprensive,
successivamente ammettendo anche argomenti derivati da queste, purché in qualche
modo “traducibili” nei termini della ragione pubblica. Al di là dell’esito della questione, comunque tuttora in discussione, quel che qui importa è che Rawls abbia
trattato della ragione pubblica prevalentemente nella chiave dei limiti contenutistici
che, in negativo, essa imporrebbe al dibattito politico dal punto di vista di ciascun
partecipante.53 Di converso, la democrazia deliberativa è perlopiù interessata ai risultati che l’applicazione delle sue procedure dovrebbe, in positivo, produrre. Così, per
Rawls si tratta di stabilire quali argomenti siano appropriati per la ragione pubblica,
mentre per i liberal-deliberativi il problema consiste piuttosto nel definire un modello di discussione politica che conduca ad esiti ragionevolmente giusti. Questi due
aspetti, per così dire negativo e positivo, non sono incompatibili,54 ma l’opposto
punto di partenza ha di fatto favorito sviluppi difformi, spiegando d’altronde l’apparente divergenza circa l’appropriata ampiezza del foro politico. Nell’offrire una descrizione restrittiva del foro politico pubblico, luogo dove vigono specifici limiti altrimenti assenti, Rawls vuole in realtà lasciare il maggior spazio possibile alla
comunicazione libera da tali vincoli, tentando di soddisfare la medesima esigenza di
inclusività che spinge altri teorici ad ampliare l’ambito della deliberazione.55
Chiarite le differenti sfumature entro il comune quadro normativo, guadagnato il
significato di deliberazione democratica (opportunamente elaborata secondo un criterio inclusivo di reciprocità) come “metodo” della ragione pubblica, resta da svolgere questo nesso circa il motivo per cui le norme della ragione pubblica e della democrazia deliberativa meriterebbero d’essere rispettate. Per Rawls la ragione
pubblica – forse meglio detto: il fatto che la ragione di una società sia pubblica –
consente di giustificare, in modo accettabile da tutti i punti di vista ragionevoli, le
scelte collettive che saranno da applicare coercitivamente, nonostante i problemi po53. Perciò, non come regole istituzionalizzate, vedi: C. Mancina, La laicità al tempo della bioetica,
Bologna: il Mulino, 2009, p. 135.
54. L’ambito della ragione pubblica potrebbe coincidere con quello della deliberazione in condizioni
ideali; vedi sopra, p. 38, nota 95.
55. Per una interpretazione su questa linea della ragione pubblica rawlsiana vedi: E. Charney, “Political Liberalism, Deliberative Democracy, and the Public Sphere”, The American Political Science
Review 92, no. 1 (1998): 97-110. Tra i liberal-deliberativi, probabilmente Guttman e Thompson
sono quelli che più enfatizzatno l’inclusività della deliberazione (anche se non sono poi del tutto
conseguenti), vedi ad esempio: A. Gutmann e D. Thompson, Why Deliberative Democracy?, p. 9.
La necessità di conciliare le esigenze normative della ragione pubblica e quelle inclusive della deliberazione può condurre, anche a partire da posizioni più vicine a quelle di Rawls, a concezioni simili alla democrazia “a doppio binario” di Habermas, distinguendo tra ambiti in cui valgono regole
formali stringenti e la più ampia discussione nell’opinione pubblica, vedi: D. Estlund, “Deliberation
Down and Dirty: Must Political Expression Be Civil?”, in The Boundaries of Freedom of Expression and Order in American Democracy, a cura di T. R. Hensley, Kent OH: Kent State University
Press, 2001; D. Estlund, “Democracy and the Real Speech Situation”.
Parte seconda: Temi e problemi
- 93 -
sti dal fatto del pluralismo nelle società contemporanee. Altrimenti detto, il rispetto
del criterio di reciprocità è necessario affinché una società pluralista possa essere ragionevolmente stabile, ossia tale per le giuste ragioni e non soltanto in base ad un
compromissorio modus vivendi.56 Coerentemente, per i nostri liberali la democrazia
deliberativa costituisce prima di tutto un metodo moralmente valido per giustificare
le decisioni politiche, nonostante la permanente discordia nel merito. Così, secondo
Gutmann e Thompson:
Quando un disaccordo non è deliberativo (per esempio riguardo una politica che
legalizza la discriminazione contro i neri e le donne), i cittadini non hanno alcun
obbligo di rispettare moralmente i propri avversari. In un disaccordo deliberativo
(per esempio riguardo la legalizzazione dell’aborto), i cittadini dovrebbero tentare
di andare incontro ai loro avversari nella misura più ampia possibile senza compromettere le proprie convinzioni morali.57
Ma a questo punto – essendo la ragionevole giustificazione di una scelta politica
definita dal rispetto del criterio di reciprocità, declinato nel senso dell’accettabilità
dal punto di vista di tutte le dottrine ragionevoli – il problema diviene capire se,
perché e in che modo la deliberazione democratica rappresenti il miglior mezzo per
ottenere questo risultato. Perciò, nonostante il legame tra la deliberazione e l’idea di
ragione pubblica, i problemi relativi alla giustificazione delle due concezioni si disaccoppiano, d’altronde in piena coerenza con la già ricordata struttura modulare di
queste teorie liberali. Tale configurazione corrisponde, in un certo senso ripetendola
ricorsivamente, alla relazione tra il liberalismo politico e la giustizia come equità.
Come Rawls tenta di elaborare la propria concezione politica in modo che sia accettabile dal punto di vista non solo della propria Teoria della giustizia, ma anche delle
diverse dottrine comprensive (purché ragionevoli), così la democrazia deliberativa
potrebbe offrire un metodo decisionale compatibile con idee differenti da quella rawlsiana di ragione pubblica, a patto che abbiano una configurazione normativa analoga. Dunque, per quel che riguarda la giustificazione, ciò che importa è che vi sia un
ideale di giustizia e/o correttezza,58 il cui contenuto può essere variamente articolato
indipendentemente della procedura deliberativa, sulla base del quale misurare la
qualità degli esiti di quest’ultima.
56. Vedi: J. Rawls, Liberalismo Politico, p. 187. La giustificazione normativa dell’obbligo politico è
però sempre stata centrale per Rawls, vedi: J. Rawls, Una teoria della giustizia, cap. 6.
57. A. Gutmann e D. Thompson, Democracy and Disagreement, p. 3.
58. S’incontra sempre un problema di traduzione rispetto alla contrapposizione justice/righteness
(talvolta resa come ‘giustizia/giustezza’) che peraltro anche in inglese ospita sfumature di significato alquanto diverse.
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3. Le ragioni per deliberare
Così, dal punto di vista liberale la deliberazione si configura primariamente come
un ideale normativo, orientato in senso morale, lasciando perlopiù cadere l’aspetto
ricostruttivo che, invece, caratterizza l’approccio discorsivo. Perciò si può dire che:
L’idea di democrazia deliberativa serve più come un ideale politico che come un
concetto esplicativo. Per gli scienziati politici questa può essere una ragione sufficiente per non prestare alcuna attenzione a quest’idea. Per i filosofi della politica
resta in questione la realizzabilità dell’ideale e se esso possa giocare un ruolo nello
spiegare l’agire politico.59
Entro questo spazio concettuale, il legame tra la deliberazione e i suoi risultati
può essere valutato secondo tre modalità principali. Si può procedere attraverso un
giudizio, sostanzialmente morale, di casi politici concreti, come fanno Amy Gutmann
e Dennis Thompson nelle loro due opere più importanti.60 Oppure, non necessariamente in alternativa, è possibile rivolgersi alla strumentazione empirica delle scienze
sociali per misurare in modo presuntivamente affidabile se la deliberazione produca
o meno i risultati attesi.61 Come precedentemente notato (§ 2.3), questo secondo approccio incorre in una contraddizione tra i princìpi deliberativi e i metodi utilizzabili
per misurarne gli effetti. Indipendentemente da ciò, queste prime due opzioni incontrano entrambe un medesimo problema. Dato che non si tratta di giustificare singole
scelte politiche – sarebbe tautologico affermare che ciò dovrebbe sempre accadere
entro una discussione argomentativa tra i soggetti interessati, giacché non si dà altra
sede per presentare qualsivoglia giustificazione valida – bensì la democrazia deliberativa come procedura sempre aperta alla sgradevole possibilità di avallare decisioni
contenutisticamente ingiuste e/o errate, è chiaro che nessuna quantità di giudizi morali o indagini empiriche su casi specifici potrà rappresentare altro che una mera collezione di esempi ben poco conclusivi.
Considerando in modo tanto diretto il nesso tra la procedura deliberativa e i suoi
risultati, diventa peraltro impossibile riconoscere la legittimità di qualsiasi decisione
con la quale ci si trovi discordi, almeno oltre un certo limite, sul piano contenutisti59. S. Freeman, “Deliberative Democracy: A Sympathetic Comment,” p. 373, traduzione mia.
60. A. Gutmann e D. Thompson, Democracy and Disagreement; A. Gutmann e D. Thompson,
Why Deliberative Democracy?.
61. Andreas Follesdal, ad esempio, dopo aver ricostruito il modello liberal-contractarian di democrazia deliberativa, invoca esplicitamente la necessità di metterlo alla prova con test empirici per
suffragarne la validità: A. Follesdal, “The Value Added by Theories of Deliberative Democracy,” p.
68. Sulla stessa linea è stata prodotta varia letteratura dedicata al confronto tra le prospettive dei
teorici e quelle degli scienziati sociali empirici, vedi ad esempio: D. Thompson, “Deliberative Democratic Theory and Empirical Political Science”; D. M. Ryfe, “Does Deliberative Democracy
Work?”; M. X. Delli Carpini, et al., “Public Deliberation, Discursive Participation, and Citizen Engagement”; S. Chambers, “Measuring Publicity’s Effect: Reconciling Empirical Research and Normative Theory”; M. Neblo, “Thinking through Democracy: Between the Theory and Practice of
Deliberative Politics”, Acta Politica 40, no. 2 (2005): 169-81.
Parte seconda: Temi e problemi
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co.62 In altre parole, contro le intenzioni iniziali, si finisce per offrire una teoria del
primo ordine, che raccomanda come agire politicamente, anziché una del secondo ordine, descrivente un quadro nel quale ragionevolmente discutere i disaccordi nel merito. Non si giustifica così la deliberazione democratica, ma al più soltanto la correttezza di una specifica linea politica. Una simile incoerenza – anche prescindendo da
considerazioni più complesse circa la difficoltà di definire i valori che dovrebbero
fungere da criteri di giudizio e di comprendere quale sia in questi casi la posizione
dalla quale il teorico sostiene le proprie idee – confuta queste posizioni già dall’interno del loro stesso orizzonte argomentativo.
A partire dalla necessità di superare questa impasse, può darsi una terza strategia
di giustificazione, teoreticamente più raffinata, come il modello del proceduralismo
epistemico elaborato da David Estlund.63 Estlund, si vedrà più dettagliatamente nel
prossimo paragrafo, intende perseguire una via mediana tra il puro proceduralismo e
gli approcci contenutistici, giustificando la democrazia deliberativa non sulla base
del giudizio (morale o tecnico-empirico che sia) di singoli casi, bensì dimostrando
come la procedura democratica sia complessivamente la più affidabile dal punto di
vista epistemico, soltanto però tra quelle moralmente accettabili. Benché Estlund
svolga la propria argomentazione criticando o modificando alcuni punti rilevanti
delle concezioni liberali precedenti,64 la logica del proceduralismo epistemico è coerente con la tendenza di fondo del liberalismo rawlsiano, offrendo l’articolazione più
precisa della medesima concezione del nesso tra giustizia procedurale e contenutisti-
62. Critiche simili sono state avanzate più volte contro Gutmann e Thompson, vedi: S. Fish, “Mutual Respect as a Device of Exclusion”, in Deliberative Politics, a cura di S. Macedo, New York,
Oxford: Oxford University Press, 1999. La risposta offerta dai due autori, tentando di evadere
l’obiezione basandosi nuovamente sulla valutazione di un caso singolo, è talmente fuori bersaglio da
rendere ancor più chiara la rilevanza della critica: A. Gutmann e D. Thompson, “Democratic Disagreement”, in Deliberative Politics, a cura di S. Macedo, New York, Oxford: Oxford University
Press, 1999, pp. 257-59. Ulteriori critiche contro l’impiego nella teoria liberal-deliberativa del
concetto di «ragioni che tutti possono/potrebbero accettare» si trovano in: B. Yack, “Rhetoric and
Public Reasoning”; J. Bohman e H. S. Richardson, “Liberalism, Deliberative Democracy, and
“Reasons that All Can Accept””, The Journal of Political Philosophy 17, no. 3 (2009): 253-74.
63. D. Estlund, Democratic Authority. Il medesimo modello era però già stato delineato in un articolo di molto precedente, che ne chiariva le connessioni sia con il liberalismo rawlsiano sia con il
panorama deliberativo in generale: D. Estlund, “Who’s Afraid of Deliberative Democracy? On the
Strategic/Deliberative Dichotomy in Recent Constitutional Jurisprudence.”.
64. L’autore traduce la ragione pubblica e la reciprocità rawlsiane nel più asettico concetto di “posizioni qualificate”, ed inverte la considerazione dei beni primari, prendendo la capacità di evitare i
mali primari (una tendenza diffusa tra i teorici influenzati da Rawls, vedi anche: S. Veca, La priorità del male e l’offerta filosofica, Milano: Feltrinelli, 2005) come indice dei risultati della democrazia; inoltre, già in precedenza aveva rifiutato la giustificazione della democrazia in termini contrattualisti: D. Estlund, “The Democracy/Contractualism Analogy”, Philosophy and Public Affairs 31,
no. 4 (2003): 378-412.
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3. Le ragioni per deliberare
ca. Rawls ha descritto nel modo più chiaro questa connessione in un passaggio della
sua Risposta a Jürgen Habermas, affermando:
... la giustizia di una procedura [...] dipende dalla giustizia dei suoi probabili esiti, o dalla giustizia sostantiva. La giustizia procedurale e la giustizia sostantiva sono
dunque collegate e non separate.
E subito dopo, portando il caso del processo penale come esempio di giustizia
procedurale imperfetta:
... la procedura del processo penale non sarebbe giusta – non sarebbe una procedura per un equo processo – se non fosse intelligentemente congegnata in modo da
fornire la decisione corretta almeno buona parte delle volte. Sappiamo che vi saranno degli errori [...] tuttavia questi errori non possono essere troppo frequenti, altrimenti la procedura processuale cessa di essere giusta.65
Soltanto allontanando di un grado, per così dire, la valutazione del contenuto da
quella della procedura, sarebbe possibile giustificare quest’ultima senza rimetterla in
questione in ciascuna singola istanza, evitando al contempo di cadere in una posizione puramente procedurale – che per la prospettiva liberale sarebbe inaccettabile,
sia perché lascerebbe alla deliberazione anche la scelta sui valori fondamentali (come
la libertà individuale o un minimo di equo benessere, considerati presupposti necessari e indiscutibili), sia perché non prevederebbe criteri indipendenti per giudicare la
giustizia degli esiti. Per questi motivi è corretto considerare la teoria di Estlund
come il tentativo più avanzato di giustificare la deliberazione da un punto di vista liberale, assumendo al contempo che se una critica è valida contro questo approccio,
lo sarà a fortiori contro quelli che, analogamente impostati, non sono però articolati
altrettanto coerentemente né con le premesse del liberalismo né con quelle della democrazia deliberativa.
***
La struttura della giustificazione liberale della deliberazione, nei suoi punti centrali,
è dunque opposta rispetto a quella del discorsivismo – nonostante i molti aspetti comuni che si possono trovare su altri piani, a partire dalla constatazione del fatto del
pluralismo.
In primo luogo, la deliberazione non può essere sostenuta come parte di una
concezione filosofica comprensiva, giacché ciò sarebbe incompatibile con la necessità
di offrire argomenti che tutti, purché da un punto di vista ragionevole, potrebbero
accettare. In questo modo l’approccio ricostruttivo che caratterizza il discorsivismo è
escluso, conducendo ad una teoria normativa, che semmai – per essere utopica e ra65. J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas,” pp. 95-96. Rawls ed Estlund condividono peraltro
una comune ispirazione nell’articolo di Cohen del 1986: J. Cohen, “An Epistemic Conception of
Democracy”.
Parte seconda: Temi e problemi
- 97 -
dicale sì, ma ragionevolmente66 – si porrà ex-post il problema della realizzabilità
delle proprie prescrizioni.
Perciò, i liberal-deliberativi possono fare a meno dell’oneroso apparato filosofico
e/o sociologico necessario per fondare le posizioni discorsiviste, dovendo tuttavia basare la giustificazione della deliberazione su di un nesso con i suoi risultati effettivi – quindi, anche se non necessariamente in modo immediato, su un approccio teleologico nel senso precedentemente descritto. Questi risultati sono valutati sia
moralmente sia cognitivamente, ma con la tendenza a far collidere i due piani. La
connessione degli esiti con la validità della procedura deliberativa può essere pensata
secondo diverse modalità, tra le quali la più promettente è quella del «proceduralismo epistemico» che, recentemente elaborato da Estlund, corrisponde tuttavia, almeno nella struttura, alla più coerente traduzione democratico-deliberativa del liberalismo rawlsiano – benché la relazione della deliberazione con la ragione pubblica sia
da articolare nella sua complessità, per evitare i fraintendimenti che conseguirebbero
dal frettoloso appiattimento dell’una sull’altra.67
3.3. Giustificare e/o fondare la democrazia deliberativa
Compreso il significato delle due linee argomentative, si tratta ora di metterle a
confronto per analizzare se, ed a quali condizioni, siano effettivamente in grado di
offrire ragioni adeguate per la democrazia deliberativa. In primo luogo sarà introdotto più dettagliatamente il proceduralismo epistemico, cui si è accennato nel precedente paragrafo, quale più avanzato tentativo di giustificazione della democrazia deliberativa in chiave liberale. La critica dei problemi in cui incorre tale concezione
sarà quindi gradualmente ampliata fino a chiarire il senso in cui è in generale l’approccio teleologico alla giustificazione ad essere incompatibile con la democrazia deliberativa. Perciò, si dovrà riesaminare l’opzione procedurale e deontologica offerta
66. A. S. Laden, Reasonably Radical; D. Estlund, Democratic Authority, cap. 14. Rawls descrive la
propria concezione di ‘utopia realistica’ nell’introduzione a: J. Rawls, Il diritto dei popoli, Milano:
Edizioni di Comunità, 2001.
67. Ad esempio, Rostbøll inizia considerando deliberazione e liberalismo come se pretendessero di
essere la medesima cosa, per poi finire col concludere, poco sorprendentemente, che non vi sia affatto una concezione liberale della democrazia deliberativa – il che potrebbe essere vero, ma certo non
si spiega attraverso una petitio principii – vedi: C. F. Rostbøll, Deliberative Freedom, cap. 4. Analoghi equivoci sono comuni nella letteratura deliberativa, si veda anche il modo in cui la Benhabib
descrive e critica la posizione liberal-rawlsiana in: S. Benhabib, “Toward a Deliberative Model of
Democratic Legitimacy,” pp. 74 ss. Più produttivo è il punto di vista di Rummens, che punta sul
carattere strumentale, che qui rientra nell’ambito del teleologico, che la deliberazione rischia di assumere nella prospettiva liberale, vedi: S. Rummens, “Democratic Deliberation as the Open-Ended
Construction of Justice”, Ratio Juris 20, no. 3 (2007): 335-54.
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3. Le ragioni per deliberare
dal discorsivismo, per cogliere se, a quali condizioni, e con quali articolazioni interne, essa possa fondare la teoria della deliberazione.
3.3.1 Critica delle giustificazioni liberali e teleologiche
Il «philosophical framework» offerto da Estlund si propone di fornire una giustificazione per l’autorità, definita come: «il potere morale di un agente (soprattutto lo
stato) di obbligare o vietare moralmente azioni altrui attraverso comandi».68 Con ciò
Estlund si inscrive nel solco non soltanto di Rawls, ma dell’intera tradizione liberale,
da sempre alle prese con il problema di tenere assieme i princìpi, moralmente intesi,
della libertà e del consenso con la pragmatica necessità della coercizione.
A parere di Estlund, solo due sono i modi basilari di giustificare l’autorità di un
sistema decisionale: attraverso l’intrinseca giustizia delle sue procedure (intesa come
un valore in sé), oppure in forza della correttezza dei suoi risultati. Entrambi i modi,
se intesi come puri, fallirebbero. Il proceduralismo cadrebbe se non altro sul fatto di
non poter dare buone ragioni della differenza tra una decisione democratica e una
scelta casuale, giacché entrambe rispetterebbero il requisito di una giustizia procedurale pura.69 In effetti, secondo Estlund, chi sostiene giustificazioni procedurali della democrazia non potrebbe fare a meno di includervi alcuni riferimenti contenutistici a criteri etico-cognitivi, comunque esterni alla procedura stessa.70 Viceversa,
subordinare l’autorità democratica alla correttezza delle decisioni costituirebbe una
teoria “troppo” epistemica. Anche concedendo che vi siano, in ciascuna occasione,
delle decisioni obiettivamente corrette, infatti, ci sarebbe un ragionevole disaccordo
tanto su quali esse siano, quanto sugli eventuali “esperti” adeguati per individuarle.71 D’altronde, per non dissolverne il concetto stesso, è necessario che l’autorità sia rispettata anche quando erra – sia pure con un limite, comunque non specificato, al livello di ingiustizia sopportabile in ciascun caso – il che non si darebbe se la
si fondasse interamente sulla correttezza di ciascuna decisione.
Non considerando sostenibili le giustificazioni di tipo “puro”, Estlund propone
una mediazione nella forma del suo proceduralismo epistemico. L’analogia, di nuovo
molto rawlsianamente, è con il sistema delle giurie nei processi: non c’è in alcun sin68. D. Estlund, Democratic Authority, p. 2.
69. Ivi, cap. 4.
70. Ivi, pp. 87 ss. Questo tipo di teoria è etichettato come deep deliberative democracy, in modo simile, se non identico, alla categorizzazione proposta in: F. Michelman, “How Can the People Ever
Make the Laws? A Critique of Deliberative Democracy”. Si vedrà più avanti perché questa non sia
una critica valida.
71. Estlund traduce l’idea rawlsiana di ragionevolezza in quella, più asettica, dei «punti di vista
qualificati», ma non ritiene di dover specificare quale sia il criterio di accettabilità, vedi: D. Estlund, Democratic Authority, cap. 3.
Parte seconda: Temi e problemi
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golo caso la garanzia che la decisione sarà esatta, nondimeno l’autorità del sistema
giudiziario si basa sul fatto che esso, nell’insieme, sia relativamente efficiente nel
pronunciare verdetti corretti. Così, la democrazia può giustificare la propria autorità
se le sue procedure tendono, nell’insieme, a produrre risultati cognitivamente migliori dei possibili sistemi alternativi. Estlund deve quindi proseguire nell’argomentare,
da un lato, come la democrazia sia più efficace degli altri sistemi moralmente accettabili e, dall’altro, come le alternative che plausibilmente potrebbero dare risultati
migliori siano da escludere perché non accettabili da tutti i punti di vista qualificati.
Gli argomenti offerti in positivo sono minimali: la democrazia sarebbe superiore
non già nel conseguire i beni primari di rawlsiana memoria, ma nell’evitare i mali
peggiori (guerre, carestie ecc.) riconoscibili come tali da tutti i punti di vista qualificati.72 Questa capacità poggerebbe interamente sul valore cognitivo che, seppure debole, non si potrebbe negare inerisca allo scambio di ragioni e informazioni tra i partecipanti al dibattito democratico – ed è qui che entra in gioco lo specifico ruolo
epistemico della deliberazione. Così, Estlund può individuare, attraverso un’argomentazione relativamente poco onerosa, un modello deliberativo di democrazia, che
è sì procedurale, ma giustificato grazie ad un (modesto) valore epistemico che si pretende di poter giudicare indipendentemente dalla procedura stessa. Resta però da
esaminare la possibilità di sistemi politici non democratici che potrebbero essere in
grado di produrre risultati migliori.
Tra le alternative alla democrazia, solo una è considerata degna di essere affrontata nel dettaglio. Si tratta della cosiddetta «epistocrazia degli istruiti», traduzione
contemporanea della proposta di John Stuart Mill di fornire un numero maggiore di
voti ai cittadini più colti.73 Questo esempio differisce dal governo degli “esperti”,
perché non avanza la pretesa di individuare in modo non controverso chi siano costoro, ma soltanto quella più semplice di indicare un ampio gruppo la cui competenza sarà pressoché certamente maggiore della media dell’intera popolazione. Dunque,
se il punto di arrivo dev’essere l’affidabilità epistemica delle procedure, perché non
conferire maggior peso al voto di alcuni cittadini, che saranno senz’altro più capaci
degli altri? La risposta di Estlund è che l’epistocrazia fallirebbe rispetto al criterio
di accettabilità. Infatti, il gruppo degli “educati” può ben essere poco rappresentativo degli interessi e delle preoccupazioni dell’insieme della popolazione e, cosa decisi72. Invero, ciò è presentato soltanto come un possibile esempio del caso più generale che prevede
che il criterio di giustizia possa anche rimanere indefinito, una posizione giustamente criticata (nel
quadro però di un accostamento alla prospettiva di Habermas, che mi sembra, invece, fuorviante)
in: F. Michelman, “Constitutionalism as Proceduralism: A Glance at the Terrain”, in Public Law
and Politics, a cura di E. A. Christodoulidis e S. Tierney, Aldershot: Ashgate, 2008.
73. Vedi: J. S. Mill, Considerazioni sul governo rappresentativo, cap. 8. Circa l’interpretazione di
questo controverso aspetto del pensiero di Mill si veda: N. Urbinati, L’ethos della democrazia, cap.
3.
- 100 -
3. Le ragioni per deliberare
va, correggere tale deviazione potrebbe rivelarsi impossibile e/o indesiderabile. Perciò, affidare un maggior potere decisionale al settore più colto della popolazione non
sarebbe accettabile da tutti i punti di vista qualificati, neanche nell’assai improbabile eventualità per cui la maggiore abilità politica del gruppo in questione fosse
indiscutibile.
***
La posizione di Estlund si presenta inizialmente promettente. In primo luogo perché
è relativamente semplice, per quanto possa esserlo una argomentazione del genere,
cercando di recuperare in modo non ingenuo l’intuitivo nesso tra la bontà di un sistema decisionale e la qualità dei suoi esiti, senza appellarsi a problematiche indagini empiriche (non però escluse in linea principio) per provare la propria correttezza.
L’argomentazione è costruita in modo da dover sopportare il minimo onere della
prova possibile – in particolare proprio riguardo il suo aspetto deliberativo – non necessitando di giustificare una concezione filosofica comprensiva, e pretendendo perfino meno del liberalismo rawlsiano sul piano contenutistico. Ad un esame più attento, tuttavia, il proceduralismo epistemico incorre in una serie di problemi, tra loro
concatenati e nell’insieme decisivi.
Per cominciare, le condizioni che un sistema politico, secondo questa concezione,
deve soddisfare sono precisamente riassunte nelle parole di Elizabeth Anderson:
La giustificazione della forma di governo deve (1) basarsi su termini accettabili
da tutti i punti di vista ragionevoli o qualificati, (2) dimostrare che la forma di governo ha una possibilità migliore del caso di scegliere politiche giuste, e (3) dimostrare che nel far questo sia migliore delle altre forme di governo.74
Tuttavia, come bene nota la stessa Anderson, l’argomentazione di Estlund poggia
pressoché interamente sul primo criterio, che pure non contiene alcun riferimento al
valore epistemico della democrazia. Secondo la linea di critica della Anderson – che
termina con una preferenza per un modello di democrazia deliberativa più vicino al
pragmatismo75 – il secondo criterio è inutilizzabile, poiché, differentemente dall’esempio della giuria di un processo penale, nella maggior parte dei casi non è affatto possibile delimitare a priori quante e quali siano le possibili opzioni politiche, né quindi
74. E. Anderson, “An Epistemic Defense of Democracy: David Estlund’s Democratic Authority”,
Episteme 5, no. 1 (2008), p. 134, traduzione mia.
75. Una linea che trova sempre più sostenitori, ma che non è stata finora articolata al punto da essere distinguibile, in modo rilevante, dagli approcci concorrenti – i quali d’altronde, sul piano filosofico, già erano dichiaratamente debitori del pragmatismo americano. Oltre al citato contributo di
Honneth, si vedano: J. Bohman, Public Deliberation; M. Festenstein, “Deliberative Democracy and
Two Models of Pragmatism”; E. Anderson, “The Epistemology of Democracy”, Episteme 3, no. 1
(2006): 8-22; J. Kosnoski, “Artful Discussion”, Political Theory 33, no. 5 (2005): 654-77; A. Kadlec,
Dewey’s Critical Pragmatism, Lanham MD: Lexington Books, 2007; W. R. Caspary, “On Dewey,
Habermas and Deliberative Democracy”, Journal of Public Deliberation 4, no. 1 (2008): articolo 10.
Parte seconda: Temi e problemi
- 101 -
operare alcun confronto con una scelta casuale.76 Viceversa, il terzo criterio appare a
prima vista promettente, ma Estlund omette di impiegarlo in modo significativo per
evitare di esporsi ad un eccessivo onere della prova.77 Così, la pretesa di validità cognitiva non trova adeguato riscatto, di conseguenza non potendo valere come argomento per la democrazia deliberativa.
Cadendo l’aspetto propriamente epistemico, per giustificare la democrazia resta
soltanto il criterio dell’accettabilità da parte di tutti i punti di vista qualificati –
niente altro se non l’idea di ragione pubblica rawlsiana ulteriormente “purificata” da
qualsivoglia contenuto specifico. Così, la teoria liberale della deliberazione cadrebbe
nella paradossale alternativa tra il dissolversi, divenendo puramente formalistica, e il
rendere vere a posteriori le critiche già in precedenza (mal) dirette contro Rawls.78
Tentando di tradurre direttamente un principio morale nel criterio basilare di un sistema istituzionale, infatti, si darebbe ragione a chi critica il liberalismo perché, considerando alcuni valori come dati a prescindere dalla procedura politica, sarebbe antidemocratico ed ingiustificabilmente esclusivo verso chi tali valori non
condividesse.79 Per evitare questa overexclusion objection, Estlund costruisce il proprio concetto di accettabilità in modo estremamente formalistico. La pretesa che
una dottrina politica, per essere valida, debba essere accettata da tutti è considerata
contraddittoria, giacché non soddisferebbe i suoi stessi requisiti – ad esempio, Estlund non l’accetterebbe.80 Soltanto un criterio accettabile da tutti i punti di vista
76. Contro il confronto tra democrazia e scelta casuale proposto da Estlund sono state avanzate
varie altre critiche, vedi: G. Gaus, “Looking for the best and finding none better: the epistemic
case for deliberative democracy”, The Modern Schoolman 74 (1997): 277-84; T. Christiano, “Debate: Estlund on Democratic Authority”, The Journal of Political Philosophy 17, no. 2 (2009):
228-40.
77. Ad esempio, presentando solo come una congettura che la democrazia sia migliore delle alternative nell’evitare i mali primari, senza tentare per ciò una dimostrazione basata su dati empirici
(pur non escludendola in linea di principio), vedi: D. Estlund, Democratic Authority, cap. 9.
78. Vedi sopra, p. 97, nota 67.
79. Questo Estlund lo fa proprio letteralmente. Si prendano ad esempio le pungenti parole di
Chantal Mouffe: «... il liberalismo politico può provvedere al consenso tra persone ragionevoli che
per definizione sono persone che accettano i princìpi del liberalismo politico» – C. Mouffe, “Democracy, Power, and the “Political”,” p. 250, traduzione mia. Mentre Estlund afferma: «... una caratteristica che una persona deve avere per contare come qualificata è di accettare il criterio di accettabilità ...» – D. Estlund, Democratic Authority, p. 61, traduzione mia.
80. Ivi, p. 60. La contraddittorietà rileva soltanto ponendosi già all’interno di un quadro classicamente liberale, che presuppone il consenso come condizione necessaria per l’esercizio dell’autorità
politica, prevalentemente nel senso della coercizione ad opera dello Stato. Diversamente, non sarebbe affatto assurdo dire che tutti i punti di vista sono accettabili come contributi alla discussione, e nondimeno ritenere legittimo il potere politico che ottiene la maggioranza dei voti – persino a maggior ragione, visto che la conquista di tale maggioranza sarà avvenuta attraverso un
processo discorsivo da cui nessun punto di vista sia stato escluso, si veda il già citato: B. Manin,
“On Legitimacy and Political Deliberation”.
- 102 -
3. Le ragioni per deliberare
che esso stesso ammette potrebbe evitare una contraddittorietà del genere. Escluse
le alternative per questa via puramente formale,81 si ritiene stabilito che un non specificato criterio di accettabilità dovrebbe far parte della teoria della democrazia, secondo la forma generale:
AN (per “accettazione necessaria”): Nessuna dottrina è ammissibile come premessa in qualsivoglia parte di una giustificazione politica a meno che non sia accettabile per un certo insieme (reale o ipotetico) di cittadini, C, e non è richiesta l’accettazione da parte di nessun altro.82
Tentare di concretizzare un criterio del genere è però alquanto problematico. Definendo C in modo da individuare un insieme significativamente coeso, il criterio probabilmente sarebbe in grado di sopravvivere a se stesso, ma condurrebbe facilmente
a risultati paradossali, come:
◦ AN1: Nessuna dottrina è ammissibile come premessa in qualsivoglia parte di una
giustificazione politica a meno che non sia accettabile per l’insieme dei cittadini
appartenenti al partito Nazionalsocialista, e non è richiesta l’accettazione da
parte di nessun altro.
Magari i nazisti accetterebbero un criterio del genere, e con ciò non è chiaro cosa
Estlund potrebbe argomentare contro di esso senza contraddirsi da sé (a meno, certo, di riuscire egli stesso ad iscriversi al partito). Forse, non è poi una mossa saggia
quella di abbandonare il concetto di ragionevolezza per sostituirlo con un altro meno
connotato nel linguaggio ordinario.83 Ad ogni modo, se pure si volesse essere benevolmente ragionevoli e presentare esempi meno estremi di quello di cui sopra (sostituendo magari all’NSDAP il Democratic Party, o quel che si vuole), non molto cambierebbe. Qualsiasi gruppo, reale o ipotetico, abbastanza coeso da potere, senza
alcuna defezione, accettare un significativo criterio di accettabilità sarebbe anche
tanto ristretto – se non numericamente, certo ideologicamente – da contraddire la
democrazia e il fatto del pluralismo, così svuotando di senso l’intera concezione
liberale.
Neppure l’alternativa di una formulazione minimalista, forse più simile ai criteri
effettivamente discriminanti nelle democrazie, sarebbe risolutiva. Ad esempio:
◦ AN2: Nessuna dottrina è ammissibile come premessa in qualsivoglia parte di una
giustificazione politica a meno che non sia accettabile per l’insieme dei cittadini
81. D. Estlund, Democratic Authority, pp. 44 ss. Estlund presenta, e confuta, anche l’opposta overinclusion objection – per la quale sarebbe errato non imporre una politica giusta/corretta soltanto
perché non accettabile da parte di alcuni – ma questa è meno rilevante nel presente contesto.
82. Ivi, p. 53, traduzione mia.
83. Ivi, p. 61.
Parte seconda: Temi e problemi
- 103 -
che non usano la violenza per perseguire i propri scopi politici, e non è richiesta
l’accettazione da parte di nessun altro.
Un criterio del genere difficilmente sopravviverebbe alla propria applicazione, perché esistono (comunque potrebbero sempre esserci) cittadini che, non violentemente,
argomentano a favore dell’uso – più o meno limitato, se si vuole – della violenza; il
caso specifico del tirannicidio potrebbe persino vantare credenziali radicalmente democratiche e libertarie. Analogamente, tornando ancora alla ragionevolezza rawlsiana, è certo che esistono molte persone ragionevoli, compresi eminenti filosofi, che,
per diversi e talvolta opposti motivi, non concordano con le idee del liberalismo politico.84 D’altra parte, anche le democrazie effettivamente esistenti, nella maggior
parte dei casi, non sottraggono automaticamente né il diritto di voto né quello di
espressione, quindi di partecipazione alla deliberazione, a chi intende, o si ritiene intenda, utilizzarli contro la democrazia stessa (si danno eccezioni, come il reato
d’apologia del fascismo in Italia, ma nell’insieme non sono particolarmente
rilevanti).
A differenza dell’idea di ragione pubblica – che include un contenuto morale, nel
senso della ragionevolezza basata sulla reciprocità – l’analogo concetto dei punti di
vista qualificati proposto da Estlund è tanto vuoto di contenuto da essere incapace
di escludere alternative palesemente irragionevoli, e al contempo inapplicabile in
qualsivoglia senso positivo. Ma il punto è proprio che Estlund vorrebbe aver bisogno
del criterio di accettabilità soltanto in negativo, non per sostenere direttamente la
democrazia, ma per squalificare alcune possibili alternative. Limitatamente a questo
scopo, il criterio funziona perfettamente, riuscendo ad aggirare i problemi di cui sopra, perché è sempre possibile offrirne una plausibile specificazione soltanto parziale – per evitare sia di auto-squalificarlo (AN2), sia di avallare opzioni indesiderabili (AN1) – adatta ad escludere l’alternativa alla democrazia volta per volta in
discussione. Questo dispositivo teorico troverebbe però significato soltanto in presenza di ulteriori ragioni a sostegno della democrazia, come dovrebbero essere quelle derivate dal versante epistemico e deliberativo della concezione. Tuttavia, queste ragioni sono inconsistenti o, nel migliore dei casi, quasi per nulla articolate.
Le cose potrebbero essere diverse? Vale a dire, sarebbe possibile, mantenendo una
struttura argomentativa analoga, formulare la parte epistemica della teoria democratico-deliberativa in modo più convincente, salvaguardando così la plausibilità di un
84. Questo però non crea gli stessi problemi per Rawls. Critiche come quella sopra citata della
Mouffe sono in effetti ingenerose, proprio perché l’idea di ragione pubblica – a differenza del formalistico criterio di accettabilità di Estlund – poggia su un significato morale non autoreferenziale.
Quel che conta è la conformità al criterio di reciprocità: si può ben essere ragionevoli criticando
l’idea di ragionevolezza, purché si accetti di discuterne su un piano di parità – qui di nuovo risalta
la prossimità con la prospettiva discorsiva (vedi sopra, n. 50, p. 91).
- 104 -
3. Le ragioni per deliberare
criterio di accettabilità formulato in termini abbastanza minimali da non auto-squalificarsi? Ritengo di no, per ragioni sia interne alle argomentazioni liberali sia più generalmente riguardanti la possibilità di valutare i risultati di una procedura politica
attraverso un criterio da essa indipendente.
Restando entro i limiti di una teoria coerentemente liberale, verificare il valore
cognitivo della democrazia deliberativa in termini più stringenti è intrinsecamente
difficile. Se anche fosse possibile dimostrare in modo esauriente che la democrazia
fornisce risultati concreti migliori delle altre forme di governo,85 una tale impresa
comporterebbe oneri argomentativi ed empirici tali da essere inaccettabile da una
moltitudine di punti di vista che pure, secondo gli stessi liberali, dovrebbero ben
contare come qualificati e/o ragionevoli – in altre parole, implicherebbe senz’altro
una dottrina comprensiva. Non è quindi per caso se tanto i requisiti epistemici quanto il criterio di accettabilità erano stati formulati in modo minimale: soltanto così
potevano evitare di contraddirsi reciprocamente. I due aspetti, cognitivo ed etico,
tengono in piedi la teoria sorreggendosi vicendevolmente, e possono riuscirci solo rinunciando a pretese di validità troppo onerose. Una struttura argomentativa del genere è inevitabile, se si vuole rimanere entro i limiti del liberalismo politico, ma non
è in grado di giustificare la democrazia deliberativa in alcun modo significativo – ciò
però non vuol dire che le due teorie siano incompatibili, soltanto che, mentre un liberale può avere ottimi motivi per valutarla positivamente, la deliberazione stessa
dovrà trovare altrove la propria ragion d’essere.
***
Muovendo ora dai particolari verso il quadro generale, è possibile osservare come le
difficoltà derivino dal tentativo di offrire una giustificazione della deliberazione basata sui suoi risultati, senza però violare i vincoli normativi del fatto del pluralismo.
In questo senso l’approccio liberale, qui presentato come principale esempio di giustificazione teleologica della democrazia deliberativa, incontra problemi in parte soltanto suoi propri. Tuttavia, seppure si aggirassero questi ostacoli entro un orizzonte
teorico differente, la pretesa di basare la validità normativa della deliberazione sui
risultati prodotti, giudicati indipendentemente dalla procedura, non potrebbe comunque essere soddisfatta.
85. Amartya Sen ha notato come la democrazia sia comparativamente efficace nel prendere provvedimenti contro le carestie: J. Drèze e A. Sen, Hunger and Public Action, Oxford: Oxford University
Press, 1989. Inoltre, l’idea che le democrazie non si facciano la guerra tra di loro è stata più volte
riproposta, vedi: M. Doyle, Ways of War and Peace, New York: Norton, 1997; R. A. Dahl, Sulla
Democrazia, Roma-Bari: Laterza, 2002, cap. 5. Simili esempi, se davvero sopportano l’onere della
prova, possano sì contare, su un piano prudenziale, a favore della democrazia, ma niente affatto
fondarla normativamente – se non altro perché devono comunque presupporre che una pace democratica sia preferibile ad una autocrazia guerriera, il che è ovvio soltanto per chi abbia già trovato
le ragioni per essere pacifista e democratico.
Parte seconda: Temi e problemi
- 105 -
La critica contro il puro proceduralismo sembrava perfino ovvia: non ha senso
affermare la giustizia di una procedura se essa non produce anche risultati giusti,
perlomeno la maggior parte delle volte. Ma che cosa significherebbe applicare
un’idea del genere al giudizio di una procedura reale? Per comprendere l’impraticabilità di una simile impresa non è neppure necessario allontanarsi dal processo penale, nonostante questo sia pericolosamente semplice come esempio di procedura politica.86 Ogni singola occorrenza della procedura processuale dà un esito corretto se
condanna il colpevole mentre assolve l’innocente; perciò, presumendo di conoscere la
colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, è facile definire come giusto o ingiusto il risultato di un processo. Si deve evitare di risolvere anche tale conoscenza in senso
procedurale – equivarrebbe qui ad una petitio principii – e si può quindi concedere,
per amor d’argomento, che vi sia un accesso indipendente alla conoscenza dei fatti
rilevanti per giudicare se una sentenza sia giusta oppure no. Al di là delle sofisticherie filosofiche, d’altronde, si danno molti casi in cui siamo considerevolmente certi
della giustizia o ingiustizia di un verdetto (diverso sarebbe il caso per una deliberazione orientata al futuro, ma figuriamoci per ora che le due occorrenze siano
comparabili).
Volendo però giudicare nello stesso modo non un singolo processo, ma la procedura penale in quanto tale, si incontra immediatamente un ostacolo giacché, anche negli Stati più piccoli, è impossibile per chiunque conoscere la verità sulla colpevolezza
o l’innocenza degli imputati di tutti i processi svolti secondo la procedura – un
paese come l’Italia, ogni anno, celebra centinaia di migliaia di procedimenti penali,
mentre includendo quelli civili la cifra entrerebbe nell’ordine dei milioni, e sarebbero
molti gli anni da considerare per un’analisi significativa. Anche compiendo la mossa
(per altri tipi di decisione politica persino più problematica di quanto già non lo sarebbe per i processi) di scegliere un campione statistico, o comunque significativo,
questo dovrebbe includere senz’altro un numero di occorrenze tale da trascendere le
possibilità di conoscenza immediata di qualsiasi singolo o piccolo gruppo, richiedendo perciò una procedura di controllo socialmente applicabile. Tuttavia, si sarebbe
così concluso qualcosa sulla giustizia del sistema penale soltanto se la procedura applicata per valutarne gli esiti fosse rilevantemente più affidabile di quella del processo medesimo. Ma, certo, la correttezza della procedura impiegata per decidere della
giustizia della procedura processuale non potrà essere giudicata a sua volta sulla
86. Questo perché, generalmente, una decisione politica non può essere ridotta ad una scelta binaria, mentre d’altronde può fare riferimento a qualsivoglia criterio esterno, non però ad uno così
poco controverso quanto la colpevolezza o l’innocenza. E se il criterio per valutare la bontà dei risultati è esso stesso controverso, chiaramente non lo si può utilizzare come via d’uscita dall’incertezza intrinseca alle procedure democratiche. A tal proposito si veda anche l’argomentazione contro
la judicial review in: J. Waldron, Law and Disagreement, Oxford: Clarendon Press, 1999, capp.
10-13..
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3. Le ragioni per deliberare
base dei risultati – si innescherebbe un regresso all’infinito che, seppure non fosse logicamente assurdo, sarebbe comunque inapplicabile. Ma se la validità della procedura di controllo non può essere misurata sui risultati, dovrà esserlo in base ai suoi
princìpi, e così non si esce affatto dai confini di un deontologico proceduralismo.
A prima vista, è molto ragionevole pensare di giudicare la validità di una procedura decisionale sulla base dei suoi risultati, ma, anche concedendo tutto quel che si
può concedere a chi sostenga tale posizione,87 ciò appare impossibile per qualsiasi sistema politico complesso, e ancora a maggior ragione per il modello della democrazia deliberativa. Rawls parlava di una procedura «... intelligentemente congegnata in
modo da fornire la decisione corretta almeno buona parte delle volte»;88 ma se non
c’è una realistica possibilità di controllare empiricamente la correttezza di buona
parte delle decisioni politiche, si può appunto ragionare soltanto di quale sia la procedura migliore e più giusta. Questo significa, però, discutere dei princìpi su cui essa
è informata, non già della valutazione dei suoi risultati in base ad un criterio indipendente che, anche dove può esser disponibile (come nel limitato caso della scelta
tra condanna e assoluzione), non rappresenta affatto un’alternativa valida al
proceduralismo.
3.3.2 Riesaminare il proceduralismo
Osservata l’impossibilità di giustificare la validità normativa della democrazia deliberativa in base agli esiti prodotti, l’opzione di un fondamento deontologico-procedurale inizia ad apparire più attraente – d’altra parte, una volta chiarita l’inconsistenza dell’alternativa proposta, già solo l’argomento avanzato Estlund per spiegare
come un sistema politico non si possa fondare direttamente sulla correttezza dei risultati basterebbe a spiegare la necessità del proceduralismo. Ma ciò di per sé non
significa che tale opzione sia percorribile. D’altronde, la maggior parte dei teorici
evita questa via, proprio perché gli argomenti contro di essa sembrano decisivi. Pen87. A monte di tutto il discorso qui svolto, si potrebbe semplicemente notare come presupporre di
conoscere i risultati corretti, sulla base dei quali giudicare la procedura, sia in contraddizione con
l’autonomia democratica e con lo stesso fatto del pluralismo, vedi ad esempio: F. Peter, “Pure Epistemic Proceduralism”, Episteme 5, no. 1 (2008): 33-55. Non ho seguito questa più semplice linea
di critica, che pure considero corretta, perché da un lato essa include assunzioni (come la proceduralist social epistemology su cui poggia la critica della Peter) che già a priori squalificano la derivazione della legittimità dalla correttezza, e d’altronde il medesimo tentativo potrebbe ben essere formulato secondo modalità che sembrano evadere la versione più semplice della critica di
antidemocraticità (com’è appunto, prima facie, il caso del proceduralismo epistemico di Estlund).
88. J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas,” p. 96. Proprio giocando un po’ attorno a queste parole, si potrebbe sostenere che l’interesse dei rawlsiani per il criterio esterno alla procedura non sia
propriamente coincidente con quello nutrito da Rawls stesso. A patto di escludere la pretesa di impiegare un criterio che prescinda dalla procedura, d’altronde, Habermas si troverebbe d’accordo circa il nesso tra giustizia procedurale e contenutistica, vedi: J. Habermas, “Ragionevole contro vero.
La morale delle visioni del mondo,” pp. 108-09.
Parte seconda: Temi e problemi
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so, però, che una parte consistente delle critiche fraintenda il proceduralismo, e che
le restanti possano, a certe condizioni, essere ben confutate. Perciò, in primo luogo
sarà da delimitare cosa significhi una fondazione procedurale, esaminando quindi a
quali condizioni il discorsivismo possa svolgere tale ruolo per la democrazia
deliberativa.
Spesso, per (puro) ‘proceduralismo’ i suoi critici intendono una qualsiasi concezione che assegni un valore intrinseco alle procedure politiche. Così, sarebbe procedurale quella teoria che valuta positivamente la democrazia perché le sue procedure,
a prescindere da altri esiti prodotti, corrispondono al rispetto dell’autonomia, della
dignità morale di ogni persona, o d’altri valori considerati intrinseci alla pratica democratica. Di qui – poiché non si può negare che valori come il pari rispetto delle diverse individualità rappresentino, dal punto di vista politico, opzioni contenutisticamente connotate – segue presto la conclusione che «valori procedurali e sostantivi si
presentano come parti di un insieme [package]»,89 e che di conseguenza una teoria
politica non può essere puramente procedurale. Si dovrebbe, però, iniziare col notare
come non possa darsi alcun valore procedurale, essendo ben arduo figurarsi il
concetto di un valore senza contenuto. In altre parole, porre la questione nei termini
di un confronto tra valori implica già da subito un’opzione contraria al proceduralismo, escludendo a priori la possibilità di articolarne il significato. Viceversa, non è da
discutere il corretto ordinamento tra valori procedurali e contenutistici (contrapposizione insensata), bensì quello tra i princìpi su cui sono informate le procedure e i valori che si ritiene desiderabile conseguire attraverso di esse.90 Solo su questo piano –
89. J. Cohen, “Pluralism and Proceduralism”, Chicago-Kent Law Review 69, no. 3 (1994), p. 597,
traduzione mia. Rawls, nella Risposta a Jürgen Habermas, proprio discutendo di giustizia procedurale e contenutistica, si richiama esplicitamente alla posizione di Cohen. Sembra, però, che Rawls
non tenga adeguatamente conto della critica di Habermas alla mancata distinzione tra diritti (come
norme deontologiche) e valori (teleologicamente perseguibili), vedi: J. Habermas, “Conciliazione
tramite uso pubblico della ragione,” p. 69; J. Habermas, Fatti e norme, § 6.2. Un altro più recente
esempio è quello di Follesdal, che assume fin dal titolo un punto di vista non soltanto valoriale, ma
proprio direttamente centrato sul “valore aggiunto”, vedi: A. Follesdal, “The Value Added by
Theories of Deliberative Democracy”. Vedi anche: E. Anderson, “Democracy: Instrumental vs.
Non-Instrumental Value”, in Contemporary Debates in Political Philosophy, a cura di T. Christiano
e J. Christman, Oxford: Wiley-Blackwell, 2009
90. Questa diffusa confusione affonda le sue radici nell’idea (tipicamente utilitarista) per cui i
princìpi morali e politici sarebbero (ri)definibili come funzioni di un qualche valore sociale molto
generale. Qui non esamino questa linea di pensiero, rilevando soltanto che, per avere significato
pratico, essa dovrebbe comunque mantenere la differenza concettuale tra princìpi e valori dal punto
di vista dell’attore politico, se pure non del teorico. Per evitare fraintendimenti, si deve anche notare che qui assumo i termini in un senso diverso da quello per cui talvolta si contrappongono
“princìpi” liberali a “valori” repubblicani (entrambi sono valori, e teleologici nel senso qui inteso),
come ad esempio in: R. Forst, “The Rule of Reasons. Three Models of Deliberative Democracy”,
Ratio Juris 14, no. 4 (2001): 345-78.
- 108 -
3. Le ragioni per deliberare
per l’appunto delimitato dalla differenza tra un approccio deontologico ed uno teleologico – la questione è politicamente significativa.
Inoltre, il senso della posizione procedurale dev’essere distinto da quello del formalismo.91 Come già accennato:
Dai precedenti paradigmi giuridici in competizione, quello procedurale non si
differenzia per il fatto d’essere «formale» nel senso di «vuoto» o «povero di contenuto». Esso vede piuttosto nella società civile e nella sfera pubblica dei punti di riferimento in grado di dare un peso nuovo (un ruolo finora sottovalutato) al processo
democratico che deve realizzare il sistema dei diritti.92
In altre parole, il modello procedurale non si esaurisce nella definizione formale
delle regole democratiche, il fulcro del suo contenuto normativo essendo una partecipazione ampia, diffusa e differenziata attraverso varie modalità di contributo discorsivo. Questo contenuto normativo, anche se fattualmente richiede la presenza di un
certo ethos democratico, non implica in merito alcuna visione comprensiva, né vorrebbe richiederla come premessa della propria giustificazione.93 Infatti:
... questo paradigma giuridico non pregiudica più – come quello liberale o quello
dello Stato sociale – un determinato ideale di società, una determinata visione della
vita buona, o anche soltanto una determinata opzione politica. Formale infatti lo è
nel senso che esso si limita a definire alcune condizioni necessarie perché i soggetti
giuridici possano mettersi d’accordo – come cittadini – su quali siano i loro problemi e su come vadano risolti.94
91. Questo vale sia per il formalismo stricto sensu giuridico, sia più latamente per il conseguente
approccio alla teoria politica. Habermas critica la teoria di Norberto Bobbio (N. Bobbio, Il futuro
della democrazia, Torino: Einaudi, 1984) perché «deflazionista» rispetto alla «sostanza normativa
dello Stato democratico di diritto»: J. Habermas, Fatti e norme, pp. 358-59. Anche la concezione
della democrazia di Hans Kelsen (H. Kelsen, La democrazia, Bologna: il Mulino, 1998), probabilmente il più classico esempio di formalismo, è distante dalla costruzione habermasiana; e nel metodo, a dispetto della comune ispirazione kantiana, più che nei contenuti, che possono anche essere
giudicati simili, vedi: N. Luhmann, “Quod Omnes Tangit: Remarks on Jürgen Habermas’s Legal
Theory”, in Habermas on Law and Democracy, a cura di M. Rosenfeld e A. Arato, Berkeley: University of California Press, 1998.
92. J. Habermas, Fatti e norme, p. 526-27.
93. La distinzione tra il piano dei requisiti fattuali e contingenti e quello della giustificazione della
deliberazione era già stata affermata da Cohen (vedi sopra, p. 54): J. Cohen, “Deliberation and Democratic Legitimacy”. Più recentemente il punto è stato nettamente ribadito: S. Benhabib, “On
Culture, Public Reason, and Deliberation: Response to Pensky and Peritz”, Constellations 11, no.
2 (2004), p. 297. Si veda anche: J. Habermas, “Sovranità popolare come procedura. Un concetto
normativo di sfera pubblica,” pp. 98-99. Tuttavia, da un punto di vista vicino al pragmatismo, si
può anche contestare che questa distinzione abbia senso, vedi: R. J. Bernstein, “The Retrieval of
the Democratic Ethos”, in Habermas on Law and Democracy, a cura di M. Rosenfeld e A. Arato,
Berkeley: University of California Press, 1998.
94. J. Habermas, Fatti e norme, p. 527.
Parte seconda: Temi e problemi
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Per Habermas, dunque, definire procedurale la propria teoria democratica significa prendere esplicitamente le distanze tanto dalle concezioni aggregative e realistiche/scettiche quanto da quelle che ritengono di poter fondare la validità normativa soltanto su una dimensione etica sostanziale, una visione del bene comune,
previamente condivisa e, perciò, politicamente indiscutibile.95 Questo vuol dire che la
concezione discorsiva della democrazia non avrebbe affatto da essere formalistica nel
complicato intreccio dei suoi aspetti descrittivi e normativi, al contrario presupponendo una ricostruzione contenutisticamente onerosa tanto sul piano sociologico/storico quanto su quello filosofico.96 In un punto preciso però – che è poi quello di rilevanza più generale per la democrazia deliberativa – la teoria discorsiva vuole sì
essere puramente procedurale, vale a dire nelle condizioni normative che la prassi
politica deve soddisfare per potersi dire democratica:
Due cose soltanto la prassi di autodeterminazione dei cittadini si trova come prefissate: il principio di discorso da un lato (principio che già appartiene in generale
alle condizioni della socializzazione comunicativa) e il medium giuridico dall’altro.97
Queste condizioni non sono ‘prive di contenuto’ in senso assoluto (né alcunché potrebbe mai esserlo), lo sono però dal punto di vista dei partecipanti alla medesima
prassi democratica che definiscono, non implicando nulla – se non, ancora, attraverso la mediazione della partecipazione alla procedura – su quali siano le norme in accordo col principio del discorso né, quindi, sul contenuto delle leggi formulate entro
il medium giuridico. In questo senso, e soltanto in questo senso, il fondamento discorsivo della deliberazione è puramente procedurale, non pregiudicando altro se non
95. In questo senso, relativamente al fatto del pluralismo, il proceduralismo in Habermas svolge un
ruolo funzionalmente analogo alla ragione pubblica, benché ciò renda i due approcci meno simili di
quanto talvolta non si sia inteso, vedi ad esempio: K. Baynes, “Democracy and the Rechtstaat: Habermas’ Faktizität und Geltung”, in The Cambridge Companion to Habermas, a cura di S. K.
White, Cambridge: Cambridge University Press, 1995, p. 214.
96. Gutmann e Thompson, tra gli altri, cercano di impiegare questo fatto acclarato ancora a sostegno della tesi che non vi sia una differenza rilevante tra approcci procedurali e contenutistici, affermando che «... né Habermas né Rawls difendono una concezione puramente procedurale o puramente sostantiva»: A. Gutmann e D. Thompson, Why Deliberative Democracy?, p. 26. Questo è
però soltanto un modo di confondere le acque, giacché è banalmente tautologico affermare che una
teoria che si occupa di procedure politiche debba essere anche procedurale, mentre è persino grammaticalmente impossibile ipotizzare una concezione (e, peraltro, qualsivoglia atto linguistico intelligibile) che abbia contenuto ma non forma. Di converso, chi volesse “proceduralizzare” Rawls (F.
Peter, “Rawls' Idea of Public Reason and Democratic Legitimacy”), avrebbe ragione nel notare
come si trovino elementi sia per una lettura procedurale sia per una contenutistica del ruolo della
ragione pubblica; la Peter però ha torto nel non comprendere come l’insieme di questi elementi significhi già da sé che, in quegli aspetti per cui ha senso porsi il problema, la concezione rawlsiana
sia contenutistica. La questione rilevante, sulla quale liberali e discorsivisti restano distanti, è ‘in
quale parte’ e ‘rispetto a che cosa’ le teorie siano procedurali o contenutistiche.
97. J. Habermas, Fatti e norme, p. 154.
- 110 -
3. Le ragioni per deliberare
i princìpi che definiscono le stesse procedure democratiche – relativamente alla validità delle quali, d’altronde, non può né vuole essere neutrale.98 E se il principio democratico – come si è detto punto di incontro tra il principio D e il medium giuridico – coincide con una definizione puramente procedurale della democrazia, l’opzione
democratica, a sua volta, fonda la propria pretesa di validità sulla ragionevolezza dei
risultati della procedura deliberativa. Una ragionevolezza, però, sempre solo presuntiva, suscettibile di convalida soltanto circolarmente, attraverso ulteriori pratiche discorsive informate sui medesimi princìpi, non nella forma – apparentemente immediata, eppure inattingibile – del confronto di un insieme determinato di risultati con
un criterio predefinito. È questa l’altra faccia della medaglia del tentativo di superare la contrapposizione tra i privati diritti individuali e la partecipazione collettiva
alla produzione legislativa: giacché nessuna decisione è legittima se non passa attraverso una deliberazione appropriatamente costituita, di conseguenza il criterio su cui
misurare la qualità del deliberare non può essere una finalità determinata in modo
indipendente dalla deliberazione stessa.
Questo modo radicalmente procedurale di intendere la politica deliberativa sembra però prestare il fianco ad un’obiezione potenzialmente fatale. Dato che la legittimità delle scelte collettive, nella forma di leggi coercitive ma normativamente valide,
riposa esclusivamente sull’effettivo svolgersi della procedura democratica (i.e. non
c’è nessun criterio contenutistico fissato a priori che possa invalidarne i risultati) e
dato anche che questo processo dev’essere «... a sua volta giuridicamente costituito»,99 non è forse impossibile, concettualmente ancor prima che di fatto, corrispondere a questo ideale? Nelle parole di Frank Michelman:
... se è richiesta una procedura democratica legalmente costituita per originare
delle valide leggi fondamentali, allora le (valide) leggi che costituiscono questo atto
di legislazione devono essere esse stesse il prodotto di un evento procedurale concettualmente prioritario che sia stato esso stesso costituito da (valide) leggi che devono, come tali, originare a loro volta (appropriatamente) da un ancora precedente
evento legalmente costituito. E così via, sembrerebbe, senza fine: “L’idea dello Stato
di diritto mette in movimento quella spirale auto-applicativa di diritto.”100
Non ci sarà allora un momento in cui «... qualche filosofo dovrà infine fare un
passo avanti e prendersi la responsabilità» di offrire un punto di partenza, e d’al98. La «democrazia deliberativa, ovviamente, non è neutrale riguardo il suo stesso contenuto normativo»: C. F. Rostbøll, Deliberative Freedom, p. 18, traduzione mia. Ciò pare troppo banale per
dover essere ripetuto, eppure è notevole la confusione introdottasi su questo punto.
99. J. Habermas, Fatti e norme, p. 134.
100.F. Michelman, “How Can the People Ever Make the Laws? A Critique of Deliberative Democracy,” p. 164, traduzione mia. La frase finale, tra doppi apici, è citata da: J. Habermas, Fatti e
norme, p. 51. L’inglese ‘rule of law’ in questo caso rende l’idea assai meglio che non l’italiano/tedesco ‘Stato di diritto/Rechtsstaat’.
Parte seconda: Temi e problemi
- 111 -
tronde «... non ha Habermas stesso dato l’esempio?».101 Questo paradosso affligge le
teorie che vogliano essere radicalmente democratiche, e in senso più lato tutte quelle
che presumono l’origine della legge in una volontà legalmente ordinata; come tale è
stato ampiamente discusso, soprattutto in relazione ai problemi del costituzionalismo.102 A parere di Michelman, il problema è però anche più grave per la democrazia
deliberativa, giacché essa pretenderebbe di fondarsi normativamente sulla presumibile ragionevolezza – vale a dire correttezza epistemica e morale – dei suoi risultati.
Il che, da un lato, significa che una deep deliberative democracy non può ricorrere
(come potrebbero teorie democratiche schiettamente “populiste”) all’identificazione
immediata tra giustizia/correttezza e volontà popolare, mentre proprio perciò, d’altro canto, sembrerebbe implicare, nella definizione delle proprie procedure, un problematico surplus di contenuto normativo e morale.103
Ad un primo livello di complessità, la critica può essere disinnescata abbastanza
facilmente. Per cominciare, si può appunto far notare come il problema del regresso
non sia proprio del proceduralismo deliberativo, e neppure delle sole concezioni democratico-radicali, bensì comune a tutte le teorie laiche della politica, incluse quelle
right-foundationalist su cui convergono liberali e (alcuni) repubblicani. Questa è la
risposta offerta, ad esempio, da Kenneth Baynes,104 e peraltro la considerazione potrebbe ben essere estesa, in piena coerenza con la diagnosi habermasiana della modernità, a qualsiasi teoria, politica o meno, che non pretenda (non più) di ancorarsi
ad un orizzonte trascendente né alla logica immanente di una filosofia della storia. A
completamento di questo punto di vista, si fa presto a notare come il processo legis101.F. Michelman, “How Can the People Ever Make the Laws? A Critique of Deliberative Democracy,” p. 162, traduzione mia.
102.Lo stesso Michelman ha dedicato numerosi studi ai diversi aspetti della questione, vedi ad
esempio: F. Michelman, “Can Constitutional Democrats Be Legal Positivists? Or Why Constitutionalism?”, Constellations 2 (1996): 293-308; F. Michelman, “W(h)Ither the Constitution?”, Cardozo
Law Review 21 (2000): 1063-83; F. Michelman, La Democrazia e il Potere Giudiziario: Il Dilemma
Constituzionale e il Giudice Brennan, Bari: Edizioni Dedalo, 2004. Si potrebbe evidentemente risalire più indietro, fino all’endiadi di pouvoir constitué e pouvoir constituant attorno alla quale si sono
tanto affannati i rivoluzionari francesi, come bene esaminato in: H. Arendt, Sulla rivoluzione, Milano: Comunità, 1995, capp. 4, 5.
103.Michelman, al pari di vari altri teorici deliberativi, considera piuttosto superficialmente la pretesa habermasiana di separare il discorso morale, rispondente al principio U, da quello politico della deliberazione democratica. Certo, l’architettura proposta da Habermas resta problematica, ma
essa consentirebbe proprio di comprendere quella differenza tra legittimità (democratica e giuridica) e giustificazione (morale e cognitiva) che altre teorie contemporanee sembrano incapaci di articolare adeguatamente.
104.K. Baynes, “Deliberative Democracy and the Regress Problem: Response to Michelman”, Modern Schoolman 74, no. 4 (1997): 331-36. Una replica più articolata è quella recentemente proposta
da Todd Hedrick: T. Hedrick, “Coping with constitutional indeterminacy: John Rawls and Jurgen
Habermas”, Philosophy & Social Criticism 36, no. 2 (2010): 183-208
- 112 -
3. Le ragioni per deliberare
lativo non avvenga mai nel vuoto, ma sempre nel quadro di una storia pregressa, e
di conseguenza che:
Non esiste «il» sistema dei diritti sul piano della purezza trascendentale. Tuttavia, più di due secoli di sviluppo costituzionale europeo ci forniscono ormai un numero sufficiente di modelli. Essi possono guidarci a una ricostruzione generalizzante
delle intuizioni su cui poggia la prassi intersoggettiva di un’autolegislazione intrapresa con strumenti di diritto positivo.105
E però in questo modo si è risolta la questione soltanto sul piano descrittivo della
ricostruzione della prassi democratica dal punto di vista della filosofia politica. Certo, per chi di volta in volta si trova nella posizione di legiferare, le norme e le consuetudini costituzionali non si presentano soltanto nella forma di una tradizione prefissata, bensì anche come possibile oggetto di ulteriori modifiche – d’altronde, la
vicenda della costituzione statunitense dimostra ad ogni passo l’inestricabile co-implicazione di tradizione e azione. Ciò però non risolverebbe il problema dalla prospettiva di Estlund o d’altri teorici liberal-deliberativi. Vale a dire, la prospettiva di
una teoria politica schiettamente normativa, che potrà anche apparire ingenua a
fronte dell’articolato approccio ricostruttivo habermasiano, ma che nondimeno ha la
rilevante qualità d’essere molto più vicina al punto di vista di chi – sia un cittadino
co-legislatore o un giudice interprete della legge – si trovi volta per volta a cercar di
capire quale linea d’azione dovrebbe seguire.
In questo senso, con la predetta argomentazione non si sarebbe difeso efficacemente il proceduralismo, perché l’iniziale atto di statuizione, sempre localizzato in
un passato inattingibile, costituirebbe, oggi e per noi, proprio quel criterio contenutistico fondamentale, esterno alla procedura, tanto ricercato dai liberal-deliberativi.
Il fatto che le costituzioni, o le consuetudini basilari della vita politica, siano modificabili non cambia di molto il quadro, giacché esse dovranno comunque influenzare le
azioni successive (a meno di essere irrilevanti, e dunque non contare affatto come
norme fondamentali) seppure certo non le determineranno in toto; perciò, il fatto
della loro pre-esistenza rispetto alle procedure democratiche non può essere neutralizzato per questa via. Inoltre, la posizione storicamente puntuale di questi atti fondativi rischierebbe di far cadere la teoria deliberativa proprio in quel particolarismo
arbitrariamente filo-occidentale di cui l’accusano i critici più ostili. A poco vale notare come anche altre teorie si troverebbero nelle stesse condizioni, perché il punto
saliente dell’approccio discorsivo alla democrazia era proprio quello di superare tali
ambasce.
105.J. Habermas, Fatti e norme, p. 155. Habermas ha ulteriormente elaborato il senso in cui la
produzione di diritto positivo avviene sempre all’interno di un diritto già posto in: J. Habermas,
Verità e giustificazione, Roma-Bari: Laterza, 2001, pp. 49-57.
Parte seconda: Temi e problemi
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La posizione procedurale, però, non si riduce a questo solo aspetto – se così fosse
non si capirebbero né le critiche, giuste o sbagliate che siano, contro la concezione
del costituzionalismo di Rawls, né l’idea per cui anche coloro «cui non è data la fortuna di essere eredi dei Padri fondatori della costituzione americana» dovrebbero
trovare buone ragioni a favore dello Stato democratico di diritto.106 Piuttosto,
mentre è vero che, secondo Habermas, il fatto di un sistema giuridico discorsivamente ricostruibile è storicamente riscontrato, esso deve ancora trovare un’ulteriore
doppia razionalizzazione: del principio del discorso (D), come condizione intrinseca
alla comunicazione, e del diritto quale necessità sociale. La forma giuridica si darebbe come necessaria su un piano puramente fattuale, senza bisogno di ulteriori
fondazioni normative, perché le complesse società moderne sono da un lato sempre
più bisognose d’integrazione, mentre dall’altro si trovano precluse le risorse (mitologia, religione, indiscussa tradizione nazionale, e così via) precedentemente disponibili
per tale scopo. Perciò, in questo caso contro la linea kantiana:107
La filosofia affronta così un compito inutile quando cerca di dimostrare che organizzare giuridicamente la nostra convivenza (e dunque formare in generale comunità
giuridiche) non è solo un compito funzionalmente raccomandabile ma anche moralmente doveroso. Il filosofo dovrebbe accontentarsi d’aver capito che nelle società
complesse soltanto il medium del diritto consente ancora di stabilire con certezza – anche tra estranei – rapporti moralmente imperativi di rispetto reciproco.108
La giuridificazione del discorso politico sarebbe dunque funzionalmente inevitabile, non limitata alle società dotate di una solida tradizione costituzionale, né soltanto a quelle occidentali. Tuttavia, la teoria non rinuncia a rilevare le «somiglianze
strutturali esistenti tra diritto e agire comunicativo»,109 portandoci con ciò verso il
nesso con il principio del discorso.
Lo statuto del principio D è meno chiaro, né si può dire che sia privo di ambiguità ed oscillazioni entro il pensiero habermasiano. D’altra parte, rappresentando la
106.J. Habermas, Fatti e norme, p. 10. Qui Habermas pensa in primo luogo al contestualismo di
Rorty. Anche quando Habermas fa riferimento esplicito all’atto della stesura di una costituzione
come momento d’origine del consenso verso una struttura democratica, è messo in chiaro come ciò
sia vero soltanto attraverso l’attiva e continua re-interpretazione critica da parte degli odierni cittadini/partecipanti: J. Habermas, “On Law and Disagreement. Some Comments on “Interpretative
Pluralism””, Ratio Juris 16, no. 2 (2003): 187-94. Tuttavia, rimane una tensione con l’orizzonte teleologico (particolarmente evidente in: J. Habermas, “Stato di diritto e democrazia: nesso paradossale di principi contraddittori?”, Teoria politica 16, no. 3 (2000): 3-17), per cui la costituzione è un
progetto la realizzazione del quale, nel tempo storico, dovrebbe sciogliere il paradosso originale del
nesso costituzione-democrazia. Vedi anche infra, § 5.2.1.
107.In diretto contrasto con la posizione di Apel, vedi: K.-O. Apel, “Dissoluzione dell’etica del discorso?”, pp. 281 ss.
108.J. Habermas, Fatti e norme, p. 545. Vedi anche, Ivi, cap. 3.
109.Ivi, p. 531.
- 114 -
3. Le ragioni per deliberare
chiave di volta dell’intera architettura teorica, il principio del discorso si trova necessariamente a dover sopportare per intero la tensione tra fattualità e validità – certo
non un ruolo facile da interpretare. In estrema sintesi, l’idea di Habermas è che la
validità del principio D sia implicata dal telos verso l’intesa – inerente alle condizioni
della comunicazione e perciò indipendente da qualsiasi constatazione empirica, salvo
quella ineludibile che la nostra forma di vita include sempre il linguaggio – e però al
contempo da verificare attraverso l’osservazione, in senso lato sociologica, del fattuale svolgersi dell’agire comunicativo. Così, la stessa tradizione costituzionale e democratica, pur data in forme storicamente contingenti, si riallaccerebbe ad una dimensione di validità più generale, non essendo riducibile né ad una particolaristica
vicenda occidentale, né ad una serie di eventi fondativi che, per il solo fatto di essere
accaduti in passato, si imporrebbero ai posteri come criterio su cui misurare le loro
prassi.
Questa configurazione teorica consentirebbe al proceduralismo di evadere le obiezioni, sciogliendo il difficile nodo della conciliazione tra una democrazia radicale coerentemente anti-autoritaria – che perciò non può accettare la previa imposizione di
alcuna opzione rispetto all’effettivo svolgersi della deliberazione – e il fondamento
della sua stessa validità sulla tendenza verso risultati ragionevolmente buoni, sia sul
piano cognitivo sia su quello etico/morale. Infatti, tanto il diritto quanto il principio
del discorso, sebbene in modo diverso, non vorrebbero presentarsi come norme raccomandate ex cathedra dal filosofo, bensì quali condizioni “quasi-trascendentali”, che
la teoria ricostruisce sì, ma non crea né impone.110 Trattandosi di condizioni di possibilità (che pur si vorrebbero garantite anche da riscontri fattuali) il diritto e il principio del discorso non dovrebbero contare affatto come limitazioni alla prassi democratica che essi stessi costituiscono.111 Al contempo, la pretesa che la democrazia
conduca ad esiti tendenzialmente ragionevoli è fondata sulla sua corrispondenza con
la ragione comunicativa. Certo, si tratterà sempre di una corrispondenza pragmati110.Habermas questo lo ha sempre sostenuto, «la comunicazione non è da stabilire come un dovere»: J. Habermas, “A Reply to My Critics”, in Habermas: Critical Debates, Cambridge MA: MIT
Press, 1982, p. 217, traduzione mia. Il discorso e i suoi princìpi, perciò, non sono da fondare nello
stesso senso in cui si fonda uno Stato o si mette in vigore una costituzione. Vedi anche: S. Chambers, “Discourse and Democratic Practice”, in The Cambridge Companion to Habermas, a cura di
S. K. White, Cambridge: Cambridge University Press, 1995. Estlund sbagliava nel considerare i
princìpi discorsivi come un’infrazione del puro proceduralismo (vedi sopra, p. 98).
111.J. Habermas, Fatti e norme, p. 154. Questo è uno dei passaggi più problematici del ragionamento di Habermas, poiché è semplicemente falso che le condizioni di possibilità non costituiscano
anche sempre limiti – e questo vale per la ragione teoretica quanto per quella pratica – seppure
possano esserlo in senso soltanto formale. La distinzione, che Habermas trae da Searle, tra «regole
costitutive» (che creano nuove possibilità) e «regole regolative» (che regolano comportamenti preesisenti) ha un senso pragmatico, ma è teoreticamente inconsistente e perciò inutilizzabile in un
contesto fondazionale. Lo stesso Habermas, d’altronde, riconosceva come la razionalità comunicativa formasse «un complesso di condizioni possibilitanti e limitanti insieme»: Ivi, p. 11.
Parte seconda: Temi e problemi
- 115 -
camente mediata, ma essa implica comunque che, di fronte a risultati considerati insoddisfacenti, l’unica mossa valida sarebbe quella di cercare di migliorare le procedure democratico-deliberative secondo i loro propri princìpi – escludendo perciò
l’esiziale possibilità di aggiustamenti direttamente strumentali ad una finalità determinata. Anche in questo senso quello procedurale costituirebbe per la democrazia
deliberativa un fondamento più solido delle alternative.
Dato che il proceduralismo pare aver significato come tale solo se è possibile neutralizzarne i contenuti rispetto alla prassi deliberativa dei cittadini, e poiché ciò può
avvenire soltanto rimuovendoli dal piano puramente moral-normativo112 – sul quale
conterebbero pur sempre come restrizioni o indicazioni contenutistiche per i partecipanti alla prassi deliberativa – ora si comprende meglio, anche da questo punto di
vista, l’insistenza di Habermas, contro Rawls, nel rivendicare la necessità della teoria di porsi come vera, e non solo ragionevole o accettabile. Una verità però che, stavolta contro Apel, non può essere attinta soltanto attraverso argomentazioni riflessive e trascendentali, perché in tal modo si dovrebbe lasciare pragmaticamente
impregiudicata la pur doverosa opzione a favore dei princìpi in questione, rischiando
di farli cadere di nuovo, per quest’altra via, nella condizione di imperativi che, dal
punto di vista di chi agisce politicamente, potrebbero pur sempre presentarsi del
tutto eteronomi.113
L’alternativo percorso sociologico offerto da Habermas è a sua volta articolato su
due livelli, che si vedrà daranno luogo ad ulteriori tensioni. In primo luogo, l’analisi
del mondo della vita (Lebenswelt) vorrebbe confermare come la stessa socializzazione
degli individui già richieda un certo orientamento alla validità intesa comunicativamente – e questo è il compito precipuo della Teoria dell’agire comunicativo. D’altro
canto, il concetto di potere comunicativo114 – che sarebbe poi quel potere che si crea
deliberando, definendo l’aspetto che qui interessa più da vicino – dovrebbe fungere
da collegamento, trasferendo attraverso il diritto il potenziale di validità della comunicazione nel mondo della vita verso la sfera politica istituzionalizzata. È quindi, infine, sulla società civile, come sfera di circolazione d’una comunicazione decentrata e
al limite de-soggettivizzata,115 che ricade l’onere della prova (perlomeno quella sua
112.Ad esempio, è questo il senso in cui Habermas evoca la “inevitabilità” di una procedura neutrale: Ivi, p. 368.
113.In effetti, al contrario di Habermas, Apel subordina esplicitamente il principio democratico a
quello del diritto: K.-O. Apel, “Dissoluzione dell’etica del discorso?”, pp. 362 ss.
114.Un concetto tratto (e «creativamente frainteso»: M. Canovan, “A Case of Distorted Communication: A Note on Habermas and Arendt”, Political Theory 11, no. 1 (1983): 105-16) dal pensiero
di Hannah Arendt, vedi: J. Habermas, “La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt”,
Comunità 35, no. 1 (1981): 56-73.
115.J. Habermas, Fatti e norme, pp. 163 ss., 353 ss.
- 116 -
3. Le ragioni per deliberare
parte che si ritiene debba essere fattualmente riscontrabile) della legittimità della
democrazia discorsivamente intesa.
***
In questo capitolo ho cercato di mostrare come la democrazia deliberativa, per la
sua stessa definizione, necessiti di un fondamento puramente procedurale e deontologico. Questo non significa che chi non offra tale fondamento sia, ipso facto, escluso
dalla democrazia deliberativa, ciò dipenderà piuttosto dall’essere la teoria in questione compatibile o meno con un fondamento del genere – ad esempio, la stessa corrispondenza biunivoca tra ragione pubblica e deliberazione (vedi sopra, p. 91) non è,
di per sé, affatto in contraddizione con il proceduralismo, esclusa è soltanto la pretesa di interpretarla nel senso del confronto degli esiti deliberativi con un criterio
esterno.
Per il liberalismo politico, la domanda era: «come devono comportarsi i cittadini
nelle loro interazioni politiche per convivere nelle moderne condizioni di pluralismo
in un modo che sia anche normativamente accettabile (non un mero modus vivendi)?». E la questione è senz’altro fondamentale, non è però la stessa che si pone una
democrazia deliberativa coerentemente procedurale. Per quest’ultima, la domanda
suonerebbe piuttosto «come devono essere organizzate le istituzioni democratiche
affinché i cittadini abbiano la possibilità di discutere razionalmente e assumere le
proprie decisioni di conseguenza?». Con ciò, se si vuole, l’adesione al modello deliberativo da un punto di vista liberale è bell’e spiegata: basta non cadere nell’illusione che le interazioni politiche siano indipendenti dal contesto istituzionale in cui
avvengono, ed ecco che un dibattito politico appropriatamente istituito appare subito come condizione necessaria per l’esercizio della ragione pubblica.
Dunque, anche le teorie non discorsive devono presupporre, per la democrazia deliberativa, un fondamento puramente procedurale. Perciò, benché abbassando il livello d’astrazione si possano presentare contributi molto divergenti, il problema
principale resta quello di capire se ed a quali condizioni un fondamento come quello
offerto dal discorsivismo sia razionalmente difendibile, in modo compatibile con la
deliberazione.
Il tentativo habermasiano di definire questo fondamento procede però su una
lama sottile, esponendosi, proprio per il suo essere tanto comprensivo, ad attacchi
provenienti da più direzioni. A parte le numerose obiezioni contro il preteso scarso
realismo della posizione di Habermas, più interessanti dal punto di vista deliberativo
sono le critiche, per certi versi opposte ma entrambe sistematicamente rilevanti, di
Rawls, contro la praticabilità di una teoria politica comprensiva, e di Apel, contro la
possibilità di fondare la normatività dei princìpi discorsivi su osservazioni empiriche.
Entrambe le questioni si presentano con particolare rilevanza a proposito dell’altro
Parte seconda: Temi e problemi
- 117 -
punto lasciato aperto: la considerazione della società civile come spazio deliberativo
e il suo rapporto con i contesti politici formalizzati. Ciò sarà l’oggetto precipuo del
prossimo capitolo, proiettando peraltro rilevanti implicazioni su tutto il resto della
tesi.
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
La procedura democratica rende possibile il libero «scorrere» di temi e contributi, informazioni e ragioni; essa assicura così alla formazione politica della volontà un carattere discorsivo e fonda la fallibilistica presunzione che risultati prodotti in conformità alle procedure siano più o meno ragionevoli. (Jürgen Habermas, Fatti e norme)
Prima di analizzare il ruolo svolto dalla società civile nelle teorie deliberative, sono
da premettere alcune considerazioni generali circa il modo di concepire i diversi
contesti nei quali si può deliberare. Come che la si voglia pensare, infatti, la deliberazione resta un’attività e perciò presuppone un luogo in cui svolgersi, un insieme di
spazi delimitati da certe caratteristiche; gran parte dell’opera d’una teoria deliberativa consiste nella definizione di questi spazi. La questione assume però accenti diversi per quelle teorie che, da un lato, impiegano la deliberazione come chiave di lettura della società democratica e, d’altro canto, per quegli approcci empiricoapplicativi che intendono progettare contesti deliberativi ad hoc.1 In questo capitolo
mi occuperò principalmente delle prime; anche perché i già criticati approcci applicativi, piaccia loro o meno, non possono che derivare la propria progettazione da elaborazioni teoriche d’ordine più generale.2
Una prima classificazione dei diversi spazi deliberativi la si può riprendere da Michael Saward,3 e consiste in una semplice tabella:
1. Si possono far corrispondere le prime a quelle che Simone Chambers ha definito «teorie della
democrazia deliberativa», contrapposte ai secondi, intesi come «teorie della deliberazione democratica», vedi: S. Chambers, “Rhetoric and the Public Sphere: Has Deliberative Democracy Abandoned Mass Democracy”, Political Theory 37, no. 3 (2009): 323-50.
2. Vedi ad esempio: A. Fung, “Recipes for Public Spheres: Eight Institutional Design Choices and
Their Consequences”.
3. M. Saward, “Less than meets the eye: democratic legitimacy and deliberative theory”, in Democratic Innovation, a cura di M. Saward, London: Routledge, 2000, p. 71. La tabella è presentata
in forma abbreviata.
- 120 -
Spazi deliberativi
Rappresentativi
Non-rappresentativi
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
Formali
Informali
A) Parlamenti e commissioni parla- B) Sondaggi deliberativi non appogmentari; sondaggi deliberativi con giati dal potere statale; giurie di cittaeffettivi poteri decisionali
dini; alcuni focus group
C) Corti supreme con funzioni di in- D) Associazioni; partiti
terpretazione della costituzione; mi- contro-culture subalterne;
nistri (se di nomina presidenziale)
discorsivi”
politici;
“sistemi
Per trarre dalle quattro caselle un catalogo dei possibili spazi deliberativi, è però
opportuno discutere brevemente del significato di ‘formale’ e ‘informale’ in questo
contesto. Mentre è relativamente chiaro, ancorché sempre problematico, cosa significhi che uno spazio deliberativo sia o meno rappresentativo relativamente ad un insieme più ampio di potenziali partecipanti, la coppia formale-informale appare ambigua rispetto al suo uso nel linguaggio ordinario. Intendendo i termini nel loro
significato letterale, infatti, sembrerebbe non esserci alcun legame necessario con gli
esempi incasellati da Saward (che pure non sbaglia nel proporli, perché ben corrispondono alle distinzioni impiegate nella maggior parte delle teorie deliberative).
Nulla impedisce che un’associazione o un partito politico deliberino dei propri affari
seguendo regole strettamente formalizzate, mentre d’altronde non si può davvero sapere se le deliberazioni tra i giudici di una corte o tra i ministri di un governo, svolgendosi di norma a porte chiuse (al contrario delle sessioni parlamentari), rispettino
o meno le forme del buon argomentare. Nemmeno la distinzione può essere riportata
alla contrapposizione tra contesti istituzionalizzati e non, dato che sondaggi deliberativi e citizens jury, così come partiti politici e associazioni, sono costituiti da regole formali, talvolta anche legalmente sanzionate.
Ciò considerato, sarà chiaro come la non sempre esplicitata caratteristica che discriminerebbe uno spazio deliberativo formale da uno informale consista nel suo essere interno o esterno alla sfera dello Stato, quest’ultimo inteso secondo la definizione weberiana della disponibilità di mezzi coercitivi legittimi per imporre le
proprie decisioni (ad oggi, invero, tale connotazione potrebbe andare al di là dei limiti statali, includendo alcune organizzazioni sovra- ed inter-nazionali, che infatti
varrebbero come spazi deliberativi formali). Gli spazi deliberativi dotati di potere
decisionale coercitivamente applicabile sarebbero effettivamente più formalizzati, nel
senso specifico però d’essere sottoposti agli imperativi sistemici – sul significato dei
quali tornerò nei prossimi paragrafi – che limitano le possibilità delle varie agenzie
statali. Altri contesti deliberativi, dunque, sarebbero informali perché meno vincolati, o più liberi, rispetto alle medesime costrizioni.
Parte seconda: Temi e problemi
- 121 -
Così, la distinzione corrisponderebbe grosso modo a quella tra “pubblici forti” e
“pubblici deboli”, descritta secondo il modello della democrazia “a doppio binario”.4
Nel quadro teorico habermasiano, si osserva perlopiù un corrispondente andamento
delle tre variabili racchiuse dalla coppia formale-informale, vale a dire il livello di
istituzionalizzazione dello spazio deliberativo, la rigidità delle norme che governano
la discussione entro di esso e, infine, la possibilità di rendere vincolanti le sue decisioni. Proprio il parlamento e le corti giudiziarie sono gli esempi per eccellenza della
formalizzazione/istituzionalizzazione intesa in questo senso: possono prendere decisioni legalmente vincolanti, dovrebbero rispondere a regole argomentative e comportamentali relativamente stringenti, e rappresentano poteri dello Stato permanenti e
costituzionalmente stabiliti. A queste istituzioni decisionali si contrappone, nella società civile, la sfera pubblica informale, che è “debole” (più precisamente, include
numerosi e diversificati pubblici deboli)5 in quanto priva di potere decisionale coercitivamente applicabile; ma proprio grazie a tale “debolezza” lascerebbe circolare una
comunicazione che, se intesa complessivamente (facendo la tara alle forze e controforze che localmente sempre la condizionano), sarebbe meno lontana dall’ideale del
discorso libero dal dominio, e perciò potrebbe svolgere il ruolo normativo che le si
vuole assegnare.
Tuttavia, qui, i tre elementi che confluiscono nella contrapposizione tra sfera pubblica formale/istituzionale (pubblici forti) e informale (pubblici deboli) debbono essere tenuti separati. Non solo e non tanto perché l’opposizione binaria è descrittivamente inadeguata – questione comunque scivolosa – bensì anche perché un catalogo
scandito su un solo asse non consentirebbe di cogliere problemi che pure si sono rivelati centrali nel dibattito sulla deliberazione, nonostante la prevalente bipartizione.
In particolare, tra i capitoli quinto e sesto, si osserverà, da un lato, come i confini
dell’istituzionalizzazione e del potere decisionale degli spazi deliberativi non necessariamente coincidano con quelli dello Stato e, d’altro canto, quanto rimanga problematico il ruolo ancipite, esclusivo/inclusivo, delle norme che regolano la deliberazione, siano esse istituzionalmente sancite o meno.
4. I termini weak publics e strong publics, introdotti da Nancy Fraser (N. Fraser, “Rethinking the
Public Sphere: A contribution to the Critique of Actually Existing Democracy”, in Habermas and
the Public Sphere, a cura di C. Calhoun, Cambridge MA: MIT Press, 1992), non sono impiegati direttamente da Habermas, ma sono diventati d’uso comune per descrivere la sua teoria e quelle affini, vedi ad esempio: J. Bohman, Public Deliberation, p. 179; A. Arato, “Procedural Law and Civil
Society”.
5. Talvolta s’incontrano interpretazioni della teoria di Habermas tali da far pensare che egli presupponga l’esistenza di un’unica e indivisibile sfera pubblica, vedi ad esempio: Y. Sintomer, Il potere al popolo, p. 184. Se ciò poteva forse valere per la prime opere del filosofo tedesco (quelle, peraltro, che hanno motivato la critica della Fraser) sarebbe tuttavia un fraintendimento imputargli
una concezione del genere perlomeno da Fatti e norme in poi.
- 122 -
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
Dunque, i caratteri degli spazi deliberativi potranno essere distinti almeno secondo quattro aspetti:
1) Rappresentatività. I partecipanti alla deliberazione possono essere selezionati in
modo da rappresentare un insieme di riferimento, e in tal caso il modo in cui s’intende questa rappresentatività è molto rilevante (su questo tornerò più diffusamente nel prossimo capitolo). Lo stesso concetto di rappresentanza presenta complesse sfaccettature,6 e la scelta di quale considerare prioritaria in ciascun caso
avrà certo conseguenze sui risultati della deliberazione. Inoltre, ogni possibile sfumatura del concetto si intreccia con la considerazione dell’oggetto da rappresentare. Ad esempio, chiaro è come sia differente pensare di rappresentare descrittivamente gli interessi o la composizione razziale dell’elettorato, o quella di classe,
religiosa e così via; analogamente, diverso è se i soggetti che delegano la propria
capacità di agire sono considerati i singoli individui, i gruppi socio-culturali o magari, ammodernando certe vecchie idee, le corporazioni professionali.7 Considerazioni simili valgono per gli altri possibili modi di intendere il termine. Definito il
tipo di rappresentanza e l’oggetto da rappresentare, resta in questione se debba
darsi un effettivo rapporto deliberativo tra rappresentati e rappresentanti, ed
eventualmente in quale forma, oppure se la relazione possa essere soltanto descrittiva, com’è il caso dei campioni statistici. Infine, i contesti deliberativi non rappresentativi possono basarsi sulla partecipazione spontanea, oppure selezionare i
partecipanti secondo criteri differenti; configurando con ciò ruoli normativi opposti rispetto alle due fondamentali esigenze normative della deliberazione, vale a
dire il carattere inclusivo della partecipazione e la qualità cognitiva dei risultati
ottenuti.
2) Istituzionalizzazione. Un contesto deliberativo può essere spontaneo e occasionale
(come una discussione improvvisata tra i presenti in un dato momento) oppure
può essere costituito in modo stabile da regole esplicitamente riconosciute. E queste ultime possono essere di carattere più o meno pubblico, a partire dall’accordo
informale, passando per le associazioni legalmente riconosciute (partiti politici,
associazioni non governative, fondazioni e simili), fino a spazi deliberativi definiti
6. Rimane meritatamente classica la trattazione offertane in: H. F. Pitkin, The Concept of Representation, Berkeley, Los Angeles: University of California Press, 1967. Si veda anche, solo recentemente tradotto in italiano, l’ampio studio d’impostazione storica: H. Hofmann, Rappresentanzarappresentazione: parola e concetto dall’ antichita all’ Ottocento, Milano: Giuffré, 2007.
7. La teoria dei gruppi di interesse ha talvolta impiegato un richiamo al corporativismo, benché
con intenti democratici ed anche specificamente deliberativi, vedi: J. Mansbridge, “A deliberative
theory of interest representation”, in The Politics of Interest, a cura di M. P. Petracca, Boulder
CO: Westview, 1992; J. Mansbridge, “A Deliberative Perspective on Neocorporatism”, in Associations and Democracy, a cura di E. O. Wright, London, New York: Verso, 1995.
Parte seconda: Temi e problemi
- 123 -
dalla costituzione di uno Stato o da trattati internazionali (assemblee parlamentari e corti giudiziarie, nazionali o internazionali).
3) Forme comunicative. Il modo in cui si può deliberare è sempre limitato perlomeno
dalla necessità di riconoscere un linguaggio comune; se lo si infrangesse sistematicamente, lo spazio deliberativo come tale svanirebbe. Ma la definizione di questo
“linguaggio” può essere assai o pochissimo stringente, e ciò che è ammesso o
escluso può esser definito e sanzionato in modo esplicito, oppure soltanto implicitamente assunto nell’usuale comportamento dei partecipanti. Come si vedrà meglio nel capitolo sesto, articolare le “regole” della comunicazione comporta problemi spinosi per qualsiasi teoria deliberativa, perché qui occorrono sia lo scontro tra
l’istanza per l’inclusione e quella per la qualità dei risultati, sia la contraddittorietà pragmatica tra questi due requisiti normativi ed i fattori temporali e materiali
che pur sempre limitano l’efficacia possibile d’ogni deliberazione.
4) Potere decisionale. Se uno spazio deliberativo abbia o meno il potere di implementare le proprie decisioni è ovviamente cruciale per valutarne la rilevanza entro
il complesso della società. Al problema dell’effettivo controllo che la deliberazione
è in grado di esercitare (direttamente o indirettamente) sulla produzione di decisioni coercitivamente applicabili, dev’essere però affiancata la corrispettiva considerazione dell’influenza che la presenza o l’assenza di potere decisionale, e la percezione di ciò da parte di chi delibera,8 possono esercitare sulla qualità della
deliberazione stessa. Benché difficile da quantificare, è indubbio che una tale influenza debba pur esserci: comprendere la differenza tra avere e non avere potere
decisionale è talvolta meno facile di quanto sembri, nondimeno rientra senz’altro
tra le competenze minime richieste ai partecipanti alla deliberazione, come più in
generale a chiunque si interessi di politica.9
Premessa quest’articolazione degli aspetti che possono definire i diversi spazi deliberativi, si può passare a trattare il tema del rapporto tra società civile e politica
istituzionalizzata, secondo il modello, cui si è già accennato, della democrazia “a
doppio binario” (§ 4.1). Ma se, come osservato in chiusura del precedente capitolo, il
ruolo positivamente normativo della società civile deve riposare su una sua descrizione in qualche modo oggettivante che, perciò, non comporti, dal punto di vista degli agenti, un’infrazione del proceduralismo della teoria deliberativa, allora bisognerà
8. Se non bastasse il senso comune, pare che questo dato sia stato confermato anche “sperimentalmente”, vedi sopra, n. 101, p. 70.
9. La disconnessione da un contesto decisionale, nel quale ci si aspetta che alla discussione segua
un qualche tipo di azione, è una caratteristica tipica dei sondaggi d’opinione; tuttavia, nel momento in cui si vuole spostare l’enfasi della deliberazione fuori dalla politica istituzionalizzata e verso la
società civile, il suddetto difetto rischia di essere condiviso dalla stessa prospettiva critica che in
precedenza lo aveva ben individuato, vedi ad esempio: J. S. Dryzek, “The Mismeasure of Political
Man,” pp. 715-16.
- 124 -
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
proseguire col discutere la particolare prospettiva sociologico-descrittiva proposta da
Habermas (§ 4.2). Infine, i due predetti punti di vista dovranno essere posti a
contatto, per comprendere come non sia possibile fondare la pretesa normativa, dal
punto di vista politico, sulla validità descrittiva della diagnosi sociologica e le conseguenze di tale impossibilità per la struttura della democrazia deliberativa (§§ 4.3 e
4.4).
4.1. Interpretare la democrazia “a doppio binario”
La necessità di pensare la democrazia al di là dei ristretti confini della possibile partecipazione diretta – inestricabile dall’ideale classico, corrente fino a tutto il ‘700 e,
talvolta, ancora oggi riaffiorante – percorre con diversi accenti la teoria deliberativa,
come già osservato nel capitolo secondo, fin dai suoi esordi. Chiaro è come tale consapevolezza non sia limitata alle sole teorie deliberative, imponendosi piuttosto oggettivamente su qualunque tentativo di pensare la democrazia in dimensioni più
grandi di quelle d’un piccolo borgo. Specifiche, però, sono le risposte che possono
emergere da un’interpretazione deliberativa della questione. Il ruolo centrale conferito alla comunicazione, in particolare, apre ad una considerazione normativamente
positiva della rappresentanza – spesso valutata, invece, come derivazione soltanto
pragmatica, rispetto al’optimum della democrazia diretta10 – purché sia deliberativamente ben strutturata.
Si ricorderà come già Bessette, contro l’interpretazione anti-democratica dell’opera dei Padri fondatori, valutasse la rappresentanza politica non soltanto pragmaticamente ma anche normativamente preferibile.11 Sebbene non vi sia una connessione
diretta, il modello della democrazia “a doppio binario” potrebbe essere letto come
un ampliamento di questa, per così dire “madisoniana”, idea iniziale.12 Dunque, la
distinzione tra la società e le istituzioni che la governano non sarebbe soltanto un
fatto che il pensiero moderno non può più nascondere ideologicamente, rappresentando bensì anche una condizione di possibilità per la stessa democrazia deliberativa. Certo, già il liberalismo classico poteva celebrare, quale garanzia del libero godimento dei privati interessi di ognuno, la separazione della società dallo Stato; ma dal
10. Ad esempio, entro il campo deliberativo, in: C. S. Nino, The Constitution of Deliberative Democracy, pp. 146, 171.
11. J. M. Bessette, “Deliberative Democracy: The Majority Principle in Republican Government”;
vedi sopra pp. 45 ss. La contrapposizione netta, corrispondente peraltro all’uso linguistico dell’epoca dei Fondatori, appare tuttavia comune nelle discussioni politiche statunitensi («we are a Republic, not a Democracy», si dice, e perlopiù non con significato peggiorativo), anche se, per ovvi motivi, non è di solito proposta da candidati in cerca di voti.
12. Come si vedrà meglio nel prossimo capitolo, il significato positivo della rappresentanza per la
democrazia può trovare radici diverse nella storia del pensiero politico: N. Urbinati, Representative
Democracy: Principles and Genealogy, Chicago: The University of Chicago Press, 2006.
Parte seconda: Temi e problemi
- 125 -
punto di vista deliberativo l’intento dovrebbe proprio essere quello di sciogliere la
contrapposizione tra diritti individuali e partecipazione democratica. Si tratta di
comprendere se e come, nonostante gli innegabili problemi d’integrazione delle moderne democrazie, il dualismo tra società e politica – sempre però attraverso l’ulteriore scomposizione nella più articolata pluralità di “pubblici” diversi – permetta al
contempo la garanzia delle libertà individuali ed una migliore qualità della deliberazione democratica. Così, nella dinamica dell’interazione tra pubblici deboli e forti, si
troverebbe il nesso tra il superamento del pensiero della democrazia come una sorta
di totalità etica (rappresentabile, magari, nella “volontà generale” di un Popolo o
una Nazione, illusoriamente intesi come soggetti concreti) e la tesi della cooriginarietà di diritti individuali e di partecipazione. D’altronde, la stessa concezione dei «circuiti comunicativi [...] senza soggetto» non si comprenderebbe affatto a meno del riferimento al dualismo tra società civile e politica istituzionale.13
Tuttavia, si deve evitare di schiacciare eccessivamente questo tipo di posizione
sulla sola concezione di Habermas, nonostante la preponderante rilevanza di essa. In
effetti, sono già stati citati esempi analoghi, nonostante le differenti terminologie,
nelle varie proposte deliberative, anche da parte di teorici che non condividono, talvolta nemmeno prendono in considerazione, la tesi della cooriginarietà di diritto e
democrazia.14 Perciò, la posizione di un dualismo tra la deliberazione nella società e
quella nelle istituzioni è da considerare una tendenza di fondo dell’approccio deliberativo. Resta in discussione quale sia il modo più appropriato di concepire questa
dualità, tanto sul piano teorico-metodologico quanto su quello politico.
Si può iniziare col richiamare brevemente la posizione dei pubblici forti e di quelli
deboli sui sopraindicati quattro assi della definizione dei possibili luoghi deliberativi.
In tutti e quattro i casi i pubblici forti occupano il polo positivo: sono rappresentativi,15 istituzionalizzati, rispondono a regole argomentative relativamente stringenti e
13. J. Habermas, Fatti e norme, p. 163, 356. Vedi anche: R. Forst, Contexts of Justice: Political
Philosophy beyond Liberalism and Communitarianism, Berkeley CA: University of California Press,
2002, pp. 121 ss.
14. Oltre ai teorici repubblicani e a quelli di più stretta osservanza habermasiana, per la rilevanza
deliberativa della relazione differenziata tra cittadini/comunicazione sociale e rappresentanti/deliberazione istituzionalizzata si possono citare perlomeno: J. Mansbridge, “Everyday Talk in the Deliberative System”, in Deliberative Politics, a cura di S. Macedo, New York, Oxford: Oxford University Press, 1999; M. R. James, Deliberative Democracy and the Plural Polity; D. Estlund,
“Democracy and the Real Speech Situation”.
15. Le corti giudiziarie sono un’eccezione solo a metà, giacché, non rappresentative dal punto di vista politologico, lo sono però sia deliberativamente (se vogliono essere considerate legittime) sia in
senso giuridico-formale. Non soltanto i tribunali, anche dove non sia prevista una giuria popolare,
pronunciano i loro verdetti in nome del popolo, ma anche nelle concrete discussioni giurisprudenziali si trovano di continuo richiami alle opinioni socialmente diffuse, d’altronde impliciti già nei testi costituzionali (si pensi alla proibizione di «cruel and unusual punishment» nei Bill of Rights britannico e statunitense, o all’indeterminata formula del due process).
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4. Spazi deliberativi, tra società e politica
sono dotati di effettivo potere decisionale. Viceversa per quanto riguarda i pubblici
deboli. Entro questa configurazione, ai secondi è demandato il ruolo di presentare
nella sfera pubblica i problemi e le istanze che i primi dovranno affrontare e risolvere
attraverso una deliberazione più formalizzata.16 Questa sorta di “divisione del lavoro” è necessaria per aggirare la tensione, sempre presente, tra la più ampia inclusione possibile in un processo democratico-deliberativo e l’efficacia del medesimo. La
radicalità di questa contrapposizione è resa ancor più evidente da un approccio discorsivo; così, in questione non sarà più soltanto la solita scarsità di tempo e di risorse materiali e cognitive – fattori certo sempre presenti, ma normativamente solo
contingenti – bensì anche l’orientamento intrinsecamente differente dei vari tipi di
comunicazione.
Ancor prima di giungere alla banale constatazione empirica che la posizione
d’ogni deliberazione in un contesto sociale ne condiziona gli esiti possibili – cosicché,
mentre il comune cittadino non ha la stessa responsabilità decisionale né, perlopiù,
la disponibilità di mezzi ed informazioni che hanno i politici di professione, questi
sono a loro volta sempre sottoposti a pressanti richieste da più parti, mentre devono
continuamente accumulare le risorse economiche e reputazionali necessarie per mantenere posizioni di potere – è sufficiente intendere la differenza che passa, ad esempio, tra un discorso drammaturgico/espressivo ed uno pragmatico/applicativo per
capire come ogni possibile democrazia deliberativa debba sempre sopportare la tensione tra istanze normative divergenti. Una divergenza certo acuita dal pluralismo e
dalla complessità delle società moderne, e però già intrinseca alla forma politica democratica. Altro è condurre il discorso verso un pragmatico compromesso, altro perseguire un principio morale; ancora, cercare il consenso su questioni di verità fattuale richiederà una comunicazione strutturata diversamente da quella finalizzata
alla comprensione e al riconoscimento di differenti identità culturali, e così via.
Dunque – senza neppure considerare gli elementi contro-normativi, pur sempre abbondanti nelle reali dinamiche politico-sociali – già soltanto la prevalenza di diverse
pretese di validità in diversi discorsi rende chiaro come una deliberazione decentrata
e differenziata attraverso molteplici contesti sarebbe normativamente preferibile persino nell’improbabile caso in cui si realizzassero condizioni comunicativamente
perfette.
Gli spazi deliberativi formalmente istituzionalizzati dovrebbero garantire la razionalità dei discorsi orientati alla produzione e al controllo di norme legali valide erga
omnes (parlamenti e corti costituzionali) e di discorsi applicativi, questi ultimi sia
riguardo questioni di giustizia (tribunali) sia nell’implementazione pragmatica delle
decisioni politiche (amministrazione). A complemento di questi spazi politici, carat16. J. Habermas, Fatti e norme, capp. 7, 8.
Parte seconda: Temi e problemi
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terizzati da forme discorsive relativamente esigenti – e quindi esclusive – nella più
ampia società circola una comunicazione non sottoposta ai medesimi vincoli, che
proprio per questo motivo può aprirsi ai più diversi contributi comunicativi, anche
radicalmente critici, che costituiranno per il sistema politico un insieme di input,
però già autonomamente strutturati, a partire dai quali la politica istituzionale dovrebbe elaborare soluzioni normativamente valide e pragmaticamente efficaci.17 Perciò, anche i criteri meno stringenti per le ragioni espresse nella comunicazione sociale
rimanderebbero ad una superiore razionalità deliberativa – cioè alla tendenza, pur
non mai garantita, verso risultati equi e intelligenti – del complesso società-politica.
Così sintetizza lo stesso Habermas:
... abbiamo genericamente parlato della sfera pubblica politica come di una struttura comunicativa poggiante sulla società civile e radicata (tramite questa) nel
mondo di vita. L’abbiamo descritta come una «cassa di risonanza» per quei problemi che, non trovando altra soluzione, devono assolutamente essere affrontati dal sistema politico. In questo senso la sfera pubblica è un sistema di allarme dotato di
sensori non specializzati, ma diffusi in tutto il corpo sociale. Inoltre, dal punto di
vista di una teoria della democrazia, la sfera pubblica deve anche rafforzare la pressione dei problemi. Deve cioè non soltanto percepirli e identificarli, ma anche tematizzarli in un modo convincente e influenzante, arricchendoli di contributi e «drammatizzandoli» perché siano recepiti ed elaborati dal complesso parlamentare. Essa
deve cioè non solo percepire le questioni, ma anche problematizzarle in modo efficace. La scarsa capacità della sfera pubblica di risolvere i problemi nel suo stesso
ambito dev’essere quindi utilizzata per controllare la loro successiva trattazione
nell’ambito del sistema politico.18
Lo schema “a doppio binario” apparirebbe ora abbastanza chiaro, sennonché s’incontra immediatamente il problema di interpretare adeguatamente l’insistente occorrenza del verbo ‘dovere’. Di certo non potrà trattarsi di un dovere oggettivo, inteso
cioè descrittivamente, come se “per natura”, o magari per infallibile necessità storica, la società civile non potesse proprio fare a meno di svolgere questa o quella funzione deliberativa. Ciò non soltanto perché una diagnosi del genere, per le nostre società attuali e nel prossimo futuro, potrebbe sembrare patentemente irrealistica (e
cosa ne sarebbe in tal caso della democrazia deliberativa, anche come ideale?), bensì
per la più radicale ragione che tutti i concetti in gioco sono già carichi di caratterizzazioni normative. Sarebbe una sociologia ben ingenua quella che credesse di poter
trattare oggetti del genere, mai presenti all’osservazione in modo neppure lontanamente immediato, senza problematizzare la scelta delle caratteristiche che li defini17. Per far intendere la relazione tra società civile e politica istituzionale, Habermas impiega le metafore delle “chiuse idrauliche” e dell’“assedio”, vedi: Ivi, pp. 423-424, 452.
18. Ivi, pp. 426-27.
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4. Spazi deliberativi, tra società e politica
scono. D’altra parte, qualsiasi cittadino interessato alla politica può facilmente rendersi conto di come concetti quali ‘il pubblico’, ‘la società civile’ e simili, siano ad un
tempo strumentalizzati e ideologicamente rappresentanti nel comune linguaggio politico, al punto da rivaleggiare quasi con i precedenti miti del Popolo o della Nazione.
Ma, se anche si potessero pensare concetti sociali del genere come oggetti privi di
connotazioni normative, la loro descrizione empirica rimarrebbe altamente problematica, per non dire impossibile, poiché la necessità di costruire un contesto osservabile – i cui risultati possano essere misurati in base a criteri indipendenti che, di
nuovo, non si sa da dove trarrebbero legittimità – si trova in flagrante contraddizione con la presunta spontaneità e apertura ai più diversi contributi della comunicazione nella società civile. Questo è, in effetti, quel che accade per quegli approcci
empirici che vorrebbero misurare direttamente la qualità della deliberazione in base
ai suoi risultati, il che semplicemente ne distrugge qualsiasi possibile significato.
C’è tuttavia una funzione deliberativa che la comunicazione informale nella società (intesa quest’ultima, però, in un senso più ampio e meno connotato della ‘società
civile’ o della ‘sfera pubblica’) può senz’altro svolgere, ed è quella semplicemente informativa, o per meglio dire: relativa alla produzione, raccolta e condivisione della
conoscenza. Infatti, per quanto si possa essere disincantati e pessimisti circa il potenziale di razionalità della società civile, si deve perlomeno riconoscere che non si
dà alcun luogo diverso dall’intero della società da cui trarre l’insieme delle informazioni relative alle aspirazioni, ai bisogni e alle condizioni presenti dei soggetti coinvolti.19 Si potrebbe perfino pensare che la politica istituzionale, formalizzata secondo
regole precise, dovrebbe essere preponderante al punto da trattare l’input proveniente dalla società come una sorta di materia inerte, la cui formalizzazione fosse
completamente a carico del sistema politico stesso – un delirio di onnipotenza non
estraneo ad alcuni uomini politici. Siffatto scenario sarebbe poco deliberativo e
meno ancora democratico, ma neppure in un tal caso si potrebbe oscurare il valore
informativo, innegabile anche su un piano meramente empirico/descrittivo, della comunicazione diffusa nella società.
Questa considerazione chiarisce un ruolo inerente per definizione alla comunicazione sociale – che in quanto tale dev’essere mantenuto nella definizione deliberativa
di quest’ultima – ma, di per sé, è insufficiente come appoggio per una teoria della
deliberazione democratica. Ciò non solo e non tanto perché la percezione dei propri
problemi ed interessi da parte dei cittadini può essere, ed è, inibita in parte o del
tutto da relazioni di dominio/oppressione, dalle quali proprio la deliberazione do19. Preferisco esprimermi in questo modo, relativamente asettico, ma entro tale considerazione è
da posizionare anche il ruolo di “rivelazione” che potrebbe essere svolto dalla deliberazione nella
società, particolarmente enfatizzato da James Bohman, che appunto si spingeva fino a riprendere il
termine heideggeriano (reso in inglese come disclosure): J. Bohman, Public Deliberation, pp. 213 ss.
Parte seconda: Temi e problemi
- 129 -
vrebbe offrire una possibile via d’uscita.20 Piuttosto, si deve anche considerare come,
persino in una situazione idealmente priva di distorsioni comunicative, ed anzi proprio in tal caso con maggiore evidenza, poggiando su un ruolo della comunicazione
sociale così minimale (e solo in quanto tale relativamente impermeabile al sempre
pressante disincanto dell’osservazione empirica), la deliberazione stessa diverrebbe
un mero accessorio, prontamente dispensabile a fronte di altre ben più urgenti finalità politiche.21 Accontentandosi di concepire il contributo della comunicazione socialmente diffusa come soltanto informativo, infatti, si ricadrebbe in una concezione
strumentale – dunque teleologica nel senso proposto precedentemente – della deliberazione pubblica, che potrebbe servire soltanto a correggere le distorsioni indotte da
una situazione sociale pur sempre ingiusta.
Ma se la finalità fosse quella di ottenere dall’insieme della società una informazione non distorta, nella quale si potrebbe rinvenire il vero interesse comune, poi da
realizzare politicamente; fatalmente ci si accorgerebbe che, ben prima di giungere
alla deliberazione (il cui potere anti-distorsivo, peraltro, si manifesta nella prassi in
modo molto contingente),22 sarebbe prioritario, perché ben più efficace, eliminare
piuttosto gli ostacoli economici e culturali al dispiegarsi della libera percezione dei
propri interessi reali da parte di ogni individuo e gruppo sociale.23 Ricadere però in
una concezione del genere – che non si differenzierebbe in linea di principio da un
approccio aggregativo, coincidendo grossomodo con una versione del welfare state, la
cui contemporanea crisi di legittimità e praticabilità è stata peraltro un fattore di
stimolo non secondario per lo sviluppo delle teorie deliberative – vorrebbe dire non
cogliere affatto il radicale superamento del paternalismo (raccomandabile da un punto di vista normativo, ma reso al contempo necessario dal pluralismo de facto delle
20. In questo senso, un’analisi del potere/dominio come quella proposta da Steven Lukes (S.
Lukes, Il potere: una visione radicale, Milano: Vita e pensiero, 2007) troverebbe un buon complemento proprio in un approccio deliberativo: A. Ron, “Power: A pragmatist, deliberative (and radical) view”, The Journal of Political Philosophy 16, no. 3 (2008): 272-92.
21. L. M. Sanders, “Against Deliberation”. Particolarmente esposta a questo risultato è una visione “terapeutica” della deliberazione, volta cioè all’auto-chiarimento dei partecipanti, vedi: G.
Shiffman, “Deliberation versus Decision: Platonism in Contemporary Democratic Theory”, in Talking Democracy, a cura di B. Fontana, et al., University Park PA: Pennsylvania State University
Press, 2005, pp. 109-10.
22. È stato argomentato che la deliberazione costituirebbe perfino un mezzo particolarmente adatto ad imporre l’egemonia dei potenti sui dominati: A. Przeworski, “Deliberation and Ideological
Domination”.
23. Su questa linea sono state effettivamente avanzate varie critiche contro l’approccio deliberativo:
L. M. Sanders, “Against Deliberation”; I. Shapiro, “Enough of Deliberation”. Per un tentativo di
risposta: A. Kadlec e W. Friedman, “Deliberative Democracy and the Problem of Power”, Journal
of Public Deliberation 3, no. 1 (2007): articolo 8.
- 130 -
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
società contemporanee) che è, o dovrebbe essere, un pilastro della democrazia
deliberativa.24
Dunque, anche se non si deve per nulla svalutare l’aspetto informativo/cognitivo
della comunicazione generalmente diffusa, affinché questa possa svolgere il ruolo richiestole, nelle forme della società civile e dell’opinione/sfera pubblica che su di essa
si basa, è necessario includervi connotazioni normativamente più esigenti (benché
differenti da quelle richieste agli spazi deliberativi istituzionali), che perciò non possono essere ridotte ad un’osservazione sociologica di come fattualmente si svolga la
comunicazione nella società. Da un punto di vista descrittivo, infatti, la qualità della
deliberazione nella società civile sarebbe puramente contingente, questa perciò non
potrebbe svolgere il ruolo fondamentale richiestole da una concezione procedurale
come quella definita nel precedente capitolo.
Accantonata la possibilità di appoggiarsi ad una descrizione sociologica, pretesa
oggettiva, della deliberazione nella società, si può osservare come anche l’opzione di
un’interpretazione soltanto normativa presenti più di qualche problema. Certo, se ci
si limitasse ad una teoria della società civile presa di per sé, potrebbe essere sensato
offrire raccomandazioni sul modo di concepirla, e al tempo stesso su come agire entro di essa e su di essa, per ottenere condizioni migliori in ordine ad una finalità
considerata normativamente apprezzabile; fosse anche quella, largamente indeterminata, della realizzazione di una buona democrazia deliberativa. Così, la comunicazione nella società contribuirebbe alla legittimità delle leggi e degli ordinamenti risultanti dal complesso società-politica, a patto però d’essere strutturata nelle forme
di una buona società civile, aperta alle ragionevoli istanze provenienti dai singoli e
dai gruppi sociali, nonché capace di ospitare una discussione pubblica di qualità tra
tutti questi ultimi. In questi termini, sarebbero perciò la società civile e la sfera pubblica ad essere definite in forza della deliberazione, e non viceversa. In tal caso,
senz’altro ci sarebbe ancora da discutere quale sia la più appropriata teoria normativa, l’una magari risulterebbe troppo esigente e l’altra troppo poco, ma resterà fermo
il punto che solo se le strutture sociali corrisponderanno sufficientemente al modello
scelto, allora meriteranno i nomi di ‘società civile’ e ‘sfera pubblica’, con relativa legittimazione democratica/deliberativa, e altrimenti no.
Liquidare affrettatamente un pensiero del genere sarebbe un errore, se non altro
perché dovrebbe esser chiaro come chi pretenda pura oggettività per le sue descrizioni politico-sociali stia soltanto nascondendo le scelte concettuali che le definiscono,
24. Molti cadono, almeno in parte, nell’errore di contrabbandare atteggiamenti paternalistici sotto
un manto deliberativo; alcuni arrivano a rivendicarlo esplicitamente, come i già citati: R. H. Thaler
e C. R. Sunstein, “Libertarian Paternalism Is Not an Oxymoron”; R. H. Thaler e C. R. Sunstein,
Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth, and Happiness. Vedi anche sopra, § 1.3.1.
Parte seconda: Temi e problemi
- 131 -
siano esse normativamente valide o frutto di puro arbitrio.25 Perciò, l’esplicita consapevolezza di proporre un modello normativo andrebbe salutata positivamente, proprio da un punto di vista freddamente realistico. E però non è esattamente di questo
che si stava qui andando in cerca. Piuttosto, come già osservato a partire dal precedente capitolo, la questione è che l’attribuzione di un ruolo positivo alla comunicazione fattualmente osservabile nella società civile sembrerebbe necessaria per salvare
il proceduralismo della democrazia deliberativa – e dunque la teoria stessa, avendo
mostrato come quella procedurale sia la sola opzione davvero percorribile. Ma questo requisito squalifica, e doppiamente, la possibilità di definire la società civile e il
suo ruolo in modo soltanto normativo. Da un lato, non sarebbe ammissibile prescrivere una data configurazione della società e del suo rapporto con la politica, perché
con ciò si starebbero escludendo a priori, violando il richiesto proceduralismo, tutte
quelle opzioni politiche che preferissero una diversa configurazione del nesso societàpolitica, oppure che lo concepissero, implicitamente o esplicitamente, secondo termini diversi da, e/o incompatibili con, quelli proposti dalle teorie deliberative più vicine alla teoria critica. D’altra parte e in aggiunta, basando la concezione normativa
della comunicazione nella società civile sulla stessa teoria deliberativa, non si potrebbe poi fondare la validità di quest’ultima sull’esistenza fattuale della prima; sarebbe cioè necessario un ulteriore appoggio normativo per spezzare l’evidente circolarità logica, ma con ciò si lascerebbe inevitabilmente cadere il ruolo fondamentale
della società civile. Se poi, per occupare il posto richiestole, la deliberazione nella società dovesse assoggettarsi a certe forme preventivamente definite, sfumerebbe la
stessa distinzione (formale vs informale) tra pubblici forti e pubblici deboli, privando
di significato l’intera costruzione.
Di per sé, dunque, l’affermazione del ruolo normativo della società civile sembrerebbe essere circolarmente tautologica oppure idiosincratica – dipendente cioè da
giudizi particolari, più o meno controversi, riguardanti un insieme di fatti sociali del
tutto contingenti, per di più arbitrariamente prescelti – in entrambi i casi, inutile
allo scopo di fondare una concezione puramente procedurale della democrazia deliberativa. La questione non è però così banale, perché il tentativo habermasiano,
com’era prevedibile anche in questo caso, è quello di superare la mera contrapposizione tra fattualità e validità, ed è proprio in questa tensione che va situata la rilevanza del punto in discussione. Perciò, sarà ora necessario addentrarsi un poco nella
specifica concezione della società civile propria delle teorie deliberative più vicine
alla filosofia discorsiva e alla teoria critica. Come reso chiaro già dal brano di Fatti e
norme citato qualche pagina sopra, i termini centrali per comprendere il ruolo normativo della società civile saranno quelli di ‘sfera pubblica’ (Öffentlichkeit) e ‘mondo
25. Vedi anche infra, § 6.2.
- 132 -
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
della vita’ (Lebenswelt),26 ed è all’intreccio di questi concetti che sarà dedicato il
prossimo paragrafo.
4.2. La società civile deliberativa: Öffentlichkeit e Lebenswelt
Quello di ‘società civile’ è tra i concetti politici maggiormente polisensi, passato attraverso stratificazioni teoriche successive e volta per volta impiegato per scopi teorici e pratici divergenti; il suo specifico significato per la democrazia deliberativa
dev’essere perciò debitamente distinto.27
Prima del diciannovesimo secolo, il concetto ricalcava ancora l’origine romana,
non significando altro se non una società umana con un certo livello culturale e ordinata secondo una legittima forma di governo.28 Dopo Hegel e a partire dal liberalismo ottocentesco, il termine passa a denotare quell’ambito medio tra privato e pubblico (quest’ultimo ormai coincidente con lo Stato), occupato da associazioni e
gruppi di vario genere, dotati sì di interessi e mezzi di influenza, ma separati e distinti dalle sedi decisionali proprie della politica statale.29 Questa formale posizione
intermedia è rimasta finora un carattere più o meno stabile del concetto, anche se i
contenuti ascrittigli sono mutati sulla scorta dei cambiamenti storicamente sperimentati dalle nostre società. In particolare, mentre sembrano sfumare i confini tra lo
Stato e i grandi gruppi di interesse,30 la società civile viene perlopiù definita in doppia contrapposizione alla sfera statale e a quella economica, e i suoi attori tipici diventano, soprattutto a partire dagli anni sessanta del novecento, quei movimenti –
studenteschi, femministi, ecologisti, pacifisti, e così via – caratterizzati da relativa
spontaneità, scarsa stabilità organizzativa e, in genere, dall’ostilità verso l’establishment. Ciò contribuisce a spiegare il successo, nonostante la relativa imprecisione,
della predetta distinzione tra spazi deliberativi formali e informali, giacché proprio
26. La traduzione del tedesco Öffentlichkeit in ‘sfera pubblica’ è usuale, pur se inevitabilmente imprecisa. Ho invece preferito l’espressione ‘mondo della vita’ al «mondo di vita» o «mondo vitale»
che si trova nelle traduzioni italiane della Teoria dell’agire comunicativo e di Fatti e norme.
27. Centrale per questa prospettiva è: J. L. Cohen e A. Arato, Civil Society and Political Theory.
Per un quadro generale si vedano anche: J. Keane, Civil Society: Old Images, New Visions, Stanford CA: Stanford University Press, 1999; S. Chambers e W. Kymlicka, Alternative Conceptions of
Civil Society.
28. Il termine era usato in questo senso ancora da Kant, mentre in Locke l’identità di significato
tra società civile e politica era persino esplicitata, nel titolo del settimo capitolo del Secondo trattato sul governo (1689).
29. Rispetto alla quale potevano essere considerati un benefico contrappeso, come in Tocqueville,
oppure una contraddizione, da superare in una futura nuova unione tra società e politica, come in
Marx, a partire dalla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico.
30. Si pensi al classico: C. W. Mills, L’élite del potere, Milano: Feltrinelli, 1959. La ben precedente
etichettatura, da parte di Marx, dello Stato come comitato d’affari della borghesia non è probabilmente da intendere proprio nel medesimo senso.
Parte seconda: Temi e problemi
- 133 -
questi movimenti di contestazione sono i principali esempi che i teorici deliberativi
hanno in mente nell’apprezzare il potenziale normativo della società civile.
A parte la contingente emergenza storica di movimenti variamente “progressisti”,
peraltro affiancati da altri poco o punto tali,31 c’è un diverso ordine di motivi per cui
la democrazia deliberativa, particolarmente nelle sue declinazioni più vicine al discorsivismo ed alla teoria critica, è così propensa all’interpretazione della società civile in chiave “movimentista”. È stato già accennato: partendo dal presupposto che
un discorso pratico libero da costrizioni e aperto a tutti i potenziali interessati giungerebbe ad esiti giusti, diviene ovvio cercare quegli esempi reali che, pur non potendo corrispondere pienamente all’ideale, maggiormente vi si approssimano.32 L’interpretazione discorsivo-deliberativa della società civile trova così le sue più profonde
radici nel kantiano uso pubblico della ragione,33 però declinato sociologicamente attraverso il concetto di ‘sfera pubblica’. Da sempre, per Habermas – alla luce della linea di critica hegelo-marxista contro la presunta utopica astrattezza del dover essere
kantiano, che trova un vertice particolarmente pessimistico proprio nella Scuola di
Francoforte – il problema è stato quello di definire un luogo nel quale la ragione pratico-politica potesse concretamente esercitare effetti normativi. Il prototipo di questo
ragionevole spazio è inizialmente individuato nella sfera pubblica borghese (quei salotti, caffè e club letterari ancora piuttosto presenti nel comune immaginario) che, a
cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo, avrebbe svolto un ruolo critico-razionalizzante nei confronti di un potere statale frattanto distaccatosi, in modo rilevante seppur solo parzialmente, dalle strutture sociali tradizionali.34
Questo primo esempio di sfera pubblica moderna – ammettendo che lo si possa
davvero prendere a modello, posizione foriera di molte critiche, poi parzialmente ri31. Simone Chambers arriva a parlare esplicitamente di una eventuale «cattiva società civile»: S.
Chambers e J. Kopstein, “Bad Civil Society”, Political Theory 29, no. 6 (2001): 837-65; S. Chambers, “A Critical Theory of Civil Society”, in Alternative Conceptions of Civil Society, a cura di S.
Chambers e W. Kymlicka, Princeton: Princeton University Press, 2002, pp. 100 ss.
32. Si deve però notare come questo non contraddica direttamente la considerazione “realistica”
per cui l’integrazione della società non può derivare esclusivamente dall’autorganizzazione democratica, o dal solo agire comunicativo, vedi: J. Habermas, Fatti e norme, pp. 188, 360 ss., 439 ss.
33. I. Kant, Risposta alla domanda: cos’è l’illuminismo?, 1784. Rilevante è anche la più immediatamente politica clausola di pubblicità in Per la pace perpetua (1795).
34. J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica. Il libro, pubblicato in tedesco nel 1962, ha
originato una serie molto lunga di apprezzamenti, appropriazioni e critiche. Due buoni punti di
partenza per seguire il filo del discorso possono essere: C. Calhoun, a cura di, Habermas and the
Public Sphere, Cambridge MA: MIT Press, 1992; e, tuttora insuperato per quanto riguarda lo studio del primo Habermas: T. McCarthy, The Critical Theory of Jürgen Habermas, Cambridge MA:
MIT Press, 1978. Circa l’evoluzione del tema della sfera pubblica lungo tutta l’opera habermasiana
si vedano anche: K. Baynes, The Normative Grounds of Social Criticism: Kant, Rawls, and Habermas, Albany NY: SUNY Press, 1992; P. Johnson, Habermas: Rescuing the Public Sphere, New
York: Routledge, 2006.
- 134 -
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
veduta dallo stesso Habermas – era però strutturalmente deficitario, fondandosi
sull’esclusione sociale (soprattutto dei lavoratori e delle donne), e comunque, in
parte per questo stesso motivo, esposto a pressioni sistemiche tendenti a trasformare
il pubblico colto dei borghesi, sicuri della propria autonomia, in quello, passivamente
ricettivo, fatto di consumatori cui viene somministrata un’informazione manipolata
da media profondamente intrecciati alla data struttura di dominio.35 Però la prognosi proposta, prospettando la democratizzazione dei sistemi funzionali preesistenti,
doveva presto apparire inadeguata, al contempo ‘troppo’ e ‘troppo poco’ esigente,
agli occhi dello stesso autore.
D’altra parte, il libro sull’opinione pubblica era ancora fresco di stampa mentre, a
partire dagli Stati Uniti e poi verso oriente fino ai paesi del blocco comunista – dalle
proteste studentesche di Berkeley alla primavera di Praga – una marea di movimenti
variamente libertari, prevalentemente giovanili, sembrava travolgere strutture autoritarie divenute d’un colpo anacronistiche. Nuovamente negli anni ‘80, mentre l’Occidente appariva preda del “riflusso” verso il privato, il progressivo crollo dei regimi
comunisti era guidato in larga misura da movimenti della società civile – iconica è la
vicenda di Solidarność – in rivolta contro il soffocante controllo burocratico-statale.
A meno della poco plausibile negazione di qualsiasi rilevante differenza tra fenomeni
politici patentemente diversi e persino opposti, eventi del genere non trovavano spiegazioni nel quadro adorniano della società amministrata. In parte anche per rispondere a questo problema – il che, più in generale, significava sfuggire, cercando però
di tenersi entro i confini della teoria critica, all’ineluttabilità dell’auto-negazione della ragione nel dominio come reificazione – attraverso successive rielaborazioni,36 con
la Teoria dell’agire comunicativo e di nuovo con Fatti e norme, Habermas giunge ad
annodare la diagnosi sociologica alla ricostruzione dei presupposti normativi intrinseci all’uso del linguaggio, soprattutto grazie all’impiego della coppia concettuale di
Lebenswelt e System (mondo della vita e sistema).37
In estrema sintesi, la grande opera habermasiana del 1981, che resta alla base
delle elaborazioni successive, rappresenta una teoria complessiva della società, delle
35. La diagnosi – ancora in piena coerenza la tesi adorniana circa la «società amministrata» come
forma tipica della modernità avanzata – in sé è chiaramente criticabile, ad esempio perché «tende a
giudicare il diciottesimo secolo a partire da Locke e Kant, il diciannovesimo da Marx e Mill, e il
ventesimo secolo dal tipico telespettatore suburbano»: C. Calhoun, Habermas and the Public
Sphere, p. 33, traduzione mia. Critiche di questo tenore, che fioccano d’altronde contro qualsiasi interpretazione storica, non sono però particolarmente rilevanti nel presente contesto.
36. Le principali tappe intermedie possono essere individuate in: J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo; J. Habermas, Per la ricostruzione del materialismo storico, Milano:
Etas, 1979 (pubblicati in tedesco rispettivamente nel 1973 e 1976).
37. Per una buona esposizione critica della struttura mondo della vita–sistema, come inizialmente
presentata da Habermas, si veda: H. Baxter, “System and Life-World in Habermas’s “Theory of
Communicative Action””, Theory and Society 16, no. 1 (1987): 39-86.
Parte seconda: Temi e problemi
- 135 -
sue modalità di stabilizzazione ed evoluzione, oltreché delle sue patologie, affrontata
attraverso l’intreccio costante delle due prospettive dell’osservatore e dell’agente, a
loro volta analizzate tanto dal punto di vista sociologico quanto da quello filosofico
(morale e linguistico, secondo il punto di vista della pragmatica formale, precedentemente elaborata nel corso degli anni ‘70), per giungere ad un chiarimento sistematico delle forme dell’agire razionale. Questa articolata struttura – resa ancor più complessa da una stupefacente mole di rimandi filosofici, storici e sociologici ai quali qui
non è neanche possibile accennare – era necessaria per l’intento di ricostruire dalle
fondamenta la teoria critica, riconoscendo uno spazio adeguato alle scienze sociali
che si pretendono descrittive, al contempo e proprio perciò abbandonando il tentativo di cogliere la società in una totalità, attraverso un singolo orientamento teorico
onnicomprensivo.
In particolare, la bipartizione analitica – poi non più soltanto analitica38 – della
società in mondo della vita e sistema, che qui interessa più da vicino, consentirebbe
di uscire dal pessimistico vicolo cieco prospettato dalla Scuola di Francoforte. Infatti, si può ben tenere per vero che la doppia razionalizzazione economica e burocratica tendenzialmente deprivi il mondo umano di senso e di libertà – pensiero non soltanto francofortese, ma già presente in Weber, d’altronde perfettamente in sintonia
con l’heideggeriana «età della tecnica», nonché con il precedente Zeitgeist romantico – ed altrettanto vero è che questa continua reificazione degli individui, e delle loro
relazioni, lascia ampio spazio a chi, come Niklas Luhmann,39 voglia leggere la società
come una serie di sistemi che reciprocamente si stabilizzano in un equilibrio anomico
che passa “dietro le spalle” (ma soprattutto “fuori” dalle possibilità di tematizzazione linguistica) degli individui. Pure, nonostante tutto questo possa essere considerato sostanzialmente corretto entro il suo proprio ambito, appunto il ‘sistema’, a restare insostenibile sarebbe la pretesa di ridurre l’intera società a spiegazioni di
questo tipo.
Anche senza addentrarsi in una critica interna alle teorie sistemiche,40 il tentativo
di impiegarle come chiave di lettura unitaria della società si scontra, e doppiamente,
se non altro con il fatto del linguaggio. Da un lato, il teorico dei sistemi necessiterà
sempre di un linguaggio attraverso cui esprimere la propria diagnosi – e quest’obiezione vale contro qualsivoglia pretesa di spiegare l’agire individuale e/o collettivo
prescindendo dalla dimensione della validità – e con ciò non potrà rinunciare, come
38. Vedi anche: K. Hutchings, Kant, Critique and Politics, London: Routledge, 1996, pp. 66 ff.
39. N. Luhmann, Sistemi sociali, Bologna: il Mulino, 2001. Luhmann è stato, a più riprese già a
partire dagli anni ‘60, un interlocutore/avversario privilegiato di Habermas.
40. Si vedano comunque: J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, cap. 7; J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, pp. 357-83; J. L. Cohen e A. Arato, Civil Society and Political
Theory, capp. 7, 9.; J. Habermas, Fatti e norme, § 8.2.
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4. Spazi deliberativi, tra società e politica
minimo, ad avanzare genuine pretese di comprensibilità e verità;41 d’altro canto, ciascun sotto-sistema sociale ha bisogno del linguaggio per svolgere le proprie funzioni,
per quanto disumanamente strategico/strumentali esse possano essere. Ma la riproduzione di questo linguaggio non potrebbe essere né spiegata dalla teoria sistemica
né fattualmente assicurata dai sotto-sistemi42 – le strutture burocratiche e i mercati
governati dal denaro non sono di per sé in grado di (ri)produrre integralmente un
linguaggio socialmente impiegabile, anche se certo possono influenzare o distorcere
quello esistente. In altri termini, ciò che il sistema non può fornire, né la teoria sistemica spiegare in modo soddisfacente, sarebbe la riproduzione simbolica della
società.43
Quel che invece consente questa necessaria riproduzione simbolica, coincidendo
d’altronde con ciò che dev’essere riprodotto, è proprio il mondo della vita. Il significato della Lebenswelt in Habermas è complesso, raccogliendo molteplici sfaccettature
attraverso diversi piani teorici; tuttavia, per il discorso circa la società civile e la democrazia deliberativa, consapevoli della semplificazione, ci si può accontentare di introdurre le due prospettive metodologiche sotto le quali il concetto si presenta. Così:
«il mondo della vita funge simultaneamente da orizzonte delle situazioni linguistiche
e da fonte delle interpretazioni, mentre, d’altro canto, esso si riproduce soltanto attraverso incessanti azioni comunicative»;44 e però questa definizione generica è ap41. Habermas lascia cadere l’accento anche sul successo «letterario» conseguito da Luhman: J. Habermas, “A Reply”, in Communicative Action, a cura di A. Honneth e H. Joas, Cambridge MA:
MIT Press, 1991, p. 254. Una considerazione ironica circa il fascino dell’uso drammaturgico del linguaggio che sarebbe forse anche più valida per altri misconoscenti la dimensione normativa.
42. Si possono compiere molte ulteriori acrobazie argomentative per sostenere la plausibilità di una
società integrata in modo del tutto anomico. C’è anche chi (B. Barnes, La natura del potere, Bologna: il Mulino, 1995), per illustrare tale possibilità, impiega l’esempio estremo del campo di
concentramento – nel quale l’esistenza stessa del linguaggio diviene precaria, basti ricordare come
Primo Levi raccontava dell’episodio del suo aggrapparsi a Dante, nonché del brutale linguaggio impiegato nei Lager, ben diverso dal tedesco di teologi, poeti e filosofi – dimenticandosi però che, se
anche lo si potesse immaginare con una finalità diversa dall’annientamento (che già lo rende inservibile ad illustrare qualunque paragone con l’insieme della società), il campo non è comunque una
struttura in grado di riprodursi da sé, essendo stato al contrario una gigantesca idrovora di risorse
materiali e organizzative per i regimi totalitari che vi hanno fatto ricorso. Altrettanto incapaci di
riprodursi da sé, dunque bisognose di apporti esterni, sono altre strutture concentrazionarie, seppure meno infernali, come le prigioni o i campi profughi.
43. Fin dal saggio Per la ricostruzione del materialismo storico, Habermas ha esplicitato l’intenzione di rompere con l’interpretazione monistica, centrata sulla sola riproduzione materiale della
società, tipica del marxismo ortodosso.
44. J. Habermas, Fatti e norme, p. 31. Sebbene il concetto di Lebenswelt sia tratto da Husserl attraverso la mediazione d’una sociologia fenomenologicamente orientata (A. Schütz e T. Lukmann,
The structures of the life-world, Evanston: Northwestern University Press, 1973), qui tornano alla
mente i concetti wittgensteiniani di ‘gioco linguistico’ e, soprattutto, ‘forma di vita’ (Lebensform),
d’altronde evocati dallo stesso Habermas, vedi: J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, p.
705.
Parte seconda: Temi e problemi
- 137 -
punto da scomporre in almeno due punti di vista differenti, pragmatico-formale
l’uno, sociologico l’altro. Secondo la prima di queste prospettive, il mondo della vita:
... si compone di convincimenti di sfondo più o meno diffusi, sempre aproblematici. Tale sfondo di mondo vitale funge da fonte per definizioni situazionali che sono
presupposte in modo aproblematico dai partecipanti. Nella loro opera di interpretazione gli appartenenti ad una comunità comunicativa delimitano il mondo oggettivo
e il loro mondo sociale condiviso intersoggettivamente dai mondi soggettivi di singoli e di (altri) collettivi.45
Esso è così inteso dal punto di vista dell’agente, e «pur sempre situato sullo stesso piano analitico del concetto trascendentale di Lebenswelt della fenomenologia»;46
anche se già qui si dimostra costitutivo il riferimento alla comunità dei parlanti e
alla condivisione sociale di un mondo di significati. È su questo livello pragmaticoformale che sarebbe radicata la quasi-trascendentale impossibilità di negare le pretese di validità intrinseche all’uso linguistico.47 Questo è il primo dei due sensi in cui
il mondo della vita «costituisce un concetto complementare all’agire comunicativo»,
rappresentandone «orizzonte e sfondo».48
Il secondo aspetto, quello sociologico, consiste nella descrizione del mondo della
vita come luogo concreto (o meglio, un insieme di luoghi e situazioni sociali); il che
rende evidente perché sia questa seconda accezione ad influenzare più direttamente
la democrazia deliberativa. In questo senso, il mondo della vita coincide con l’insieme dei contesti quotidiani nei quali l’interazione è governata da norme coerenti
con il primo aspetto, pragmatico-formale, della Lebenswelt.49 Rappresentando questo
la condizione di possibilità tanto del reciproco intendersi quanto della intelligibilità
del condiviso mondo oggettivo, si comprendono affermazioni, altrimenti criptiche,
come la seguente:
Alla base delle proprie esposizioni narrative gli attori pongono un concetto profano di «mondo», nel senso del mondo quotidiano o del mondo vitale, che definisce la
totalità degli stati di fatto che possono essere riprodotti nelle storie vere.50
45. Ivi, p. 138. Il riferimento è ripreso e rielaborato a partire dalla teoria dei «tre mondi» di Popper, vedi: Ivi, pp. 145 ss.; K. R. Popper, Conoscenza oggettiva, Roma: Armando, 2002.
46. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, p. 727.
47. Ivi, pp. 169-78. Vedi anche sopra, pp. 82 ss.
48. Ivi, pp. 705-06.
49. Questo non equivale a dire che il mondo della vita sia ipso facto rispondente alla razionalità
comunicativa, solo però che, al contrario del sistema, può esserlo e, secondo Habermas, dimostra
sociologicamente una tendenza in tal senso, poiché ogni rottura dell’accordo di sfondo – eventualità
sempre più frequente nelle società moderne – può essere superata soltanto grazie all’agire comunicativo. Per questo motivo l’integrazione della società riposerebbe, in ultima istanza, sull’agire comunicativo: J. Habermas, Fatti e norme, pp. 34 ss.
50. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, p. 728.
- 138 -
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
A questo punto – e soltanto a questo punto, perché il valore normativo che si
vuole assegnare ad una società civile intesa secondo il concetto del mondo della vita
riposa sul predetto aspetto pragmatico-formale, a meno del quale non si darebbe alcuna tendenza verso la razionalizzazione51 – si può finalmente arrivare all’usuale
concezione critico-deliberativa della società civile che per ‘mondo della vita’ intende
l’insieme di:
... istituzioni come le famiglie, le scuole, le università, e quelle coinvolte nella produzione e diffusione di arte, scienza, ecc. Non c’è mai stata alcuna giustificazione
per Hegel per aver escluso la famiglia dalla società civile né per Gramsci per averla
ignorata.52
Dunque, proseguono gli stessi autori:
È qui, sul livello istituzionale del mondo della vita, che si può radicare un concetto ermeneuticamente accessibile, perché socialmente integrato, di società civile.
Questo concetto includerebbe tutte le istituzioni e le forme associative che richiedono l’interazione comunicativa per la loro riproduzione e che fanno affidamento primariamente su processi di integrazione sociale per coordinare l’azione entro i loro
confini.53
Per questa via, certo semplificando ulteriormente (una perdita di complessità
forse accettabile per lo stesso Habermas, visto come viene impiegata la coppia di
concetti in Fatti e norme), l’opposizione tra mondo della vita e sistema può essere
ridotta a quella tra gli ambiti della società integrati attraverso la comunicazione e
quelli ordinati da media non linguistici, vale a dire il potere amministrativo e il denaro, impiegati rispettivamente dai sotto-sistemi statale ed economico. Così, la definizione della società civile per contrapposizione a Stato e mercato acquista un preciso ancoraggio teorico, che spiega perché alla comunicazione entro di essa sia
51. Il caso limite dell’assenza completa della prospettiva dell’agente coinciderebbe con un mondo
della vita completamente immerso in una narrazione mitologica, che nessun soggetto potrebbe mettere in discussione, e che dunque, pur integrando stabilmente la società, di per sé non lascerebbe
spazio ad alcuna razionalità. In una reminiscenza dialettica, anche qui (come già in Marx, Hegel,
Kant) sono le crisi e i conflitti a mettere in moto la razionalizzazione sociale. La radice della concezione habermasiana del mito si trova evidentemente nella rielaborazione, però profondamente critica, delle tesi di Horkheimer e Adorno in merito: J. Habermas, “L’intrico di mito e illuminismo:
Horkheimer e Adorno”, in Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari: Laterza, 2003.
52. J. L. Cohen e A. Arato, Civil Society and Political Theory, p. 703n, traduzione mia. Si veda
anche la definizione preliminare di ‘società civile’ offerta nella prefazione al medesimo volume. Per
iniziare a comprendere, invece, le ragioni della peculiare posizione filosofica della famiglia, in Hegel
e nei teorici che ne hanno seguita la lezione, si può partire da: C. Mancina, Differenze nell’eticità.
Amore famiglia società civile in Hegel, Napoli: Guida editori, 1991.
53. J. L. Cohen e A. Arato, Civil Society and Political Theory, p. 429, traduzione mia. Si vedano
anche: I. M. Young, Inclusion and Democracy, p. 159; J. S. Dryzek, Deliberative Democracy and
Beyond, p. 22.
Parte seconda: Temi e problemi
- 139 -
presuntivamente conferito valore normativo. Inoltre, poiché la Lebenswelt habermasiana include tutte le condizioni della socializzazione degli individui,54 ora diviene
plausibile articolare nei termini della società civile anche una parte di quella che era
la sfera privata, in primo luogo la famiglia, accogliendo con ciò le obiezioni (soprattutto da parte femminista) contro il carattere unilaterale ed esclusivo di una concezione centrata sulla sola sfera pubblica.55
Attraverso questa configurazione, dunque, sarebbe possibile rimanere realistici
nell’osservazione della società, senza tuttavia cadere nella pessimistica negazione
d’ogni validità normativa, nella forma delle diagnosi apocalittiche di Adorno e Horkheimer, o dell’illusione d’una oggettività empiristico-descrittiva coltivata da parte
delle scienze sociali. Il sistema è l’ambito appropriato per l’agire strategico; vale a
dire per una razionalità sì puramente rivolta allo scopo, dunque in qualche misura
sempre reificante e “disumanizzata”, eppure perfettamente legittima nei suoi propri
spazi, entro i quali consente un non altrimenti conseguibile coordinamento delle interazioni sociali, necessario per la prosperità delle iper-complesse società contemporanee. Viceversa, il mondo della vita è lo spazio dell’agire comunicativo, rappresentando perciò la condizione di possibilità d’ogni attribuzione di valore umanamente
comprensibile. In questo senso, anche se per la descrizione sociologica Lebenswelt e
System sono parimenti necessari alla riproduzione della società, da un punto di vista
filosofico-normativo il mondo della vita è prioritario, rappresentando un bene in sé,
mentre l’efficienza dei sotto-sistemi è apprezzabile soltanto strumentalmente.
Questa concezione non vuole però descrivere alcuna “conciliazione”, essendo anzi
costruita proprio in modo da rendere evidenti le patologie proprie delle società moderne, la più grave essendo la «colonizzazione» del mondo della vita da parte del sistema, vale a dire l’indebita estensione dei modi dell’agire strategico negli ambiti
che, invece, devono essere integrati e riprodotti comunicativamente.56 È una visione
totalizzante di questa “colonizzazione” che condurrebbe al disperato pessimismo di
54. Il mondo della vita, sulle orme della teoria di Parsons, è articolato nelle tre componenti di
cultura, società e personalità, una differenziazione che importa conseguenze anche sui modi di riproduzione della Lebenswelt, ma che qui non posso seguire dettagliatamente.
55. Non si deve però pensare che questa nuova posizione costituisca una svolta radicale, giacché il
ruolo della famiglia come agenzia di socializzazione – d’altronde già rilevato dai primi francofortesi
(M. Horkheimer, et al., Studi sull’autorità e la famiglia), sebbene con intenti ed esiti perfino opposti – è sempre stata centrale per Habermas.
56. I movimenti di contestazione – ecologisti, femministi ecc. – che caratterizzano l’attuale società
civile rappresenterebbero proprio il fronte della resistenza a tale processo di colonizzazione. Tuttavia, Habermas, già nella prefazione alla terza edizione della Teoria (1985), riconosce anche la possibilità di patologie di segno opposto, vale a dire “blocchi” imposti alla razionalizzazione dal mondo
della vita. In mancanza di una cultura liberal-democratica, spesso «sorgono dei movimenti populistici che difendono alla cieca le tradizioni ossificate d’un mondo di vita minacciato dalla modernizzazione capitalistica»: J. Habermas, Fatti e norme, p. 440.
- 140 -
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
Adorno, oppure al disincantato cinismo favorito da molti settori delle scienze sociali.
Invece, il mondo della vita, nelle forme della società civile che ospita un’opinione
pubblica, da un lato resiste continuamente alle intrusioni sistemiche mentre dall’altro, in una buona democrazia deliberativa, avrebbe a disposizione i mezzi per trasformare la sua generica “influenza” (un altro concetto tratto da Parsons) in quel potere comunicativo che dovrebbe governare la produzione legislativa, orientando di
conseguenza l’applicazione del potere amministrativo, che resta pur sempre sistemico e coercitivo.57
Perciò, non si tratta più di democratizzare integralmente le strutture sistemiche
preesistenti – obiettivo che sarebbe nel complesso irrazionale e impraticabile – bensì
di ordinare la sfera pubblica in modo da favorire tanto la comunicazione nei pubblici
deboli quanto la sua continua “canalizzazione” verso pubblici forti, appropriatamente organizzati in senso deliberativo, che produrranno norme legalmente vincolanti.58 Questo progetto di politica deliberativa appare moderato – perché realisticamente limita le possibilità dell’auto-organizzazione democratica, specie se intesa in
forma diretta – lasciando però al contempo maggiore spazio per la democrazia radicale, proprio perché non pretende più di mescolarla con ambiti sistemici che, inevitabilmente secondo questa diagnosi, seguono una logica differente.59
***
Dopo questo détour, le radici della “democrazia a doppio binario” dovrebbero essere
meglio comprensibili. Resta però da discutere se, entro tale modello deliberativo,
una società civile concepita nei modi sopra descritti possa svolgere il ruolo
assegnatole.
Certo, si potrebbe iniziare dal notare come contro la lettura della società attraverso la chiave concettuale Lebenswelt-System siano state avanzate innumerevoli
obiezioni su diversi piani; qui mi limito a indicarne tre, molto generali. Primo, la distinzione stessa tra mondo della vita e sistema è dubbia, essendo ben difficile individuare una data situazione sociale come appartenente univocamente all’uno o all’altro dominio. Ma se così è, diviene poco chiaro come sia possibile trarre conseguenze
normative proprio dall’aspetto descrittivo di questa poco distinta divisione. Secondo,
il concetto di Lebenswelt appare ambiguo nel passaggio tra le due prospettive, pragmatico-formale e sociologico-descrittiva.60 In particolare, non è immediatamente
57. Ivi, §§ 4.2, 4.3.
58. Ivi, cap. 8. La possibilità di un più diffuso impegno diretto, anche extra-legale, da parte dei cittadini rimarrebbe comunque disponibile nelle situazioni di crisi profonda: Ivi, pp. 453-55.
59. In questo senso, non sarebbe prioritario conseguire forme, più o meno radicali, di gestione democratica dell’economia, come proponeva tra gli altri Robert Dahl: R. A. Dahl, La democrazia e i
suoi critici, Roma: Editori riuniti, 1990.
60. Vedi: H. Joas, “The Unhappy Marriage between Hermeneutics and Functionalism”, in Commu-
Parte seconda: Temi e problemi
- 141 -
chiaro in che modo il mondo della vita possa essere già sempre linguistico, e come
tale comunicativamente rigenerabile, e allo stesso tempo (com’era anche per Husserl)
«“dimenticato” fondamento di senso della prassi e dell’esperienza quotidiana»;61 neppure si comprende bene come il concetto possa occupare il ruolo di universale premessa della intelligibilità del mondo, e tuttavia restare estraneo ai sistemi, con i
quali gli individui debbono pur essere in grado di interagire secondo modalità e linguaggi per loro comprensibili.62 Terzo, anche accettando in linea di principio la bipartizione Lebenswelt/System, la concezione habermasiana resta comunque esposta a
critiche circa la posizione del confine tra i due ambiti, provenienti sia da parte di chi
trova l’impostazione ancora troppo idealistica e distaccata dalla realtà concreta, sia
da chi ritiene che alla “cinica” teoria sistemica venga concesso troppo terreno63 – obiezioni catalogabili, rispettivamente, come “da sinistra” e “da destra”, per
usare una terminologia certamente banalizzante (se non altro perché le due linee di
critica non si escludono a vicenda),64 ma forse ben comprensibile.
Tuttavia, per il presente studio, queste ed altre osservazioni del medesimo tenore
sono solo secondariamente rilevanti – il che è certo una fortuna, perché non basterebbe un intero volume per analizzarle nel dettaglio. Piuttosto, è opportuno fare un
passo indietro e notare, sine ira et studio per così dire, come i critici di Habermas
facciano benissimo a puntare l’attenzione sugli aspetti più problematici delle sue
teorie (molto imperfette, come ogni opera umana), ma anche che superarne un punto così centrale, quale è l’articolazione sistema/mondo della vita dovrebbe significare, in particolare per una prospettiva scientifica, non soltanto accantonarlo, ma
anche proporre una migliore spiegazione di altrettanti, o più, fenomeni.65 E però non
mi pare sia spesso questo il caso, almeno per i sociologi e politologi più noti, i cui
orizzonti teorici, nella maggior parte dei casi, nemmeno si avvicinano all’ampiezza di
quello habermasiano. Di converso, per la democrazia deliberativa, la revisione di
questo o quel particolare non importerebbe gravi conseguenze, almeno finché rimanessero fermi i due punti focali: la considerazione della società civile come luogo deliberativo e la presenza di ragioni per valutarla positivamente dal punto di vista nornicative Action, a cura di A. Honneth e H. Joas, Cambridge MA: MIT Press, 1991.
61. J. Habermas, Fatti e norme, p. 31.
62. D. McIntosh, “Language, Self, and Lifeworld in Habermas’s Theory of Communicative Action”,
Theory and Society 23, no. 1 (1994): 1-33; H. Baxter, “System and Life-World in Habermas’s
“Theory of Communicative Action””
63. T. McCarthy, “Complexity and Democracy: or the Seducements of System Theory”, in Communicative Action, a cura di A. Honneth e H. Joas, Cambridge MA: MIT Press, 1991.
64. Luhmann, ad esempio, attacca il discorsivismo perché poco realistico ma, allo stesso tempo, insufficientemente utopistico: N. Luhmann, “Remarks on Jürgen Habermas’s Legal Theory”.
65. Si veda in merito la netta replica presentata da Brunkhorst: H. Brunkhorst, Habermas, Firenze: Firenze University Press, 2008, p. 32.
- 142 -
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
mativo. Perciò, più che addentrarsi ulteriormente nei diversi modi di concepire la
società civile, tema amplissimo di per sé, conviene nel prossimo paragrafo tornare
sulla posizione formale di essa entro la teoria deliberativa.
4.3. Ripercorrere il nesso fattualità-validità
Per comprendere il senso di una critica formale, non necessariamente dipendente da
una presa di posizione sul merito, contro l’approccio esemplificato nel precedente paragrafo, è bene procedere attraverso un’ulteriore ricapitolazione, che potrà ora presentarsi più sintetica, alla luce degli elementi già acquisiti. Il legame tra la democrazia deliberativa e il plesso concettuale sfera pubblica/società civile/Lebenswelt può
essere ripercorso a partire dai due poli fondamentali: fattualità e validità. Per semplificare, impiegherò la seguente schematizzazione:66
Fattualità → validità
Validità → fattualità
Società
Democrazia deliberativa
↙.......↘
↓
sistema
(potere e denaro)
mondo della vita
sfera pubblica
↓
↙.......↘
integrazione/riproduzione attraverso l’agire
comunicativo
↙.......↘
morale post-tradizionale
politica
↓
↓
integrazione attraverso il diritto
↓
democrazia deliberativa
(= produzione di diritto legittimo ed efficace)
istituzioni politiche
società civile
↓
↓
assetto istituzionale tale comunicazione spontada favorire la qualità del- nea, per quanto possibile
la deliberazione
libera da costrizioni
.......↙
mondo della vita
(= telos verso l’intesa intrinseco all’uso linguistico,
dunque principio D)
Muovendo verso le norme partendo dai fatti, il vertice è rappresentato dalla società, la conservazione della quale richiederebbe, fattualmente, l’integrazione e la riproduzione tanto del ‘sistema’ quanto del ‘mondo della vita’. Quest’ultimo, nella modernità continuamente messo in questione e perciò potenzialmente dissolto, dev’essere
riprodotto attraverso l’agire comunicativo. Di conseguenza, da un lato il singolo individuo non potrebbe fare a meno di ricostruire il proprio orientamento pratico in
una morale post-tradizionale; d’altro canto, la politica consentirebbe di supplire e
reintegrare le risorse della solidarietà sociale attraverso la produzione di quel diritto,
66. Dove nello schema si mette da una parte il “sistema (potere e denaro)” si deve intendere tale
posizione dal punto di vista del nesso con la validità. È però evidente, tanto nella teoria quanto
nella pratica, come la politica, il diritto e le istituzioni abbiano molto a che vedere con la regolazione del System.
Parte seconda: Temi e problemi
- 143 -
coercitivamente applicabile, necessario per garantire tanto le interazioni comunicative quanto quelle sistemiche. La produzione di un diritto efficace, tale perché fattualmente percepito come legittimo dai suoi destinatari, richiede una politica adeguatamente deliberativa, che non si limiti ad un disordinato scontro di volontà
irriducibili, ospitando invece, almeno in certa misura, una discussione pubblica ragionevole e condivisa. Questa concatenazione “quasi-causale” giustificherebbe la democrazia deliberativa, in modo compatibile con il preteso puro proceduralismo, appunto perché socialmente necessaria (per l’ampio e articolato concetto di ‘società’ di
cui si è detto).
Di converso, per realizzare il proprio potenziale di validità, la democrazia deliberativa avrà fattualmente bisogno di una sfera pubblica, articolata nei «pubblici forti» dei contesti decisionali e in quelli «deboli» ospitati dalla società civile. Il ruolo
deliberativo dei primi sarà garantito da un ordinamento istituzionale costruito in
modo da favorire discorsi razionali, imparziali e universalizzanti. La deliberazione
nella società dovrà invece essere spontanea e priva di vincoli; nonostante ciò, se saranno tenuti a bada i rischi di distorsione sistemica, la società civile tenderà a produrre un risultato normativamente desiderabile, perché è dallo stesso mondo della
vita (qui vale a dire: le quotidiane interazioni comunicative) che si vorrebbe trarre la
sostanza normativa del discorsivismo – dunque il principio D, chiave di volta della
differenziazione tra i discorsi morali e discorsi politico-giuridici. Il mondo della vita,
d’altra parte, coincide con ciò che vale la pena di conservare e riprodurre, giacché,
come si è detto, il sistema non ha valore intrinseco ma soltanto strumentale.
Così, l’approccio discorsivo intende ricomporre teoricamente la faglia che la modernità, attraverso il pensiero critico, ha aperto (o piuttosto rivelato) tra fattualità e
validità, orientando al contempo una prassi che avrà il compito non già di richiudere
quella stessa spaccatura – il che sarebbe impossibile e comunque indesiderabile – bensì di gettarvi sopra i necessari “ponti”, fragili peraltro e bisognosi di continua “manutenzione”. Il luogo di questa ricomposizione è per l’appunto la politica democratica e deliberativa. Non c’è una totalità à la Hegel,67 questo no; è però da
ammettere che il discorsivismo – viste anche le considerazioni etiche, epistemologiche, psicologiche e linguistiche, qui inevitabilmente lasciate sullo sfondo e però in
esso incluse – dimostra notevoli ambizioni sistematiche, forse senza eguali tra le prospettive filosofiche contemporanee. Sfortunatamente, le tensioni che la teoria discorsiva cerca di dominare si manifestano in modo particolarmente distruttivo proprio
sul piano politico; lo si può bene osservare coordinando due critiche, a prima vista
67. Una posizione esplicitamente rigettata, almeno dal punto di vista filosofico: J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, cap. 1.
- 144 -
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
eterogenee, delineate dalle obiezioni di Apel e Rawls,68 alle quali si è accennato nel
capitolo precedente.
È stato poc’anzi esplicitato il ruolo svolto nella teoria dal preteso fondamento
normativo della validità dei princìpi discorsivi nella comunicazione di fatto operante
nel mondo della vita, cioè l’interpretazione del telos verso l’intesa come un dato sociologicamente riscontrabile. Per questo motivo, l’obiezione di Apel contro questa
possibilità,69 pur se avanzata riguardo l’etica, è persino più rilevante per la concezione politica della democrazia deliberativa. La divergenza d’opinione tra i due filosofi risale già all’altezza della Teoria dell’agire comunicativo, e più precisamente al
tentativo di stabilire ricostruttivamente la validità dell’uso linguistico orientato
all’intesa, come distinto e prioritario rispetto a quello strategico/strumentale. Habermas ritiene di poter affermare la priorità normativa dell’agire comunicativo sulla
base dell’osservazione che, nell’interazione entro il mondo della vita, l’intesa potrebbe di fatto avere luogo soltanto in forza della solidarietà sociale prodotta da pretese di validità generalmente accettate e riconosciute. Così, gli impieghi strategici
del linguaggio sono da Habermas derubricati in quanto fattualmente “parassitari” rispetto al caso normale dell’uso orientato all’intesa. Questo è giustificato, in ultima
analisi, asserendo che chiunque volesse fare un uso strategico del linguaggio dovrebbe (almeno) fingere di accettarne i criteri di validità socialmente riconosciuti.70
Tuttavia, anche ammesso che tale argomento sia valido per stabilire la priorità normativa dell’uso linguistico orientato all’intesa rispetto a quello segretamente strategico,71 certo non lo è per l’uso apertamente strategico, nel quale si fanno valere esplicitamente pretese che nulla hanno a che vedere con l’argomentazione. Così stanno le
cose, ad esempio, riguardo alle minacce, che fanno direttamente appello alla violenza
o ad altre conseguenze spiacevoli, ma anche nel meno traumatico caso delle trattative, condotte ad accordo prospettando vantaggi e svantaggi da un punto di vista
puramente strumentale.72
68. Queste ultime usualmente condivise dai liberal-deliberativi in genere; oltre al già citato scambio tra Rawls e Habermas, si veda ad esempio: J. Cohen, “Reflections on Habermas on Democracy”, Ratio Juris 12, no. 4 (1999): 385-416.
69. Vedi sopra, p. 84.
70. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, cap. 3.
71. Cosa che Apel concede, ma che rimane dubbia, infatti si può ben dire che ciò «... non dimostra
affatto il riconoscimento della loro riscattabilità argomentativa da parte del persuasore, bensì solo
il riconoscimento della loro economica efficacia rispetto ai propri scopi, per perseguire i quali, infatti, egli è pronto a passare alla minaccia o alla costrizione, nel caso in cui, fallendo il tentativo di
persuasione, o l’una o l’altra siano a sua disposizione»: V. Marzocchi, “La ragion pratica comunicativa in J. Habermas: morale, eticità, diritto e democrazia”, La Cultura 34, no. 2 (1996), p. 261.
72. L’esempio è cruciale perché le trattative non sono riducibili ad un uso linguistico più o meno
eccezionale (come sarebbero le minacce o altri usi “incivili” del linguaggio) costituendo uno dei
modi principali per la costruzione di quella «sociale forza legante» spesso evocata da Habermas,
Parte seconda: Temi e problemi
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Dunque, resta vero che l’esistenza fattuale di un linguaggio non si spiega soltanto
attraverso i suoi usi strategici/sistemici/strumentali, ma a rigore questo non è sufficiente per dimostrare alcuna priorità normativa (rappresentando una sorta di complicata fallacia naturalistica). Nello schiarire questo errore, Apel ripropone la sua
differente argomentazione, volta ad individuare una «fondazione ultima» per i
princìpi del discorsivismo che non sia basata sull’analisi ricostruttiva della fattualità,
orientandosi piuttosto verso la riflessione trascendentale.73 Soltanto la «fondazione
ultima riflessiva della razionalità»74 permetterebbe di giustificare – però ricorrendo
ad un’argomentazione non riscattabile in termini empirici – il valore normativo dei
princìpi del discorsivismo, anche in riferimento a quei casi dell’agire strategico problematici per l’approccio sociologico seguito da Habermas.75 Una figura argomentativa del genere, però, non rimanderebbe ad alcuna tendenza reale verso risultati equi e
intelligenti, a meno della condizione che tutti, o quasi, i soggetti interagenti si orientassero rigorosamente in base ai princìpi dell’etica del discorso; un’ipotesi certamente inutilizzabile, tanto per la sociologia quanto per la teoria politica.76
A queste obiezioni Habermas reagisce attaccando quella che gli sembra essere in
Apel un’ispirazione in fondo metafisica, legata ancora al paradigma della filosofia
della coscienza.77 Al di là della specifica querelle tra i due filosofi tedeschi, che qui
non interessa seguire ulteriormente, alle critiche circa il difficile duplice ruolo normacome Apel appropriatamente nota: K.-O. Apel, “Il problema dell’uso linguistico apertamente strategico nella prospettiva pragmatico-trascendentale”, in Discorso, Verità, Responsabilità, Napoli:
Guerini e Associati, 1997, pp. 251-52.
73. Vedi: K.-O. Apel, “Significato illocutivo e validità normativa”.
74. K.-O. Apel, “Il problema dell’uso linguistico apertamente strategico nella prospettiva pragmatico-trascendentale,” p. 240.
75. Secondo Apel, il tentativo habermasiano di derivare sociologicamente la fondazione dei criteri
di validità «... metteva capo a un disconoscimento della pluralità storica e del carattere compromissorio dell’eticità del mondo della vita rispetto al rischiaramento filosofico, e quindi a una capitolazione della ‘teoria critica’ dinanzi al compito della fondazione filosofica di un indipendente criterio
normativo per la ricostruzione critica dell’eticità del mondo della vita»: K.-O. Apel, “Dissoluzione
dell’etica del discorso?”, p. 263. Anche volendo lasciare da parte la questione di teoria morale, se
una simile critica è corretta, significa che l’impiego del mondo della vita, e quindi della società civile, quali elementi basilari per gli aspetti normativi della teoria, rinvia ad una prospettiva particolaristica, in fondo non dissimile dal comunitarismo, incompatibile con una posizione procedurale,
l’esigenza della quale si è osservata già nel capitolo terzo. Vedi anche sopra, p. 79, n. 8.
76. In effetti, alla differenziazione dell’etica in Teil A e Teil B, Apel fa corrispondere una visione
della politica che non è propriamente deliberativa, in particolare perdendo il punto della cooriginarietà tra partecipazione politica e garanzia dei diritti, tanto che l’obiettivo politico da raggiungere –
strumentale, a questo punto, rispetto al fine più alto del rispetto dei diritti umani – diviene quello
di una «proceduralizzazione, per quanto possibile democratica, della sovranità popolare»: Ivi, p.
365. E per quel ‘quanto’ che, invece, non sarà possibile, è poco chiaro a quale regime politico dovremo affidarci.
77. J. Habermas, “Etica del discorso,” pp. 106-107.
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4. Spazi deliberativi, tra società e politica
tivo e descrittivo della Lebenswelt, Habermas risponde in modo più generale richiamando l’architettura metodologica posta alla base della sua teoria, secondo la quale
discorsi filosofici e sociologici sarebbero necessariamente complementari al fine di
comprendere quell’intreccio di prospettive diverse – dall’agente singolo alla società,
sempre tra validità e fattualità – che non si lascerebbe diversamente risolvere. In
questo senso, il principale problema di buona parte dei critici sarebbe quello di non
aver compreso quella struttura basilare della teoria che avrebbe reso nulle le loro
obiezioni.78
Ma, se una risposta del genere poteva ancora funzionare all’altezza della Teoria
dell’agire comunicativo – che, pur gravida di implicazioni, non includeva se non pochissimi elementi d’una teoria politica in senso proprio – non è più possibile impiegarla una volta giunti all’esito della democrazia deliberativa. Qui, infatti, la critica
di Rawls contro l’uso politico di una teoria comprensiva colpisce implacabile. Nell’ultimo paragrafo del capitolo precedente è stato mostrato come la teoria deliberativa
habermasiana possa attenersi al preteso proceduralismo – sfuggendo con ciò all’accusa d’essere contenutistica tanto quanto le alternative liberali, però molto più comprensiva e dunque politicamente parziale rispetto a queste – soltanto interpretando
in modo rigorosamente descrittivo/fattuale le condizioni necessarie alla stessa deliberazione democratica. Da questo punto di vista, il tentativo di impiegare il mondo
della vita come perno del doppio intreccio tra fattualità e validità appare già di per
sé sospetto. Ma, seppure si poteva rispondere che la validità descrittiva della teoria
(sempre da mettere alla prova con, imprecisate, indagini empiriche ad ampio raggio)
garantiva che le tendenze descritte e le necessità individuate, sia normative sia descrittive, si imponessero fattualmente agli attori – presumibilmente, a prescindere da
come questi le intendessero: in tal modo la necessità di conservare la società conduceva alla giustificazione puramente funzionale del diritto – questa via si trova sbarrata, almeno per gli aspetti qui rilevanti, dopo aver attraversato le obiezioni di Apel
e i relativi tentativi di risposta.
Non ci sono che due possibilità. Si può dare il caso che Apel abbia ragione,
dunque l’eticità del mondo della vita non può fondare alcuna validità normativa, né
il concetto di società civile costruito su di esso può occupare la posizione sistematica
che gli si vuole assegnare. Certamente, come già osservato, la presenza di un diffuso
ethos democratico, che non differisce poi molto dall’ideale d’una società civile/sfera
pubblica vivacemente comunicativa, rimarrà una necessità pragmatica per la demo78. J. Habermas, “A Reply,” pp. 250 ss. Tuttavia, Apel fa ancora notare come proprio la pretesa di
tenere assieme approcci metodologici diversi rinvii alla possibilità di sistematizzarli su di un piano
discorsivo più generale, che non potrebbe dunque essere fondato attraverso quegli stessi metodi empirici, soltanto bensì in modo riflessivo-trascendentale: K.-O. Apel, “Fondazione normativa della
‘teoria critica’ tramite ricorso all’eticità del mondo della vita?”, pp. 217 ss.
Parte seconda: Temi e problemi
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crazia deliberativa, ma non potrà svolgere alcun ruolo nella definizione normativa
della medesima. Oppure può darsi che Apel e gli altri critici abbiano torto, dunque
che il telos verso l’intesa razionale sia riconoscibile come normativo eppure fattualmente riscontrabile nella comunicazione quotidiana – e per estensione, certo con vari
caveat, anche in una società civile ragionevolmente libera e indipendente – a patto
però di comprendere bene l’architettura del discorso habermasiano. Sennonché, con
ciò si riconosce esplicitamente quel che forse era già ovvio,79 vale a dire che il nesso
tra norme e fatti vale soggettivamente come tale soltanto per chi già condivida la
teoria che lo definisce oppure, ad un livello inferiore di riflessività, lo specifico mondo
della vita, storicamente e socialmente situato, su cui tale nesso riposerebbe.80 Tutti
gli altri, se la teoria dell’agire comunicativo è corretta, forse “subiranno” nondimeno
la normatività intrinseca al linguaggio socialmente condiviso, e potranno anche – attraverso una posizione teorica riflessiva, come vuole Apel – rendersi autonomamente
consapevoli dei princìpi del discorsivismo;81 non comprenderanno, però, il legame con
le necessarie condizioni fattuali per la riproduzione della società, che sarebbe la vera
e più solida base di tutta la costruzione teorico-normativa. Ma se le cose stanno così,
allora non sarà possibile trattare il mondo della vita e la società civile (o, meglio,
una loro specifica configurazione) come se fossero finalità normativamente valide al
livello della struttura della democrazia deliberativa, cioè nella definizione degli spazi
nei quali esercitare la deliberazione. Procedendo in tal modo si violerebbe patentemente il pluralismo ragionevole, imponendo una teoria comprensiva che, se pure
fosse perfettamente corretta, di fatto potrebbe ben essere non condivisa.
Descritte le cose in questi termini, i teorici deliberativi della società civile potrebbero facilmente dichiararsi d’accordo – d’altronde, se essi criticano il criterio rawlsiano della ragionevolezza, in genere lo fanno perché giudicato troppo restrittivo, certo
non il contrario. Tuttavia, come in parte si è già osservato, le teorie deliberative
sono costellate di infrazioni del suddetto limite, vale a dire di tentativi di definire
79. È però da tenere presente la differenza tra il percorso argomentativo qui svolto è il diffuso riflesso condizionato per cui, qualunque cosa una teoria normativa affermi, la si considera automaticamente particolaristica, ingiustificata e/o violentemente esclusiva; una posizione del genere è insensata non solo perché auto-contraddittoria, ma anche perché, impedendo di articolare seriamente
pretese normative, di fatto lascerebbe campo libero proprio alla violenza; d’altronde tradizionalmente muta, e quindi non bisognosa di asserire e argomentare alcunché.
80. È questa una posizione difficile da tenere, giacché si espone contemporaneamente tanto alle critiche anti-fondamentaliste (liberali, relativiste e/o post-moderne) – per il ruolo normativo concesso
ad una teoria relativamente forte della razionalità – quanto a quelle anti-relativiste, perché, attraverso una considerazione a questo punto specifica e situata del mondo della vita, sembrerebbe
contraddire l’ispirazione universalista che pure vorrebbe mantenere.
81. Mettendo questa osservazione accanto alla posizione di Apel sull’architettonica dei discorsi
(vedi sopra, n. 78), si nota come, nel buon vecchio stile dialettico, le posizioni di Apel e Habermas
possono, entrambe, auto-interpretarsi l’una come l’inclusivo superamento dell’altra.
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4. Spazi deliberativi, tra società e politica
date configurazioni della comunicazione nella società sullo stesso livello normativo
della medesima democrazia deliberativa – dunque non quali finalità eventualmente
perseguibili entro di essa, come invece dovrebbero essere considerate. Già l’ambiguità di quella società civile e di quella sfera pubblica che “devono”, discussa nel § 4.1,
rimandava in fondo ad un problema di questo tipo; analogo è il caso di Cohen e
Arato, che, mentre rimproveravano le mancanze di Hegel e Gramsci, erano meno accorti di questi ultimi nel costruire finalisticamente il proprio concetto di società civile. Più evidenti, ed anche più numerosi, sono i casi in cui una data configurazione
di certi elementi istituzionali è preferita non in quanto più democratica e deliberativa in se stessa, bensì perché la si vorrebbe capace di correggere le distorsioni comunicative presenti in qualche diverso ambito sociale.82 La questione più generale, sottesa a tutti questi esempi, è però quella della subordinazione, normativa e non solo
fattuale, della politica alla conservazione della società, come risulta chiaramente dalla pur complessa prospettiva habermasiana.83
In fondo, questo non è che un diverso modo di pensare la democrazia ancora in
forma teleologica,84 con ciò contraddicendone i princìpi, dunque ostacolando anche
l’eventuale realizzazione di quelle finalità sociali critico-emancipative che, pur sistematicamente mal poste nella teoria così com’è stata descritta, sarebbero invero conseguibili solo attraverso la deliberazione democratica, come proprio il discorsivismo
potrebbe ben dimostrare.85 Per quanto certe configurazioni della società civile/mondo della vita possano essere considerate condizioni fattualmente necessarie rispetto
alla possibile elaborazione d’una teoria politica, inserire più o meno surrettiziamente
“oggetti” del genere come finalità normative della teoria stessa è incompatibile con
la democrazia deliberativa. Soltanto gli stessi cittadini, attraverso la partecipazione
82. Ad esempio, come in seguito si osserverà più da vicino, Iris Marion Young valuta i sistemi elettorali in base alla loro capacità di favorire una buona espressione delle preferenze dei gruppi sociali:
I. M. Young, Inclusion and Democracy, cap. 4. In modo ancor più diretto, talvolta mezzi anti-deliberativi sono considerati in qualche misura giustificati dal fine di realizzare una migliore democrazia deliberativa: A. Fung, “Deliberation before the Revolution: Toward an Ethics of Deliberative
Democracy in an Unjust World”, Political Theory 33, no. 3 (2005): 397-419; D. Estlund, “Democracy and the Real Speech Situation”. Questi ed altri simili esempi ricadono sempre in una concezione
teleologica e strumentale, che è in ultima analisi auto-contraddittoria.
83. Nella lettura di Hauke Brunkhorst, Habermas non intende rinunciare al «primato della società
sulla politica»: H. Brunkhorst, Habermas, p. 66. Chiaramente, non si tratta qui d’invertire questa
tesi, essa potrebbe ben essere vera su un piano descrittivo, bisogna però lasciarla politicamente impregiudicata rispetto all’effettiva interazione deliberativa tra i cittadini.
84. Perciò, non è possibile indicare su questo punto una superiorità dell’approccio habermasiano,
che è invero altrettanto teleologico di quello liberale, e certamente più di quello di Kant, al contrario di quanto si è talvolta sostenuto, ad esempio in: K. Baynes, The Normative Grounds of Social
Criticism: Kant, Rawls, and Habermas.
85. In questo senso, meritano attenzione i tentativi di elaborare il concetto della libertà in termini
deliberativi, vedi: C. F. Rostbøll, Deliberative Freedom.
Parte seconda: Temi e problemi
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politica, possono legittimamente definire cosa significhi, per loro, una società degna
d’essere perpetuata, ed anche quali mezzi siano più adeguati a questo scopo; qui il
teorico potrà intervenire come una voce tra le altre nel dibattito, e tanto migliore
sarà la qualità della deliberazione, tanto più spazio troveranno le istanze autenticamente critiche.86 Certo, questo di fatto accadrà solo molto, molto limitatamente.
Tuttavia, assumere la sempre presente imperfezione della realtà come motivo per
giustificare non già inevitabili aggiustamenti pragmatici, bensì la costruzione d’una
teoria normativa in flagrante contraddizione con i suoi proclamati princìpi, differirebbe solo per grado – e soltanto finché tale teoria non si trovasse, per avventura, ad
essere seriamente applicata – dall’arrendersi al governo dei custodi, al dispotismo
illuminato o all’irrazionalismo (non che tra questi passi molta differenza).
Può darsi che la strisciante tendenza ad elaborare contesti politici in termini teleologici risponda ad una profonda struttura del pensiero moderno, o persino di tutta la storia della razionalità occidentale; o può essere che a spiegarla sia sufficiente
l’intrinseca maggiore semplicità di una concatenazione mezzi-fini rispetto ad una
struttura normativa deontologica.87 Sia come sia, è relativamente sorprendente che
proprio un filosofo come Habermas – consapevolissimo della questione, visto tutto il
suo percorso di pensiero – possa cadere in una concezione del genere.
Interpretativamente, questa situazione è probabilmente da riportare alle radici
hegeliane e marxiste, pur molte volte rielaborate, ereditate dalla teoria critica francofortese.88 Certo, non si può più pensare di concepire speculativamente la totalità,
bisognerà allora tenere conto dello sviluppo delle scienze umane e della sociologia,
impiegandole per costruire una visione più ampia, d’altronde continuando a dialogare con le più disparate prospettive filosofiche, da Rawls a Derrida. Certo, Marx
semplificava pericolosamente quando voleva ricondurre l’intera storia delle società
umane alla dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, e allora si dovranno considerare quegli aspetti ideali e simbolici, niente affatto riducibili a mere
“sovrastrutture”, precedentemente trascurati;89 da qui si giungerà alla bipartizione
Lebenswelt/System, necessaria inoltre per evitare l’unilateralità di quella teoria siste86. Habermas sostiene in modo esplicito – ad esempio nello scambio con Rawls – che proprio questo, e non altro, dovrebbe essere il ruolo del critico sociale, con ciò presentando egli stesso gli argomenti in forza dei quali la sua teoria non potrebbe assumere la forma teleologica che tuttavia
dimostra.
87. Semplicità, beninteso, limitata alla prospettiva teorica. Nella prassi, al contrario, applicare un
rigido consequenzialismo è pressoché impossibile, perché le conseguenze delle azioni sono sempre incalcolabili, né peraltro sono mai note tutte le rilevanti condizioni antecedenti. Se la si volesse seriamente impiegare per il giudizio dell’azione politica, anche la teleologia più semplice darebbe luogo
ad un incubo computazionale.
88. Sulla costante influenza di quest’origine è esplicito: H. Brunkhorst, Habermas, p. 6.
89. J. Habermas, Per la ricostruzione del materialismo storico.
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4. Spazi deliberativi, tra società e politica
mica giudicata come l’esito ultimo della linea di rimozione della normatività iniziata
dal marxismo.90 Certo, per sfuggire al pessimismo anomico in cui finiva per cadere la
Scuola di Francoforte, che rischierebbe di far ritirare la teoria critica nell’irrilevanza
pratica, sarà necessario spiegare come l’etica del discorso non si riduca ad un mero
dover essere, che potrebbe cadere sotto le pressanti critiche d’astrattezza e irrealizzabilità, rispecchiandosi bensì in tendenze sociologicamente osservabili e dimostrabili, di contro al regresso e all’imbarbarimento che quasi tutto oscuravano nel punto di
vista di Adorno ed Horkheimer. E infine: come si potrebbe rispondere in modo
convincente agli attacchi post-moderni contro la ragione, difendendo l’illuministico
progetto incompiuto della modernità, se non si agganciassero le pretese critico-normative della razionalità ad una fattualità innegabile anche per lo scettico più
radicale?91
Si possono apprezzare o meno questi intenti, e la perizia della loro esecuzione,
quel che però alla fine risulta chiaro è che tutte le trasformazioni e sostituzioni operate da Habermas modificano sì profondamente il contenuto del luogo teorico precedentemente occupato dalla filosofia della storia, molto limitatamente però, e solo
come secondaria conseguenza, il suo ruolo sistematico, che nonostante tutto rimane
spiccatamente teleologico. Questo ha perfettamente senso per la prospettiva della
teoria critica. Tuttavia, spostando il punto di vista verso la democrazia deliberativa,
ci si accorge che il problema non era la filosofia della storia in sé (né la metafisica,
l’antropologia filosofica, o quel che si vuole), ma semplicemente il fatto che inserire
qualsiasi finalità come giustificazione ultima di una teoria politica è incompatibile
con l’essere quest’ultima democratica e deliberativa, perché in tal caso già in linea di
principio non sarebbero i cittadini a decidere in comune quali scopi desiderano perseguire. Non che si debba negare la presenza di limiti fattuali all’attualizzarsi di questa possibilità; questi però non possono essere stabiliti dal filosofo, ma solo riscontrati volta per volta nella prassi, dagli stessi cittadini. Che poi la contraddittoria
elaborazione teleologica di una teoria politica si esprima nella forma d’una filosofia
della storia, dell’escatologia religiosa o di uno scientismo funzionalistico e tecnocrati90. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 9 ss.
91. Il rinnovato interesse per la religione, e più in generale per l’etica contenutistica, mostrato negli
ultimi anni è probabilmente da ricondurre ad una preoccupazione di questo genere (si può dire
“prudenziale”), vedi: J. Habermas, Tra scienza e fede, Roma-Bari: Laterza, 2006. Talora, queste
posizioni sono interpretate come una ritirata, almeno parziale, rispetto al precedente puro proceduralismo (G. Preterossi, “La mobilitazione normativa della natura umana. Soggettività e artificio
giuridico in Habermas”, Filosofia politica 23, no. 3 (2009): 381-95); tuttavia, non è detto che sia
così, perché il proceduralismo riguardo la teoria della democrazia non esclude, richiedendole anzi
esplicitamente, posizioni contenutisticamente onerose, da articolare però soltanto entro di essa. Il
punto resta quello di affermare la priorità dei princìpi procedurali rispetto ai valori contenutistici;
forse Habermas non è stato abbastanza chiaro in merito, ma confondere priorità ed esclusività resta un errore.
Parte seconda: Temi e problemi
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co, poco cambia dalla prospettiva dell’azione politica, e conseguentemenre della deliberazione: si tratterà di imposizioni di finalità diverse tra loro per forma, contenuto
e giustificazioni, ma pur sempre imposizioni.
4.4. Circa i limiti della teoria deliberativa
Attraversata la critica del nesso fattualità-validità, è opportuno tornare sul punto
specifico che ne ha suscitata la necessità. D’altra parte se, come sostengo, la definizione degli spazi deliberativi è il principale contributo positivo che la teoria può
offrire, è chiaro che proprio su questo piano si dovranno riscontrare gli esiti di tutta
l’argomentazione sin qui svolta. E il risultato principale sta in una limitazione del
modo in cui la democrazia deliberativa può intendere i propri spazi.
Per prima cosa, se è vero, come è vero, che la teoria critica giunge, autonomamente dal proprio punto di vista, ad affermare la necessità di una democrazia deliberativa puramente procedurale, perché comprende che solo entro tale contesto politico sarebbe possibile accorciare la dolorosa distanza tra teoria e prassi, ciò va a suo
merito; non deve però poi contraddirsi re-inserendo, in modo più o meno esplicito,
nella definizione della deliberazione proprio quei concetti teleologici che era giustamente arrivata a denunciare. Questo vuol dire, nuovamente, che la democrazia deliberativa può darsi un fondamento in senso proprio, vale a dire un principio di base
che eserciti conseguenze normative su tutti i successivi sviluppi della teoria, soltanto
in modo rigorosamente deontologico; il che, mettendo da parte le oscillazioni della
teoria habermasiana, rappresenta il significato più radicale del puro proceduralismo.
Così, come il liberalismo moralmente connotato di Rawls può sì convergere sulla
democrazia deliberativa, ma non sovra-ordinarvi le proprie istanze specifiche, allo
stesso modo la teoria critica trova in se stessa dei motivi anche teleologici, dunque
valoriali, per la deliberazione, ma non può definire questa in forza di quelli. Qui, tuttavia, districare la prospettiva teleologica da quella deontologico/procedurale è più
complesso, perché è la struttura stessa della teoria critica a prevedere quell’intersezione continua tra fattualità e validità che pure non può essere mantenuta sul piano
politico della democrazia deliberativa. Dalla scissione del duplice motivo considerato
dal discorsivismo a favore della deliberazione,92 solo la corrispondenza con la ragione
comunicativa può restare come principio fondamentale, l’eventuale necessità sociale,
tutta da verificare empiricamente, e da parte degli stessi cittadini deliberanti, può
fungere al più da motivazione accessoria, senza peraltro comportare conseguenze
normative dirette. Nel proseguire sarà meglio chiarito come tale corrispondenza non
92. Vedi sopra, p. 88.
- 152 -
4. Spazi deliberativi, tra società e politica
possa darsi come realizzazione di un modello concreto, ma soltanto nella forma delle
condizioni di possibilità di una discussione razionale.
Questo, da un lato, coincide con l’approccio trascendentale favorito da Apel; tuttavia il tentativo di ricavare da ciò la priorità del diritto sulla democrazia resta precluso,93 perché anche un’applicazione razionale del diritto richiede pur sempre la deliberazione, e dunque la democrazia. D’altra parte, orientandosi verso l’azione
politica è possibile sgravarsi, per così dire, dall’onere argomentativo di una teoria
comprensiva della razionalità, sfuggendo quindi all’obiezione rawlsiana. La questione
è che, accettata la pluralità ineludibile dei contesti decisionali, quello che una teoria
politica può chiedersi è come sia possibile, solo possibile, che le scelte siano giuste e
razionali. Conseguentemente, a meno di avanzare l’implausibile pretesa di conoscere
in anticipo la giusta soluzione di qualsiasi problema dovesse mai presentarsi in un
futuro indefinito, l’onere della prova cadrà sempre su chi proponga di limitare la
possibilità di deliberare razionalmente; e tanto deve bastare, per quanto poco sia, a
fondare la democrazia deliberativa come teoria politica.
La conseguenza più immediata di tutto ciò è che ogni singolo spazio deliberativo
può essere definito soltanto in forza del suo proprio principio, riducibile alla possibilità di sollevare liberamente pretese di validità,94 e non strumentalmente a qualsivoglia finalità contenutistica, neppure se questa corrispondesse al progetto comprensivo d’una società considerata più giusta e razionale.
Che la pretesa di superare ricostruttivamente la distanza tra fattualità e validità
in una teoria della società non possa essere soddisfatta in modo compatibile con la
struttura normativa della democrazia deliberativa – avendo d’altronde già precedentemente osservato, nel § 4.1, che né un approccio soltanto descrittivo né uno puramente normativo sono adatti allo scopo – porta a concludere che il concetto stesso
di società civile, assieme a tutti quelli che gli gravitano attorno a partire dalla sfera
pubblica, dal punto di vista della teoria deliberativa possa essere impiegato solo, per
così dire, “dall’esterno”. Se la diagnosi sociologica cui giunge Habermas è corretta,
vorrà dire che sono all’opera tendenze che ci lasciano la speranza di realizzare in futuro una migliore democrazia deliberativa, ciò però non implica alcunché circa la
teoria normativa. Di converso, una eventuale sociologia (o altro approccio metodologicamente descrittivo) interessata alla deliberazione, potrà legittimamente trarre da
questa l’ispirazione per delimitare, nel caotico insieme dei fatti sociali, concetti come
quello di società civile o di sfera pubblica, ma da tale punto in poi potrà analizzarli
93. Vedi sopra, n. 28, p. 84.
94. Il potenziale emancipativo della deliberazione si trova “semplicemente” nella possibilità di
esplicitare linguisticamente le proprie ragioni: A. Knops, “Delivering Deliberation’s Emancipatory
Potential”, Political Theory 34, no. 5 (2006): 594-623.
Parte seconda: Temi e problemi
- 153 -
solo empiricamente, e con tutti i limiti inerenti all’osservazione di “oggetti” tanto
complessi e dai confini così vaghi.
Ciò non sarebbe poi molto diverso da quanto accaduto, dopo l’età dell’illuminismo e delle rivoluzioni, con la nascita e lo sviluppo delle scienze sociali. Tuttavia, ora
si potrebbero evitare quelle confusioni tra fattualità e validità che, a partire dalla
pretesa – inevitabilmente smentita dall’osservazione empirica – di riscontrare bell’e
pronta nella realtà la conformità a certi princìpi, ha rischiato di far perdere il significato stesso della democrazia, ed in genere della normatività in politica, come ho cercato di riassumere molto rapidamente nel primo capitolo. Il sostenitore della deliberazione saluterà certo positivamente i casi in cui l’indagine storico-sociologica
riscontrerà un ruolo effettivamente positivo della comunicazione nella società civile,
ma sarà anche criticamente consapevole che né questo implica alcuna tendenza, tanto meno garanzia, per il futuro, né il verificarsi della sgradita eventualità opposta
smentirebbe una virgola della validità della democrazia.
Viceversa, sul piano pratico, gli spazi per deliberare possono essere definiti soltanto in modo esplicitamente normativo, ed è a questo punto che si può recuperare la
schematizzazione degli aspetti caratterizzanti, da approfondire e sviluppare, presentata in apertura di questo capitolo. In tal modo, l’eccessiva rigidità della contrapposizione tra pubblici e forti e pubblici deboli può stemperarsi in una valutazione più
realistica ed articolata delle possibilità di spazi deliberativi che dovranno coordinarsi
in un’ampia pluralità di contesti diversi;95 il che tra l’altro è una delle condizioni
perché la democrazia possa perlomeno pensare di trascendere i problematici confini
dello Stato nazionale. Se però vuole essere coerentemente deliberativa, la teoria non
potrà prescrivere un certo ordinamento complessivo della società, né tanto meno immaginare di contrapporre una società civile “buona” ad una eventualmente “cattiva”.96 Al contrario, ciascuno spazio deliberativo dovrà essere definito deontologicamente; non cioè con la finalità (esplicita o implicita che sia) di determinare risultati
considerati auspicabili ma che non coincidono con il principio della deliberazione democratica, vale a dire che le decisioni debbano essere prese dai cittadini impegnati
in una ragionevole discussione.
Il modello cui fare riferimento non può che essere quello della situazione discorsiva ideale, contesto nel quale siano soltanto gli argomenti, non la violenza o altre
forme eteronome d’influenza, ad avere valore – si vedrà però, in particolare nel capitolo sesto, come ciò non debba comportare l’adesione ad un modello “consensuale”,
o eccessivamente razionalistico, dell’effettiva discussione politica. Joshua Cohen ave95. Vedi anche: R. E. Goodin, “Sequencing deliberative moments”, in Innovating Democracy, Oxford, New York: Oxford University Press, 2008.
96. S. Chambers e J. Kopstein, “Bad Civil Society”; S. Chambers, “A Critical Theory of Civil
Society”.
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4. Spazi deliberativi, tra società e politica
va perciò ragione quando asseriva che le istituzioni devono, per quanto possibile, «rispecchiare» l’ideale, sebbene non fosse altrettanto nel giusto adombrando la prospettiva di una società che razionalizza integralmente se stessa attraverso la pubblica
discussione.97 Piuttosto, il punto è che anche la presa d’atto che non tutto, e spesso
neanche “molto”, della realtà sociale potrà di fatto essere democraticamente deliberato non deve condurre a considerare normativamente accettabile o preferibile alcun
rilassamento della qualità degli spazi deliberativi, nemmeno se lo si pensasse finalizzato a compensare, negli output, le distorsioni della comunicazione sempre presenti
dal lato degli input; pace Estlund,98 e gli altri teorici che hanno in vario modo sostenuto la stessa incongrua posizione.
L’imperfezione di ogni politica, sempre esposta a pressioni e influenze che nulla
hanno a che vedere con l’argomentare, è uno sgradevole fatto che non può essere
evaso né ignorato. Il compito della democrazia deliberativa non è però quello di rimuovere tale imperfezione ricostruendo la propria teoria in modo da nasconderla o
aggirarla. Essa deve bensì chiarire come ordinare una prassi coerente con il possibile
perseguimento del modello ideale; il che è cosa diversa dai suoi presunti risultati, che
non possono essere affatto anticipati, tanto meno autoritativamente, al di fuori di un
discorso concretamente svolto. Tutto ciò, senza contraddire il presupposto dell’autonomia discorsiva d’ogni possibile partecipante e quindi, stante il fatto del pluralismo, senza neppure assumere la forma d’una esortazione etica rivolta a ciascun
singolo.
Dato il disaccoppiamento di fattualità e validità, rispetto all’interpretazione sociologica dell’agire comunicativo, l’orientamento etico che può di fatto essere una
condizione per il successo della deliberazione democratica non può però entrare propriamente nella teoria di questa. Invero, si può dire in astratto che un orientamento
del genere sia necessario, ma non pretendere di determinarne il contenuto sullo stesso livello normativo della teoria democratica; il che è peraltro coerente, più di quanto non sia la stessa teorizzazione habermasiana, con il dato che l’intenzione di agire
comunicativamente non possa essere in alcun modo coartata. Conseguentemente, risulta chiaro che la democrazia deliberativa potrà occuparsi direttamente soltanto
97. Perciò, la critica di Habermas a Cohen è condivisibile solo a metà. Vedi sopra, p. 53, nota 36.
98. D. Estlund, “Democracy and the Real Speech Situation”.
Parte seconda: Temi e problemi
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della struttura degli spazi istituzionalizzati,99 perché sono i soli definibili in modo
esplicito e determinato senza violare i basilari presupposti della teoria.
Certo, poi, si potrà discutere quale punto di vista etico-politico sia più adeguato
alla realizzazione concreta di una buona democrazia – qui si troveranno tutte le argomentazioni attorno alla ragione pubblica, il liberalismo, l’ethos democratico, e così
via. Però, nessuna proposta o prescrizione circa il modo in cui gli agenti dovrebbero
comportarsi, o quali criteri contenutistici dovrebbero impiegare per giudicare del
mondo politico, potrà essere normativamente sovra-ordinata rispetto ai princìpi su
cui devono essere informate le istituzioni democratiche. Dunque, il primo e più importante compito della democrazia deliberativa è quello di definire le condizioni per
cui realizzabili spazi deliberativi siano il più possibile aperti a pretese di validità discorsivamente riscattabili, chiusi però alle influenze non discorsive, come il denaro o
la violenza.
Viceversa, per quel che riguarda la comunicazione diffusa nella società, la teoria
deliberativa in quanto tale non avrà molto di nuovo da dire, giacché quei diritti e
quelle garanzie necessarie ad assicurare la libertà d’espressione hanno più bisogno
d’essere rinvigoriti nelle motivazioni, e conseguentemente nell’applicazione, che non
re-inventati in qualche modo “originale”.100 Ciò che si può giustificare da un punto di
vista puramente deliberativo è la più ampia libertà di espressione, comunicazione e
associazione per tutti i cittadini, in quanto imprescindibili per la loro partecipazione
al dibattito pubblico – ed in effetti, tali condizioni giuridicamente costituite sembrano necessarie per la presenza di una sfera pubblica, più che essere conseguenze di
essa. Dire di più, oltre ad essere teoricamente illegittimo per le ragioni che si sono
viste, conduce a quelle indebite semplificazioni e forzature nella descrizione di una
società civile e di una sfera pubblica alle quali si vorrebbe assegnare un impossibile
doppio ruolo, capace di produrre risultati politici deliberativamente legittimi, quindi
procedurale, e però contemporaneamente garante non soltanto dell’inclusione dei di99. Nonostante una vena lievemente comportamentista, un buon esempio di questo atteggiamento
(che si concordi o meno sul merito delle proposte) è quello delle «conclusioni normative» tratte da
Elster dopo aver analizzato le condizioni deliberative di varie assemblee costituenti: J. Elster, “Deliberation and Constitution Making”. Vedi anche: M. S. Williams, “The Uneasy Alliance of Group
Representation and Deliberative Democracy”, in Citizenship in Diverse Societies, a cura di W.
Kymlicka e W. Norman, Oxford: Oxford University Press, 2000.
100.Talora ci si è lamentati che certe versioni della democrazia deliberativa non differiscano poi
troppo da vecchie raccomandazioni da «libro di testo d’educazione civica»: J. S. Dryzek, “Discursive democracy vs. liberal constitutionalism,” p. 82 (la critica era rivolta proprio contro Habermas). Può darsi che sia così, ma se un insieme di argomenti offre ragioni per sostenere idee non
nuove – in certa misura ciò è inevitabile leggendo l’approccio deliberativo come re-interpretazione e
radicalizzazione della democrazia – forse la questione principale riguarda quanto le nostre prassi
siano sempre state lontane da pur ben conosciute norme, piuttosto che l’inventarne ulteriori, che
certo non potrebbero neppure esse sottrarsi alla difficoltà d’essere concretamente messe in atto.
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4. Spazi deliberativi, tra società e politica
versi punti di vista, ma proprio della corrispondenza del sistema politico con una società pensata nei termini della fattualità, ruolo dunque necessariamente contenutistico e non formalizzabile.
Tuttavia, rimane chiaro come la prospettiva deliberativa intrinsecamente tenda a
focalizzare l’attenzione sulle ulteriori condizioni necessarie affinché tutti possano
prendere parte al dibattito in modo efficace – a partire dall’istruzione e da un minimo di risorse economiche, per arrivare fino alla problematica protezione delle identità culturali – che qui possono essere riassunte sotto il pur impreciso titolo di ‘diritti
sociali’.101 La posizione puramente procedurale richiede però che sia la prima categoria di diritti ad avere priorità, cioè a prevalere nel non infrequente caso di un conflitto.102 Questo non perché l’insieme delle condizioni che potrebbero essere garantite
dai diritti sociali sia meno importante, neanche soltanto per la deliberazione, del diritto alla libertà individuale e politica – in vari casi potrebbe essere vero l’opposto:
non è difficile immaginare che un uomo ricco, colto e col colore della pelle “giusto”,
ma non cittadino dello Stato in cui si trova, possa nondimeno partecipare ad un dibattito, piccolo o grande che sia, con più possibilità di successo di un cittadino a
tutti gli effetti, però povero, ignorante e parte di un’etnia discriminata. Neppure ci
si dovrebbe impelagare nella vecchia querelle tra liberali e socialisti/marxisti circa la
neutralità, propria magari di certi diritti e non di altri, o sul presunto minor costo,
in termini di coercizione esercitata, dei diritti “liberali” rispetto a quelli “sociali”. Infine, non si deve cadere nella tentazione di definire la differenza tra le categorie di
diritti come quella tra ciò che dev’essere deciso nella deliberazione e ciò che è invece
stabilito preventivamente rispetto ad essa, perché è chiaro che ogni decisione politica, senza distinzioni, possa essere in linea di principio legittima solo se democraticamente discussa e approvata dai cittadini.103
101.In questo senso, si può dire che «la democrazia deliberativa, insistendo vigorosamente sulla necessaria eguaglianza delle condizioni di accesso al dibattito, promuove una critica serrata di tutti
quei meccanismi economici e sociali che producono asimmetrie nella distribuzione dei beni e del potere»: S. Petrucciani, “Democrazia deliberativa e conflitti culturali”, in Democrazia. Storia e teoria
di un’esperienza filosofica e politica, a cura di C. Altini, Bologna: il Mulino, 2011, p. 309. ‘Promuove’, sì, ma non ‘implica’ né tantomeno ‘determina’.
102.Questo in modo simile alla posizione delle cinque categorie di diritti in Habermas (vedi sopra,
p. 86); soltanto, maggiore enfasi andrebbe posta sul fatto che anche i diritti individuali sono giustificabili, da un punto di vista deliberativo, soltanto in quanto funzionali alla partecipazione politica – giacché non si può precludere in anticipo che i cittadini, talvolta, prediligano una forma diversa per la propria società, magari spiccatamente “comunitaria” o altrimenti “illiberale”. Joshua
Cohen (J. Cohen, “Procedure and Substance in Deliberative Democracy”), assieme a molti altri, ha
perfettamente ragione nel sottolineare che le substantive presuppositions della democrazia siano da
prendere molto sul serio, soltanto che non devono essere normativamente sovra-ordinate ai princìpi
procedurali. In un contesto sociale sfavorevole, può esser probabile che la democrazia fallisca miseramente, almeno però si potrebbe elaborarne la teoria in modo che non si contraddica da sé.
103.Questo, di per sé, non significa escludere un ordinamento del tipo ‘costituzione–leggi ordinarie–
Parte seconda: Temi e problemi
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Viceversa, la priorità dei diritti civili e politici rispetto a quelli “sociali”, può essere derivata dal fatto che soltanto i primi definiscono, sia pure in un certo senso indirettamente, la società come possibile spazio per la deliberazione;104 mentre si è già
osservato come il ruolo perlomeno cognitivo della comunicazione diffusa nella società
sia imprescindibile. Dal punto di vista della democrazia deliberativa, le libertà personali e politiche dovrebbero essere interpretate in modo analogo alle norme che definiscono l’appartenenza e i limiti da osservare per partecipare ad un qualsiasi contesto formalizzato di discussione e decisione, come un parlamento, una commissione o
una corte giudiziaria.105 Senza delimitare in modo riconoscibile l’insieme di chi può
partecipare – che idealmente potrebbe includere tutti i cittadini del mondo, i quali
tuttavia dovrebbero pur sempre essere formalmente definiti, da un diritto universale,
come partecipanti – e senza impedire perlomeno le forme più violente di sopraffazione e ostacolo all’espressione, la deliberazione sarebbe non soltanto, come sempre
è, esposta al fallimento de facto (così si potrebbe argomentare per il caso della scarsità di risorse materiali e culturali), bensì esclusa per definizione. D’altra parte, dovrebbe essere abbastanza chiaro come neppure le condizioni concrete più basilari per
partecipare con successo alla discussione possano essere normativamente sovra-ordinate alla definizione della democrazia deliberativa, e invero neanche poste sullo stesso livello all’interno della teoria; ciò significherebbe scivolare nuovamente verso una
concezione teleologica, impiegando in modo indebito quelle categorie di descrizione
della società che possono trovare un uso sensato solo subordinatamente ad un’opzione normativa.
Questo rappresenta, almeno nelle grandi linee, tutto ciò che la teoria deliberativa
in quanto tale – e dunque prescindendo dalla coesistenza, che si dovrà pur sempre
riscontrare perché la discussione abbia un contenuto, con ulteriori orientamenti politici che saranno diversi caso per caso106 – può affermare circa la comunicazione spondecreti esecutivi’, bensì che non è soltanto su alcuni ma su tutti questi livelli, nelle sedi e nei tempi
appropriati, che deve esercitarsi la deliberazione.
104.«Senza la garanzia di queste libertà, semplicemente non esistono spazi [fora] deliberativi»: I.
M. Young, “Justice, Inclusion, and Deliberative Democracy,” p. 152, traduzione mia.
105.In questo senso, le sovrapposte contrapposizioni tra pubblici forti e deboli, tra «deliberazione
democratica» e «democrazia deliberativa» (nel già citato: S. Chambers, “Rhetoric and the Public
Sphere”), e tra modelli deliberativi “micro” e “macro” (C. M. Hendriks, “Integrated Deliberation:
Reconciling Civil Society’s Dual Role in Deliberative Democracy”, Political Studies 54 (2006):
486-508; R. E. Goodin, Innovating Democracy, Oxford, New York: Oxford University Press, 2008),
possono essere considerate soltanto come elementi per l’analisi empirica, ma niente affatto assunte
nella teoria normativa, coerentemente d’altronde con il principio egalitario dell’ideale coincidenza
tra governati e governanti, senza il quale la democrazia proprio non si dà.
106.È banalmente vero che «la deliberazione deve riguardare qualcosa»: H. S. Richardson, “Democratic Intentions”, in Deliberative Democracy, a cura di J. Bohman e W. Rehg, Cambridge MA:
MIT Press, 1997, p. 349, traduzione mia. Ciò però non implica affatto, come talvolta si è voluto intendere, che la medesima democrazia deliberativa debba essere definita in modo contenutistico,
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4. Spazi deliberativi, tra società e politica
tanea, e relativamente disorganizzata, nella società civile. Per il resto, che è poi la
parte maggiore, la democrazia deliberativa, pur consapevole che una sfera pubblica
vivacemente comunicativa rappresenta una condizione di fatto imprescindibile, eppure per definizione non ordinabile, dovrà accontentarsi d’essere prima di tutto una
teoria delle istituzioni. In altre parole, nell’endiadi tra società e politica dev’essere il
secondo termine quello centrale per la teoria deliberativa – il che poteva pur essere
ovvio, peraltro corrispondendo abbastanza precisamente alla sua repubblicana ispirazione iniziale.107
D’altra parte, una volta superata, o per meglio dire ricondotta nei limiti della sua
molto relativa validità, la contrapposizione tra pubblici forti e pubblici deboli, questa posizione “politica” non significherà più concentrarsi esclusivamente sullo Stato
come luogo di produzione del diritto.108 Al contrario, già nel prossimo capitolo, partendo dall’individuazione dei soggetti deliberanti come criterio di definizione, sarà
proposto uno schema (non di più, per ragioni di spazio) delle possibilità di una democrazia deliberativa dal livello locale fino a quello internazionale, differenziando i
diversi contesti anche in funzione degli oggetti su cui devono deliberare. La questione dei criteri più o meno stringenti richiesti alla razionalità del dibattito, presente sullo sfondo della contrapposizione tra politica e società che è stata qui criticata, sarà conseguentemente ripresa nel capitolo sesto.
dunque valoriale e teleologico.
107.Vedi sopra: § 2.1, pp. 45 ss.
108.Ancora una volta, la teoria critica avverte bene l’esigenza di un modello decentrato, rispetto
alla precedente assoluta centralità dello Stato (e.g.: J. Habermas, “Tre modelli normativi di democrazia”), ma il modo sistematicamente errato in cui si tenta di risponderle rischia di oscurare la
corretta intuizione iniziale; la rigida contrapposizione ‘pubblici forti/pubblici deboli’ rappresenta
l’esempio più evidente, ma non unico, di questa tendenza, vedi anche: J. S. Dryzek, Deliberative
Democracy and Beyond, cap. 4.
5. Soggetti e oggetti della deliberazione
... una decisione legittima non rappresenta la volontà di tutti, è quella bensì che risulta dalla
deliberazione di tutti. È il processo attraverso cui la volontà di ciascuno si forma che conferisce legittimità all’esito, anziché la somma di volontà già formate. Il principio deliberativo è
sia individualistico che democratico. (Bernard Manin, On Legitimacy and Political
Deliberation)
Una teoria politica, in quanto si occupa di azioni – attuali, dovute o possibili – necessariamente richiede, che la espliciti o meno, una qualche concezione del soggetto e
dell’oggetto di tali azioni. La democrazia deliberativa non fa eccezione, le questioni
circa il ‘chi’ è, o deve essere, a deliberare e riguardo ‘che cosa’, sono evidentemente
imprescindibili. D’altronde, come già accennato, questi due elementi – ed un terzo,
le modalità dell’interazione, di cui mi occuperò nel prossimo capitolo – sono necessari per delimitare lo spazio di qualsiasi agire politico, ivi compreso quello
deliberativo.
La definizione del soggetto della deliberazione può essere distinta attraverso due
piani discorsivi, pure tra loro connessi. In primo luogo s’incontra il tema classico di
chi fa parte del demos e chi no – in questi tempi declinato soprattutto attorno ai
problemi posti dal multiculturalismo, sempre però sullo sfondo del confronto/scontro
tra il (tramontante?) paradigma statale e l’incerto procedere dei tentativi politici
post-nazionali.1 È poi problematico anche il modo di pensare il soggetto che fa parte
1. Nella letteratura deliberativa l’esempio principe è quello dell’Unione Europea, perché più vicina (o meno lontana) dell’ONU e di altri organismi sovra-nazionali alla rappresentazione di un foro
deliberativo. Si vedano: E. O. Eriksen, “The European Union’s democratic deficit: a deliberative
perspective”, in Democratic Innovation, a cura di M. Saward, London: Routledge, 2000; D. Chalmers, “The Reconstitution of European Public Spheres”, European Law Journal 9, no. 2 (2003):
127-89; J. E. Fossum e A. J. Menéndez, “The Constitution’s Gift? A Deliberative Democratic Analysis of Constitution Making in the European Union”, European Law Journal 11, no. 4 (2005):
380-440; J. Bohman, “Rights, cosmopolitanism and public reason”, Philosophy & Social Criticism
31, no. 7 (2005): 715-26; S. Besson, “Deliberative Demoi-cracy in the European Union”; D. Curtin,
“Framing Public Deliberation and Democratic Legitimacy in the European Union”, in Deliberative
democracy and its discontents, a cura di S. Besson e J. L. Martí, Aldershot: Ashgate, 2006.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
del demos, poiché il modello individualistico, tipico del diritto moderno e della democrazia liberale, è sotto attacco da varie direzioni.
Per quanto riguarda il primo punto, la questione principale è che, da un lato, le
tradizionali istanze di divisione spesso non paiono più in grado di sorreggere l’onere
normativo loro richiesto, mentre d’altronde si presentano innumerevoli ostacoli alla
realizzazione di un ordine democratico al di là dei confini, geografici e concettuali,
dello Stato. La discussione su questo aspetto è sterminata, e qui non è possibile tentare di riassumerla.2 Viceversa, il dato più interessante è che la democrazia deliberativa può fondare la pretesa di produrre un contributo autonomo sul secondo piano di
discorso, e cioè sulla determinazione delle caratteristiche del soggetto della deliberazione. In forza del modo in cui la teoria definisce i soggetti deliberativi, essa può
offrir, almeno, un diverso e più fruttuoso punto di vista circa il problema, sì puramente formale ma con immediate conseguenze pragmatiche, di come disegnare i
confini della platea dei decisori democratici. Perciò, si vedrà come le questioni delle
identità individuali o collettive e della rappresentanza democratica dei gruppi socioculturali, e d’altro lato quelle riguardanti la delimitazione di un demos nazionale o
internazionale, da un punto di vista deliberativo siano strettamente connesse.
A sua volta, la considerazione degli oggetti della deliberazione dimostra un legame bidirezionale con la definizione dei suoi soggetti. In alcuni casi questo è evidente: l’ampiezza dell’insieme dei destinatari di una certa decisione, determinata dal
contenuto di quest’ultima, è connessa con la legittimità democratica della platea di
chi decide; e le decisioni stesse, per guadagnare un’efficacia adeguata alla loro rilevanza, richiedono (o richiederebbero) la più ampia partecipazione di coloro che ne
sopporteranno gli esiti. Così, è plausibile pensare che tematiche riguardanti l’intera
2. Una buona rassegna la si può trovare in: D. Archibugi, “Cosmopolitan democracy and its critics: a review”, European Journal of International Relations 10, no. 3 (2004): 437-73; D. Archibugi,
Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica, Milano: Il Saggiatore, 2009, cap. 5. Qui
mi limito a citare pochi contributi particolarmente rilevanti. Il cosmopolitismo più radicale è proprio di autori come lo stesso Archibugi e David Held: D. Held, Governare la globalizzazione, Bologna: il Mulino, 2005. Habermas e gli autori vicini al discorsivismo adottano posizioni più sfumate
ed articolate: J. Habermas, La costellazione post-nazionale, Milano: Feltrinelli, 1999; J. Habermas,
“La costituzionalizzazione del diritto internazionale ha ancora una possibilità?”, in L’Occidente diviso, Roma-Bari: Laterza, 2005; J. Bohman, Democracy across Borders; S. Benhabib, Cittadini globali: Cosmopolitismo e democrazia; J. L. Cohen, “Whose Sovereignty? Empire Versus International
Law”, Ethics & International Affairs 18, no. 3 (2004). Dahl è probabilmente il più influente tra i
critici della democrazia cosmopolitica: R. A. Dahl, “Can International Organizations be Democratic? A skeptic’s view”, in Democracy’s Edges, a cura di I. Shapiro e H. C. Casiano, Cambridge:
Cambridge University Press, 1999; R. A. Dahl, “Is Post-national Democracy Possible?”, in Nation,
Federalism and Democracy, a cura di S. Fabbrini, Bologna: Editrice Compositori, 2001. Tra gli autori vicini alla teoria deliberativa, è Nadia Urbinati ad esprimere cautela circa il cosmopolitismo:
N. Urbinati, “Can Cosmopolitical Democracy Be Democratic”, in Debating Cosmopolitics, a cura di
D. Archibugi e M. Koenig-Archibugi, London, New York: Verso, 2003; N. Urbinati, Ai confini della
democrazia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico, Roma: Donzelli, 2007.
Parte seconda: Temi e problemi
- 161 -
umanità, come la politica ambientale o il diritto internazionale, idealmente dovrebbero trovare il contributo deliberativo di tutti i cittadini del mondo. Viceversa, questioni più specifiche (ad esempio l’ordinaria amministrazione della giustizia, la gestione delle scuole, dei trasporti pubblici, e così via) potrebbero essere largamente
decentrate, per avvicinare l’implementazione delle decisioni ai cittadini che deliberano. Altri oggetti richiederebbero dimensioni decisionali intermedie (regionali, statali,
continentali), delineando una sorta di sistema federale ideale, dinamicamente articolato in ragione dell’ampiezza delle decisioni volta per volta in discussione.3
Sul piano contenutistico, il nesso tra soggetti e oggetti della deliberazione è meno
immediato che nella pura formalità della delimitazione quantitativa di decisori e destinatari. Nondimeno, anche in questo caso si possono osservare corrispondenze. Le
determinazioni dei soggetti (come singoli, gruppi e/o associati) influenzano necessariamente il tipo di questioni che è possibile portare all’attenzione della deliberazione;
a loro volta, gli effetti esclusivi/inclusivi dell’ambito di discutibilità importano ricadute sulle possibili definizioni delle identità individuali e di gruppo. Esempio classico
è quello dell’esclusione delle donne dalla sfera pubblica, e del suo progressivo superamento. La tipizzazione del soggetto politico come capo-famiglia maschio implicava
non semplicemente che alle donne fosse negata soggettività politica, ma anche
l’espulsione dal discorso dei temi considerati “femminili” – dall’antica Grecia in poi.
Di converso, che certe questioni (per esempio quanto accadeva tra le mura domestiche) fossero considerate estranee allo spazio pubblico, contribuiva ad impedire
l’articolazione politica della soggettività delle donne, confinate nel medesimo ambito.
Si trovano analogie nella storia del movimento dei lavoratori: che il salariato (sempre
a partire dal mondo antico e fino al diciannovesimo secolo inoltrato) non fosse riconosciuto come un soggetto capace di libertà politica corrispondeva all’esclusione di
molte questioni economico-sociali dalla sfera pubblica, mentre l’illegalità delle associazioni sindacali (repressione funzionale ad escludere dal discorso pubblico i problemi dei lavoratori) ostacolava la costruzione di un’identità politicamente agibile. Benché i problemi politici di donne e lavoratori certo non siano scomparsi, oggi il nesso
tra la definizione dei soggetti, individuali e collettivi, e gli oggetti politicamente discutibili si dimostra problematico soprattutto per le identità culturali, etniche e
religiose.
3. Un’utopia che potrebbe assomigliare, per esempio, a quella delineata da Thomas Pogge, poco
tempo dopo la caduta del muro di Berlino: T. W. Pogge, “Cosmopolitanism and Sovereignty”,
Ethics 103, no. 1 (1992): 48-75. In termini più generali, non si può non pensare al repubblicanesimo
cosmopolitico di Kant – Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, 1784 e Per
la pace perpetua, 179, entrambi in: I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Roma-Bari: Laterza,
2002 – che costituisce la radice comune, pur diversamente declinata, degli attuali approcci deliberativi al cosmopolitismo.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
Il dibattito è ampio e ramificato, passando dal riconoscimento alle politiche
dell’identità, al femminismo e al multiculturalismo,4 e trascende senz’altro le mie
possibilità di sintesi. Tutto ciò rimane certo presente sullo sfondo, ma questi elementi sono qui da declinare nello specifico quadro delle condizioni di possibilità della democrazia deliberativa. Questo, nei limiti dello spazio disponibile, è quanto mi interessa mettere a fuoco, rappresentando d’altronde il punto di convergenza delle sopra
indicate diverse dimensioni della definizione di soggetti e oggetti della deliberazione.
5.1. Chi delibera
Il problema della definizione dei soggetti deliberativi verrà qui sviluppato attraverso
due polarità. In primo luogo, la classica contrapposizione tra partecipazione e rappresentanza sarà ri-articolata – a partire della relazione tra le preferenze effettive dei
cittadini e il più volte citato controfattuale delle decisioni che potrebbero prendere,
disponendo di tempo e conoscenze adeguate – per giungere poi ad una prima messa
in questione del modo, informato sul concetto di sovranità, in cui usualmente si intendono le strutture rappresentative. Da ciò si passerà a discutere della differenza
tra il considerare come soggetti primari della deliberazione, anche attraverso la rappresentanza medesima, gli individui o una qualche forma di “gruppi” (sociali, culturali, linguistici, e così via), sostenendo una posizione procedurale che, anche in questo caso, non è di per sé ostile a concezioni altrimenti contenutistiche, ma soltanto
ritiene dovrebbero tenersi nel loro ambito di validità senza pretendere di sovra-ordinare i propri valori ai princìpi democratici.
5.1.1 Partecipazione e rappresentanza
Come già più volte rimarcato, la deliberazione è un’attività, dunque in ogni sua occorrenza sempre agita da un determinato gruppo di persone. È chiaro che non si può
discutere l’uno con l’altro, o scambiare argomenti in senso proprio, se non partecipando direttamente alla medesima conversazione. Tuttavia, altrettanto ovvio è come
la politica moderna si svolga ampiamente nel segno della rappresentanza. Le ragioni
che rendono indispensabile la rappresentanza, legate ai limiti di tempo e spazio che
non è pragmaticamente possibile superare, si presentano in modo ancor più strin4. Sul riconoscimento in senso filosofico, oltre al già citato Honneth, si veda: P. Ricoeur, Percorsi
del riconoscimento, Milano: Raffaello Cortina, 2005; H.-C. Busch am Schmidt e C. F. Zurn, The
Philosophy of Recognition: Historical and Contemporary Perspectives, Lanham: Lexington Books,
2010. Circa il multiculturalismo: J. Habermas e C. Taylor, Multiculturalismo, Milano: Feltrinelli,
1998; S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale; A. E. Galeotti, Multiculturalismo, Napoli: Liguori, 1999. Su identità e politiche di genere, due prospettive diverse ma entrambe vicine
alla deliberazione si trovano in: I. M. Young, Justice and the Politics of Difference, Princeton:
Princeton University Press, 1990; S. Benhabib, Situating the Self, New York: Routledge, 1992.
Parte seconda: Temi e problemi
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gente per quell’attività politica specifica che è la deliberazione. Infatti, il numero di
persone che può significativamente prendere parte ad una discussione è molto basso,
mentre il tempo necessario cresce esponenzialmente coll’aumentare dei partecipanti.
In un giorno possono votare a milioni, centomila possono partecipare ad una manifestazione, forse poche migliaia possono presenziare ad una assemblea, ma una singola
discussione tra una manciata di persone può facilmente protrarsi per un tempo molto più lungo,5 e al limite anche non concludersi mai. D’altronde, l’esito della deliberazione è quasi sempre una votazione, che per forza di cose mette a tacere la discussione, se non altro temporaneamente.
Nel precedente capitolo (§ 4.1) è stato già osservato come, entro la generale tendenza moderna ad assumere la necessità della rappresentanza, la democrazia deliberativa possa riconoscerle un valore anche normativamente positivo, e in particolare
attraverso il filone critico/habermasiano della teoria deliberativa,6 con il suo modello
“a doppio binario”, per il quale la comunicazione decentrata nella società influenza,
direttamente e indirettamente, l’operato degli organi decisionali rappresentativi.
Ampio spazio è stato dedicato a riportare nel loro ordine le pretese che un approccio
deliberativo di questo genere può avanzare, ora però si tratta di affrontare la relazione della rappresentanza da un diverso punto di vista, al contempo ampliato verso
altre tendenze teorico-politiche, prima tra tutte quella repubblicana.
La rappresentanza si trovava già alla base della concezione di Madison, al punto
da essere l’elemento costitutivo della stessa definizione di ‘repubblica’. Nel decimo
Federalist Paper, la rappresentanza è esplicitamente posta come la caratteristica che
differenzia e avvantaggia una repubblica, e la grande più della piccola, rispetto
all’antica democrazia, destinata, secondo l’opinione comune all’epoca e in parte ancor oggi, a degenerare nel dominio dei demagoghi, fino ad autodistruggersi in quella
lotta tra fazioni che conduce alla tirannide. L’elezione di un numero relativamente limitato di rappresentanti sarebbe d’altronde una condizione di possibilità della deliberazione, perché un’assemblea troppo ampia, se pure si potessero riunire tutti i cittadini, non sarebbe affatto in grado di discutere, men che meno ragionevolmente.7
5. Sul semplice ma basilare problema del tempo necessario alla discussione politica, vedi: R. A.
Dahl, Sulla Democrazia, cap. 9. Per una rassegna dei tentativi di affrontare i problemi dovuti
all’ampiezza degli spazi deliberativi, si veda: W. Friedman, “Deliberative Democracy and the Problem of Scope”, Journal of Public Deliberation 2, no. 1 (2006): articolo 1.
6.
Si deve ricordare però la posizione di Joshua Cohen, fin dagli anni ‘80, vedi sopra, p. 55.
7. Un punto già notato nel 55° Federalist Paper. Le stesse assemblee parlamentari sono costrette
a suddividersi ulteriormente in commissioni, per poter deliberare sensatamente. D’altronde, nemmeno in un piccolo gruppo tutti partecipano nella stessa misura, il che determina una sorta di inevitabile rappresentanza de facto, arbitraria in quanto tale e perciò normativamente inferiore a
quella formalizzata, de iure, in una democrazia rappresentativa vera e propria; si veda: R. A. Dahl,
La democrazia e i suoi critici, cap. 16.
- 164 -
5. Soggetti e oggetti della deliberazione
Inoltre, pare probabile che gli eletti siano più informati e capaci della media; essi
perciò, deliberando tra loro, potranno forse giungere a risultati maggiormente
conformi al vero interesse comune, magari più o meno gli stessi cui addiverrebbero
tutti i cittadini, se soltanto avessero a disposizione il tempo, le conoscenze e le abilità necessarie. D’altra parte, a differenza della partecipazione diretta, l’elezione di
rappresentanti può essere replicata su più livelli, consentendo di costruire quel sistema di checks and balances, vanto del costituzionalismo statunitense, necessario a garantire la libertà, preservando l’esercizio del potere dalla tirannia della maggioranza.
Infine, l’opinione degli elettori non è certo priva di peso, avrebbe dunque torto chi
ritenesse il sistema rappresentativo necessariamente elitario o aristocratico;8 al
contrario, proprio consentendole di esprimersi formalmente nel momento delle elezioni si offre all’opinione pubblica il tempo necessario a costituirsi, attraverso la discussione pubblica, in modo ponderato, dunque migliore e, dopotutto, “più vero”.9
Tuttavia, difficilmente quest’insieme di ragioni risulterà accettabile per quel punto di vista partecipativo che pur sempre si trova tra le ispirazioni della democrazia
deliberativa. In primo luogo, è semplice osservare la tendenza dei rappresentanti ad
arroccarsi in una classe a sé, con interessi propri, pressoché certamente divergenti da
quelli dell’elettorato; con ciò, il venerabile ideale del «governo del popolo, dal popolo
e per il popolo» (Lincoln) sarebbe subito accantonato. Inoltre, in un contesto caratterizzato dall’informazione di massa e dal ruolo di mediazione dei partiti – proprio
quegli strumenti che, se funzionassero, potrebbero limitare la tendenza di cui sopra,
assicurando l’accountability degli eletti ed una coerente percezione delle opzioni politiche in discussione10 – cosa resterebbe della deliberazione tra i rappresentanti, co8. Un’opinione, questa, che affonda le sue radici nell’antichità. Già per Aristotele, e probabilmente per il senso comune dell’epoca, l’elezione era il metodo dell’oligarchia, mentre il sorteggio
quello democratico; un tema più volte ripreso in chiave deliberativa: L. Carson e B. Martin, Random Selection in Politics, Westport: Praeger Publishers, 1999; L. Bobbio, “Le virtù del sorteggio”;
Y. Sintomer, Il potere al popolo; Y. Sintomer, “Random Selection, Republican Self-Government,
and Deliberative Democracy”, Constellations 17, no. 3 (2010): 472-87.
9. Si vedano i già citati: J. M. Bessette, “Deliberative Democracy: The Majority Principle in Republican Government”; J. M. Bessette, The Mild Voice of Reason. Una posizione analoga è articolata anche dalla Urbinati (N. Urbinati, “Representation as Advocacy: A Study of Democratic Deliberation”), che nota come la concezione di una rappresentanza per nulla opposta alla
partecipazione fosse già di John Stuart Mill, che a sua volta si rifaceva in parte a Condorcet: N.
Urbinati, “Condorcet’s Democratic Theory of Representative Government”, European journal of
political theory 3, no. 1 (2004): 53-75; N. Urbinati, L’ethos della democrazia, pp. 89 ss.
10. Spesso, i partiti sono considerati come necessari complementi della deliberazione, proprio per il
loro ruolo nel semplificare e rendere coerenti le opzioni presentate ai cittadini, vedi: I. Budge, “Deliberative democracy versus direct democracy – plus political parties!”, in Democratic Innovation, a
cura di M. Saward, London: Routledge, 2000. Tuttavia, considero tale punto di vista nel complesso
fuorviante, rappresentando una generalizzazione sul piano normativo di una funzione empirica assai
contingente, peraltro di dubbia efficacia nelle attuali democrazie.
Parte seconda: Temi e problemi
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stretti a barcamenarsi tra la fedeltà alla linea di partito e la necessità di ben
apparire nei media, per assicurarsi la rielezione?11
Già strutturalmente, dunque, la distanza/differenza tra rappresentati e rappresentanti, a partire dall’assenza del vincolo di mandato, appare problematica: ad un
tempo necessaria per la deliberazione e pericolosa per la democraticità. Ciò varrebbe
persino in condizioni prossime all’ideale; ma cosa mai accadrà quando rappresentanti di dubbia moralità e competenza saranno esposti a forti pressioni, fino alla corruzione vera e propria, da parte dei potentati economici, avendo al contempo di fronte
un pubblico distratto e sempre più disilluso? In un tal caso, che spesso non sembra
distante dalla realtà, si rischierebbe di dare ragione proprio al pessimismo delle posizioni aggregative da cui si voleva inizialmente evadere. Parrebbe allora chiaro che, se
c’è una possibilità di condurre deliberativamente gli affari politici, questa riposa sulla più ampia partecipazione diretta dei cittadini.12
Eppure, i motivi sopra ricordati a favore della rappresentanza non sono cancellati,
né resi meno stringenti, dalla plausibile replica “partecipativa”. Piuttosto, per sciogliere la questione, sarebbe preferibile uscire dalla troppo rigida contrapposizione tra
rappresentanza e partecipazione. Proprio da un punto di vista deliberativo, a partire
dall’enfasi sulla discussione effettivamente svolta, sì può ben abbandonare la concezione, dopotutto quasi mistica, del voto alle elezioni come sostituto della diretta presa di posizione su ogni singola questione in un’unica assemblea,13 e con ciò diviene
abbastanza facile concordare con chi afferma che:
... l’opposto della rappresentanza non è la partecipazione. L’opposto della rappresentanza è l’esclusione. Mentre l’opposto della partecipazione è l’astensione. Invece
di contrapporre partecipazione e rappresentanza, dovremmo tentare di migliorare le
strutture e le pratiche rappresentative per renderle più aperte, efficaci ed eque.14
Così, votare per i rappresentanti, informarsi e giudicare delle azioni di questi, criticarle e discuterne, sia con gli altri elettori sia, ove possibile, con gli stessi eletti, di11. C. McBride, “Reason, Representation, and Participation”, Res Publica 13, no. 2 (2007): 171-89.
12. Si può sostenere che una politica maggiormente partecipativa sarebbe necessaria persino per la
mera funzione di controllo esercitata dagli elettori, se non altro perché «In stati definiti dal guardare anziché dall’agire – in stati “cani-da-guardia” o “guardiani” – i cittadini, come tutti gli spettatori, corrono il rischio di cadere addormentati»; e ancora, «Il processo deliberativo, d’altra parte,
non si presta ad essere quantificato né delegato»: B. R. Barber, Strong Democracy, pp. 123, 198,
traduzione mia.
13. Una visione, d’altronde, neanche lontanamente corrispondente al modello classico, che dimostrerebbe semmai un cospicuo frazionamento del potere politico, e tanto di più quanto più era democratico (Atene più di Roma, ed entrambe più di Sparta).
14. D. Plotke, “Representation is democracy”, Constellations 4, no. 1 (1997), p. 19, traduzione
mia. La “riconciliazione” tra rappresentanza e democrazia è stata perseguita sistematicamente da
Nadia Urbinati: N. Urbinati, Representative Democracy; N. Urbinati, “La democrazia rappresentativa e i suoi critici”
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
vengono occasioni di partecipazione ad una democrazia ben radicale, ancorché rappresentativa. D’altronde, la maggior parte della partecipazione e della militanza
politica si svolge proprio in prossimità delle elezioni, a sostegno dell’uno o dell’altro
candidato, o partito.15 E non è forse vero che nel votare per un rappresentante dopo
essere stati persuasi dalle sue parole, averlo sostenuto, e discusse le sue azioni con gli
altri cittadini, potrebbe darsi maggiore partecipazione, e deliberativamente migliore,
che non in un voto, diretto sì, ma espresso magari in modo svogliato e disinformato,
in un qualsiasi referendum come pure nell’antica ekklesia?
In questo senso, si può riprendere la concezione della rappresentanza delineata da
Iris Marion Young, che a sua volta trae ispirazione dalla classica trattazione di Hanna Fenichel Pitkin, inserendola però nel contesto deliberativo.16 Secondo la Young, la
rappresentanza è da intendere come un rapporto complesso, al di là della metaforica
identità, troppo spesso data per scontata, fra i rappresentanti e i loro elettori. Per
formulare la propria concezione, dunque, l’autrice deve passare per la critica di quella logica identitaria, che dipingerebbe la funzione del rappresentante come quella di
“stare per”, o sostituire in modo “identico”, il rappresentato e la sua volontà.17 Apparendo impossibile che un singolo rappresentante parli con la voce dei suoi molti
elettori, già il solo pensare la rappresentanza come identità prefigura gli argomenti
con cui i sostenitori della partecipazione diretta facilmente la demoliscono. Soltanto
concependo la rappresentanza come una relazione differenziata, coinvolgente una
pluralità di attori attraverso un arco temporale, si potrebbe dissolvere l’apparente
paradosso di un singolo che dovrebbe stare in luogo di molti (si vedrà tra breve,
però, come sia insufficiente affrontare il problema dell’identità senza mettere a tema
il nesso azione-sovranità).18
15. Un argomento, questo, che è stato talvolta avanzato contro la prospettiva deliberativa stessa:
M. Walzer, “Deliberation, and What Else?”, in Deliberative Politics, a cura di S. Macedo, New
York, Oxford: Oxford University Press, 1999. Tuttavia, l’obiezione varrebbe come tale soltanto
contro chi pensasse che in una democrazia deliberativa ci fosse spazio solo per la deliberazione e
niente altro, una posizione palesemente assurda, vedi anche: M. E. Warren, “Deliberative Democracy,” p. 185.
16. Si vedano rispettivamente: I. M. Young, Inclusion and Democracy; H. F. Pitkin, The Concept
of Representation.
17. Rappresentanza come ‘standing for’, vedi: Ivi, capp. 4, 5.
18. Questo punto è ben evidenziato nelle considerazioni di Nadia Urbinati contro il predominio
concettuale della volontà, a spese del giudizio, nello spazio politico. Nonostante ciò, a parere
dell’autrice, «una teoria democratica della legislazione richiede di un riferimento alla sovranità popolare per l’importante ragione che le richieste democratiche di rappresentatività ed advocacy rischiano di frammentare l’ordine politico se non sono connesse ad un condiviso criterio di giudizio
politico»; sarebbe solo una specifica «concezione della sovranità», quella centrata sulla volontà, tipica di Rousseau e del razionalismo, ad essere «anacronistica»: N. Urbinati, Representative Democracy, p. 54, traduzione mia. Mi sembra però che concepire una sovranità fuori dal paradigma della
volontà modifichi il concetto classico tanto da rendere preferibile abbandonare anche il nome. D’al-
Parte seconda: Temi e problemi
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Conseguentemente, gli eletti devono svolgere un ruolo che non è meramente “mimetico” rispetto ai rappresentati, includendo bensì la responsabilità di compiere
scelte autonome, anche a seguito della deliberazione con gli altri rappresentanti, assieme però alla necessità di renderne conto ai propri elettori. In questo modo, momenti di autorizzazione (authorization) si alternano a momenti di responsabilità/
rendiconto (accountability);19 proprio le elezioni, nella modernità il meccanismo della
rappresentanza par excellence, significano allo stesso tempo l’autorizzazione per azioni future e il giudizio su quelle passate. Si trova dunque una distanza, tanto concettuale quanto fisica, fra rappresentati e rappresentanti; ma non potrebbe né dovrebbe
essere diversamente, perché è grazie a questa differenza che si possono descrivere significativamente le relazioni fra gli uni e gli altri.20 È nel modo di intendere tale relazione che si troverebbe la possibilità di rendere la rappresentanza non un ostacolo,
bensì una pietra angolare per la concezione deliberativa/comunicativa della
democrazia.21
Pensare esclusivamente una delle sfumature del concetto porterebbe, in entrambi
i casi, a dissolvere il significato specifico dell'attività rappresentativa. Perciò, ancora
ispirata dalla Pitkin, la Young intende superare la polarità tra il ruolo del fiduciario – il trustee, che ha l’autorizzazione dei suoi rappresentati per agire come meglio
crede – e quello del delegato con un preciso mandato del quale deve rendere conto,
centrato dunque sulla accountability. La chiave per superare queste fallaci contrapposizioni si trova nella temporalità della rappresentanza: procedura articolata in momenti differenti e prolungata nel tempo, entro di essa la relazione rappresentati-rappresentanti si muove continuamente tra momenti di anticipazione del consenso
(authorization) e di rendiconto (accountability), e ciascuno di questi è influenzato da
quanto avvenuto in quelli precedenti. Il rappresentante è autorizzato ad agire secontra parte, come si vedrà più avanti, un ulteriore punto su cui la democrazia deliberativa dovrebbe
riflettere è proprio l’eccessiva centralità, spesso persino esclusiva, conferita al momento della
legislazione.
19. I. M. Young, Inclusion and Democracy, pp. 128 ss. La traduzione di ‘accountability’ è forzatamente imprecisa, perché questa indica sì una qualità propria della persona o dell’istituzione, come
la ‘responsabilità’, però lasciando intendere il nesso con l’azione in cui quest’ultima si realizza, appunto il ‘rendiconto’.
20. La Young intende richiamare la différance, come pensata da Jacques Derrida, contrapposta alla
“metafisica della presenza”, che si troverebbe a fondamento delle concezioni identitarie della rappresentanza: Ivi, pp. 103 ss. Un accostamento del genere solleva un problema perlomeno ermeneutico, giacché, benché la rappresentanza si presti ad essere de-costruita nei termini della différance,
tuttavia sembrerebbe non esserci nulla di più “logo-” e “fono-centrico” (J. Derrida, Della Grammatologia, Milano: Jaca Book, 2006) del progetto politico della democrazia deliberativa, nella versione
proposta dalla Young non meno che in qualsiasi altra.
21. La Young preferisce la definizione di communicative democracy, per sottolineare l’apertura verso forme di discorso che potrebbero apparire escluse dal più “razionalistico” termine ‘deliberazione’.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
do il proprio giudizio, sapendo però di dover poi rendere conto dello svolgimento del
suo ufficio;22 tanto le sue autonome decisioni quanto le discussioni con i suoi elettori
influenzeranno azioni e deliberazioni future degli uni e degli altri, perlomeno dovrebbero. Però, anche volendo giudicare benevolmente, nelle democrazie esistenti il momento della accountability appare significativamente più debole di quello dell'autorizzazione, perché sono molto scarse le relazioni discorsive tra rappresentati e
rappresentanti. Questo difetto potrebbe essere corretto soltanto con un più ampio ricorso a istituzioni partecipative. Per l’appunto, rappresentanza e partecipazione non
sono alternative, ma si richiedono l'un l'altra per funzionare efficacemente; è dunque
proprio la partecipazione alla comune deliberazione – senza bisogno di presumere alcuna equivalenza o identità tra soggetti che sono e devono rimanere distinti – a determinare la validità delle relazioni rappresentative.
Tuttavia, perché la disarticolazione dell’opposizione polare tra partecipazione e
rappresentanza abbia successo, è necessario compiere un passo ulteriore, abbandonando l’equivalenza, perlopiù implicitamente assunta, tra azione politica ed esercizio
della sovranità.23 Concepire un contesto politico, tipicamente lo Stato, a guisa di
struttura d’azione unitariamente orientata e gerarchicamente ordinata, infatti, implica che la posizione di chiunque non occupi il luogo della sovranità, sia questo il parlamento o altro, non è meramente inferiore – non nello stesso senso, ad esempio, in
22. Una posizione prossima al modello dell’advocacy della Urbinati (N. Urbinati, “Representation
as Advocacy: A Study of Democratic Deliberation”), presentato esplicitamente come superamento
della polarità tra trusteership e delegation: N. Urbinati, Representative Democracy, pp. 44 ss.
23. Parlando di sovranità, data la rilevanza del concetto e la quantità sterminata di discussioni in
merito, si rischiano fraintendimenti notevoli. Tuttavia, qui cerco di impiegare il termine limitatamente alla concezione dell’azione politica, lasciando per il momento sullo sfondo le due prospettive
principali, giuridica e fattuale, da cui usualmente lo si affronta. Un ordinamento potrebbe essere
giuridicamente valido e in grado di imporsi coercitivamente, senza interferenze da parte di autorità
esterne, che inoltre ne riconoscerebbero la validità, soddisfacendo dunque tutti i requisiti classici
della sovranità, eppure ospitare una politica poco o punto informata sulla logica di un potere sovrano, unico ed identitario. Il caso si dà nella realtà con buona approssimazione, poiché gli Stati
Uniti sono ancora (nonostante la spettacolare avanzata della Cina) il paese al mondo che, grazie ad
una preponderante forza militare e ad una radicata, benché parziale, ostilità verso il diritto internazionale, più si avvicina alla definizione della sovranità de iure e de facto, e tuttavia il concetto
stesso è cospicuamente assente dalla loro politica – differentemente dalla francese Dichiarazione dei
diritti dell’uomo e del cittadino, né la parola ‘sovranità’ né alcuno dei suoi derivati si trova nella
costituzione o nella Dichiarazione di indipendenza (comparendo però nel dibattito dell’epoca, ad
esempio nei Federalist Papers), e nonostante due secoli di progressivo accentramento del potere, il
termine ‘Stato’ è tuttora riservato pressoché esclusivamente ai membri della federazione, mentre
per quest’ultima si parla, ancora al plurale, di government, administration, congress, e così via. Che
poi ciò significhi assenza di sovranità o coesistenza di più sovranità – ad esempio, un secolo dopo la
costituzione: T. M. Cooley, “Sovereignty in the United States”, Michigan Law Journal 1, no. 3
(1892): 81-92 – diviene questione prevalentemente terminologica, influenzata peraltro dalla predominanza del lessico politico europeo. Rilevante è che, in assenza di un potere formalmente e simbolicamente monistico, diversa sia la concezione dell’azione politica, ed è con ciò che si schiudono
maggiori opportunità per la deliberazione.
Parte seconda: Temi e problemi
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cui un comune cittadino della Roma repubblicana era certo meno potente di un console o un senatore – ma anche pensabile soltanto in relazione alle azioni svolte in
quello stesso luogo simbolico. Un punto focale, attorno al quale ruotano tutte le opinioni e che, dunque, dovrebbe alternativamente annullare la deliberazione fuori di sé
oppure quella entro di sé. Questo è vero anche nella forma più garantista e democratica della sovranità della legge, perché anche così, o tutti partecipano direttamente
alla legislazione, sollevando immediatamente il problema dell’impossibile identità
con i rappresentanti, comunque necessari, oppure si troveranno affatto esclusi
dall’esercizio della sovranità24 – se di quest’ultima si vuole impiegare un concetto significativo,25 non si sfugge da Rousseau, e invero neppure dalla sua negazione della
deliberazione pubblica.
Entro un quadro del genere, a dispetto dei tentativi di superare le logiche identitarie, una rappresentanza pienamente valida potrà darsi solo attraverso un qualche
tipo di equivalenza tra rappresentanti e rappresentati. Ciò lascia aperte tre strade
per soddisfare il fabbisogno di legittimità: una forte identificazione simbolica,26 uno
stretto vincolo di mandato con continuo controllo degli elettori sugli eletti, oppure
l’effettiva presenza di “tutti” (quali che questi siano). Il primo espediente è in
qualche misura sempre attuale,27 ma, benché sia difficile immaginarne la completa
24. L’errore della Young, nel criticare l’identità senza affrontare il nesso azione-sovranità (l’autrice
è comunque critica di altre sfaccettature della sovranità, ma più che altro relativamente ai problemi
della giustizia globale), si comprende meglio alla luce della critica che Rabinder porta contro l’efficacia della relazione di accountability fra rappresentanti e rappresentati: M. R. James, Deliberative
Democracy and the Plural Polity, cap. 5. Infatti, se si pensa la sovranità come rappresenta dal parlamento (o altri organi elettivi), è tautologicamente vero che gli elettori non saranno in condizione
di confrontarsi alla pari con i loro eletti, poiché questi rappresenteranno un insieme – il popolo – sempre eccedente rispetto alle persone concrete con cui potrebbero avere scambi comunicativi.
Certo, la questione pragmatica posta da Rabinder, data la differenza di potere tra rappresentati e
rappresentanti, rimane come tale: una concezione appropriata di una relazione comunicativa, nella
quale non abbia parte la sovranità, consente di affrontare un problema la cui soluzione rimane però
contingente.
25. Tentativi di ridefinire il concetto politico di sovranità – ad esempio, in un ardito tentativo di
sintetizzare Schmitt e Arendt in chiave democratico-radicale, come potere costituente: A. Kalyvas,
“Popular Sovereignty, Democracy, and the Constituent Power”, Constellations 12, no. 2 (2005):
223-44 – hanno un loro fascino, ma infine non convincono.
26. E.g. il Re, per grazia di Dio, rappresenta la Nazione. Concezione comune fino alla Rivoluzione,
sebbene già Hume, poco meno di un secolo dopo l’esecuzione di Carlo I (celebrata nel 1649), annotasse ironicamente la decadenza della sacralità regale (Whether the British Government Inclines
More to Absolute Monarchy, or to a Republic, 1742). Non occorre però risalire così addietro: “identitaria” (o “esistenziale”) può esser detta anche la concezione politica, non molto democratica però
influente, di Carl Schmitt, vedi: G. Azzariti, Critica della democrazia identitaria, Roma-Bari: Laterza, 2005.
27. Per varie e concomitanti ragioni, oggi siamo più abituati a centrare l’attenzione sulla persona
del capo dell’esecutivo, ma è chiaro come, diffusa in Europa fino a poco tempo fa, non fosse meno
simbolica, ancorché più democratica, l’idea del parlamento, e persino del singolo deputato, come
rappresentante della Nazione unica e indivisibile – peraltro giustificazione classica, accanto alla
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
scomparsa, ha da tempo perso gran parte della sua forza, né questa potrà essergli
restituita dall’idea (più recente, ma non molto meno mitologica) di una corrispondenza descrittiva ricostruita su base statistica – la scarsa identificazione simbolica
con il potere sovrano, d’altronde, si trova proprio al centro della crisi della legittimità, caratteristica delle società post-tradizionali e tra i principali motivi della svolta
deliberativa. D’altra parte, in presenza di un’identificazione tanto forte da reggere
per intero il peso simbolico della rappresentanza, ci si potrebbe ben chiedere quale
spazio rimarrebbe per un ragionevole discorso pubblico. Le due restanti opzioni potrebbero corrispondere alla radicalizzazione, rispettivamente, della proposta della
Young e di quella partecipativa. Anch’esse, però, sono incompatibili con la deliberazione per i motivi visti poc’anzi, oltre che pressoché impossibili da applicare in
modo soddisfacente. Il risultato è che, nei fatti, a fronte d’una rappresentanza simbolica/identitaria parziale e disfunzionale, la contrapposizione con la partecipazione
diretta si ripresenterà continuamente. Sarà tanto più vano continuare a ribadire, pur
con molto buon senso, come le relazioni politiche siano più complesse e multiformi
di quanto usualmente non ce le si figuri, perché se il concetto dell’azione collettiva è
informato sulla sovranità, tale figurazione, certo semplicistica e fallace, non è praticamente dispensabile.
Perciò, da un lato, se anche fosse possibile realizzare in modo soddisfacente la
rappresentanza in un sistema politico sovranamente unitario, ciò renderebbe insensata la deliberazione, alternativamente vanificando quella tra i rappresentanti eletti,
nel caso questi dovessero agire in stretta conformità alla volontà dei loro rappresentati, oppure quella nella più ampia opinione pubblica, che diverrebbe irrilevante al
confronto delle decisioni assunte nel luogo della sovranità.28 In un tale contesto, non
si pone tanto la questione se i soggetti della deliberazione debbano essere tutti i cittadini o soltanto i rappresentanti, giacché in senso proprio nessuno delibera – basti
pensare a come schieramenti precostituiti e stabili, che sono insieme il risultato e il
prerequisito del funzionamento di un sistema del genere, rendano le posizioni politiche rigide e indisponibili al dialogo, tanto nell’opinione pubblica quanto nelle istituzioni. D’altro canto, se nel medesimo quadro concettuale la relazione identitaria
non appare pienamente valida, come perlopiù accade in realtà, una discussione pubblica sarà in certa misura possibile, ma si ricadrà nella confusa contrapposizione tra
rappresentanza e partecipazione, ostile alla democrazia deliberativa nonché pericolosamente incline ad oscillare tra populismo plebiscitario ed elitismo tecnocratico.
stessa deliberazione, dell’assenza del vincolo di mandato.
28. Da un punto di partenza diverso, conclusioni simili possono trarsi analizzando il ruolo assunto
dalla rappresentanza in Hobbes, a fronte di una concezione radicale della sovranità: B. Garsten,
Saving Persuasion: A Defense of Rhetoric and Judgment, Cambridge MA: Harvard University
Press, 2006, capp. 1 e 6.
Parte seconda: Temi e problemi
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Da questa impasse si può tentare d’uscire superando in una prospettiva discorsiva
la concezione identitaria e monistica della sovranità, ed è per questa via che la teoria critica può trovarsi a convergere, nell’apprezzare la rappresentanza, con la tradizione del repubblicanesimo moderno. Sebbene questo sviluppo sia già prospettato
nell’opera di Habermas, quivi si tiene su di un livello relativamente astratto,29 non
specificando una concezione vera e propria dei soggetti politici.30 Infatti, da un lato
la società civile e i movimenti che agiscono entro di essa non possono assumere sic
et simpliciter il ruolo dei soggetti della deliberazione, sia per le ragioni precedentemente esposte contro la conversione di descrizioni sociologiche in elementi della teoria normativa, sia perché, anche lasciando cadere tale considerazione, comunque s’incontrerebbe il problema di definire questi soggetti collettivi in modo formalmente
riconoscibile e, perciò, politicamente azionabile. D’altro canto, la corrispettiva concezione dei «circuiti comunicativi [...] senza soggetto»,31 per le medesime ragioni, può
essere forse valida come descrizione, sebbene metodologicamente peculiare,32
dell’iper-complesso funzionamento della comunicazione nella società democratica,
ma niente affatto utilizzabile nella teoria politica normativa.
Per la democrazia deliberativa, la posta in gioco non sta nel sostituire il “vuoto”
lasciato dall’assenza del sovrano con una descrizione della comunicazione diffusa nella società, bensì nel ripensare un’azione politica che non si accontenta di costrutti
sociologici o comunque descrittivi, richiedendo invece ben definiti attori. Ma questa
definizione, per non contraddire il fatto del pluralismo e la libertà discorsiva dei cittadini, dovrà anch’essa presentarsi come puramente procedurale. In altre parole, asseverata la necessità di definire sul piano pratico-politico quell’elemento basilare della teoria che sono i soggetti della deliberazione, e di farlo in un modo tale da essere
compatibile con una concezione della rappresentanza non più informata sulla logica
29. Si vedano ad esempio i già citati passaggi: J. Habermas, Fatti e norme, pp. 163, 356, 440-41. In
Habermas si trova poco di esplicito sulle strutture rappresentative.
30. Diverso è il caso per il soggetto morale che, implicitamente o esplicitamente, è sempre al centro
della filosofia discorsiva. Considero però la definizione del soggetto politico della deliberazione come
un problema distinto e, in buona misura anche indipendente. Tornerò più avanti su questo punto.
31. Ivi, p. 163.
32. Per afferrare il senso in cui i discorsivisti intendono questa figura, è utile richiamare le parole
di Seyla Benhabib, che esplicita un riferimento spesso oscurato sullo sfondo, «Nel considerare la
forma della razionalità pratica come nucleo del governo democratico, il concetto hegeliano di “Spirito oggettivo” (objektiver Geist) mi sembra particolarmente appropriato. Perché questo concetto
sia utile oggi, dobbiamo pensarlo senza ricorrere alla metaforica presenza di un super-soggetto;
dobbiamo de-sostanzializzare il modello di un super-soggetto pensante e agente che ancora informa
la filosofia hegeliana. Il termine “spirito oggettivo”, senza più essere implicitamente informato da
questa metafora del soggetto, si riferirebbe a quelle anonime eppure intelligibili regole collettive,
procedure e pratiche che formano un modo di vivere»: S. Benhabib, “Toward a Deliberative Model
of Democratic Legitimacy,” p. 69, traduzione mia. Vedi anche: S. Benhabib, Cittadini globali: Cosmopolitismo e democrazia, p. 113; J. Habermas, Fatti e norme, p. 272.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
della sovranità, si dovrà affrontare il problema dell’istituzionalizzazione giuridica di
questi soggetti, anche prescindendo dalle motivazioni contenutistiche (sociali, storiche, ecc.) che verso di essa possono convergere o meno.
5.1.2 Identità e soggetti deliberativi
Ormai da decenni, nel più ampio quadro della critica contro la coppia universalismo/individualismo nelle concezioni politiche e morali, il tema delle identità collettive suscita un interesse sempre crescente. Sono abbastanza comuni, nella teoria e
nella pratica politica, visioni sostanziali, o “essenzialiste”,33 di tali identità: concezioni per cui il fare parte, o meno, di un certo gruppo sarebbe una proprietà ascrittiva,
del tutto o in larga parte indipendente dalle scelte individuali. Di conseguenza, le
caratteristiche identitarie che definiscono i gruppi stessi dovrebbero essere stabili nel
tempo, esistenti in qualche modo di per sé, e prioritarie rispetto alle scelte dei singoli individui. Prototipi di queste identità collettive sono il popolo o la nazione, tradizionalmente concepiti come gruppi omogenei, uniti da legami storici, culturali, linguistici ed etnici, che trascenderebbero pressoché completamente le possibilità di
scelta di ciascun singolo. Oggi il dibattito è focalizzato soprattutto sui gruppi religiosi e culturali che, con la loro dimensione contemporaneamente infra- ed inter-statale, da un lato continuamente suscitano la spinosa questione del riconoscimento dei
diritti delle minoranze, entro un quadro normativo che si vorrebbe contemporaneamente universalistico e democratico, mentre dall’altro appaiono talvolta in frontale
contrapposizione a quello stesso ordinamento.
Tuttavia, dal punto di vista della deliberazione, non sarebbe molto differente se i
gruppi rilevanti fossero considerati nel modo, per altri versi opposto, più comune
fino a pochi decenni fa, vale a dire come classi sociali. Certamente, fa differenza se
l’identità ascrittiva/sostanziale disegna confini coincidenti con quelli di un potere
politico unitario – come era il caso, almeno ideologicamente, per la terna popolo-nazione-Stato – oppure no, come oggi si può spesso osservare. A parte questo aspetto
formale, però, il carattere specifico di tali identità collettive (“razze”, classi, culture,
religioni...) è largamente indifferente dal punto di vista della deliberazione; rimane
chiaro come la pretesa di far valere questo tipo di identità direttamente nella definizione dei princìpi politici sia incompatibile con la democrazia deliberativa. Assegnare a chicchessia una identità, con effetti anche politici, prima e/o a prescindere
dall’espressione delle sue opinioni in merito, sarebbe in contraddizione con il rispetto
della pari autonomia discorsiva dei partecipanti alla deliberazione – anche in questo
caso, il principio deliberativo può correggere quell’oscillazione tra populismo e autoritarismo nella quale rischiano di scivolare le visioni contenutistiche e teleologiche
33. La stessa Benhabib critica recisamente «l’essenzialismo culturalista», vedi: S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale.
Parte seconda: Temi e problemi
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della democrazia, fondate su concezioni sostanziali della volontà generale, del destino di un popolo, del benessere della popolazione, o altre simili ipostasi.34
Dal punto di vista democratico-deliberativo, la replica “standard” contro le
concezioni essenzialiste dell’identità, consiste nel far notare come, nei fatti, la formazione delle identità, individuali e collettive, sia un processo complesso e variabile,
tessuto intricato di fattori sociali e scelte personali, perciò irriducibile a forme rigide
e generalizzabili. All’essenzialismo si contrappone una posizione “costruttivista”, che
considera le identità come prodotti di processi complessi, in parte direttamente dipendenti dalle scelte individuali.35 Entro quest’ampia cornice, proprio la pubblica deliberazione potrebbe offrire uno spazio privilegiato nel quale le identità vengono
affermate, contestate e continuamente rinegoziate; dunque, contrariamente a ciò che
potrebbe valere per un liberalismo rigidamente individualistico, le pretese identitarie
non sarebbero un male per la deliberazione, purché adeguatamente comprese ed
articolate.36
Pur considerando questa linea di risposta di per sé corretta, tanto descrittivamente quanto normativamente, non la ritengo utilizzabile per la democrazia deliberativa. Questo perché, coerentemente con la concezione costruttivista, il significato
assunto dalle identità è doppiamente contingente, tanto nella formazione di esse
quanto nel ruolo politico svolto, e senza che i due aspetti procedano necessariamente
assieme. Accettate le pretese epistemologiche e descrittive avanzate dai “costruttivisti”,37 infatti, si dovrà concordare che, proprio perché le identità sono frutto di elaborazioni complesse e variabili, saranno possibili anche casi più o meno corrispondenti, nella prassi, a ciò che gli “essenzialisti” erroneamente propongono come
descrizione generalmente valida. E ancora, prescindendo dalla questione fattuale
dell’origine e della trasformazione delle identità, è pur vero che, in vari momenti,
molte di esse sono state utilizzate come se rappresentassero essenze immutabili – non sarà poi un caso se le prospettive essenzialiste, teoreticamente misere come
sono, hanno spesso trovato ascolto e notevole rilevanza politica. Apparirà poi chiaro
34. Una tesi radicalmente essenzialista è quella dello scontro tra le civiltà: S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano: Garzanti, 1997.
35. I. M. Young, “Difference as a Resource for Democratic Communication”, in Deliberative Democracy, a cura di J. Bohman e W. Rehg, Cambridge MA: MIT Press, 1997; S. Benhabib, “Civil Society and the Politics of Identity and Difference in a Global Context”, in Diversity and Its Discontents, Princeton: Princeton University Press, 1999; I. M. Young, Inclusion and Democracy, cap. 3;
S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale.
36. J. Quong, “Are Identity Claims Bad for Deliberative Democracy?”, Contemporary Political
Theory 1, no. 3 (2002): 307-27. A ciò ben corrisponde la più ampia apertura a forme comunicative
differenti dai discorsi argomentativi orientati verso l’universalistico valore della giustizia, come per
l’appunto sosteneva la Young.
37. Ci sono peraltro modi diversi, non necessariamente tra loro compatibili, di rigettare le tesi essenzialiste: S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale, pp. 22 ss.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
come non sia compito di una teoria della democrazia deliberativa raccomandare il
modo in cui i cittadini dovrebbero concretamente elaborare le proprie identità collettive ed individuali.
Per deliberare riguardo qualsiasi argomento, compresi quelli fondamentali per la
definizione della propria appartenenza identitaria, è prioritariamente necessario riconoscersi reciprocamente come soggetti capaci d’interazione discorsiva. Ciò però significa o che la definizione di un’identità comune è a sua volta prioritaria rispetto alla
deliberazione – cadendo in quel modello essenzialista, rigido ed esclusivo, incompatibile con le istanze normative alla base della stessa democrazia deliberativa – oppure
che non è su tale terreno, né su altra argomentazione contenutistica, che dovranno
essere definite le caratteristiche dei soggetti della deliberazione.
Perciò, una posizione costruttivista può presentarsi come una descrizione fattuale,
o anche come un elemento normativo compatibile con la democrazia deliberativa,
non però contribuire a definire quest’ultima.38 Non è attraverso la contrapposizione
tra diverse teorie dell’identità, a prescindere dalla loro forma, che si può risolvere la
questione, politica, della definizione dei soggetti della deliberazione. Dal punto di vista della democrazia deliberativa, non si tratta di opporre una concezione corretta
ad altre erronee, quanto piuttosto di definire i soggetti politici in modo per quanto
possibile indipendente dalla questione stessa. Il tema dell’identità non smette di essere rilevante, ma non può coincidere con la definizione dei soggetti della
deliberazione.
Tale posizione rispecchia la separazione in linea di principio tra società e politica,
sostenuta nel precedente capitolo, perché è tale distinzione a lasciare lo spazio per
quella porzione (piccola o grande che sia, questa è una variabile empirica) dell’elaborazione di identità che, seguendo logiche diverse da quella della deliberazione, rischierebbe di dissolvere la possibilità di quest’ultima.39
***
38. Questa posizione non necessariamente contraddice quella della Benhabib che, al pari di altri
teorici, sembra pensare alla deliberazione come una sorta di “soluzione” ai problemi del multiculturalismo; si vedano anche: M. Deveaux, “A Deliberative Approach to Conflicts of Culture”, Political
Theory 31, no. 6 (2003): 780-807; J. S. Dryzek, “Deliberative Democracy in Divided Societies: Alternatives to Agonism and Analgesia”, Political Theory 33, no. 2 (2005): 218-42. Restano però margini di ambiguità, dovuti alla struttura teleologica della teoria critica, che nel caso della Benhabib
si riflette anche in un nesso apparentemente immediato tra la determinazione del soggetto morale e
la politica deliberativa: S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale, cap. 4.
39. Più spesso è prevalsa la preoccupazione opposta, il che è comprensibile a partire dal fatto che
Habermas e gli autori a lui più vicini hanno tentato di poggiare la propria concezione del soggetto
politico su considerazioni psicologiche circa la costituzione del sé, vedi: M. E. Warren, “The Self in
Discursive Democracy”, in The Cambridge Companion to Habermas, a cura di S. K. White, Cambridge: Cambridge University Press, 1995.
Parte seconda: Temi e problemi
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Per meglio comprendere come la critica fin qui presentata colpisca anche le più accorte posizioni costruttiviste, si può ancora prendere ad esempio la concezione della
rappresentanza proposta dalla Young. Come si è detto, il punto di partenza è la critica alla deliberazione quale procedura ‘centrata’ e da svolgersi ‘faccia-a-faccia’.40
L’altro pilastro di questa concezione della rappresentanza si trova nella considerazione dei gruppi sociali quali suoi principali soggetti. Tale esito è certo motivato
dall’impegno per l’inclusione socio-politica, tuttavia esso trova le proprie ragioni teoriche proprio nel tentativo di superare la logica dell’identità, o «metafisica della presenza» che dir si voglia. L’idea dell’autrice è che i «sistemi di rappresentanza politica non possono rendere gli individui presenti nella loro individualità», perciò essi
dovrebbero piuttosto «rappresentare aspetti dell’esperienza di vita, dell’identità o
delle credenze di una persona, o l’attività nella quale essa ha affinità con altri» e
«potenzialmente ci sono molti aspetti o gruppi di affinità di tal genere».41 Da ciò seguirebbe che la relazione di rappresentanza, già differenziata nei momenti di accountability e authorization, sia da articolare ulteriormente per accogliere le sfaccettature
di identità non più semplicisticamente ridotte ad essenze immutabili.
L’autrice individua tre ordini di criteri per definire gli insiemi sociali rilevanti: gli
interessi, le opinioni e le prospettive.42 Opinioni e interessi sarebbero adatti ad essere
rappresentati, rispettivamente, da strutture come i partiti o i gruppi di pressione
(lobbies). Associazioni di questo tipo tendono ad escludersi reciprocamente, richiedendo un compromesso oppure sfociando nel conflitto aperto. Le prospettive implicherebbero una distinzione più sottile, senza contrapposizione diretta, il che le renderebbe particolarmente importanti per lo svolgersi della deliberazione pubblica, ma
anche bisognose di sistemi elaborati appositamente per favorirne la rappresentazione
politica. Ad esempio, l’autrice fa riferimento ai gruppi definiti da sesso e razza all'interno di società più o meno discriminatorie. Entro questi gruppi sociali coesistono
opinioni e interessi divergenti, tuttavia l'appartenenza ad essi implicherebbe la
condivisione di una prospettiva generale nel guardare al mondo, da intendersi come
punto di partenza di una deliberazione che rimarrebbe aperta e pluralista anche riguardo le identità collettive, in armonia con la posizione costruttivista.
La Young esamina brevemente diversi modi di favorire la rappresentanza per
gruppi sociali, sostenendo che, sebbene anche altri espedienti siano possibili (dalle
quote riservate al ridisegno dei collegi elettorali),43 la soluzione preferibile sia quella
40. I. M. Young, Inclusion and Democracy, pp. 44 ss., 121 ss.
41. Ivi, p. 133, traduzione mia.
42. Ivi, pp. 134 ss.
43. Negli Stati Uniti, per assicurare rappresentanza politica ad alcuni gruppi sociali, soprattutto
afroamericani e latinos, entro un sistema quasi esclusivamente uninominale e maggioritario, si disegnano alcuni collegi in modo da includere maggioranze di elettori appartenenti a quelle che, nell’in-
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
di adottare sistemi elettorali puramente proporzionali.44 I sistemi proporzionali, infatti, tendono a pluralizzare la rappresentanza e perciò consentirebbero di far valere
il peso delle prospettive all'interno della scelta dei rappresentanti, impedendo che
siano schiacciate da interessi e opinioni, come tendenzialmente accadrebbe nei sistemi uninominali. Il sistema proporzionale, rispetto ad altre misure per favorire la rappresentanza dei gruppi, avrebbe anche il vantaggio di ottenere il risultato senza generare automaticamente ulteriori esclusioni, come avverrebbe invece ridisegnando ad
hoc i confini dei collegi elettorali, né di “congelare” le medesime prospettive sociali,
che è il rischio insito nel riservare alcuni seggi alle minoranze.
L’argomentazione proposta dalla Young vuole evitare i rischi dell’essenzialismo
identitario, perché non pretende di definire in anticipo quali siano le prospettive sociali bisognose di rappresentanza specifica,45 e tuttavia ricade ancora nell’indebito
uso di elementi descrittivi entro la struttura della teoria normativa, col risultato di
indebolire la validità di quest’ultima. Infatti, la difesa di un sistema proporzionale
condotta in questi termini, lungi dal rappresentarne una coerente prosecuzione,
contraddice patentemente i positivi risultati della precedente rielaborazione del
concetto di rappresentanza. Anche ammettendo che il sistema proposto favorisca
l’espressione delle prospettive sociali,46 tale obiettivo potrebbe essere conseguito solo
al prezzo di abbandonare la concezione relazionale precedentemente elaborata – quest’esito è implicito già dal momento in cui si utilizza descrittivamente il concetto di
rappresentanza, cosa che potrebbe aver senso soltanto entro la logica di una volontà
sovrana che, se non può essere unitaria in concreto, dovrà almeno simbolicamente
presentarsi come tale.
La caratteristica che rende i sistemi proporzionali appropriati a rappresentare le
prospettive sociali – caratteristica che, quindi, dovrebbe essere condivisa anche da
proposte differenti volte al medesimo scopo – sta proprio nel non individuare prima
della votazione l’insieme di elettori che corrisponderà a ciascun candidato. Così,
mentre in un sistema uninominale ad ogni rappresentante corrispondono gli elettori
di una preesistente partizione territoriale, in un sistema proporzionale quali elettori
corrispondano a quale eletto (o gruppo di eletti) è determinato dalla distribuzione
dei voti. A questa basilare proprietà risalgono tutti i pregi del proporzionale, che
sieme della società, sono invece minoranze escluse e/o svantaggiate.
44. Ivi, pp. 148 ss. Per affrontare lo stesso problema, la medesima proposta era stata avanzata da
Sunstein, sebbene da una prospettiva teorica abbastanza diversa: C. R. Sunstein, “Beyond the Republican Revival”. Vedi anche sopra, p. 48.
45. Posizioni come quella espressa da Will Kymlicka (W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale,
Bologna: il Mulino, 1999) sono state ampiamente criticate proprio su questo punto, si vedano: S.
Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale, cap. 2; I. M. Young, Inclusion and Democracy,
pp. 144 ss; M. R. James, Deliberative Democracy and the Plural Polity, cap. 1.
46. Il che però è dubitabile: Ivi, cap. 5.
Parte seconda: Temi e problemi
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spesso fanno concludere per la sua intrinseca maggiore democraticità,47 e in particolare quelli relativi alla rappresentanza delle prospettive sociali. Tuttavia, ciò crea
ostacoli insormontabili per il funzionamento di qualsivoglia relazione deliberativa tra
elettori ed eletti.
Dal punto di vista di un candidato, l’indeterminatezza dell’insieme dei suoi elettori rende impraticabile, date le dimensioni delle circoscrizioni elettorali,48 stabilire
qualsiasi rapporto anche solo vagamente discorsivo. Allo stesso modo, una volta eletto, il rappresentante non avrà la possibilità di iniziare alcuna deliberazione con i
suoi elettori, semplicemente perché, a meno di possedere poteri divinatori, non avrà
modo di sapere chi essi siano; tutt’al più egli potrà trovarsi di fronte aderenti e simpatizzanti del suo partito, il che però né corrisponde all’insieme degli elettori né definisce un buon contesto per deliberare.49 Il tentativo di soddisfare alcuni gruppi sociali di riferimento, plausibile realizzazione concreta dell’intento del sistema, ha poco
a che vedere con una relazione deliberativa, anche perché, per definizione, tali gruppi sono internamente plurali, multiformi e cangianti, dunque non possono costituire
di per sé un partner discorsivo – per far ciò, dovrebbero prima auto-definirsi procurandosi dei rappresentanti, una circolarità che non permette di risolvere il problema.
L’indeterminazione colpisce d’altronde nei due sensi, ed anche per i cittadini è
impossibile sapere, prima che sia terminato il conteggio dei voti, chi davvero abbiano favorito con il proprio suffragio. Qui sono rilevanti due tipi di sistema proporzio47. Hans Kelsen è il capofila teorico di questo apprezzamento (H. Kelsen, “Essenza e valore della
democrazia”, in La democrazia, Bologna: il Mulino, 1998), che tuttavia era comunemente presentato come alternativa “democratica” al maggioritario già a partire dall’ultimo quarto dell’ottocento.
48. È certo possibile rimpicciolirle, ed effettivamente è raro che i rappresentanti siano eletti in
un’unica circoscrizione coincidente con i confini dello Stato. Tuttavia, se è vero che circoscrizioni
più piccole, con un minor numero di candidati, attenuano il problema dell’indeterminazione del
nesso elettori-eletti, ciò accade soltanto al prezzo di diminuire la proporzionalità del sistema stesso,
vanificando dunque, in parte o del tutto (comunque in misura corrispondente all’attenuamento
dell’indeterminazione), l’intento di offrire rappresentanza ai gruppi minoritari.
49. Anche senza considerare l’eventuale degenerazione degli apparati partitici (o la «legge ferrea
dell’oligarchia» di Michels), è sufficiente pensare ai rischi della “polarizzazione di gruppo” (C. R.
Sunstein, “The Law of Group Polarization”; C. R. Sunstein, Going to Extremes: How Like Minds
Unite and Divide, Oxford, New York: Oxford University Press, 2011). Ora, questa polarizzazione
non è soltanto una contingenza empirica, bensì intrinseca alla forma partito, che ha la propria ragione d’essere nell’inquadrare gli individui agenti in una struttura per perseguire fini comuni; tanto
maggiore quest’efficienza, tanto più cioè i partiti funzionano efficacemente come tali, tanto minore
lo spazio per la deliberazione inter-partitica e perciò tanto più polarizzata quella interna. Il contraltare del deprecato fatto che nei sistemi maggioritari i voti per i candidati perdenti siano “sprecati”
è che nei collegi uninominali gli eletti possono trovarsi a rispondere, almeno in certa misura, anche
all’opinione di chi non li ha votati, il che amplia in modo cruciale, più che meramente quantitativo,
la platea dei possibili partecipanti. Certamente, però, questo non vale più quando, a seguito della
manipolazione dei collegi (Gerrymandering, una pratica malamente diffusa nel sistema statunitense), si costituiscono ad arte elettorati ideologicamente omogenei.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
nale: il voto può essere espresso a favore di liste bloccate, oppure al voto di lista si
possono aggiungere una o più preferenze per i singoli candidati. Nel primo caso (largamente prevalente), la scelta degli eletti è demandata pressoché esclusivamente ai
partiti, col che diviene evidentemente impraticabile qualsiasi relazione deliberativa
tra rappresentati e rappresentanti, essendo questi ultimi ancor più incentivati a rispondere delle proprie azioni ai rispettivi capi, anziché agli elettori. Non conoscendo
in anticipo la distribuzione dei voti tra i partiti, gli elettori non possono davvero
esercitare neppure quel minimo di controllo sui candidati “marginali”, collocati nelle
liste in posizioni tali da renderne l’elezione incerta.50 Anche nel secondo caso, sistema con preferenze, non potendo prevedere la distribuzione di queste ultime, nessun
elettore può davvero sapere se, nell’esprimere il proprio voto, stia contribuendo ad
eleggere il candidato preferito oppure, qualora questo non ricevesse un numero sufficiente di preferenze, altri candidati nella stessa lista. Inoltre, il problema delle dimensioni delle circoscrizioni elettorali colpisce anche gli elettori che, ceteris paribus,
nel tentare di comunicare con i propri eletti incontreranno problemi tanto maggiori
quanto più ampie, dunque rispondenti alla ricercata proporzionalità, saranno le
circoscrizioni.
Si può anche notare come, tanto per gli eletti quanto per gli elettori, la possibilità
di ridurre l’indeterminazione che ostacola una relazione deliberativa poggi sul ruolo
di mediazione assunto dai partiti politici. Questo però non risolve il problema. A
certe condizioni i partiti (od organizzazioni funzionalmente omologhe) potrebbero
offrire buoni fora deliberativi, tuttavia ciò avverrebbe necessariamente a spese d’una
rappresentanza dei gruppi sociali appropriata ad una concezione costruttivista. Infatti, perché la deliberazione nei partiti possa equivalere ad un rapporto discorsivo
caratterizzato dai momenti di accountability ed authorization è necessario che gli
stessi partiti tengano il ruolo di primaria struttura d’individuazione delle relazioni
politiche. Ciò però, ricalcando il discorso della Young, richiederebbe che quel che i
partiti tendenzialmente rappresentano meglio (gli interessi e le opinioni) facesse premio sulle prospettive sociali, generando effetti esclusivi ed impoverendo la qualità
comunicativa della deliberazione, oppure che i confini tra un partito e l’altro corrispondessero perfettamente a quelli tra i gruppi definiti dalle prospettive sociali. Ma
se questo secondo fosse il caso, non sarebbero forse le opinioni e gli interessi – che
secondo la Young hanno comunque legittimità nel loro proprio ambito – a rischiare
d’essere messi da parte? Certo, si potrebbe immaginare che i partiti corrispondessero
50. Ad esempio, potrei volere l’elezione del quinto candidato, che giudico onesto ed in linea con le
mie opinioni, di una certa lista, mentre penso che il sesto sia incapace e corrotto (o, peggio, viceversa). Con ciò non ho proprio modo di decidere se dare il mio voto a tale lista oppure no. Essendo
compromessa, se non cancellata, la capacità di giudicare i rappresentanti per poi conferir loro, o
meno, l’autorizzazione ad agire in mio nome, anche l’eventuale comunicazione con essi non potrebbe essere deliberativamente significativa.
Parte seconda: Temi e problemi
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stabilmente non solo alle diverse prospettive, ma anche alle divisioni tra interessi ed
opinioni, e qualunque altra caratteristica si volesse considerare; sennonché in tal
modo si starebbe dipingendo proprio quel rigido modello essenzialista che alla deliberazione sottrae completamente la definizione delle identità (con la differenza, non
proprio migliorativa, che le dilatate appartenenze partitiche si annetterebbero anche
quelle socio-culturali), il contrario della democrazia deliberativa flessibilmente aperta
a rappresentare le differenze che si voleva prefigurare.
Ora, è opportuno allontanarsi di un passo dall’esempio specifico per tornare a notare la contraddizione logica tra l’intento di sistematizzare la rappresentanza di
gruppi sociali e quello di favorire una relazione deliberativa tra rappresentati e rappresentanti. Per dire meglio, che i ‘gruppi’ siano culturali, religiosi, linguistici o qualsivoglia, è in generale la pretesa d’informare su di essi una concezione della rappresentanza, e dunque dell’azione politica, ad essere incompatibile con la deliberazione.
Infatti, o si dà coincidenza a priori tra l’individuazione del rapporto elettori-eletti ed
i confini dei gruppi sociali meritevoli di rappresentanza,51 ma in tal caso i gruppi
stessi saranno rappresentati in modo rigido, erroneo secondo il costruttivismo nonché sottratto alla discutibilità pubblica; oppure il medesimo rapporto è individuato
volta per volta attraverso il voto, impedendo perciò una relazione discorsiva tra eletti ed elettori, ricadendo nella perniciosa contrapposizione tra partecipazione e rappresentanza della quale si è già detto. La rappresentanza su base territoriale non è
una soluzione perfetta, ma nell’imperfezione caratteristica di ciò che è politico perlomeno consente, non garantisce, di mettere in atto relazioni deliberative tra elettori
ed eletti.
***
Le difficoltà osservate nel costruire il soggetto della deliberazione in relazione a qualsiasi tipo di “gruppo” caratterizzato contenutisticamente riposa sul fatto evidente
che chi compie atti linguistici, può dunque partecipare a dialoghi e discussioni con
altri dotati della medesima capacità, ed eventualmente delegarli a parlare in sua
vece (la delega essendo un performativo linguistico relativamente basilare), dev’essere pur sempre una persona singola – una tautologia prima che un fatto, perché il
ruolo del soggetto argomentante si trova già per definizione nella grammatica della
deliberazione. Certo, si può psicologicamente osservare quanto poco unitaria sia
l’identità personale e, mentre la storia e l’antropologia mostrano come l’enfasi
sull’individuo contrapposto al collettivo sia tutt’altro che universale, la filosofia è
impegnata, con alti e bassi da almeno due secoli, a distruggere le fallacie astrattive
del soggettivismo. La rielaborazione discorsiva della teoria critica, d’altra parte, in51. Qui lascio sullo sfondo l’arbitrarietà intrinseca ad un giudizio del genere; arbitrarietà solo di
poco attenuata se, anziché gruppi specifici, si indica una tipologia formale, come fa la Young.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
cominciava proprio dalla pretesa di superare la soggettivistica filosofia della
coscienza.52
Ma per quanto si possa enfatizzare la ricostruzione d’interazioni comunicative decentrate e “senza soggetto”, nulla di tutto ciò può oscurare come la possibilità di
elevare pretese di validità richieda sempre anche una presa di posizione in prima
persona singolare. Certo, quello discorsivo è intrinsecamente un co-soggetto, ma è
proprio il riconoscimento di questa pluralità a richiedere l’individuazione dei singoli
(inter)agenti; di converso, sono i pensieri orientati verso “super-soggetti” (collettivi
ma unitari e/o unici) quelli più propensi ad annullare i confini tra gli individui. Invece, anche nel quadro del superamento del paradigma della coscienza, dovrebbe essere la riaffermazione del soggetto come agente discorsivo ad esemplificare l’impegno
della teoria critica per il «progetto incompiuto della modernità». Politicamente, l’individualismo e il superamento del soggettivismo filosofico procedono assieme. Il ‘noi’
presente in un dato momento come agente collettivo deve sempre, in linea di principio, poter essere scompaginato, ed eventualmente ricomposto in nuovi diversi ‘noi’, a
seguito delle prese di posizione dei molti ‘io’ interagenti.53
Questo carattere del soggetto sotteso all’etica del discorso non è poi altro che la
traduzione, attraverso la filosofia del linguaggio, dell’ideale illuministico e kantiano
dell’autonomia – ed è qui che, esplicitamente o meno, si appuntano gli attacchi più
radicali contro tale posizione. Ma se così è, non serve neanche passare attraverso la
critica postmoderna, è sufficiente il Liberalismo politico di Rawls per notare come
una tale concezione della persona rappresenti pur sempre una dottrina comprensiva,54 dunque politicamente problematica. Questa struttura, ancora bipartita tra fondamenti teorici quasi-trascendentali e pretese conferme empiriche,55 potrà funzionare
per l’etica, ma sul piano politico incontrerebbe difficoltà analoghe a quelle di qualunque altra concezione contenutistica del soggetto. Ad esempio, la teoria discorsiva
può essere da un lato attaccata perché presuppone un’identità personale troppo “socializzata”,56 mentre, all’opposto, un communitarian potrebbe non notare significa52. Vedi sopra, p. 81.
53. Ha ragione la Young nell’osservare come l’unità del corpo politico non possa essere assunta né
come premessa né come obiettivo prefissato della deliberazione: I. M. Young, Inclusion and Democracy, pp. 40 ss. La produzione di un ‘noi’ come agente collettivo è un esito puramente contingente. Vedi anche: N. Urbinati, Representative Democracy, p. 204.
54. J. Rawls, Liberalismo Politico, lezione I, § 5 e II, § 2.
55. Ad esempio, la teoria degli «stadi morali», formulata da Lawrence Kohlberg, svolge un ruolo
analogo alle considerazioni sociologiche di cui si è detto nel capitolo precedente, con ciò esponendosi allo stesso tipo di critiche, che tuttavia risultano meno stringenti finché si rimane sul piano della
morale, come distinto da quello politico. Si veda comunque: J. Habermas, “Coscienza morale e
agire comunicativo”, in Etica del discorso, Roma-Bari: Laterza, 1989.
56. D. McIntosh, “Language, Self, and Lifeworld in Habermas’s Theory of Communicative Action”.
Parte seconda: Temi e problemi
- 181 -
tive differenze rispetto a quell’individualismo liberale ampiamente criticato come
astratto e irrealistico.57
Di nuovo, la via d’uscita passa per la strettoia d’una posizione puramente procedurale. La teoria deliberativa deve rinunciare fin da subito a dire alcunché circa le
caratteristiche ascrittive, o persino la loro mera tipologia, che definiscono l’identità
(individuale o collettiva) del soggetto. Quale sia la natura umana, se ve ne è una, o
quali le caratteristiche reali di una forma di vita sociale, situata in un certo tempo e
luogo, è per la teoria del soggetto politico del tutto indifferente, benché rilevante per
l’attuabilità della democrazia deliberativa – proprio allo stesso modo della presenza
di quell’ethos democratico, già osservato come pragmaticamente necessario ma
niente affatto pre-ordinabile dalla teoria. Soltanto le formali condizioni di possibilità
di una discussione argomentata e tra pari definiscono ciò che dev’essere il soggetto
della deliberazione, e solo dal punto di vista dell’agire politico; nulla è necessario, né
possibile, prescrivere per qualunque altra sfera si voglia individuare entro la vita sociale ed individuale. A rigore, contra Habermas,58 nemmeno si afferma che le persone
siano effettivamente capaci di tale interazione discorsiva;59 certamente, anche qui
vari requisiti tenderanno ad imporsi all’attenzione, ma non potranno essere pregiudicati dalla teoria.60
Dunque, un appropriato soggetto politico corrisponde ad una personalità giuridica astratta, definita solo dalle condizioni di possibilità della deliberazione. Un sistema giuridico accorto della distinzione tra società e politica dovrebbe essere in grado
di definire questi soggetti in modo rigidamente individualistico e privo di connotazioni differenti dal riconoscimento del pari diritto di partecipare alle discussioni e
alle decisioni pubbliche, senza tuttavia che ciò implichi alcuna pregiudiziale sull’assetto – magari spiccatamente collettivistico, se a questo dovesse condurre la deliberazione – dell’insieme della società. La presupposizione dell’autonomia fattualmente
riscontrabile in un soggetto socializzato secondo certe forme, e non altre – e di conseguenza il suo riflesso in un sistema, sia pur sempre “insaturo”, di diritti non sol57. Penso ad esempio alla linea di critica avanzata da Michael Sandel: M. J. Sandel, Liberalism
and the Limits of Justice, Cambridge: Cambridge University Press, 1998; M. J. Sandel, “The Procedural Republic and the Unencumbered Self”, Political Theory 12, no. 1 (1984): 81-96.
58. J. Habermas, “Stato di diritto e democrazia: nesso paradossale di principi contraddittori?”.
59. Perciò, tentativi di ripensare la deliberazione a partire dalle capacità che si pretende di poter
riscontrare nei cittadini (J. Johnson, “Arguing for Deliberation: Some Skeptical Considerations”; S.
W. Rosenberg, “The Empirical Study of Deliberative Democracy: Setting a Research Agenda”; S.
W. Rosenberg, Deliberation, Participation and Democracy: Can the People Govern?, Basingstoke,
UK: Palgrave Macmillan, 2007) non sono particolarmente rilevanti, corretti o meno che siano i giudizi empirici. D’altra parte, chi sono questi cittadini empiricamente osservabili dai quali si vorrebbero trarre conseguenze generalizzabili? quelli statunitensi o quelli italiani? quelli del 1998, del
2007 o quelli odierni? Vedi anche sopra, pp. 104 ss.
60. Vedi sopra, p. 156.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
tanto politici – che ancora informa contenutisticamente la posizione habermasiana,
non è tenibile da un punto di vista puramente procedurale, sebbene si possa plausibilmente argomentare che per la concreta realizzazione della democrazia costituisca
una necessità di fatto.
Chiaro è come, nella prassi, i diversi aspetti della vita degli individui in società
siano inseparabilmente connessi, così s’incontreranno contesti socio-culturali più favorevoli alla democrazia, mentre altri decisamente ostili. D’altronde, la teoria deliberativa non vuole presentarsi come neutrale rispetto alle posizioni anti-democratiche.
Soltanto, chi volesse determinare in anticipo quali società, quali culture e quali
concezioni dell’identità fossero compatibili, o meno, con la deliberazione democratica
sarebbe in contraddizione con i princìpi di quest’ultima nonché, di fronte alla varietà
della storia umana e ad un futuro pur sempre imprevedibile,61 assai arrogante sul
piano teorico.
Però, l’elaborazione di un soggetto come pura condizione di possibilità della procedura deliberativa – oltre a lasciare relativamente scoperto il versante motivazionale, come non può evitare di fare una posizione procedurale – per definizione non
include alcunché di utile a delimitare preventivamente la platea dei partecipanti.
Privato il soggetto di qualsiasi caratteristica ascrittiva (etnia, cultura, identità, e
così via), resterebbe un indefinito universale “tutti”, evidentemente impraticabile in
condizioni reali. Certo, una democrazia migliore consentirebbe più spazio e maggiore
potere alle libere associazioni di cittadini, ma la questione di una basilare delimitazione dei possibili partecipanti non può essere evasa, per ragioni teoriche prima ancora che pragmatiche. La definizione normativa dell’aspetto contenutistico dei soggetti della deliberazione, cui corrisponde la determinazione formale dei limiti alla
partecipazione, è demandata a ciò che si delibera; così s’intrecciano il ‘chi’ ed il ‘che
cosa’ della democrazia deliberativa.
5.2. Che cosa si delibera
Si possono esaminare gli oggetti della deliberazione in base alla forma che assumerà
la conseguente decisione – una legge, un regolamento burocratico, un ordine esecutivo, un giudizio in tribunale e così via – e al dominio nella quale essa si eserciterà.
Questo secondo elemento può essere a sua volta distinto in quanto corrispondente ad
una delimitazione locale (e.g. cittadina, statale, internazionale) oppure contenutistica (politica economica, diritto penale, trasporti pubblici, o quel che si voglia). In
61. L’esempio è quello più ovvio: l’antico contesto nel quale è nata la democrazia, assieme a buona
parte dei concetti politici ancora in uso, mostrava condizioni sociali e culturali, una visione del
mondo e del soggetto entro di esso, tanto differenti da quelle odierne da far impallidire contrasti
che oggi sembrano abissali.
Parte seconda: Temi e problemi
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corrispondenza con la struttura del precedente paragrafo, la forma delle decisioni deliberate è rilevante soprattutto per approfondire il significato del ruolo dei cittadini
e dei loro rappresentanti (o di chiunque partecipi della politica in senso lato, dai magistrati ai capi di governo); il dominio nel quale le stesse decisioni si esercitano, invece, è più immediatamente connesso con la delimitazione, volta per volta, dei soggetti interessati dalla deliberazione.
Raramente, se mai, questi aspetti saranno tra loro indipendenti. Tuttavia, ha senso analizzarli separatamente poiché le loro reciproche connessioni non sono date in
una singola configurazione necessaria, dipendendo bensì dal modo complessivo d’intendere e organizzare la politica, disponibile a sua volta (pur sempre, di fatto, solo
parzialmente) alla stessa deliberazione democratica. Entro la questione del dominio
delle decisioni deliberate, concentrerò l’attenzione sul primo aspetto, quello locale,
perché le distinzioni possibili per contenuto sono molte di più e, per una duplice motivazione, più ardue da analizzare con distacco teorico: giacché è inevitabile nel
mondo attuale avere a che fare con la politica in tutte le dimensioni, dal locale al
globale, mentre è molto controverso (ossia, più immediatamente connesso ai valori
volta a volta prediletti) quali siano gli ambiti della vita sociale in cui la democrazia
dovrebbe intervenire, o astenersi dal farlo.
Prima di procedere, una nota da tener presente è che, qui, parlare degli oggetti
della deliberazione significa mettere tra parentesi l’aspetto del “come” si delibera.
Vale a dire che, pur analizzando la forma assunta dalle decisioni deliberate, il riferimento non è alla questione, connessa ma non identica, delle modalità comunicative
(argomentazione, retorica, narrazione, e così via) interne alla medesima interazione
discorsiva, che saranno argomento del prossimo capitolo.
5.2.1 Leggi, giudizi, azioni
La politica moderna, differentemente da quella antica o medievale, ha conferito alla
legislazione un ruolo centralissimo, talvolta perfino esclusivo.62 A ciò hanno concorso
condizioni storiche – l’affermarsi dello Stato moderno, fautore di una centralizzazione giuridica senza precedenti – e scientifico-filosofiche – come la comprensione
delle leggi umane sul modello di quelle scientifiche – entrambe appoggiandosi, esplicitamente o meno, all’interpretazione della legge divina come volontà e comando, a
sua volta tra le radici dell’idea di sovranità. Nell’insieme, la democrazia deliberativa
non ha finora fatto eccezione, prevalentemente intendendo la deliberazione come
procedura per produrre leggi, oppure, attraverso la comunicazione diffusa nella so62. Esempio paradigmatico è ancora quello di Kelsen, per il quale alla democraticità di una legislazione rigidamente accentrata poteva e doveva corrispondere l’autocrazia nell’esecuzione, sotto forma di una burocrazia governativa pur sempre sottoposta al parlamento: H. Kelsen, “Essenza e valore della democrazia,” pp. 117 ss.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
cietà, influenzarne indirettamente la stesura.63 Parrebbe proprio che ciò che la democrazia deve deliberare sia soltanto, o almeno in larga prevalenza, la produzione della
legge.
Tuttavia, si danno almeno due ordini di motivi per cui una figurazione tanto centrata sulla legislazione risulta insufficiente. In primo luogo, non è stato mai vero che,
dato l’universale della legge, tutto ciò che è particolare – dall’amministrazione della
giustizia all’applicazione di regolamenti burocratici – seguisse secondo necessità logica. Al contrario, ogni applicazione di una norma richiede un giudizio sempre controverso.64 Come minimo, i giudici non possono affatto rinunciare a discorsi interpretativi;65 anzi, proprio sulla radicalizzazione di simili casi l’ermeneutica filosofica e
quella giuridica hanno potuto convergere (basti pensare a Gadamer), incidentalmente offrendo una notevole sponda a posizioni relativiste e/o irrazionaliste.66 Secondariamente, seppure si volesse concedere la pretesa esclusiva centralità della legislazione per un qualche momento passato, non si potrebbe sostenerla plausibilmente
63. Anche analisi critiche, e colorate di post-modernismo, della relazione tra legge e deliberazione
finiscono per considerare scontata la suddetta corrispondenza: P. Fitzpatrick, “Consolation of the
Law: Jurisprudence and the Constitution of Deliberative Politics”, Ratio Juris 14, no. 3 (2001):
281-97.
64. Ciò è filosoficamente ovvio almeno dopo Wittgenstein. Peraltro, lo specifico ruolo del giudizio
nel connettere universale e particolare è prominente già in Kant; di qui la peculiare lettura arendtiana (H. Arendt, Teoria del giudizio politico: lezioni sulla filosofia politica di Kant, Genova: Il nuovo Melangolo, 2005), ispiratrice di un’ampia ripresa del tema del giudizio nella teoria politica
contemporanea, che più volte ha lambito il campo deliberativo, si vedano ad esempio: R. Blaug,
“Citizenship and Political Judgment: Between Discourse Ethics and Phronesis”, Res Publica 6, no.
2 (2000): 179-98; N. Urbinati, Representative Democracy, cap. 3; C. Tarnopolsky, “Platonic Reflections on the Aesthetic Dimensions of Deliberative Democracy”, Political Theory 35, no. 3 (2007):
288-312; A. Ferrarin, “Imagination and judgment in Kant’s practical philosophy”, Philosophy & Social Criticism 34, no. 12 (2008): 101-21.
65. L’ideologia del giudice quale bouche de la lois, per un curioso ricorso storico, trova eco negli
Stati Uniti, dove oggi sono perlopiù i conservatori a pretendere neutralità interpretativa da parte
dei magistrati, in opposizione all’attivismo ritenuto caratteristico dei giudici liberal – soprattutto in
conseguenza delle sentenze che hanno scandito il movimento per i diritti civili, tra Brown v. Board
of Education (1954) e Roe v. Wade (1973). Molte volte dimostrata inconsistente (recentemente: B.
Z. Tamanaha, Beyond the Formalist-Realist Divide: The Role of Politics in Judging, Princeton:
Princeton University Press, 2009; ma si veda anche: C. R. Sunstein, “Interpreting Statutes in the
Regulatory State”) la pretesa d’una rigida polarità tra formalismo e realismo, activism e restraint,
non sembra però destinata a scomparire.
66. A questo primo tipo di eccessi si potrebbe ancora rispondere attraverso una concezione deliberativa del discorso giuridico, vedi: J. Habermas, Fatti e norme, capp. 5, 6. Tale considerazione non
è però sufficiente perché, insistendo sulla contrapposizione, nonostante il «nesso interno», tra diritto e politica (potere), si presta il fianco alle critiche di anti-democraticità continuamente sollevate
contro il giudiziario. Di converso, soltanto superando il discorso della sovranità della legge diviene
possibile giustificare deliberativamente la partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia – come nel modello del trial by jury – senza evocare con ciò gli spettri della tirannia della maggioranza o dell’anarchia.
Parte seconda: Temi e problemi
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per il presente, giacché è ormai da molto tempo che le leggi vanno perdendo le distintive caratteristiche di generalità e universalità67 – che si ritirano semmai nella
giurisprudenza costituzionale, anche lì spesso vacillando di fronte a considerazioni
valoriali e teleologiche68 – sfumando sempre più il confine con altre modalità di regolamentazione; senza parlare delle trasformazioni conseguenti all’internazionalizzazione e al (ri)pluralizzarsi delle fonti giuridiche.69
Però, anche ammessa l’inevitabile differenziazione nell’esercizio del potere politico, la difesa d’un modello deliberativo centrato sulla legislazione potrebbe ancora essere sostenuta a partire da presupposti morali. Pensando di fondare la validità della
democrazia sul rispetto dell’eguale valore morale d’ogni individuo,70 si può argomentare, o persino dare per scontato, che, proprio in virtù della sua universalità, la legge
rappresenti l’oggetto più appropriato, principale e magari unico, per la deliberazione. Così, la scarsa rispondenza della realtà all’ideale sovranità della legge potrebbe essere da un lato deprecata come una contingenza da superare, mentre
dall’altro accettata soltanto nella misura in cui fosse possibile riconnettere alla supremazia della legislazione, ora anch’essa deliberativa e perciò presuntivamente razionale, quelle prassi politiche che legislative non sono – questa, per grandi linee, è
la teoria della prassi giuridica prospettata in Fatti e norme. Ma, ammettendo pure
(concessione non da poco) che tale tentativo di razionalizzare deliberativamente il
modello classico della sovranità possa reggere l’urto d’una realtà giuridico-politica
67. Questo era già chiaro all’inizio del secolo scorso ad un giovane G. D. H. Cole, che, nell’ammirare l’opera di Rousseau, pure notava come «La distinzione tra le funzioni legislative ed esecutive è
assai ardua da individuare nella pratica [...] Per quanto giusta tale distinzione possa sembrare in
astratto, è chiaro come il suo effetto sia di porre tutto il potere nelle mani dell’esecutivo: la legislazione moderna occupandosi quasi sempre di classi ed interessi particolari»: G. D. H. Cole, “Introduction”, in The Social Contract and Discourses, a cura di G. D. H. Cole, London, New York: Everyman Library, 1913, p. xxvii, traduzione mia.
68. J. Habermas, Fatti e norme, § 6.2.
69. Si vedano ad esempio: S. Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma: Donzelli, 2009; S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, Roma-Bari: Laterza,
2003. En passant, notare la differenziata pluralità (di spazi, tempi e modi) nell’esercizio del potere
politico/giuridico già basterebbe a mettere fuori gioco almeno le più diffuse tra le critiche della social choice contro la realizzabilità della democrazia, che si basano per l’appunto sullo stilizzato modello di un’unica assemblea che decide di ogni cosa in forma legislativa.
70. Posizione ampiamente diffusa, con la rilevante eccezione dello stesso Habermas, che, a partire
da Fatti e norme, pone il principio D “prima” della distinzione tra morale e diritto; una posizione
però problematica rispetto all’etica del discorso, come già precedentemente accennato (vedi sopra,
p. 87, nota 37). Nonostante ciò, e nonostante anche l’interesse mostrato per la democratizzazione
dell’amministrazione, Habermas resta all’interno del paradigma centrato sull’attività legislativa; la
preminenza della forma di legge è tale da retroagire fino ai radicali princìpi D ed U, che riguardano
appunto «norme d’azione», benché sia evidente come i discorsi pratici non debbano necessariamente concludersi con la produzione di norme, potendo riguardare altrettanto bene giudizi o decisioni puntuali.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
sempre più complessa, già nei princìpi della deliberazione si trovano le ragioni per
abbandonarlo.
Per comprendere ciò, è sufficiente ripercorrere quanto argomentato. Non potendo
ascrivere caratteristiche contenutistiche al soggetto deliberativo, esclusa è anche una
sua definizione su base morale. Come già osservato, persino la mera autonomia, se
intesa come una proprietà da riscontrare nei fatti, politicamente rappresenterebbe
una finalità contenutistica non sovra-ordinabile alla procedura deliberativa praticata
dai cittadini.71 Per giustificare un ipotetico sistema nel quale la deliberazione fosse
limitata alla produzione legislativa, dunque, non può bastare il nesso, che appare peraltro sempre più tenue, tra la forma universale della legge ed una sua legittimità
moralmente fondata. D’altra parte, il modello della legge come sovrano comando
non può che condurre alle contrapposizioni tra rappresentanza e partecipazione delle
quali si è detto, ostacolando perciò la possibilità di deliberare – anzi, qui ancora in
modo peggiore, giacché usualmente i giudici non sono responsabili verso gli elettori,
lasciando maggiore spazio all’accusa di costituire un’oligarchia. Dunque, chi vuole
estendere l’ambito della deliberazione, ad includere funzioni diverse dalla legislativa,
ha pienamente ragione,72 ma tale estensione può essere radicalmente democratica
soltanto attraversando la correlativa critica della sovranità come modello dell’azione
politica.
Conseguentemente, oggetti appropriati per differenziati spazi deliberativi saranno
non solo le leggi, e neppure soltanto la produzione normativa in senso più lato, bensì
anche decisioni esecutive puntuali e giudizi, di diritto e di fatto. Più rilevante ancora
è come la pluralità di questi contesti decisionali non sia da ricondurre, neppure in
senso simbolico, ad un sistema gerarchicamente ordinato in ragione di una singola
volontà, e tanto meno ad un piano o progetto unitario. Viceversa, la reciproca indipendenza degli organi decisionali è necessaria affinché entro di essi e tra di essi possano darsi relazioni discorsive.73 Lasciando cadere una concezione monistica della vo71. Questo non già perché si debba in generale mettere in dubbio l’eguale valore morale di ogni
persona, bensì perché tale valore, com’è il caso per ogni idea morale, è attingibile nella prassi soltanto attraverso un consenso libero e ragionato; appunto quello che si potrebbe raggiungere entro
un’adeguata discussione pubblica, senza però certezza alcuna che ciò accada effettivamente. Tentare di ignorare che la libertà discorsiva possa produrre esiti ingiusti conduce ad assurdità, come
l’idea per cui la democrazia deliberativa dovrebbe “automaticamente” sottrarre riconoscimento politico a quelle posizioni considerate (troppo) immorali (il già incontrato «disaccordo non deliberativo», vedi sopra: p. 93). Certamente, è possibile, forse talvolta inevitabile, che ciò accada; non significando altro, però, che la rottura dell’ordine democratico.
72. J. Bohman, Public Deliberation, p. 187 ss. Lo stesso Bohman, peraltro, muoverà successivamente verso una posizione più articolata proprio nel trattare la questione dell’estensione della democrazia oltre i confini dello Stato-nazione: J. Bohman, Democracy across Borders. Il limite di
questo e di altri simili approcci è ancora una volta il tentativo di scaricare parte dell’onere normativo richiesto su una considerazione descrittiva e quasi-sociologica dei publics.
73. Mi riferisco qui ad una indipendenza legale – se si vuole procedurale, nel senso definito in: C.
Parte seconda: Temi e problemi
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lontà politica – che è poi la più esposta ad indebite semplificazioni “aggregative” –
sarà chiaro come l’unità di intenti tra attori diversi possa validamente prodursi soltanto attraverso la partecipazione al pubblico dibattito. In luogo di appartenenze
tradizionalmente concepite come inalterabili, è soltanto la pratica deliberativa tra
soggetti autonomi, tanto i cittadini come singoli quanto le istituzioni, che può conferire legittimità ad un ordinamento politico.
Da un lato, la posizione sin qui esposta si allontana dalla prassi delle attuali democrazie, eppure è semplice connetterla all’autorevole principio della separazione dei
poteri, pilastro del costituzionalismo.74 Da un punto di vista deliberativo, però, questo stesso principio non dovrebbe essere interpretato soltanto nella chiave storicamente prevalente, vale a dire come garanzia della protezione degli individui, e per
estensione della società, contro gli abusi del governo.75 Piuttosto, anche nel guardare
a queste stesse garanzie, si dovrebbe principiare dalla considerazione che una comunicazione ragionevolmente argomentata presuppone partecipanti non diretti dal comando altrui.76 E allora, che questi siano singoli cittadini, parlamenti, governi, corti
giudiziarie o giurie, chiaro sarà come il metterli l’uno alle dipendenze dell’altro ostacolerebbe la deliberazione di tutti. Certo, è realistico aspettarsi che non sempre sarà
possibile procedere deliberativamente, e qualsiasi ordinamento richiederà anche la
presenza di relazioni comando-obbedienza – è difficile immaginare la scomparsa della
coercizione legalmente sanzionata, e questa non può mascherarsi da relazione discorsiva.77 Ma, proprio per questo motivo, è tanto più necessario sottrarre alla coercizione quegli spazi che, invece, deliberativi possono essere.
Perciò, fare a meno del concetto di una sovranità legislativa – da non confondere
col significato giuridico della sovranità78 – non significa una diminuzione della rileF. Rostbøll, Deliberative Freedom – non certo ad una impossibile, e del tutto indesiderabile, assenza di relazioni de facto.
74. Talvolta considerato tout-court obsoleto (ma, curiosamente, da rimpiazzare con la molto più
antica idea della costituzione mista): H. H. Mogens, “The Mixed Constitution Versus the Separation of Powers: Monarchical and Aristocratic Aspects of Modern Democracy”, History of Political
Thought 31, no. 3 (2010): 509-31. È certo facile notare come la separazione tra i poteri non possa
essere perfetta; il che però, dato che nessuna prassi è stata né mai sarà perfetta, sarebbe una motivazione ben debole per abbandonarne il principio.
75. Una lettura che, presa di per sé, ha significato soltanto presupponendo un potere sovrano applicato, per così dire “dall’esterno”, ad una società relativamente inerte (oppure, ma è lo stesso,
mossa da qualche processo “automatico”); il che già basterebbe a certificarne l’anti-democraticità.
76. Questa posizione è interna al principio deliberativo, perciò non coincide esattamente con la
«co-originarietà» di autonomia privata e pubblica sostenuta da Habermas, che presuppone invece
una comprensiva interpretazione storico-filosofica: J. Habermas, Fatti e norme, § 3.1.
77. Benché (tanto per evitare facili fraintendimenti) l’uso della violenza possa essere indispensabile
per delimitare gli spazi della parola: R. M. Cover, “Violence and the Word”, The Yale Law Journal
95 (1986): 1601-30.
78. Vedi sopra, p. 168, nota 23. Un ordinamento legale unitario, quindi sovrano nel senso giuridico,
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
vanza del diritto. Diversamente, la conseguenza sarebbe una radicale divisione dei
poteri che non soltanto definisce un sistema nel quale siano possibili relazioni maggiormente deliberative, ma apre queste ultime ad una partecipazione diretta che non
ha alcun bisogno di auto-interpretarsi come “esterna” rispetto a strutture istituzionali assiomaticamente eguagliate al locus del dominio o degli imperativi sistemici.
Il diritto mantiene dunque un ruolo imprescindibile nella democrazia deliberativa.
Soltanto, il compito precipuo della legge non sarà considerato quello di regolare la
società.79 Piuttosto, la caratterizzazione del diritto come medium è da percorrere fino
in fondo: rilevante non è tanto l’analogia, nel coordinare le azioni sociali, con il denaro – benché anche al denaro, per il sottoinsieme dell’economia, si possa guardare
come ad un mezzo per rendere comprensibili interazioni altrimenti caotiche – quanto
quella con il linguaggio stesso, mezzo più generalmente presupposto, direttamente o
indirettamente, da ogni interagire significativo.80 Certamente, seguendo Apel, il «metalinguaggio ultimo» resta la lingua naturale, anche per quanto riguarda la politica.
E però i linguaggi naturali, inestricabilmente legati a specifici «mondi della vita»,
tali da creare divisioni profonde anche entro quelle che ufficialmente sono lingue unitarie,81 presi di per sé – fuori da un quadro giuridico che ne garantisca la reciproca
intelligibilità, almeno nel senso minimale di limitare la violenza – sono singolarmente
inadatti alla deliberazione politica, a meno di non ricadere in una visione essenzialidentitaria, per la quale neppure un piccolo borgo, probabilmente, ospiterebbe un
mondo della vita sufficientemente omogeneo dal punto di vista linguistico.82
può coesistere con l’assenza di sovranità nell’azione politica: è sufficiente abbandonare l’idea classica, ma non per questo plausibile, che la legge corrisponda al comando di una volontà.
79. Ovvero «stabilizzare le aspettative sociali» o «comportamentali», come da Habermas spesso ripetuto, vedi: J. Habermas, Fatti e norme, pp. 41, 239-40, 530-31, 545. Ciò però non significa che il
diritto non possa essere impiegato per tale scopo; senz’altro lo è in larga misura, ed è probabilmente vero che rappresenta per ciò uno strumento, nelle società complesse, imprescindibile. Soltanto, questa non dovrebbe esser presa a sua caratteristica distintiva, giacché è condivisa con ogni altra forma di disciplinamento sociale – la religione, la morale tradizionale, l’appartenenza etnica,
forme antiche e moderne di panem et circenses: tutti strumenti che possono concorrere a mantenere
l’ordine nella società, senza però essere né leggi né diritto.
80. E da ogni istituzione: J. R. Searle, “Language and social ontology”, Theory and Society 37, no.
5 (2008): 443-59. Per dire qualcosa di più sull’analogia tra diritto e linguaggio si dovrebbero introdurre elementi ulteriori, che potrebbero cadere al di fuori del necessario proceduralismo della teoria
deliberativa; si veda comunque infra, pp. 230 ss.
81. Non soltanto differenze dialettali radicate in secolari differenze etniche o di classe, ma anche i
molto più volatili slang possono contribuire in modo rilevante ad ostacolare la comune deliberazione. Ciò non significa che la politica non possa accogliere discorsi “vernacolari” (W. Kymlicka,
Politics in the Vernacular: Nationalism, Multiculturalism, and Citizenship, New York: Oxford University Press, 2001), ma soltanto che, per una cittadinanza multiculturale, un diritto rigorosamente
formalizzato sarebbe più che mai necessario.
82. Lo stesso «patriottismo della costituzione», ritenuto alternativa possibile alla degenerazione di
un nazionalismo etnocentrico ed esclusivo (J. Habermas, “Una storia di risarcimento danni. Le ten-
Parte seconda: Temi e problemi
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D’altronde, giustificare il diritto in termini descrittivi, come necessità fattuale,
porrebbe il discorsivismo in una pessima posizione di fronte a chi facesse notare che
il diritto fattualmente non ha le caratteristiche che la filosofia richiederebbe. D’altro
canto, la via Apeliana di subordinare il principio democratico a quello del diritto – giustificato riflessivamente come condizione necessaria perché sia possibile rispettare le norme morali senza divenire prede inermi dei malvagi – perde il punto
della co-originarietà di diritto e morale, finendo così nelle stesse aporie che avevano
motivato il tentativo ricostruttivo di Habermas. Per uscire da queste ambasce, la definizione del ruolo del diritto dev’essere sì normativa come vuole Apel, quindi non ridotta ad una descrizione storico-sociologica; però questa normatività non può corrispondere ad una finalità morale, che sarebbe pur sempre un’imposizione lasciata
cadere sul capo dei soggetti della democrazia. La risposta possibile sta in una considerazione del diritto come condizione di possibilità non del rispetto della moralità,
bensì dell’azione politica, quindi anche di quella particolare azione che è il sollevare
pretese di validità, e criticarle, in un contesto deliberativo.
Che sia la specifica forma della legge quella più adeguata a questo ruolo, è reso
chiaro da quanto argomentato in precedenza, giacché da un lato gli spazi deliberativi devono essere delimitati in modo esplicito – perché non ci si può affidare ad una
ricostruzione sociologica, per le ragioni viste nel capitolo quarto – e d’altro canto ciò
deve avvenire senza presupporre contenuti valoriali/finalistici che infrangerebbero il
proceduralismo. È per questo che dal punto di vista deliberativo il primo compito
della legge sta nella definizione delle istituzioni democratiche e delle singole persone
come agenti politici. Ciò costituisce una posizione speculare a quella habermasiana
nella misura in cui – pur continuando ad affermare una sorta di «nesso interno» –
non sono più le categorie dei diritti a derivare dalla volontà dei cittadini di regolare
la propria convivenza in forma legislativa,83 bensì è la legittimità di quest’ultima a
fondarsi sull’essere la sola risorsa disponibile per definire significativamente le persone come possibili partecipanti alla deliberazione, dunque come attori politici.
L’esito pratico di tale capovolgimento può darsi nell’evidenziare l’opportunità di limitare l’uso della forma di legge, anziché enfatizzarne le possibilità espansive. Però,
neanche questa può essere considerata una limitazione aprioristica, perché l’estensione più appropriata della legislazione non si determina in astratto, derivando
denze apologetiche nella storiografia contemporanea tedesca”, in Germania: un passato che non
passa, Torino: Einaudi, 1987), può assumere un senso radicalmente democratico, non meramente
moralistico, soltanto ricordando che le «costituzioni erano per la libertà ciò che la grammatica è
per il linguaggio»: T. Paine, The Rights of Man, New York: Everyman’s Library Edition, 1945, p.
93, traduzione mia. Vedi anche: J. Habermas, “Cittadinanza politica e identità nazionale. Riflessioni sul futuro dell’Europa”, in Morale, Diritto, Politica, Torino: Einaudi, 1992
83. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 148 ss.; J. Habermas, “Stato di diritto e democrazia: nesso paradossale di principi contraddittori?” Vedi anche sopra, p. 86.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
anch’essa dalla prassi deliberativa, sebbene sia plausibile sostenere che dovrebbe essere minore di quanto oggi non sia.
Dal punto di vista deliberativo, una limitazione nell’uso della forma di legge meriterebbe d’essere presa in considerazione giacché, da un lato, l’espansione di essa
mette in pericolo sia le caratteristiche che dovrebbero essere intrinseche ad un diritto democratico sia, di riflesso, la sua conoscibilità/comprensibilità da parte dei cittadini.84 D’altro canto, asseverata l’irriducibile rilevanza di altri momenti politici, segnatamente il potere giudiziario e l’amministrazione, in linea di principio nulla
vieterebbe di spostare su di essi una parte dell’onere della trasformazione della società – grande o piccolo ch’esso sia, e sempre se i cittadini concorderanno che tale
sia il compito della politica. In altre parole, abbandonando l’irrealistica pretesa (perlopiù implicita nelle interpretazioni “progressiste” della sovranità) di scrivere per intero il progetto di una società impiegando il linguaggio della legislazione, sarebbe
forse possibile restituire maggiore efficacia al diritto medesimo, mentre i provvedimenti sociali – nella misura, quale che sia, deliberata dai cittadini – potrebbero essere meglio condotti agendo attraverso contesti diversi, più adeguati alla varietà
delle questioni da affrontare.
Quanto detto non significa, però, che la democrazia deliberativa dovrebbe assumere, per esempio, una posizione “di destra”, favorevole a minimizzare il peso dello
Stato, contro una “di sinistra”, volta a massimizzare l’intervento pubblico; oppure,
tornando a considerare il benessere sociale necessario per un’efficace deliberazione, il
contrario. Simili questioni oltrepassano i limiti d’una teoria della democrazia deliberativa in quanto tale, che di fronte ad esse non può che tenersi in silenzio – certo,
solo finché non contraddicano i suoi stessi princìpi – proprio perché intende costituire un quadro di riferimento nel quale contrapposizioni anche radicali siano discusse ragionevolmente, per quanto possibile, evitando la violenza. Neppure la limitazione dell’attività legislativa qui argomentata è da confondere con la posizione
liberale per cui soltanto/prevalentemente i constitutional essentials sarebbero oggetto appropriato della deliberazione.85 Al contrario, un uso più limitato della legge –
che in società complesse dovrebbe certo essere rimpiazzato da altre modalità di co-
84. Se dalla legge come linguaggio si passa a considerare il linguaggio giuridico, ben si nota come
esso sia incomprensibile per la quasi totalità dei cittadini – compresi non di rado quelli eletti a far
parte del potere legislativo. Mentre le democrazie antiche iniziavano dal rendere pubblicamente conoscibile la legge, oggi è quasi come se fossimo tornati alla sacrale impenetrabilità del diritto arcaico. Non potendo dare per scontata una lingua naturale corrispondente ad un condiviso «mondo
della vita» – presupposizione comunque foriera di violente esclusioni – la comprensibilità della legislazione, a malapena all’ordine del giorno, dovrebbe invece essere un tema prioritario.
85. Una posizione, a rigore, non pertinente neppure per Rawls, che pone tale limite all’impiego ragione pubblica per ragioni prudenziali, non già di principio. Vedi sopra, p. 38.
Parte seconda: Temi e problemi
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ordinamento, regolamentazione e composizione delle dispute86 – potrebbe avere un
significato democraticamente progressivo solo se le altre funzioni politiche fossero
anch’esse esercitate, nella misura maggiore possibile, attraverso la deliberazione.
Pace Pettit,87 la democratizzazione passa necessariamente per la politicizzazione di
quanti più spazi decisionali, compresi quelli giudiziari, anche con la diretta partecipazione dei cittadini, sebbene non necessariamente nell’usuale forma della contrapposizione partitica.88
Certo, la deliberazione di giudizi retrospettivi di validità può e deve essere distinta da quella rivolta al futuro (tanto la produzione legislativa quanto i comandi o le
autorizzazioni puntuali), esattamente nel senso per cui è ragionevole pretendere che
una corte giudiziaria tenga a proprio principio il diritto esistente, e non le finalità
particolari predilette dai suoi membri. Non si tratta, dunque, di assumere una posizione scettica circa la possibilità di distinguere l’applicazione della legge dall’usuale
conflitto di interessi, passioni e ideologie; né, beninteso, il contrario. Piuttosto, il
principio di legalità resta, come di fatto è sempre stato, dipendente dall’essere rispettato da parte di una maggioranza sufficientemente ampia. Dovrebbe risultar
chiaro come l’unico rimedio per l’incertezza di questa contingenza consista nell’iterazione di ulteriori momenti deliberativi,89 giacché così come non si dà alcuna garanzia
a priori contro l’eventualità che un giudice metta le proprie idiosincrasie al di sopra
86. Una simile “sostituzione” sembra d’altronde in atto da tempo; già Sartori, con sguardo “realistico”, notava la pervasività della forma del “comitato”: G. Sartori, Democrazia: cosa è, Milano:
Rizzoli, 2007. Sono molti gli ambiti in cui, a fronte di una complessità sociale ingestibile con i rigidi
mezzi della legislazione, si osserva un preoccupante ritirarsi della democrazia ed in generale del potere pubblico. Così i parlamenti sono sempre più deboli di fronte al ruolo crescente dell’esecutivo;
così i medesimi esecutivi tendono a spostare parte delle proprie funzioni verso organismi collaterali,
sottoposti a minori controlli, magari fuori dai confini del diritto pubblico; così ai giudizi in tribunale si sostituiscono arbitrati tra privati, talvolta con imprese multinazionali capaci di creare tra
loro spazi quasi-giuridici fuori dal diritto statale; e così via – su questi processi, e sulle loro ambiguità, vedi anche: S. Cassese, La crisi dello Stato, Roma-Bari: Laterza, 2002. Per evitare di
contrapporre soltanto buone intenzioni a tali preoccupanti tendenze, si dovrà pur trovare un modo
per democratizzare anche quel che proprio non rientra nelle rigide forme del legiferare – in questo
senso condivido, ad esempio, la critica di Mariano Croce contro progettati poteri legislativi cosmopolitici, sebbene non sia pienamente convinto dall’alternativo modello «giurisdizionale sovrastatale» ivi proposto: M. Croce, Sfere di dominio, Roma: Meltemi, 2008, pp. 212 ss.
87. P. Pettit, “Depoliticizing Democracy”. Vedi anche sopra, p. 34.
88. In effetti, la razionalizzazione cercata da Pettit, favorendo il pubblico giudizio (valuation) anziché la volontà collettiva, potrebbe coesistere con una partecipazione – però sempre sottoposta al
rischio di conflittualità, dunque una politicizzazione anche nel senso deprecato dell’autore – più
ampia di quanto non sia nelle attuali democrazie rappresentative.
89. Il modello dell’iterazione democratica, più volte ripreso dalla Benhabib (S. Benhabib, “Toward
a Deliberative Model of Democratic Legitimacy”; S. Benhabib, Cittadini globali: Cosmopolitismo e
democrazia), in parte sulle orme di Manin (B. Manin, “On Legitimacy and Political Deliberation”)
meriterebbe anch’esso d’essere esteso al di là della sola attività legislativa/normativa.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
della legge, egualmente non è disponibile altra procedura sensata, tranne il ragionevole dibattito, per valutare se vi siano stati o meno errori in tal senso.90
In termini più generali: non essendoci modo di evadere la discutibilità di ogni giudizio, è chiaro come «... quella spirale auto-applicativa di diritto che è capace di far
valere l’autonomia politica»91 non possa darsi al di fuori dell’esercizio concreto e situato della medesima autonomia, questa rappresentando pur sempre un potere a disposizione di determinati agenti, il che però fa apparire fuorviante l’etichetta di
‘auto-applicativa’. Riconosciuta questa contingenza – che dal punto di vista politico
non potrebbe essere elusa nemmeno se fosse possibile dimostrarne filosoficamente
l’insussistenza – si comprende perché l’oggetto della deliberazione non possa essere
ridotto ad una forma specifica, come quella legislativa, ma debba estendersi in linea
di principio ad ogni esercizio del potere politico.
L’appropriata articolazione dei poteri pubblici è però da sottoporre ad un duplice
vincolo deliberativo. Da un lato le decisioni riguardanti la struttura costituzionale di
un governo richiamano condizioni particolarmente esigenti per la deliberazione, tanto nel senso della sua qualità discorsiva quanto per il livello di inclusione richiesto;92
d’altro canto le divisioni stabilite non si rendono certo effettive da se medesime, richiedendo bensì il continuo esercizio d’un surplus di giudizio, del quale, forse, forme
politiche più semplici e meno democratiche potrebbero fare a meno. Perciò, una teoria coerentemente deliberativa non può pretendere di determinare in anticipo come
debba essere implementata la separazione dei poteri, pur dovendone affermare la
necessità.
Però, qui come altrove, il dover essere procedurale della teoria svolge un ruolo rilevante in negativo, escludendo che per la delimitazione dei diversi poteri si possano
impiegare criteri contenutistici – ossia valoriali: teleologicamente orientati verso gli
esiti desiderati. Viceversa, sarà per l’appunto la forma delle decisioni da assumere a
determinare chi debba discutere che cosa, ed in quale rapporto con gli altri spazi deliberativi. Benché neppure questo secondo tipo di categorizzazione possa essere dato
per scontato, né sia mia intenzione proporre rigidi precetti in merito, ho scelto di
fare riferimento alla classica tripartizione dei poteri in legislativo, esecutivo e giudi90. Vedi sopra, pp. 104 ss.
91. J. Habermas, Fatti e norme, p. 51.
92. Il che non è una novità, già nelle colonie americane appena resesi indipendenti il processo di
ratifica dei testi costituzionali era molto più inclusivo – approssimandosi al suffragio universale maschile – di quanto non fosse la politica ordinaria, compresa quella risultante poi dalle stesse costituzioni sottoposte all’approvazione popolare; si vedano: M. W. Kruman, Between Authority and Liberty: State Constitution-making in Revolutionary America, Chapel Hill NC: The University of
North Carolina Press, 1999; W. P. Adams, The First American Constitutions: Republican Ideology
and the Making of the State Constitutions in the Revolutionary Era, Lanham MD: Rowman & Littlefield, 2001.
Parte seconda: Temi e problemi
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ziario perché ad essi si possono facilmente far corrispondere altrettanti atteggiamenti
discorsivi. Che si consideri tale partizione accettabile o meno, rilevante è spostare
l’attenzione verso le forme discorsive,93 proprio per poter dare un giudizio distaccato
sulle strutture che ci sono più familiari, favorendo, se è il caso, quella “fantasia istituzionale” più spesso evocata che non congruamente praticata.
È peraltro soltanto in forza delle forme discorsive appropriate per ogni oggetto
deliberativo che si possono definire validamente le caratteristiche dei soggetti partecipanti. Solo passando di qui, ad esempio, il fatto che gli specialisti occupino un ruolo preminente nel discorso giuridico può essere reso compatibile con i princìpi democratici – allo stesso modo in cui la posizione dei rappresentanti li rende più capaci di
mediare tra interessi contrapposti, ed eventualmente di assumere un punto di vista
più generale; sempre a patto di mantenere attiva tanto la deliberazione tra loro
quanto quella con i rappresentati.
La prima e più eclatante vittima di una democrazia deliberativa così intesa sarebbe la forma di governo parlamentare, giacché, mentre il principio della separazione del potere giudiziario è incontroverso, pur non sempre conseguentemente realizzato,94 l’intreccio di esecutivo e legislativo è ampiamente praticato nelle attuali
democrazie.95 Sarà già chiaro, il punto non è che alla rappresentatività inefficiente
del parlamento si debba sostituire, del tutto o in parte, l’efficienza non rappresentativa del governo.96 Piuttosto, soltanto una rigida separazione tra i poteri – tale da
estendersi sia al loro esercizio sia ai momenti di rendiconto ed autorizzazione – può
consentire la loro reciproca indipendenza, dunque la rilevanza dei rispettivi ruoli nella deliberazione pubblica. Per contro, chiaro è come l’assenza di una coerenza per
93. Vedi anche sopra, p. 126.
94. A parte la sempre pressante interferenza degli esecutivi, penso anche a quanto sia limitata nella prassi e negletta nella teoria l’istituzione della giuria popolare, che pure è stata tradizionalmente
centrale, fin dall’antica Grecia, per definire la democraticità di un governo. Circa la rilevanza delle
giurie si vedano: J. Abramson, We, the Jury: The Jury System and the Ideal of Democracy, Cambridge MA: Harvard University Press, 2000; R. N. Jonakait, “The American Jury System”, (2003);
A. W. Dzur, “Democracy’s “Free School”: Tocqueville and Lieber on the Value of the Jury”, Political Theory 38, no. 5 (2010): 603-30. Dato che la teoria deliberativa non deve più cadere nell’illusione che la legge rappresenti la volontà unitaria della nazione, la partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia, sia secondo il trial by jury o in forme nuove ancora da sperimentare,
risalta più chiaramente come elemento centrale di una buona democrazia.
95. Eccezioni sono gli Stati Uniti e, parzialmente, la Francia, repubblica detta semi-presidenziale,
nella quale però il governo necessita della fiducia del parlamento, il che, com’è usuale almeno da
qualche decennio, implica comunque la subordinazione de facto di questo a quello (nel caso francese, in larga misura, al presidente).
96. La presupposizione di un trade-off tra efficacia e rappresentatività, un luogo comune nella letteratura politologica, perde significato una volta abbandonate concezioni semplicistiche di che cosa
possa valere come efficienza, nonché superata la fallace idea della sovranità unitaria di un parlamento che sarebbe democratico in quanto rappresentazione simbolica/descrittiva della società.
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5. Soggetti e oggetti della deliberazione
così dire “garantita” (attraverso l’imposizione del comando emesso da un sovrano)
tra le azioni dei diversi poteri politici, essendo il loro accordo rimandato a momenti
deliberativi dall’esito pur sempre incerto, possa produrre costi notevoli per l’efficienza di un sistema di governo.97 Ma se pure ciò è vero,98 non è forse un prezzo troppo
alto da pagare per la possibilità di inserire una qualche misura di ragione nella politica. Ceteris paribus, pochi giudicherebbero preferibile applicare con veloce efficienza
provvedimenti ingiusti, anziché attendere il tempo necessario per decidere
razionalmente.
Ad ogni modo, i dettagli di una forma di governo propriamente deliberativa non
possono qui essere esplorati, le infinite contingenze che colpiscono il tema rendono
impossibile risolverlo nella teoria. Questa dovrà pertanto limitarsi ad offrire dei
princìpi per l’esercizio di giudizi, che saranno sempre intrecciati a condizioni fattuali
nient’affatto universalizzabili.
5.2.2 Tra deliberazione locale e democrazia cosmopolitica
Il concetto tradizionale di ‘popolo’ (assieme alla correlativa nazione),99 quale entità
unitaria, quasi-naturalisticamente dotata di una propria volontà, dalla quale trae
origine e legittimità l’ordinamento giuridico-politico – un’ipostasi per azzerare la distanza tra fattualità e validità – non ha significato in termini deliberativi. In parte,
ciò corrisponde ancora alla teoria habermasiana,100 soltanto che, abbandonato anche
il residuo riferimento alla sovranità, si mostra una connessione più radicale con
l’esercizio della deliberazione. In altre parole, rinunciare a «una interpretazione
concretistica del principio di sovranità popolare»101 non è ancora sufficiente. Una democrazia coerentemente deliberativa richiede di considerare la deliberazione realmente praticata dai cittadini, in spazi inevitabilmente differenziati, il che ha un senso soltanto abbandonando il modello della sovranità, “concretistica” o meno che ne
sia l’interpretazione. Il solo significato di ‘popolo’ affine alla democrazia deliberativa
97. Ad esempio, le critiche contro l’inefficienza del sistema statunitense – che pure ha dimostrato
una qualche capacità d’esercitare potere – volta per volta puntate contro il Senato, il bicameralismo, la struttura federale, il trial by jury o la Corte Suprema, formano una litania pressoché ininterrotta almeno a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento.
98. Ed è vero soltanto fino ad un certo punto, perché l’apice del decisionismo, l’autocrazia assoluta, produce sistemi caotici e inefficienti, come mostrato delle analisi dei regimi totalitari: H.
Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino: Einaudi, 2004, parte terza; F. L. Neumann, Behemoth:
struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano: Mondadori, 2007.
99. Accoppiamento tipico a partire dal diciannovesimo secolo, ma non proprio di ogni tempo e luogo: M. Canovan, The People, capp. 2- 3.
100.Di contro, ad esempio, alla visione stato/popolo-centrica di Rawls: J. Rawls, Il diritto dei
popoli.
101.J. Habermas, “Sovranità popolare come procedura. Un concetto normativo di sfera pubblica,”
p. 86.
Parte seconda: Temi e problemi
- 195 -
è quello coincidente con la cittadinanza come condizione di possibilità per l’azione,
non quello di un agente unitario con interessi e obiettivi in qualsivoglia modo “già
dati”.102
Questa, s’intende, non vuol essere né una diagnosi storica né una prescrizione
contenutistica, rivolta agli attori politici, circa che cosa si debba fare dei nostri popoli e del nostro mondo. Benché si possa argomentare che gli appelli al popolo tendano ad essere demagogici e perciò nocivi ad una discussione razionale, non è affare
della teoria deliberativa decidere se il sistema semantico che ruota attorno al ‘popolo’ sia utile per descrivere la situazione presente, né tantomeno pre-giudicare a quali
risorse simboliche debbano o possano far ricorso i cittadini e i loro rappresentanti
nel comunicare politicamente. Invece, appropriata materia della teoria è l’assetto
istituzionale entro il quale le interazioni – quali che siano le simbologie e le identità
che le caratterizzano – possono svolgersi in modo intelligibile. Che tali istituzioni
siano compatibili con l’affermazione di un’identità collettiva di tipo popolar-nazionale non è escluso, resta una questione contingente, ma come si è visto non è su questo tipo d’identità che possono fondarsi.
Per affrontare il tema dell’appropriata dimensione per il dominio della deliberazione si deve ancora partire dal principio della libertà discorsiva. Ora, qualsiasi relazione non comunicativa eserciterà – tanto di più in un mondo interconnesso come
l’attuale – un’influenza negativa sulla deliberazione possibile. Questo non in senso
moralistico, ma semplicemente perché non è possibile articolare istanze di validità,
quali che siano, attraverso media non linguistici, e dove questi predominano, lo stesso discorso è forzato a rimanere nell’ambito della scelta dei mezzi per fini già dati,
limitando la libertà comunicativa di tutti i coinvolti.
Il caso più eclatante, ma non unico, è quello dei macro-movimenti economici che,
avendo poco o punto a che vedere con istanze di validità normativa, sfuggono non
tanto al controllo de facto degli attori politici – ché questi potrebbero pur sempre
optare per il più assoluto liberismo, se così ritenessero,103 e d’altronde varie regolamentazioni funzionano anche in assenza d’una autorità politica compiutamente glo102.Traducendo in un gergo differente, si potrebbe dire che, nella definizione del demos della deliberazione, eventualmente anche fino a dimensioni globali, i criteri «composizionali» dovrebbero essere subordinati a quelli «performativi»: C. List e M. K. Archibugi, “Can there be a global demos?
An agency-based approach”, Philosophy and Public Affairs 38, no. 1 (2009): 76-110. Tuttavia, List
e Archibugi, probabilmente a causa dell’approccio funzionalistico, restano legati ad un’immagine
troppo unitaria del popolo come soggetto agente.
103.Da una prospettiva procedurale, in questione non è la bontà degli esiti, o la salvaguardia della
solidarietà sociale dalle corrosive influenze del mercato e dell’amministrazione (vedi sopra, §§ 4.2 e
4.3), sebbene questi siano fattori di cui si può e probabilmente si deve tenere conto nella deliberazione. Il punto è la libertà discorsiva, i cittadini dovranno poi confrontarsi con le conseguenze delle
loro scelte, che possono anche fallire miseramente.
- 196 -
5. Soggetti e oggetti della deliberazione
bale104 – quanto alla stessa possibilità di decidere se controllarli o meno, ed eventualmente in che misura. In altre parole, la mancanza di un contesto efficacemente
cosmopolitico consegna (qui sì ‘automaticamente’) porzioni sempre più ampie della
decidibilità di questioni anche interne agli Stati esistenti ad un modo di funzionamento sistemico, che non è detto sia sempre ingiusto o controproducente nei suoi
esiti (che da un punto di vista razionale sono pressoché casuali, a dispetto dell’enorme mole degli studi scientifico-predittivi in merito) ma che per certo è impervio
all’applicazione di qualsiasi pretesa di validità. Tale “impermeabilità discorsiva”,
d’altronde, travalica l’ambito morale e le considerazioni di giustizia, giacché spesso
risulta impossibile agire significativamente, anche quando certi sistemi appaiono catastroficamente inefficienti in senso tecnico.105
Dunque, perché si possano articolare discorsivamente le scelte politiche, ivi comprese quelle che delimitano la partecipazione e l’estensione del controllo democratico, una qualche versione del cosmopolitismo dovrà trovarsi tra i princìpi della teoria
deliberativa. Però, anche tale obiettivo è da intendere come puramente procedurale,
persino nelle motivazioni. Questo significa che, da un punto di vista deliberativo, la
validità di un ordinamento cosmopolitico incomincia e termina col suo essere condizione per una partecipazione efficace. Tutto il resto, dalle buone finalità – la tutela
dell’ecosistema, la lotta alla povertà o la prevenzione della guerra, e così via – che
sarebbero perseguibili solo attraverso un ordinamento politico mondiale, fino alle
considerazioni di merito sulla difficoltà, ed in certi casi l’indesiderabilità, di tale ordinamento, cade fuori dall’ambito della teoria deliberativa. Si tratta per l’appunto
dei contenuti che si devono discutere, ma preliminari restano le condizioni perché
queste discussioni e quelle che potrebbero sorgere in un futuro indefinito, siano praticabili in modo democratico e deliberativo.
Anche se molti, me compreso, trovano il cosmopolitismo di per sé attraente, non
è questo ciò che è in gioco per la teoria deliberativa, che non pregiudica l’affermazione di identità più limitate, di qualunque tipo esse siano, purché compatibili con
104.A.-M. Slaughter, “Governing the Global Economy through Governments Networks”, in The
Role of Law in International Politics, a cura di M. Byers, Oxford, New York: Oxford University
Press, 2000; K. Ronit e V. Schneider, a cura di, Private Organisations in Global Politics, London:
Routledge, 2001.
105.Un esempio potrebbe essere quello della recente crisi finanziaria che, nonostante la conclamata
inefficacia dei sistemi pre-esistenti, anche senza bisogno d’introdurre considerazioni etiche, non ha
prodotto finora che risposte politiche deboli, e con buona probabilità anch’esse inefficaci. Apparentemente, le cose sono andate così non perché argomentazioni liberiste abbiano prevalso nel dibattito pubblico – come pure è stato per gran parte degli scorsi decenni – bensì perché la logica del sistema in questione rende impraticabile una regolamentazione non concertata a livello mondiale.
Difendere adeguatamente quest’esempio, come altri che si potrebbero portare, va al di là delle mie
competenze; tuttavia, per l’argomentazione qui presentata, è sufficiente comprendere che casi analoghi potrebbero sempre verificarsi, ed è molto difficile negare integralmente tale possibilità.
Parte seconda: Temi e problemi
- 197 -
l’esercizio della democrazia. Il punto è proprio che l’intero dibattito sulle identità locali, nazionali, e cosmopolitiche – così come osservato, nel § 5.1.2, per qualsiasi identità collettiva – idealmente dovrebbe svolgersi attraverso la deliberazione. La possibilità di articolare il progetto di una cittadinanza globale, come così la difesa del
valore di comunità tradizionali/locali, deve presupporre un quadro deliberativo a livello mondiale, oppure risolversi nell’imposizione del volere di chi si trovi, volta per
volta, ad essere il più forte; cosa che, per quanto spesso possa accadere, resta per definizione incompatibile con la validità normativa. In altre parole, già soltanto perché
le questioni contenutistiche circa i limiti delle comunità politiche possano essere intelligibili, dovrebbero darsi procedure deliberative cosmopolitiche.
Anche per questo, contro-intuitivamente, la questione dei limiti della partecipazione, pur certo trovandosi all’incrocio delle due domande, pertiene prima il ‘cosa’ si
delibera che non il ‘chi’. Infatti, determinare l’insieme dei partecipanti in base a
qualsivoglia caratteristica per loro stessi indisponibile, benché possa essere talvolta
(e più spesso sembrare) inevitabile, rappresenta nondimeno una chiara violazione
della loro autonomia discorsiva. Certo, trovandoci noi pur sempre, salvo casi eccezionali, entro strutture politiche che non abbiamo creato e che non è facile abbandonare, strutture la cui stabilità è peraltro necessaria per concretizzare la deliberazione, non è plausibile pensare ad una democrazia che continuamente rimette in
discussione i confini del proprio demos.
Da un punto di vista fattuale, nelle condizioni odierne, è probabilmente inevitabile che il margine di scelta nel determinare tale appartenenza sia dolorosamente limitato.106 Però, il punto di principio è che, per determinare questi limiti, ogni qual
volta la questione sia di fatto in discussione, nessuna caratteristica ascrittiva può valere di per sé come criterio. Da un lato, tutto ciò appare utopistico, perché i popoli
cui è riconosciuto il diritto di partecipare alla politica tendono spesso ad insistere
(tanto di più in condizioni di relativa insicurezza) sulla propria identità tradizionale,
anche in senso brutalmente etnico, per escludere possibili nuovi cittadini. D’altro
canto, l’osservazione del discorso pubblico in queste democrazie, oggi così ripiegate
su se stesse, mostra come le medesime pulsioni esclusive continuino nonostante tutto
ad essere connotate negativamente, persino quando siano, plausibilmente, maggiori-
106.Attorno a questi margini hanno cercato di operare Seyla Benhabib e James Bohman: S. Benhabib, I diritti degli altri: stranieri, residenti, cittadini, Milano: Raffaello Cortina, 2006; S. Benhabib,
Cittadini globali: Cosmopolitismo e democrazia; J. Bohman, “Rights, cosmopolitanism and public
reason”; J. Bohman, Democracy across Borders. Alla fine dei conti, però, le soluzioni proposte dimostrano un carattere ad hoc, né forse potrebbe essere diversamente. Del resto, anche le critiche
contro questo tipo di posizioni (ad esempio: S. Näsström, “The Legitimacy of the People”, Political
Theory 35, no. 5 (2007): 624-58) usualmente si fermano giusto un attimo prima di proporre un’alternativa plausibile.
- 198 -
5. Soggetti e oggetti della deliberazione
tarie.107 Inoltre, è pur vero che alcune tra le democrazie esistenti hanno già, e da
tempo, una legislazione relativamente liberale riguardo il conferimento della cittadinanza, gli Stati Uniti rappresentando l’esempio più rilevante.
Ad ogni modo, considerazioni del genere possono essere soltanto episodiche, ed in
quanto tali non hanno gran peso nel complesso della teoria. Il punto è che, concependo le unità politiche esclusivamente sul modello Stato/nazione/popolo, i paradossi dell’esclusione possono essere in vario modo aggirati, ma non seriamente
affrontati. Idealmente, ciascun appartenente ad ogni popolo avrebbe dovuto potersi
riconoscere in uno Stato-nazione; la realtà non poteva che essere un panorama punteggiato di minoranze oppresse, apolidi e migranti privi di diritti.108 Qui però il problema non sono i disastri e le pene che gli esseri umani si infliggono a vicenda. Su
questa china non si dimostra nulla, dato che, seppure fosse possibile tracciare una
relazione causale tra una lunga serie di orrori e l’istituzione dello Stato nazionale,
comunque non ci sarebbe modo di sapere se le sofferenze sarebbero state minori,
qualora la storia politica avesse preso una strada diversa. Poiché la controprova non
è mai data, ha poco senso giudicare qualcosa come la vicenda degli Stati-nazione
sulla base degli esiti prodotti; neppure è disponibile la conoscenza di che cosa accadrebbe in futuro se d’un tratto le istituzioni esistenti fossero sostituite da qualcosa
di completamente diverso. Il tentativo di calcolare sugli esiti di questioni del genere
sarebbe tra le più fallaci illusioni teleologiche, anche da un punto di vista puramente
cognitivo.
Piuttosto, la questione è che, negando ad alcuni la possibilità, anche solo in linea
di principio, di prendere parte ad una comune deliberazione, si mina la libertà discorsiva di tutti – e questo, si può dire, è il lato “individualistico” del problema della
“impermeabilità discorsiva”, alla quale sopra si è accennato da un punto di vista più
“sistemico”. Per fare un esempio a noi vicino, se oggi in Italia i CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione, già CPT) fossero mantenuti in condizioni “confortevoli”,
107.Anche movimenti e partiti apertamente xenofobi, nella loro comunicazione pubblica, ripiegano
in larga misura su ragioni pragmatiche per giustificare le proprie posizioni; e questo nonostante allo
stesso tempo impieghino la retorica populista del «dire ad alta voce ciò che il popolo pensa, specialmente se ritenuto indicibile dall’élite»: M. Canovan, The People, p. 76, traduzione mia. Non
penso si posssa fare troppo affidamento, in generale, sulla «forza civilizzatrice dell’ipocrisia» (J. Elster, “Strategic Uses of Argument”, in Barriers to Conflict Resolution, a cura di K. Arrow, et al.,
New York, London: W. W. Norton & Company, 1995; peraltro, lo stesso Elster nel tempo ha rivisto la propria posizione in merito: J. Elster, Ignorance, Secrecy, Publicity: in Juries, Assemblies,
and Elections), ma si tratta pur sempre un indizio, e nulla più di un indizio, a favore dell’idea che
una democrazia deliberativa potrebbe produrre risultati più ragionevoli.
108.L’incapacità di fare i conti con la presenza di minoranze che non rientravano nello schema Stato-nazione è stata considerata un fattore nella disgregazione dell’ordine europeo, sfociata poi nella
barbarie del nazismo e nella seconda guerra mondiale: H. Arendt, Le origini del totalitarismo,
capp. 2, 9.
Parte seconda: Temi e problemi
- 199 -
anziché essere le bolge infernali che spesso sono, la situazione sarebbe forse emotivamente più tollerabile; tuttavia, anche in tal caso la necessità di trattare i migranti
come oggetti rappresenterebbe una costrizione non soltanto per loro medesimi, ma
anche per la struttura politica che tenta di respingerli, o di regolarne la permanenza.
Ciò che è rilevante da un punto di vista democratico non è che gli immigrati siano
accolti, ovvero respinti ma trattati “bene”, quanto il fatto che ‘trattando le’ persone,
anziché ‘trattare con’ loro, ci si arrende ad una dinamica governata dalla necessità,
che per definizione limita la libertà di tutti i coinvolti. Questo più o meno nello stesso senso per cui i cittadini possono deliberare su come smaltire i rifiuti, o su come
produrne di meno, ma non hanno la possibilità di discutere ‘con’ i rifiuti stessi che,
nella misura in cui si ostinano ad esistere, limitano assai la libertà decisionale disponibile. La differenza fra un essere umano e un sacco di immondizia non è solo d’ordine biologico, morale o metafisico. Essa implica bensì che, volendo e riuscendo a
stabilire le condizioni appropriate, con una persona si può anche parlare; ottenendo
quindi collaborazione, oppure aprendo conflitti che, soltanto se eccedono la mera
strumentalità, possono restare aperti a pretese di validità e giustizia.
Questo non per dipingere un fantasioso idillio. Così come gli Stati, nel classico
paradigma westfaliano, si riconoscono reciprocamente ma possono optare per la
guerra (o per ostilità meno traumatiche), e così come l’essere egualmente cittadini di
un medesimo Stato non offre garanzie assolute contro la possibilità che una parte
decida a danno di un’altra (per tacere della concorrenza tra i cittadini sul piano economico-sociale); allo stesso modo l’utopia di un mondo nel quale a tutti e dovunque
fosse riconosciuta piena personalità giuridica, con diritto di parola e di associazione
se non anche di voto,109 non implicherebbe di per sé una soluzione consensuale, e
tantomeno ottimale, dei conflitti, soltanto però la possibilità, perlomeno la possibilità, di affrontarli razionalmente.
In questo senso, si può declinare deliberativamente la classica logica per cui il trovarsi in uno “stato di natura” rappresenterebbe ipso facto una violazione del diritto
altrui, deducendo quindi un diritto universale alla democrazia. Il discorso sui diritti
umani è talmente vasto, e attraversato da presupposti morali e politici tra loro in
tensione, che è difficile anche solo dire se abbia senso porsi domande sull’esistenza di
un diritto umano alla democrazia;110 però è certo che la democrazia deliberativa implichi un’universale possibilità di partecipazione, almeno nel senso minimale di cui
sopra.
109.Una proposta intrigante è quella di dividere il concetto della cittadinanza nelle sue componenti
di status legale, diritto di partecipazione e appartenenza identitaria: J. L. Cohen, “Changing Paradigms of Citizenship and the Exclusiveness of the Demos”, International Sociology (1999): 245-68.
110.J. Cohen, “Is there a Human Right to Democracy?”, in The Egalitarian Conscience, a cura di
C. Sypnowich, Oxford, New York: Oxford University Press, 2006.
- 200 -
5. Soggetti e oggetti della deliberazione
Affermando un diritto, s’impone il problema di come garantirne l’osservanza, e la
soluzione classicamente moderna è quella di un ordinamento giuridico unitario, dotato dei mezzi d’imporsi coercitivamente – i.e. la definizione dello Stato sovrano tra
Hobbes e Kant, Weber e Kelsen. Ben comprensibilmente, è attorno a questo fuoco
che ruota gran parte del dibattito sul cosmopolitismo. Il problema pragmatico è se,
e come, sia possibile superare una situazione nella quale, nonostante le istituzioni internazionali esistenti, neanche i diritti umani fondamentali sono decentemente garantiti al di là dei confini di (alcuni) Stati sovrani. Da un punto di vista teorico, ci si
interroga sulle forme di questo superamento, quanti e quali attributi della sovranità
debbano o possano essere trasferiti ad una o più istituzioni politiche di livello mondiale, o se piuttosto non sarebbe meglio ripensare la questione in termini del tutto
diversi. Però, mentre riconosco come queste siano le questioni più pressanti, devo
anche ammettere che la democrazia deliberativa può coerentemente dire poco di
nuovo sulla prima, ed offrire un contributo prevalentemente negativo sulla seconda – soluzioni comprensive di questi problemi richiedono assunzioni contenutistiche
che non possono essere pregiudicate dalla teoria, se non nella misura in cui essa
afferma che debbano essere compatibili con la pratica deliberativa, la possibilità della quale deve rimanere prioritaria se si vogliono perseguire giustizia e razionalità nel
mondo.
Riguardo il primo aspetto, la prospettiva deliberativa non differisce da quella più
genericamente democratica nel far notare come tra le condizioni fattualmente necessarie per garantire il rispetto dei diritti ci sia l’accountability delle istituzioni deputate a sanzionarli. Se manca la responsività democratica, anche i tentativi d’intervento meglio intenzionati finiscono per divaricarsi pericolosamente dalle opinioni di
chi vi è soggetto, se non altro per motivi cognitivi, lasciando aperto uno spazio potenzialmente crescente per la violenza. D’altronde, in assenza di una relazione democratica è ben difficile controllare che le intenzioni siano poi così buone. Qui non c’è
nulla di originale: la deliberazione, rappresentando un’approfondimento e una radicalizzazione del significato della democrazia, rende lampanti le già chiare ragioni per
evitare approcci alle istituzioni internazionali e globali che passino completamente
“sopra la testa” degli individui coinvolti.
Per quanto riguarda le forme che un sistema politico globale dovrebbe assumere,
le questioni sono più intricate. Una posizione statal-realista “dura” (ammesso che sia
davvero realistica) è di per sé incongrua con i princìpi democratico-deliberativi, per
le ragioni già osservate. Tuttavia, anche i tentativi di pensare istituzioni propriamente globali presentano rischi per la deliberazione. Molti propongono la costituzione di un parlamento globale,111 sia questo una evoluzione di, oppure in competi111.C. Hamer, A Global Parliament: Principles of World Federation, CreateSpace, 1998; R. Falk e
A. Strauss, “Toward Global Parliament”, Foreign Affairs 80, no. 1 (2001): 212-20; D. Archibugi,
Parte seconda: Temi e problemi
- 201 -
zione con, gli organi delle attuali Nazioni Unite. Altri opterebbero per una
federazione mondiale con gli attributi tipici di uno Stato sovrano.112 La prospettiva
di un governo globale, a parte la reiterazione delle accuse di scarso realismo, risveglia anche lo spettro di un potere dispotico sfrenato e senza confini.113 Quello che
può essere considerato il mainstream cosmopolitico, per disinnescare questa obiezione, invece che di ‘governo’ preferisce parlare di ‘governance’,114 pensando a modelli nei quali istituzioni locali, globali, regionali e inter-statali convivrebbero con gli
Stati, ancora dotati del controllo quasi esclusivo (ad eccezione dei casi più urgenti,
come la prevenzione di un genocidio) dei mezzi di coercizione.115
I dettagli sono discutibili, e discussi da una letteratura sterminata, ma nelle linee
generali mi sembra chiaro che una struttura del genere sarebbe deliberativamente
raccomandabile, nella misura in cui permettesse di risolvere democraticamente l’attribuzione delle diverse competenze ai vari livelli decisionali. Solo così sarebbe possibile approssimarsi all’ideale, già anticipato,116 di una deliberazione che individua la
platea dei propri partecipanti in ragione delle questioni in discussione. In tal modo
‘chi’ decide ‘cosa’ potrebbe essere dinamicamente deliberato, attenuando, nella misura del possibile, l’arbitraria contingenza dei confini delle istituzioni politiche. Quanto
ampia o stretta sia questa misura lo si potrebbe osservare solo alla prova dei fatti. È
chiaro che tale punto d’osservazione non sarà raggiunto a breve, ma è rilevante chiarire come, anche per ragioni puramente deliberative, l’ideale verso cui orientarsi non
possa essere quello di una sovranità elevata a livello mondiale.
Tuttavia, s’incontra anche un problema assai meno contingente, derivante dal fatto che la critica contro la distinzione tra governance e government è corretta.117 Il
concetto di governance, per quanto sfumato (fumoso direbbero i critici),118 comunque
fa riferimento alla dimensione del problem-solving, si giustifica cioè sulla necessità di
risolvere pressanti questioni, od obbligare al rispetto di valori considerati imprescindibili. Argomentando secondo questi modi, però, non si può fondare un ordinamento
Cittadini del mondo.
112.E. E. Harris, Earth Federation Now: Tomorrow is Too Late, Sun City AZ: Institute for Economic Democracy, 2005.
113.N. Urbinati, “Can Cosmopolitical Democracy Be Democratic”.
114.D. Held e M. Koenig-Archibugi, a cura di, Global Governance and Public Accountability, Malden MA: Wiley-Blackwell, 2005.
115.D. Archibugi, Cittadini del mondo, cap. 4.
116.Vedi sopra, p. 161.
117.E. E. Harris, “Global Governance or World Government”, in Toward Genuine Global Governance: Critical Reactions to “Our Global Neighborhood”, a cura di E. E. Harris e J. A. Yunker, Westport CT: Praeger Publishers, 1999.
118.Il dizionario è d’altronde implacabile: «governance |ˈgəvərnəns| noun: the action or manner of
governing» (New Oxford American Dictionary).
- 202 -
5. Soggetti e oggetti della deliberazione
democratico-deliberativo, perché si tratterebbe una volta di più del contraddittorio
tentativo di definire teleologicamente un sistema politico. Difatti, una concezione
imperativa del diritto sarebbe la sola coerente con l’idea di impiegarlo come strumento per la soluzione di quei problemi la cui impellenza è considerata la principale
motivazione per un ordinamento globale. A necessità corrisponde coercizione, e ad
una legge intesa come comando dovrebbe accompagnarsi la panoplia degli apparati
coercitivi statali, o un suo equivalente, a livello mondiale.
Cercare di sfumare la questione, per esempio limitando al minimo indispensabile
il numero delle competenze da centralizzare, non risolve nulla. Infatti, chi decide di
tali attribuzioni, e giudica quali casi concreti vi ricadano, o ha a disposizione i mezzi
per obbligare gli altri a rispettare la decisione, oppure non li ha. Nel primo caso si
ricade su un concetto assoluto di sovranità che, seppure può non degenerare immediatamente in forme violentemente dispotiche, sarebbe impossibile esercitare razionalmente. Nel secondo caso, rimettendosi al consenso tra molteplici attori – che nel
modello ideale non sarebbero più solo gli Stati, ma livelli istituzionali molteplici,
anche locali – l’eventuale organo politico globale non potrebbe garantire l’implementazione delle proprie decisioni, e perciò potrebbe sì essere democratico, ma non si
potrebbe giustificare in forza della necessità di risolvere problemi impellenti o difendere valori irrinunciabili. Se, come nella proposta di Archibugi, i mezzi di coercizione
statali coesistessero con quelli globali, nel caso di un conflitto si tratterebbe solo di
vedere chi ne ha di più, per cogliere se poi l’esito sarà la tirannia, oppure l’inefficacia. Ma se invece la governance fosse qualcosa di rilevantemente diverso da ciò (a
parte che sarebbe preferibile cambiarle nome) il cosmopolitismo combacerebbe piuttosto bene con la revisione del concetto di diritto richiesta da un’opzione coerentemente deliberativa. Non si tratta però di un’opzione priva di ulteriori conseguenze.
L’implicazione più generale è che, in forza dei princìpi deliberativi, nessuna decisione coercitivamente applicabile (comando) può essere assegnata in ultima istanza
al livello globale.119 Se lo fosse, sfumerebbe la possibilità di distinguere tra le diverse
accezioni della sovranità,120 ricadendo in un modello incompatibile con la delibera119.Ad esempio, un eventuale parlamento mondiale, più che di fare leggi, potrebbe occuparsi di
proporre l’articolazione volta per volta più appropriata delle competenze di governance tra gli organismi, invece, dotati di strumenti coercitivi, o di rispondere ad istanze in merito provenienti da
cittadini singoli e associati; in entrambi i casi, però, senza imporre la propria decisione con la forza.
In un certo senso questo corrisponde al modo in cui oggi perlopiù funzionano (male) le risoluzioni
dell’ONU; il vantaggio da cercare in un ordinamento cosmopolitico non sta in un aumento immediato dell’efficienza nell’implementazione, bensì nel fatto la maggiore democraticità dell’istituzione
in questione e un riconoscimento più appropriato del suo ruolo, fuori dal paradigma del comando,
potrebbero contribuire all’autorevolezza di un’influenza non coercitiva. Considerazioni analoghe
varrebbero per le corti giudiziarie internazionali, rispetto alle quali l’urgenza non è assegnar loro
maggiori poteri, bensì trovare il modo di connetterle alla partecipazione democratica.
120.Sopra, n. 23, p. 168.
Parte seconda: Temi e problemi
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zione. La possibilità di distinguere la sovranità come concetto giuridico e/o descrittivo e la sua perniciosa applicazione all’azione politica, infatti, richiede che si possa
distinguere un esterno e un interno;121 il che corrisponde d’altronde all’idea per cui
un significato positivo della sovranità potrebbe darsi soltanto di fronte ad altre sovranità.122 In questo senso, l’idea che un governo mondiale tenderebbe intrinsecamente alla tirannia è persuasiva anche per ragioni puramente deliberative, senza essere sfiorata dalla distinzione terminologica tra governance e government.
Perciò, quella di fondare le ragioni del cosmopolitismo sulla necessità non è una
via particolarmente raccomandabile. Di fatto, sarebbe difficile pronunciare in pubblico una frase del genere, di fronte a problemi la cui soluzione è letteralmente necessaria per la sopravvivenza della specie umana. Se però guardassimo alla duplice evidenza che, mentre non ci sarebbe modo di garantire che un governo privo di limiti si
occupasse davvero del bene comune,123 allo stesso tempo la sussistenza di qualsiasi
ordine giuridico-politico si basa su una diffusa accettazione che fattualmente potrebbe sempre venire a mancare;124 allora potremmo accorgerci di come l’idea, a prima vista così ragionevole, di elaborare progetti istituzionali globali in funzione della
soluzione di problemi sia tendenzialmente incompatibile con l’esercizio della
razionalità.
Dunque, anche se un ordinamento deliberativo cosmopolitico è la condizione perché i problemi globali possano (perlomeno possano) essere affrontati razionalmente,
non lo si può progettare teleologicamente in funzione di essi. Il rovescio della medaglia è che non si può “garantire”, attraverso una coercizione centralizzata, né la sopravvivenza dell’umanità, né il rispetto dei diritti – compreso, paradossalmente, il
diritto alla partecipazione democratica. Entrambe le cose rimangono in ultima istanza esposte alla contingenza della politica; una contingenza che certamente corre
121.Senz’altro, anche entro il paradigma classicamente statale, tale distinzione è di fatto problematica: A. Arato e J. Cohen, “Banishing the Sovereign? Internal and External Sovereignty in
Arendt”, Constellations 16, no. 2 (2009): 307-30. Questa di per sé non è una obiezione fatale, dato
che si applica a gran parte delle distinzioni politiche, nella misura in cui sono sempre anche normative. Il punto però è che, se la coercizione fosse formalmente attribuita ad un unico organismo mondiale, quale che questo fosse, la distinzione diverrebbe insensata, non più soltanto criticabile da un
punto di vista realistico-descrittivo.
122.N. Urbinati, “Can Cosmopolitical Democracy Be Democratic”.
123.Certo, si potrebbe dire che anche un despota avrebbe interesse alla propria sopravvivenza, non
fosse per il fatto che nel corso della storia tiranni e, più recentemente, dittatori totalitari, hanno
ben mostrato fin dove può spingersi la follia autodistruttiva.
124.Questo non è che il rovescio della «testa di Gorgone del potere» che si trova davanti chi indaghi l’origine fattuale del diritto: H. Kelsen, “Die Gleichheit vor dem Gesetz im Sinne des Art.109
der Reichsverfassung” (Conferenza: Verhandlungen der Tagung der Deutschen Staatsrechtslehrer zu
Münster i.W. am 29 und 30 März 1926, Berlin, Leipzig, 1927). Sulla concezione del potere, benché
questa non possa entrare nella teoria deliberativa stricto sensu, dirò qualcosa nel prossimo capitolo
(§ 6.2).
- 204 -
5. Soggetti e oggetti della deliberazione
sempre il rischio di autodistruggersi nella violenza, ma che è anche la condizione di
possibilità dell’agire razionale. D’altronde, poiché questa condizione si può eludere
solo nella fantasia, per chi desideri un po’ di giustizia, resta soltanto l’incerta prospettiva di una democrazia deliberativa cosmopolitica.
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed
episteme
Mi sembra che l'idea che possa esistere uno stato di comunicazione tale che i giochi di verità
possano circolare senza ostacoli, senza vincoli e senza effetti coercitivi appartenga all'ordine
dell'utopia. Significa proprio non vedere che le relazioni di potere non sono qualcosa di cattivo in sé, da cui bisogna affrancarsi... (Michel Foucault, L’etica della cura di sé come pratica di libertà)
L’intreccio tra le definizioni dei soggetti, degli oggetti e degli spazi della deliberazione democratica, la cui articolazione è stata ripercorsa nei due precedenti capitoli,
concorre a determinare la polarità tra esclusione ed inclusione nelle teorie e nelle
prassi deliberative. Qualsivoglia caratterizzazione della deliberazione, sia questa puramente procedurale – come sostengo debba essere – o ancor più evidentemente se
anche contenutistica, produce effetti esclusivi, ed è tuttavia inevitabile se alla democrazia deliberativa si vuole dare un significato. Benché sempre presente, la tensione
tra inclusione ed esclusione è particolarmente problematica riguardo i criteri di validità che la comunicazione tra i partecipanti deve rispettare per contare come
deliberazione.
La prassi deliberativa presuppone di fondare non soltanto la propria legittimità,
ma anche la validità cognitiva dei propri risultati sull’essere inclusiva,1 come minimo
nel senso della rappresentazione, pur mediata, dell’universalità e dell’imparzialità
dal punto di vista di tutti i coinvolti. Tuttavia, le istanze normative che definiscono
la tendenza della democrazia deliberativa verso “buoni” risultati inevitabilmente
esercitano effetti esclusivi nella prassi. Essendo i partecipanti per definizione liberi di
discutere e decidere secondo il proprio giudizio, mentre d’altro canto una delibera1. Per questo motivo, il problema sollevato dall’esclusione non è necessariamente da intendere in
termini morali, come lesivo del pari rispetto per ciascuno; giacché un’istanza inclusiva è sempre
avanzata anche soltanto da un punto di vista cognitivo.
- 206 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
zione di qualità sembra richiedere modi di comportamento assai specifici, è chiaro
come la possibilità, prontissima ad attualizzarsi, di una contraddizione sia intrinseca
alla teoria normativa.
A partire da qui, la mia intenzione è duplice. Da un lato, attraverso la considerazione del ‘come’ si delibera, desidero connettere il tema dell’inclusione e dell’esclusione con quelli trattati nei capitoli precedenti, d’altra parte e più radicalmente vorrei svilupparne le implicazioni in modo da mettere in luce la tensione tra le istanze
pratiche ed epistemiche della teoria deliberativa. In poche parole: le qualifiche cognitive e morali agganciate alla deliberazione inevitabilmente si pongono in un certo
contrasto con l’inclusione universale sulla quale pur dovrebbero fondarsi. La questione è stata talvolta rimossa e più spesso affrontata in modo poco convincente, il
mio parere è che si tratti di un’aporia radicale e che come tale meriti di essere indagata, non prima però di avere affrontate alcune distinzioni utili per sfuggire dall’imprecisione che spesso piaga questo tipo d’indagini.
***
Preliminare al discorso di cui sopra è la messa a fuoco di due modi d’intendere la
normatività della teoria deliberativa. Da un lato, la posizione fin qui sostenuta,
contro gli scivolamenti verso descrizioni teleologicamente orientate, ha enfatizzato la
dimensione istituzionale. D’altro canto, poiché l’istituzionalizzazione di spazi deliberativi procede essa stessa dalla deliberazione come attività normativamente definita
da specifiche caratteristiche discorsive, è da considerare anche l’aspetto per cui tale
normatività si rivolge alla condotta individuale dei partecipanti. In altre parole, una
teoria deliberativa, consapevole di non potersi affidare alla descrizione di contesti sociali favorevoli, si risolve nella posizione di princìpi per la progettazione di istituzioni
adeguate alla prassi deliberativa; ma per far ciò deve previamente avere di questa
prassi un’idea, cui corrisponderà ad un orientamento normativo dal punto di vista
dei possibili partecipanti. Questo secondo aspetto, rimasto qui finora secondario ma
rilevante nella letteratura deliberativa, coincidente per l’appunto con la regolazione
delle modalità d’interazione, è quello da cui sorgono più direttamente i maggiori
problemi.
Vero è che ogni definizione comporta un’esclusione, tanto di più se legalmente
stabilita. Però, adottando una posizione puramente procedurale, tale delimitazione
coincide integralmente con quella della democrazia deliberativa stessa, senza pregiudicare contenuti ulteriori – in questo senso l’etichetta ‘spazi deliberativi’ è appropriata, rimandando all’immagine di un’area delimitata e distinta da altre, ma di per
sé vuota e pronta ad ospitare contenuti diversi. Perciò, qui i problemi che una posizione procedurale può trovarsi di fronte sono soltanto pragmatici, motivazionali oppure d’applicabilità, non toccando direttamente la coerenza della teoria. Di nuovo,
Parte seconda: Temi e problemi
- 207 -
paradigmatico è il caso dell’ethos democratico, corrispondente ad un’abitudine alla
partecipazione politica diffusa attraverso una società civile vivacemente comunicativa: condizione fattualmente necessaria, e al contempo notevole forza motivazionale,
per la deliberazione democratica, tuttavia esterna all’elaborazione della teoria in
quanto tale. Viceversa, il modo in cui i soggetti deliberativi interagiscono corrisponde per definizione ad un contenuto non identico ai princìpi della democrazia deliberativa; ma poiché l’autonomia dei partecipanti, sebbene solo in senso politico, è
presupposta dalla deliberazione, ogni limitazione posta alle modalità discorsive – persino se formale da un punto di vista etico-individuale – pone un problema
di coerenza tutto interno alla teoria.
Poiché, anche nell’occuparsi di istituzioni, la democrazia deliberativa non può fare
a meno del riferimento ad una prassi discorsivamente valida, il problema dell’esclusione si riverbera su questo piano, colpendo però in un modo soltanto mediato, e
precisamente mediato dalla stessa prassi della deliberazione. Che certi spazi deliberativi siano progettati in modo da favorire un orientamento imparziale implica certo
il riferimento ad una norma di condotta, eppure non è proprio equivalente ad un’applicazione di tale prescrizione diretta e costante per la durata della deliberazione.2
Ad esempio, nel modello del trial by jury, per la selezione dei giurati entrambe le
parti godono di un potere di veto quale garanzia d’imparzialità, e nella stessa logica
alla giuria è impedito l’accesso ad informazioni considerate pregiudizievoli; ciò configura una procedura senz’altro discutibile e perfettibile,3 e tuttavia ben diversa da
una nella quale un ipotetico ufficiale incaricato potesse intervenire e togliere la parola a questo o quel giurato perché egli ha fatto un uso parziale, o in qualsiasi modo
scorretto e censurabile, della propria libertà discorsiva.4 Se quest’ultimo fosse il
caso – e forse così è per le giurie miste, prevalenti fuori dalla common law – la procedura non potrebbe essere considerata democratica e deliberativa. Dunque, seppure
è vero che non è possibile derubricare il problema dell’esclusione a questione meramente etica, neanche si deve commettere il complementare errore di considerare la
2. Una distinzione che anche i critici delle limitazioni al dibattito imposte da alcune versioni della
democrazia deliberativa sono pronti a riconoscere, vedi: B. Yack, “Rhetoric and Public Reasoning,”
p. 428.
3. Per esempio, soggetti colpiti da pregiudizi sociali sono spesso ingiustamente esclusi dalla selezione, mentre d’altro canto la scelta circa quali informazioni siano rilevanti, e quali invece pregiudizievoli, pone sulle spalle del giudice un onere decisionale altamente problematico.
4. La definizione stessa del trial by jury implica l’estraneità del giudice dalla deliberazione, strettamente riservata ai soli membri della giuria. D’altra parte, anche le sentenze emesse dal singolo
giudice, che pur essendo parte dell’ampio contesto della discussione giurisprudenziale non originano
da una deliberazione tra più soggetti, possono essere smentite ed annullate ex-post, in quanto viziate da imperfezioni formali o sostanziali, ma non sono soggette ad alcun controllo preventivo che
possa impedire al magistrato di pronunciarle.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
definizione di uno spazio deliberativo come equivalente alla diretta prescrizione di
ciò che è permesso, o vietato, dire.
Pure – in parte a causa di pervicaci confusioni concettuali – già alcune limitazioni
formali, prima facie compatibili con il proceduralismo della teoria, hanno suscitato
notevole dibattito, producendo una polarità tra i sostenitori di una deliberazione più
inclusiva o, invece, orientata da rigorosi criteri di razionalità. I termini in questione
possono cadere sotto molte denominazioni: retorica, narrazione, emozione, agonismo,
particolarità, concretezza, da un lato; contro, dall’altro, argomentazione, dibattito,
razionalità, consenso, universalismo, astrattezza. Nel prossimo paragrafo farò riferimento alle varie sfumature, con l’intento però di ricondurle ad una distinzione più
generale, giacché anche da questo punto di vista ciò che conta è prima di tutto l’atteggiamento teleologico, o meno, tenuto dalla teoria.
6.1. Sulle modalità comunicative
6.1.1 Retorica e democrazia deliberativa
È relativamente incontroverso che nella politica, e tanto di più in quella democratica, la parola occupi un ruolo centrale. L’approccio deliberativo non ha fatto altro
che riprendere ed enfatizzare, soprattutto contro gli eccessi di una parte delle scienze
sociali, un’attenzione alla comunicazione linguistica ben presente nella tradizione
della teoria politica, antica e moderna.5 Tuttavia, la deliberazione si definisce per il
suo orientamento verso la ragionevolezza, ma non qualsiasi modalità comunicativa è
da considerare razionale in un contesto decisionale, lo è il discorso argomentativo,
non lo sono gli insulti,6 o le minacce. In altri casi la collocazione è più incerta: è ragionevole, oppure no, fare appello alle emozioni, valutare il carattere personale al di
là delle posizioni sostenute, impiegare artifici retorici, narrare storie, invocare identità particolaristiche, contrattare o richiamarsi ad interessi particolari? Ed inoltre, per
queste come per altre analoghe domande, la risposta sarebbe sempre la medesima, o
varierebbe assieme alla situazione contingente?
Per tali riguardi, la democrazia deliberativa è stata spesso accusata – talvolta facendo tutt’un mazzo di approcci alquanto diversi7 – di assumere una posizione ecces5. Vedi anche: B. Fontana, “Rhetoric and the Roots of Democratic Politics”, in Talking Democracy, a cura di B. Fontana, et al., University Park PA: Pennsylvania State University Press, 2005.
6. Ciò non significa che, di fatto, perfino gli insulti non giochino un ruolo politico rilevante; soltanto non hanno niente a che fare con la deliberazione, pace: G. Shiffman, “Construing Disagreement”, Political Theory 30, no. 2 (2002): 175-203.
7. Tra i fautori della retorica, una parziale eccezione è quella di Bryan Garsten, che pur criticando la democrazia deliberativa (primariamente Habermas e Rawls), nota come vari altri autori –
Manin, Bessette, Ackerman – avanzino un’idea della deliberazione più aperta alla retorica: B. Gar-
Parte seconda: Temi e problemi
- 209 -
sivamente intellettualistica, o razionalista che dir si voglia. Vale a dire che, risalendo
fino all’ispirazione kantiana, ai teorici della deliberazione si imputa la volontà d’istituire una separazione tra ragione e passione, argomentazione e retorica, che sarebbe
impossibile e/o controproducente mantenere nella realtà:
La critica di Kant contro la retorica eredita il punto di vista per cui questa esercita influenza appellandosi alle passioni, e non al giudizio, considerando le due cose
reciprocamente indipendenti. Da un punto di vista kantiano, le emozioni sono sentimenti, capacità di provare sensazioni psicologiche di piacere o dolore. Queste possono talvolta accompagnare stati cognitivi, ma sono di per sé stesse prive di qualsiasi
dimensione epistemica. Ne segue che gli appelli alle emozioni ci influenzano al di là
dei nostri giudizi. Quindi, essi rendono l’agente passivo, forzato ad agire senza deliberazione razionale e privo di scelta. Le emozioni sono stati psicologici che ci influenzano e talvolta ci sopraffanno, non corrispondono a condizioni liberamente
scelte. Perciò, influenzare degli agenti appellandosi alle emozioni significa renderli
non-liberi. Dunque la retorica è da rigettare come incompatibile con la ragione e
l’autonomia.8
In tale contesto, la rivalutazione della retorica (nel senso lato di cui s’è detto) può
assumere almeno due significati. Con uno sguardo freddamente realistico, tra Cicerone e Machiavelli, può essere uno strumento in mano alle élite, per controllare ed
indirizzare un demos per lunga tradizione impervio alla razionalità. In senso opposto, da un punto di vista critico-emancipativo, l’accettabilità di forme retoriche al di
là di una concezione ristretta della razionalità discorsiva è il segnale dell’apertura
verso istanze di giustizia che gli oppressi, proprio perché tali, potrebbero non essere
in grado di articolare in raffinate argomentazioni.9
Ora però, anche prescindendo dagli opposti significati che le critiche anti-razionaliste possono assumere, attribuire alla democrazia deliberativa tout court una concezione restrittiva della comunicazione pubblica sarebbe erroneo. Non tanto perché si
potrebbe fare appello al dualismo tra spazi deliberativi formali e informali,10 come
sten, Saving Persuasion: A Defense of Rhetoric and Judgment, pp. 187 ss. Certo, messi in fila questi nomi, anche volendo concedere il punto riguardo Habermas e Rawls, ci si potrebbe chiedere se
rimanga molto della critica alla democrazia deliberativa come approccio complessivo.
8. J. O’Neill, “The Rhetoric of Deliberation: Some Problems in Kantian Theories of Deliberative
Democracies”, Res Publica 8, no. 3 (2002), p. 264, traduzione mia. Vedi anche: F. Arenas-Dolz, “Il
luogo delle passioni nella deliberazione”.
9. Si può puntare l’attenzione su diversi fattori di esclusione, economici, socio-culturali, sessuali,
ma lo schema della critica rimane analogo, vedi ad esempio: N. Fraser, “Rethinking the Public
Sphere”; L. M. Sanders, “Against Deliberation”; I. M. Young, Inclusion and Democracy, pp. 36 ss;
M. Huspek, “Normative Potentials of Rhetorical Action Within Deliberative Democracies”, Communication Theory 17, no. 4 (2007): 356-66.
10. Così ad esempio Kenneth Baynes difende la propria interpretazione della ragione pubblica: K.
Baynes, “Habermas on Deliberative Democracy and Public Reason” (Conferenza: Philosophy & Society Colloquium, Roma, 2010). Queste argomentazioni, come le critiche cui rispondono, possono
- 210 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
nella concezione “a doppio binario” già criticata nel capitolo quarto; quanto piuttosto perché un’accusa del genere si basa su un notevole slittamento concettuale. Vero
è che la situazione discorsiva ideale e la posizione originaria di Rawls si richiamano
all’esempio kantiano, e proprio nel senso di escludere gli elementi incompatibili con
una razionalità universalizzante. Però, altrettanto vero è che si tratta di argomentazioni filosofiche, non di progetti presuntivamente realizzabili in concreto. La situazione discorsiva ideale è esplicitamente posta come controfattuale ricostruzione delle
condizioni di possibilità di ogni atto linguistico che avanzi pretese di validità;11
mentre per Rawls la posizione originaria e la ragione pubblica non corrispondono a
progetti politici, bensì a prospettive per il giudizio. E, sebbene l’adesione a tali disposizioni sia, a parere di Rawls, moralmente doveroso, esse non possono certo essere
coercitivamente imposte.12 Perfino l’ideale dell’autonomia, come argomentato nel
precedente capitolo, per la democrazia deliberativa è da intendere in senso esclusivamente politico e procedurale, niente affatto contenutistico, men che meno
“metafisico”.
Benché l’etica del discorso e il liberalismo di Rawls possano essere criticabili, sia
come teorie morali sia come prospettive per il giudizio politico,13 e se si vuole anche
per la specifica ragione d’essere ostili alla retorica,14 il punto rilevante è che nessuna
avere un valore descrittivo e/o prudenziale, ma non toccano il significato della democrazia deliberativa specificato nel corso di questa tesi.
11. J. Habermas, Fatti e norme, pp. 382-83. Habermas ha contribuito a creare fraintendimenti, definendo talvolta la situazione discorsiva ideale come se implicasse un orientamento teleologico verso
una specifica forma di vita, il che accadeva peraltro in una fase piuttosto precoce della sua elaborazione: J. Habermas, “Osservazioni propedeutiche per una teoria della competenza comunicativa”, in
Teoria della società o tecnologia sociale, Milano: ETAS, 1973, p. 94. Ad ogni modo, è chiaro che lo
stesso autore non intende, o non intende più, tale ideale come un telos concretamente realizzabile.
Per questo motivo, non è corretto imputare una fallacia su questo punto, magari nella forma di una
residua “teologia politica”: C. Invernizzi Accetti, “Can Democracy Emancipate Itself From Political
Theology? Habermas and Lefort on the Permanence of the Theologico-Political”, Constellations 17,
no. 2 (2010): 254-70 (sono comunque grato all’autore per aver portato il punto alla mia attenzione). Una tale ipostasi, semmai, potrebbe rilevarsi passando da una critica del ruolo della Lebenswelt e della società civile, sul genere di quella qui avanzata nel capitolo quarto.
12. Sulla posizione originaria: J. Rawls, Una teoria della giustizia, pp. 112-113, 127-128. Il rispetto
per la ragione pubblica è esplicitamente indicato come un dovere morale, non legale: J. Rawls, Liberalismo Politico, pp. 186-87.
13. Nonché, certo, anche per il loro sfondo interpretativo più generale, come ad esempio la concezione habermasiana della modernità; ma una parte consistente del lavoro di questa tesi consiste nel
distaccare la democrazia deliberativa da queste premesse, che finirebbero per coincidere con un’incongrua giustificazione teleologica. Il fatto che la più gran parte delle critiche si appunti su questi
elementi rappresenta un indizio collaterale a favore della posizione qui sostenuta.
14. Chiaramente, quanto sto qui argomentando non dev’essere confuso con l’idea che Habermas,
Rawls e altri teorici non possano essere effettivamente critici contro l’uso politico della retorica (ad
esempio, ancora recentemente: J. Habermas, “Political Communication in Media Society: Does Democracy still Enjoy an Epistemic Dimension?”, Communication Theory 16, no. 4 (2006): 411-26); il
Parte seconda: Temi e problemi
- 211 -
delle due posizioni corrisponde alla democrazia deliberativa in quanto tale, sebbene
entrambe potrebbero di fatto favorirla – il che peraltro non si può verificare se non,
contingentemente, nella prassi.
Ma che dire allora di proposte come quella avanzata da Joshua Cohen, che esplicitamente si presentano come la traduzione politica dei suddetti ideali, peraltro in
ciò corrispondendo alla posizione sostenuta da questa tesi?15 Ebbene, neppure una
posizione così “razionalista”,16 se correttamente intesa, cade sotto la critica avanzata
da parte “retorica”. Infatti, il carattere deliberativo dell’azione politica è descrivibile
soltanto in modo strettamente procedurale, il che significa che nella definizione delle
istituzioni deliberative non c’è posto per raccomandazioni morali e/o prudenziali rivolte ai singoli interagenti – per quanto queste possano essere o sembrare necessità
di fatto. Conseguentemente, è chiaro come un possibile bersaglio valido della critica
anti-razionalista sarebbero, invece, quelle posizioni che pretendono di trasporre direttamente una filosofia morale in un ordinamento coercitivo – come arrivano pericolosamente vicini a fare Gutmann e Thompson, per ciò già criticati.17 Si tratta di
esempi facili da attaccare, ed anche per questo motivo spesso citati, lontani però dal
coincidere con l’intero della democrazia deliberativa, o con le posizioni filosofiche di
Rawls, Habermas e, men che meno, Kant.
Certo, tracciare la linea dell’ostilità verso la retorica indietro fino a Platone, come
spesso accade in questo tipo di critiche,18 proietta un’ombra più scura, dato il disprezzo del filosofo per la democrazia. Tuttavia, è da tenere presente che, se pure si
può individuare una tradizione razionalista ed anti-retorica, sprezzante verso le irragionevoli passioni, che da Platone arriva fino a Kant, e sebbene sia innegabile che il
filosofo di Königsberg rappresenti una rilevante radice, benché lontana, dell’approcche però è cosa diversa dal pensare che la democrazia dovrebbe tout court impedire certi modi
d’espressione. In effetti, soprattutto per il discorsivismo, è vero che la condanna morale della retorica riposa sull’equazione con la coercizione eteronoma, in quanto uso perlocutivo del linguaggio. Se
però il punto dei “retorici” fosse, come in larga parte è, quello di spezzare tale equazione, alla fine
dei conti resterebbe una divergenza meramente terminologica.
15. Vedi sopra, pp. 51-54 e 153. Mi riferisco qui al Cohen “prima maniera”, pur anche in questo
caso escludendo la possibilità di fare riferimento ad un criterio epistemico esterno (d’altronde annunciato ma non espresso nei saggi dell’86 e dell’89); la rielaborazione più “liberale” degli anni ‘90
(J. Cohen, “Procedure and Substance in Deliberative Democracy”) è invece problematica, per le
ragioni già addotte contro le teorie contenutistiche.
16. Persino indicato ad esempio di presunte tendenze platoniche: G. Shiffman, “Platonism in
Contemporary Democratic Theory,” pp. 91 ss.
17. Vedi sopra, pp. 94 ss. Ma si veda anche: M. E. Warren, “Deliberative Democracy,” pp. 181-82.
D’altro canto, si deve notare come Guttman e Thompson non siano affatto ostili alla retorica per
se: A. Gutmann e D. Thompson, Democracy and Disagreement, pp. 132 ss.
18. Senza dimenticare Hobbes, più direttamente avvicinabile, via Rousseau, alla posizione di Kant,
vedi: B. Garsten, Saving Persuasion: A Defense of Rhetoric and Judgment, capp. 1- 3. Ad ogni
modo, Garsten è troppo svelto nel depoliticizzare il ruolo del giudizio nella filosofia kantiana.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
cio deliberativo, ciò non implica che si possa tracciare una linea continua tra l’atteggiamento di Platone verso la politica e l’attuale democrazia deliberativa. Insinuare
questa poco plausibile connessione costituirebbe per l’appunto un cattivo uso
dell’arte retorica, giacché il punto di partenza per la deliberazione sta proprio nel
negare che chicchessia possa in solitudine determinare il bene ed il giusto, e tanto di
meno imporli legittimamente ad altri. Dunque, salvo (forse) poche parziali eccezioni,19 è scorretto affermare che «nel quadro dell’autonomia kantiana la deliberazione
pubblica è naturalmente trattata come una mera estensione della deliberazione individuale».20 D’altra parte, seppure si volesse sottoscrivere l’accusa di “monologismo”
spesso rivolta a Kant – rinunciando magari a notare il significato politico del giudizio e dell’uso pubblico della ragione – basterebbe considerare soltanto la struttura
trascendentale del suo idealismo per comprendere come, al contrario che in Platone,
non ci sia alcuno spazio per autorità filosofiche che dettano come devono agire i cittadini, e tanto meno i contenuti che debbono scambiarsi nella loro comunicazione
politica (cosa della quale, in effetti, Kant sembra essersi occupato poco o nulla).
La struttura degli spazi deliberativi dev’esser tale da consentire il dialogo tra i
partecipanti e l’autonomia discorsiva di ciascuno di essi, ma questo implica che,
mentre nessuna modalità comunicativa può essere esclusa a priori, il successo o l’insuccesso di ciascuna nell’ottenere consenso (quindi, oltre un certo limite, anche la
sua applicabilità) sarà determinato dal giudizio dei medesimi partecipanti al dibattito, né potrebbe essere diversamente. Dunque, un approccio deliberativo coerentemente procedurale ha da essere massimamente razionalista – non riconoscendo alcuna intrinseca validità ad arrangiamenti istituzionali diversi da quelli ottimali per una
ragionevole discussione – e però al contempo aperto verso ogni modalità comunicativa, proprio perché riconosce come l’unica chance per una politica razionale si trovi
nella più ampia possibilità per ciascuno d’esercitare autonomamente il proprio giudizio. Soltanto la prassi condivisa di quest’esercizio, pur sempre molto contingente,
permette di stabilire se possano esservi, e volta per volta in quale misura, modalità
d’espressione più o meno adeguate di altre. Infatti, è evidente come persino quei casi
davvero indifendibili, ad esempio l’aperta minaccia di violenza, non possano essere
eliminati dal discorso politico con un fiat etico-filosofico (e chi mai si sognerebbe di
proporre un’idea del genere?) perché un eventuale divieto richiederebbe sempre d’essere applicato attraverso un giudizio sul contenuto e sull’intenzione degli atti in que-
19. La più rilevante potrebbe essere quella di Robert Goodin (vedi sopra, p. 4, nota 3), anche quest’eccezione appare però limitata, se soltanto si guarda alle opere più recenti del medesimo autore:
R. E. Goodin, Innovating Democracy.
20. P. Nieuwenburg, “Learning to Deliberate: Aristotle on Truthfulness and Public Deliberation”,
Political Theory 32, no. 4 (2004), p. 450, traduzione mia.
Parte seconda: Temi e problemi
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stione, il che può soltanto spostare il problema da un contesto decisionale ad un
altro, senza per nulla dispensare dalla contingenza dell’interazione tra i partecipanti.
Certamente, anche qui è immediato osservare che, se i partecipanti in questione
assumeranno atteggiamenti indebitamente esclusivi, sarà commessa un’ingiustizia ai
danni di chi volta per volta si trovi svantaggiato ed oppresso, indebolendo o distruggendo la qualità della deliberazione.21 Tuttavia, altrettanto chiaro sarà come questi
problemi si possano affrontare solo entro la medesima prassi politica. Ogni regola
abbisognando d’essere applicata e rispettata da persone ben concrete, una teoria politica può al più sperare di determinare le condizioni perché sia possibile agire giustamente, non garantire che ciò accada.22 Si possono scrivere leggi e costituzioni che
sanciscano la massima libertà d’espressione, e la protezione dei diritti individuali,
ma in ciascuna singola istanza un’applicazione inclusiva delle norme dipende sempre
anche dalle decisioni di uno o più inter-agenti. A partire da qui, si potrebbe poi argomentare a favore di un’etica politica con i suoi contenuti specifici (sul genere della
ragione pubblica in Rawls), ma questa può essere una conseguenza della democrazia
deliberativa, non il suo principio. Ciò che la teoria normativa può affermare è che le
decisioni politicamente rilevanti debbano essere collettivamente deliberate, senza
illudersi di predeterminarne l’esito – il che, sì, sarebbe una fallacia tipicamente
platonica.
Perciò, anche prescindendo da indebite forzature nella ricostruzione di alcune posizioni, la querelle tra retorica e argomentazione razionale non può nemmeno porsi
nei termini di cui sopra. Piuttosto, la difesa della retorica, da Aristotele e Cicerone
in poi, potrà avere un duplice valore, quale descrizione realistica, se tale riesce ad essere, di quanto accade nella discussione politica e come orientamento prudenziale rivolto a singoli agenti (pur in quest’ultimo caso assumendosi un onere dimostrativo
sconfinato, data l’impossibilità di valutare per intero le conseguenze dell’agire politico). La rivalutazione della retorica può certo arricchire la nostra comprensione della
politica. Questo può avvenire anche contro le posizioni di alcuni teorici deliberativi,
benché spesso il punto del contendere sia stato frainteso. Però, in nessun caso la
“questione retorica” importa conseguenze sistematiche per la democrazia deliberati21. Che i partecipanti siano in grado di «riconoscere le ragioni degli altri come ragioni può essere»,
ed è, «una questione socio-culturalmente contingente»: M. S. Williams, “The Uneasy Alliance of
Group Representation and Deliberative Democracy,” p. 124.
22. Dopotutto, la celebrata township coloniale è stata anche «il trampolino di lancio per la caccia
alle streghe»: J. Elster, “The Market and the Forum: Three Varieties of Political Theory,” p. 117,
traduzione mia. Più recentemente, la tornata di town meeting dell’estate 2009 sembra aver giocato
un ruolo importante nel deteriorare, non migliorare, la qualità del dibattito sulla riforma sanitaria
promossa dal partito democratico. Ovviamente, nessuna istituzione, per quanto partecipata e deliberativa, può garantire decisioni corrette – di conseguenza, però, anche i critici dovranno fare a
meno di assumere come parametro implicito proprio quest’irraggiungibile garanzia.
- 214 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
va che, se correttamente intesa, non implica alcuna ostilità verso il modello inclusivo
di discussione politica difeso dai “retorici”.
***
Un esempio spesso citato, quello del dibattito nel senato statunitense circa il riconoscimento ufficiale del simbolo di un’associazione chiamata United Daughters of the
Confederacy,23 mostra come l’impiego di strategie retoriche – qui inteso in quanto
necessario all’espressione del punto di vista degli oppressi – lungi dallo smentire
l’ideale deliberativo, ne richieda anzi una realizzazione particolarmente esigente.
L’United Daughters of the Confederacy è l’associazione delle discendenti dei combattenti nell’esercito confederato durante la guerra di secessione, dedicata a preservare la memoria storica del valore dei soldati sudisti.24 Nel simbolo dell’associazione
è inclusa la bandiera della confederazione, e a tale simbolo era stata in passato riconosciuta dal senato una special design patent. Nel maggio del 1993, a fronte della richiesta di rinnovare il prestigioso riconoscimento, il Judiciary Committee dava parere negativo (con voto di 13 contro 2), in ragione dell’opposizione espressa e
argomentata dalla senatrice Carol Moseley Braun.25 La bandiera della confederazione, un simbolo connesso alla schiavitù, non meritava l’approvazione ufficiale del
senato degli Stati Uniti.
Tuttavia, il 22 luglio, i senatori Jesse Helms26 e Strom Thurmond27 re-inserivano il
riconoscimento come emendamento ad un diverso provvedimento. Avvertita dell’accaduto, la senatrice Moseley Braun prendeva la parola per argomentare contro
l’emendamento, proponendone la soppressione. Però, le stesse argomentazioni che
avevano persuaso il committee, non convincevano l’intero senato, che votava (52-48)
contro la mozione Moseley Braun per la soppressione dell’emendamento HelmsThurmond. La senatrice prendeva di nuovo la parola per chiedere di riconsiderare la
votazione appena effettuata. Questa volta, però (ed ecco siamo al punto), ella abbandonava i toni calmi e razionali del precedente intervento, passando ad uno stile
retorico sempre più infiammato, mentre ricordava ai suoi colleghi – novantasei dei
23. A. Gutmann e D. Thompson, Democracy and Disagreement, pp. 135-36; I. M. Young, Inclusion
and Democracy, pp. 54-55; M. S. Williams, “The Uneasy Alliance of Group Representation and Deliberative Democracy,” pp. 146 ss; C. M. Walls, “You Ain’t Just Whistling Dixie: How Carol Moseley-Braun Used Rhetorical Status to Change Jesse Helms’ Tune”, Western Journal of Communication 68, no. 3 (2004): 343-64.
24. http://www.hqudc.org/
25. Democratica, eletta per l’Illinois nel 1992, sconfitta dall’avversario repubblicano nel 1998. Finora unica donna di colore ad essere stata senatrice.
26. Repubblicano, eletto in North Carolina per cinque volte, dal 1973 al 2003.
27. Senatore del South Carolina dal 1956 al 2003, inizialmente Democratico, passato nel 1964 con i
Repubblicani a causa del dissenso sulla legislazione dei civil rights.
Parte seconda: Temi e problemi
- 215 -
quali bianchi – gli orrori della schiavitù e le ingiustificabili apologie di essa da parte
del governo della confederazione, la cui bandiera il senato pareva voler onorare.
Dopo numerosi interventi in un acceso dibattito, il senato votava prima a favore
(76-24) del punto di procedura per la ripetizione del voto, e quindi approvava
(75-25) la mozione per la soppressione dell’emendamento Helms-Thurmond, con ciò
negando il riconoscimento al simbolo dell’United Daughters of the Confederacy.
Questo episodio viene tra le altre cose portato ad esempio di come argomentazione e retorica non si escludano necessariamente (Guttman e Thompson), o non
siano neppure così distinguibili (Young), ma nell’insieme è presentato soprattutto a
dimostrazione del fatto che le minoranze oppresse – o, in questo caso, una loro rappresentante – possono aver bisogno di uscire dai convenzionali confini del discorso civile e razionale per ottenere ascolto, dunque per ampliare i limiti del dibattito e con
ciò migliorarne la qualità inclusiva. Fin qui nessun problema, dato che la teoria deliberativa non deve pretendere di definire in anticipo come i partecipanti possano portare avanti le proprie idee: Carol Moseley Braun ha parlato, pur impiegando un certo stile retorico (d’altronde, non si dà alcuna comunicazione priva di forma, e
nessuno stile è neutro), non ha usato violenza, né impedito ad altri di esprimere la
propria opinione.
Il punto però sta nell’osservare il contesto, lo spazio deliberativo, nel quale si è
potuta svolgere la vicenda descritta. Il senato degli Stati Uniti è tradizionalmente
definito the world greatest deliberative body,28 e benché tale qualità sembri essere in
via di deterioramento, sommersa dalla crescente acrimonia partitica, pure quel tanto
o poco che rimane di essa – magari nel 1993 più di oggi, pur se è almeno dagli anni
settanta che si lamenta il peggiorare delle condizioni di civility29 – è ciò che ha reso
possibili episodi come quello descritto, e si può far risalire in larga parte proprio a
quelle caratteristiche strutturali corrispondenti ad un modello normativo consensuale, razionalista ed astratto del discorso politico.
Il senato statunitense è un’istituzione segnatamente anti-maggioritaria. Una minoranza può tenere aperta indefinitamente la discussione su qualsiasi misura (filibustering), a meno del voto di 60 senatori per concludere il dibattito (cloture);30 in
28. B. A. Loomis, “Civility and Deliberation: A Linked Pair?”, in Esteemed Colleagues, a cura di
B. A. Loomis, Washington DC: Brookings Institution, 2000, p. 1. Dopo un decennio, la situazione
appare significativamente peggiorata rispetto a quella descritta dai saggi raccolti nel volume.
29. E. M. Uslaner, The Decline of Comity in Congress, Ann Arbor MI: University of Michigan
Press, 1993, cap. 1. Non manca chi fa notare come già dalla metà del diciannovesimo secolo regni
la nostalgia per “i bei tempi andati”: W. L. Rawls, In Praise of Deadlock: How Partisan Struggle
Makes Better Laws, Baltimore MD: The Johns Hopkins University Press, 2009, pp. 40-42.
30. M. B. Gold, Senate Procedure and Practice, Lanham MD: Rowman & Littlefield, 2008, pp. 45
ss. Sul ruolo delle procedure nella deliberazione vedi anche: L. C. Evans e W. J. Oleszek, “The
Procedural Context of Senate Deliberation”, in Esteemed Colleagues, a cura di B. A. Loomis, Wa-
- 216 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
molti casi, un singolo senatore può bloccare (hold)31 tanto il voto per confermare le
nomine presidenziali, quanto l’esame di provvedimenti legislativi. Queste ed altre
analoghe procedure possono rallentare di molto lo svolgimento degli affari politici,
fino anche a fermarlo del tutto nel caso di contrapposizioni radicali.32 Se, nonostante
ciò, il senato riesce talvolta ad agire, è in buona parte grazie al piccolo numero dei
senatori (100, contro, ad esempio, 435 membri nella house of representatives, 630
nella camera dei deputati italiana e 736 nel parlamento europeo). Le caratteristiche
procedurali del senato, i pochi membri, ed il fatto che questi siano eletti in collegi
uninominali (com’è noto corrispondenti agli Stati)33 con un voto usualmente assai
personalizzato, concorrono a definire un contesto nel quale ogni senatore gode di
ampia indipendenza rispetto ai suoi colleghi ed al partito di appartenenza. Fuori
dalle aule di Capitol Hill, i senatori devono certo rispondere ai loro elettori, mentre
la pressione esercitata dalle lobby appare sempre crescente; tuttavia, anche per questi rispetti, il potere personale e i sei anni di durata del mandato consentono maggiore indipendenza ai senatori rispetto ai membri di altri organi parlamentari.
Non si tratta qui di idealizzare il senato, istituzione capace di dare pessima prova
di sé. Piuttosto, si deve riconoscere come siano la relativa indipendenza e il distacco
rispetto alla “concreta” realtà sociale, vale a dire proprio gli elementi corrispondenti
ad un modello di razionalità astratta e consensuale, a consentire il successo di azioni
come quella della Moseley Braun. A meno della struttura aperta del dibattito, a
meno del diritto all’interdizione ampiamente riconosciuto ai singoli senatori, a meno
del rispetto delle formali regole di civility da parte dei suoi colleghi, la senatrice non
avrebbe potuto condurre in porto la propria retorica. In una diversa assemblea, ampia per poter essere più rappresentativa delle minoranze, e sottoposta a maggiore
controllo da parte dei gruppi sociali, magari organizzata da disciplinate strutture
partitiche, ben difficilmente ci sarebbe stato modo di riaprire la discussione dopo la
prima votazione, tanto meno prolungarla per il tempo sufficiente a mutare l’opinione
dei colleghi. La vicenda si sarebbe probabilmente risolta in una contrapposizione
“muscolare” tra schieramenti pre-definiti – il cui corrispettivo non metaforico è il rishington DC: Brookings Institution, 2000.
31. M. B. Gold, Senate Procedure and Practice, pp. 84-85.
32. «... i senatori possono discorrere pacatamente, tenendo però a portata di mano l’arma
dell’ostruzionismo»: E. M. Uslaner, “Is the Senate More Civil than the House”, in Esteemed Colleagues, a cura di B. A. Loomis, Washington DC: Brookings Institution, 2000, p. 34, traduzione
mia.
33. Che ogni stato abbia diritto a due senatori determina una rappresentanza diseguale (e in modo
crescente) dal punto di vista del numero di cittadini, il che sembra avere conseguenze piuttosto dirette anche sulla capacità deliberativa dei senatori, vedi: F. E. Lee e B. I. Oppenheimer, Sizing Up
the Senate: The Unequal Consequences of Equal Representation, Chicago, London: University Of
Chicago Press, 1999.
Parte seconda: Temi e problemi
- 217 -
corso alla violenza34 – e dunque: vinca il più forte, non certo il più oppresso o il più
giusto.
Vero è che se non ci fosse stato alcun senatore a rappresentare la prospettiva dei
cittadini afroamericani, la deliberazione sarebbe risultata impoverita e la misura ragionevolmente considerata ingiusta sarebbe stata approvata, com’era accaduto in
precedenza. Ed in effetti è stata a lungo la norma che non fossero presenti membri
dei gruppi sociali svantaggiati, comunque pressoché sempre sotto-rappresentanti.35
Se però la ristrutturazione della rappresentanza comportasse l’abbandono o l’indebolimento di quelle caratteristiche che definiscono la qualità deliberativa di uno spazio politico, è perlomeno dubbio che i precedentemente esclusi – divenuti partecipanti ad un contesto nel quale è più difficile, o al limite impossibile,36 sollevare istanze
di validità al di là della mera contrapposizione numerica, nella quale risulterebbero
pur sempre in minoranza – si troverebbero più liberi e in condizioni di fatto migliori.
Questo è solo un esempio, e come tale non dimostra propriamente nulla. Anzi,
per quanto spesso citato, è particolarmente facile da attaccare. La questione discussa era altamente simbolica, ma non coinvolgeva rilevanti interessi socio-economici.
D’altronde, le regole che hanno consentito l’espressione della senatrice Moseley
Braun sono le stesse per cui, nel caso specifico, gli esteemed colleagues Helm e Thurmond hanno potuto inserire il loro emendamento in una votazione completamente
irrelata; le stesse norme che spesso favoriscono manovre “di corridoio” tutt’altro che
deliberative.
Qui però non si tratta di compiere l’impossibile dimostrazione che specifiche istituzioni, o magari un sistema deliberativamente ideale, implichino una tendenza oggettiva verso risultati buoni e giusti. Diversamente, il punto è che la possibilità di
prendere in considerazione qualunque tipo di istanza di validità, comprese quelle qui
raccolte sotto la rubrica della retorica, ha per condizione l’esistenza di un appropriato spazio deliberativo. Gli stessi atti di “rottura” dell’ordine discorsivo – nelle forme
miti impiegate dalla senatrice Moseley Braun, come così in quelle più traumatiche di
manifestazioni di protesta, disubbidienza civile, insurrezioni violente, rivolte e rivolu34. Il celebre dictum di John Dewey, per cui i voti (ballots) non sono che un sostituto dei proiettili
(bulletts), è pericolosamente convertibile nei due sensi.
35. Nel momento in cui scrivo, di nuovo non c’è nessun senatore afroamericano, mentre diciassette
sono le donne e solo due gli ispanici. In altri paesi la situazione è relativamente migliore, soprattutto per quanto riguarda la rappresentanza femminile, ma non credo si possa trovare un solo caso in
cui i gruppi socialmente svantaggiati non siano sotto-rappresentati nelle istituzioni.
36. Questo limite non è un’innocente astrazione, giacché una mediazione tra le esigenze della rappresentanza descrittiva e quelle della deliberazione avrebbe l’effetto di riconoscere alcune minoranze
ma non altre, riproducendo indebite esclusioni e rendendo dubbia l’opportunità di rilassare i criteri
deliberativi. Viceversa, il punto limite di una rappresentanza perfettamente descrittiva, se fosse
raggiungibile, sarebbe tout court incompatibile con la deliberazione. Vedi anche sopra, pp. 175 ss.
- 218 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
zioni – o trovano un punto d’arresto in un adeguato spazio deliberativo, nel quale
sia possibile almeno in certa misura discutere liberamente, oppure possono produrre
un giusto risultato, per qualsiasi definizione di ‘giustizia’, soltanto in modo del tutto
casuale. Il che, vista la numerosità degli esiti possibili nella maggior parte delle situazioni, non lascerebbe molte speranze. In altre parole, l’articolazione di una comunicazione politica più inclusiva di quella raccomandabile da un punto di vista rigidamente razionalista ha comunque per condizione di possibilità l’esistenza di
procedure deliberative istituzionalizzate secondo princìpi discorsivi astrattamente
egalitari.
6.1.2 Esclusione e razionalità discorsiva
Quanto detto finora risponde all’accusa per cui la democrazia deliberativa sarebbe
tutta animata dall’intento di escludere ogni forma discorsiva considerata non
conforme ad un ristretto e predeterminato modello di razionalità. Tuttavia, si potrebbe sostenere che, sebbene pochi pronuncino divieti contro questa o quella forma
comunicativa, effetti analogamente esclusivi derivino da uno sfondo filosofico che,
non sufficientemente problematizzato, influenza o determina il giudizio circa le strutture istituzionali – così, ad esempio, la Young critica quelle che considera assunzioni
condivise, però soltanto implicitamente, dalla maggior parte dei teorici deliberativi.37
Proprio il senato statunitense – come visto poc’anzi per il modo di elezione, per le
convenzioni di comportamento e per la composizione – potrebbe rappresentare un
esempio negativo in merito.38 In tale contesto, la motivazione critico-emancipativa a
favore della pluralità di forme retoriche, che a questo punto deve ampliarsi in una
posizione più generalmente “anti-razionalista”, assume maggiore rilevanza. Giungendo al livello per cui, all’accusa d’essere indebitamente esclusiva, non si potrebbe sottrarre neanche la definizione degli spazi deliberativi che dovrebbero rappresentare la
condizione per l’espressione libera del giudizio, dunque per la potenziale razionalità
della politica, si metterebbe in dubbio la possibilità della deliberazione, anche come
ideale normativo.
Per meglio inquadrare la questione è bene fare qualche passo indietro. Chiaro è
come l’approccio deliberativo alla teoria democratica rappresenti, tra le altre cose,
un tentativo recente di dare risposta all’interrogativo di come si possa fondare la validità di un ordine politico, ed eventualmente favorirne la stabilità, in un mondo nel
quale certezze circa il bene e la giustizia non hanno molto corso. Questo mondo è
quello del weberiano «politeismo dei valori», nel quale Rawls può constatare il «fatto del pluralismo», dunque moderno e ancora a maggior ragione contemporaneo.
Tuttavia, il problema di base è il medesimo che già affliggeva Platone, di fronte al
37. I. M. Young, Inclusion and Democracy, pp. 36-51.
38. Si ricordino anche le posizioni della Young in merito ai sistemi elettorali, vedi sopra, § 5.1.2.
Parte seconda: Temi e problemi
- 219 -
caos e all’ingiustizia osservabili nella polis. Radicatasi però l’idea che le medesime
condizioni d’intelligibilità della realtà siano un prodotto storico-sociale, nient’affatto
sottratto alla variabilità tipica di tale ambito, lo scettico non ha più bisogno di impegnarsi a confutare il tradizionale antagonista dogmatico; non è neppure il caso
d’elaborare dubbi sofistici sulla realtà così come la percepiamo, perché il punto è che
le nostre visioni del mondo, tutt’altro che illusorie ed anzi ben effettuali, non sarebbero che il prodotto (più o meno arbitrario, oppure a sua volta etero-determinato)
del potere e, come eventuale corollario, dell’oppressione di coloro cui capita d’averne
meno ad opera di chi ne ha di più. Questa descrizione è certo una banale caricatura,
ma, come accennato nel capitolo primo, una volta storicizzata la ragione, persa poi
la fede nella razionalità della storia, è perlomeno facile cadere nel cinismo circa la
possibilità di libertà e giustizia in questo mondo.
Dato che tale possibilità è il tema di fondo della democrazia deliberativa – il cui
intento più generale sta per l’appunto nel costituire spazi politici nei quali si possano articolare ragioni, non soltanto rapporti di forza – l’idea che la sua realizzazione
sia non solo difficoltosa (com’è ovvio) ma persino impossibile in linea di principio,
dal momento in cui si presupponesse che le istanze discorsive non fossero separabili
dall’esercizio del potere, parrebbe chiaramente esiziale.
La disputa circa la possibilità di distanziare le pretese di validità discorsiva dalla
sfera del potere come dominio – tra la teoria critica e il post-strutturalismo/postmodernismo – ha infuriato soprattutto tra la gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, ma
le sue code proseguono tutt’ora, benché i principali protagonisti abbiano da tempo
smesso di partecipare alla discordia.39 L’asse del dibattito incrocia l’interpretazione
storico-sociale (soprattutto Habermas vs Foucault)40 con la filosofia in senso più
39. L’avvicinamento personale (ma in certa misura anche politico, vedi: G. Borradori, et al., Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Roma-Bari: Laterza, 2003), pur
nelle divergenze filosofiche, tra Derrida ed Habermas è noto, mentre abbondano nella letteratura
secondaria letture tendenti ad accostare l’opera quest’ultimo a quella di Foucault, nel comune intento critico che differirebbe più per oggetto che per ispirazione: D. Ingram, “Foucault and Habermas”, in The Cambridge Companion to Foucault, a cura di G. Gutting, Cambridge: Cambridge
University Press, 2005; T. Biebricher, “Habermas and Foucault: Deliberative Democracy and Strategic State Analysis”, Contemporary Political Theory 6 (2007): 218-45; peraltro, tale accostamento
non è una novità recente: E. Bahr, “In Defense of Enlightenment: Foucault and Habermas”, German Studies Review 11, no. 1 (1988): 97-109.
40. N. Fraser, “Foucault on Modern Power: Empirical Insights and Normative Confusions”, Praxis
International 1 (1981): 272-87; J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, lezioni 9-10; M.
Kelly, Critique and Power: Recasting the Foucault/Habermas Debate, Cambridge MA: MIT Press,
1994; M. King, “Clarifying the Foucault-Habermas debate: Morality, ethics, and normative foundations”, Philosophy & Social Criticism 35, no. 3 (2009): 287-314. Certo, qui l’etichetta di “dibattito”
non è molto appropriata giacché, prematuramente scomparso, Foucault ha potuto dire assai meno
riguardo Habermas che non viceversa.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
stretto (Habermas ed Apel vs Derrida).41 Tuttavia, dal punto di vista della democrazia deliberativa – che ovviamente non figurava, ancora, tra gli oggetti del contendere – ci si può mantenere sul piano della teoria politica, evitando l’inane compito
di dar conto di un discorso che, a parte l’essere intessuto di reciproci fraintendimenti,42 potrebbe avere ramificazioni quasi nell’intera storia della filosofia.
Invero, si può anche notare come il nucleo più acceso del dibattito ruoti attorno
ad interpretazioni storiche, filosofiche e sociologiche che, rilevanti di per se stesse,
tuttavia corrispondono proprio a quel che non deve far parte di una teoria procedurale. Se ci troviamo nella modernità o nella post-modernità, nella metafisica del soggetto o fuori di essa, se la società sia integrata in ultima analisi attraverso l’interiorizzazione di norme oppure no; nulla di tutto ciò ha rilevanza per la teoria della
democrazia deliberativa, anche se può averne per le sua realizzabilità pragmatica.
Certo, la stessa possibilità di asserire una teoria del genere verrebbe negata da un
punto di vista ostile alle astrazioni normative, e su questo tornerò più avanti. Però,
la divergenza radicale osservabile su questo punto ricadrebbe, una volta tradotta in
termini politici (non etici, né tantomeno metafisici) o sulla deliberazione o su forme
politiche più autoritarie ed esclusive – presumibilmente invise alle posizioni filosofiche qui considerate – o, infine, semplicemente nell’inazione.
Quali che siano le loro motivazioni, i critici della razionalità o della possibilità di
elevare pretese di validità “pure”, possono rifiutare la deliberazione come procedura
democratica secondo due condizioni: perché impossibile/inutile, oppure perché hanno in mente un’altra forma decisionale sotto qualsivoglia aspetto migliore, meno
coercitiva, più aperta al conflitto radicale, meno fallologocentrica, o quel che si voglia (l’opzione di non avere bisogno di prendere decisioni, se pure fosse desiderabile,
non è disponibile). Il primo caso, scettico in senso stretto, non sembra essere molto
comune, e ad ogni modo rappresenterebbe una critica motivazionale affatto esterna;
potrebbe convincere semplicemente a lasciar perdere l’impegno politico, non a modificare la teoria deliberativa. Se però il caso è il secondo, si dovrà osservare quali siano le alternative proposte in grado di eliminare, o perlomeno limitare, l’oppressione
prodotta da un modello decisionale troppo razionalistico. La struttura degli argomenti dei critici, nonostante la varietà delle posizioni, dovrà sempre tendere verso
l’apertura, vale a dire verso modalità decisionali ancor meno costrette di quanto non
lo sia un modello discorsivo consensuale/universale/razionalista. Però, gli effetti pra-
41. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, cap. 7; L. Thomassen, a cura di, The Derrida-Habermas Reader, Chicago: University Of Chicago Press, 2006.
42. Un buon esempio si trova nell’ampia recensione/replica al Discorso filosofico della modernità:
J. Rajchman, “Review: Habermas’s Complaint”, New German Critique (45), no. 45 (1988): 163-91.
Parte seconda: Temi e problemi
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tici di tale istanza non potrebbero che corrispondere al modello radicalmente procedurale qui sostenuto, il cui punto focale sta nell’esclusione della coercizione.43
Non si può negare come l’idea che le decisioni collettivamente vincolanti debbano
essere prese a seguito di una discussione, per quanto possibile libera da costrizioni,
rimandi ad uno specifico modello di razionalità, caratteristicamente astratto e universalistico, e persino reo confesso del “fondazionalismo” di cui talvolta Habermas
viene accusato.44 Ma il proceduralismo della teoria non implica la ricerca della neutralità contenutistica. Di per sé, uno spazio deliberativo non è costruito per mettere
tra parentesi le differenze, soltanto bensì per consentirne l’espressione in un contesto
per quanto possibile libero da coercizione. Comunicazione, però, tra persone come
sono hic et nunc. Perciò, una volta che si sia precisato come il modello deliberativo
debba essere inteso in senso procedurale, senza pregiudicare risultati contenutistici
né premesse filosofiche comprensive, e dunque nello specifico:
• come i partecipanti giungano alla deliberazione con tutto il loro bagaglio di esperienze, conoscenze e, se è il caso, pregiudizi ed errori;
• come nessun contenuto o modo d’espressione (purché non violento) possa essere
prescritto o vietato “dall’esterno” o “a priori” rispetto alla deliberazione stessa;
• come proprio l’astratto proceduralismo della teoria consenta di non pregiudicare,
con indebite esclusioni, le concrete differenze tra i partecipanti;45
• e come tutto ciò riguardi la partecipazione politica, e non importi conseguenze dirette (i.e. non mediate dalla prassi deliberativa) sull’ordinamento di una società;
43. Una posizione sulla quale si può convergere da diverse posizioni: «il criterio che più chiaramente distingue un meccanismo decisionale deliberativo da uno non deliberativo è che, nell’ideale
regolativo, il potere coercitivo dovrebbe essere assente da meccanismi puramente deliberativi»: J.
Mansbridge, et al., “The Place of Self-Interest and the Role of Power in Deliberative Democracy”,
Journal of Political Philosophy 18, no. 1 (2010), p. 66, traduzione mia.
44. Forse a torto, vista la premura mostrata nel distinguere, su questo punto, il suo progetto da
quello di Apel. Poiché però sono proprio le più importanti distinzioni – segnatamente l’enfasi sociologica sul mondo della vita – a creare i maggiori problemi per la democrazia deliberativa, questa
potrebbe a maggior ragione assumere su di sé l’accusa di fondazionalismo teoretico-trascendentale.
45. Le critiche contro l’astrattezza, la purezza e l’“incorporeità” delle classiche concezioni occidentali della politica (vedi ad esempio: W. E. Connolly, “A critique of pure politics”, Philosophy & Social Criticism 23, no. 5 (1997): 1-26) sono legittime se rivolte ad una concezione comprensiva, che
pretenda di dire come devono essere i soggetti e il mondo sociale di questi. Lo stesso non vale tuttavia per una teoria procedurale, limitata al campo politico in senso proprio; qui la presupposizione
pratica che gli agenti possano interagire in quanto persone astratte non equivale all’affermazione
teoretica che essi siano, essenzialmente, soggetti incorporei. Piuttosto, come in parte già visto nel
capitolo precedente, perché sia possibile l’affermazione di una differenza contenutisticamente specifica – anche volendo ridurre per intero la politica a questioni di identità – senza che ciò equivalga
ad un’imposizione autoritaria, è necessario definire la persona come soggetto giuridico-politico privo di contenuto.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
ci si può finalmente chiedere in che cosa consisterebbe, in concreto, una maggiore
apertura, al di là dei limiti di un orientamento alla razionalità discorsiva considerato
parziale ed esclusivo. Di qui, esaminando cosa propongono coloro che criticano la deliberazione perché troppo “razionalistica”, si può facilmente osservare la brusca caduta del livello di problematizzazione, giacché ciò che si trova sono o prescrizioni
etiche e prudenziali – insufficienti per costituire un’alternativa – oppure tentativi più
o meno diretti di elaborare strutture istituzionali finalizzate ad obiettivi considerati
desiderabili. La prima opzione ricade tra le critiche già affrontate poche pagine sopra, e non inficia (semplicemente perché non riguarda lo stesso oggetto) il modello
qui ricostruito, anche se potrebbe contraddire i programmi filosofici di Rawls, Habermas o d’altri teorici vicini alla deliberazione. Ma il punto saliente è che la seconda opzione corrisponde per definizione ad un surplus di “razionalità esclusiva”, traducendosi proprio nell’imposizione di un telos sottratto alla possibile deliberazione.
Che poi, in astratto, questa finalità possa essere denominata emancipazione, non
cambia il fatto che ogni sua traduzione concreta costituirebbe un’infrazione della libertà comunicativa dei partecipanti.46
Invero, a dispetto dei gesti verso la différance,47 o dell’evocazione di strategie foucaultiane,48 ciò che rischia di emergere è una versione semplicistica, decisamente prepost-moderna, del modo di pensare della teoria critica d’ascendenza marxista. Vale
a dire: come se l’emancipazione umana si potesse raggiungere a seguito di un progetto razionale, elaborato dal filosofo e consegnato alle masse per dissiparne la falsa coscienza. Certo, i critici del razionalismo della democrazia deliberativa non sono così
ingenui da sottoscrivere una posizione del genere, ma non potendo sostenere l’idea di
proporre/imporre “dall’esterno” rimedi per l’oppressione e il dominio che pur sempre
inficiano la qualità della partecipazione democratica, finiscono per ricadere su posizioni in linea di principio non diverse dal modello che erano partiti col criticare.
Così, ad esempio, Adam Przeworski – dopo avere argomentato che la deliberazione rischia d’essere inutile, o controproducente, nelle attuali condizioni in cui
l’ideologia dominante opera a danno degli oppressi – finisce per enunciare il principio per cui, quando si pensa che gli altri abbiano torto riguardo i loro stessi interessi
fondamentali, ciò che si può fare è «convincere, ma non prevaricare [override]».49 Ma
dov’è che quest’opera di persuasione potrà mai svolgersi, se non in uno spazio deliberativo appropriatamente costituito, tale da consentire un dialogo tra pari, anziché
46. Come si è visto riguardo la teoria della rappresentanza della Young (sopra, § 5.1.2), ciò finisce
per accadere anche a dispetto degli espliciti tentativi di evitarlo.
47. I. M. Young, Inclusion and Democracy, pp. 127 ss.
48. T. Biebricher, “Habermas and Foucault: Deliberative Democracy and Strategic State
Analysis”.
49. A. Przeworski, “Deliberation and Ideological Domination,” p. 155.
Parte seconda: Temi e problemi
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l’indottrinamento dei molti ad opera dei pochi? Dunque, può anche darsi che la deliberazione sia usata come uno tra i vari mezzi per implementare la dominazione ideologica, il punto è però che la democrazia deliberativa rappresenta il solo mezzo attraverso cui è possibile (mai sicuro) evadere tale dominazione.50
Analogamente, per ampliare la rappresentatività della deliberazione a favore dei
gruppi sociali svantaggiati, Lynn Sanders e Iris Marion Young desiderano includere
forme retoriche diverse (testimonianza, narrazione, espressioni di reciproco riconoscimento, e così via),51 ma – a parte l’ovvia osservazione che non è prudente assumere
che i potenti si astengano dall’avvantaggiarsi delle stesse opportunità espressive, né
che gli oppressi siano ipso facto meno capaci di razionalizzare – è stato già notato
come questa retorica possa essere significativamente impiegata soltanto in un contesto discorsivo, il quale a sua volta si dà solo a condizione di certi limiti e regolazioni.52 Senza la possibilità di far riferimento ad un comune spazio deliberativo almeno
minimamente efficace, l’uso di qualsiasi forma retorica si risolverebbe tutt’al più nel
“predicare ai convertiti”, coloro che già condividono finalità analoghe e un comune
linguaggio per esprimerle, senza favorire alcun processo inclusivo. Così sarebbe già
per definizione, partendo dal presupposto che la caratteristica saliente delle forme
“retoriche” sia la capacità di esprimere un concreto particolarismo.
Se queste posizioni sono ancora vicine o interne al campo deliberativo, quasi lo
stesso si può ripetere per quei teorici che propongono un modello agonistico della
democrazia – esplicitamente posto in polemica alternativa a quello deliberativo da
Chantal Mouffe.53 Anche in questo caso, ciò che si osserva non è la contrapposizione
50. Qui ha ragione Rostbøll, «la connessione tra la critica dell’ideologia e la deliberazione, dunque,
non consiste nel potersi accusare l’un l’altro d’ingannarci ideologicamente [...] ma nel fatto che abbiano bisogno di una deliberazione non distorta per poter superare la nostra unilateralità ideologica»: C. F. Rostbøll, Deliberative Freedom, p. 140, traduzione mia. Vedi anche: A. Knops, “Delivering Deliberation’s Emancipatory Potential”.
51. I. M. Young, “Communication and the Other: Beyond Deliberative Democracy”; L. M. Sanders, “Against Deliberation”; I. M. Young, Inclusion and Democracy.
52. Credo si potrebbe rileggere in questo modo, a meno però dei riferimenti ad una società civile
sociologicamente intesa, la replica di Seyla Benhabib – che sostiene come anche per difendere forme
di comunicazione “retoriche” si dovrebbe in ultima istanza fare ricorso a risorse argomentative –
alla critica “comunicativa” della Young: S. Benhabib, “Toward a Deliberative Model of Democratic
Legitimacy,” pp. 82 ss; D. Held, Modelli di democrazia, pp. 422 ss.
53. C. Mouffe, The Democratic Paradox, London, New York: Verso, 2000; C. Mouffe, Sul politico:
democrazia e rappresentazione dei conflitti, Milano: Bruno Mondadori, 2007. Importanti per la prospettiva agonistica, e peraltro più direttamente incrociate con i temi della differenza, sono le opere
di William Connolly e Bonnie Honig, si vedano: W. E. Connolly, Identity/Difference: Democratic
Negotiations of Political Paradox, Minneapolis MN: University Of Minnesota Press, 2002; S. A.
Chambers e T. Carver, a cura di, William E. Connolly: Democracy, Pluralism and Political Theory, New York: Routledge, 2008; B. Honig, Political Theory and the Displacement of Politics, Ithaca
NY: Cornell University Press, 1993; B. Honig, “Difference, Dilemmas, and the Politics of Home”.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
tra teorie normative della democrazia, bensì un confuso dibattito che oscilla tra ispirazioni etiche, programmi politici concreti e visioni complessive di quale sia l’essenza
della politica.54 Intendendola come una concezione comprensiva della politica, o magari non riconoscendo affatto la distinzione pratica tra essere e dover essere, alla democrazia deliberativa si può rimproverare il tentativo di una «sussunzione egemonica» della posizione agonistica, cui verrebbe negata persino la dignità di un
avversario.55 Prescindendo dalla parte che si voglia prendere nella questione, il punto
è che l’accusa potrebbe funzionare soltanto contro una teoria deliberativa che pretendesse d’essere allo stesso tempo una descrizione esaustiva della politica e/o della
società, ed anzi di derivare da questa la propria validità normativa – per l’appunto
la forma tipica di un discorso egemonicamente oppressivo: «le cose non possono essere che così, dunque non ha senso comportarsi se non nel tal modo». Ma, di nuovo,
questo sarebbe proprio il tipo di teoria escluso da questa tesi, perché in contraddizione con la libertà discorsiva che è il principio della deliberazione – viceversa, così
come non pregiudica specifici contenuti politici, un modello coerente di democrazia
deliberativa non prende affatto posizione su quale sia la migliore concezione descrittiva della politica, se consensuale, agonistica od altra ancora.
Perciò, Chantal Mouffe – assieme a molti altri, tra Carl Schmitt e i teorici postmoderni – potrebbe avere perfettamente ragione circa l’irriducibile conflittualità caratteristica del politico.56 Di conseguenza, potrebbe far bene a condannare (contro
ogni “terza via”) l’idea che il conflitto possa o debba essere trasceso in un’armonica
pace sociale. Potrebbe infine essere vero che la politica sia del tutto o in massima
parte riducibile ad una lotta per l’egemonia, nella quale nessun valore può elevarsi al
di sopra della mischia. Pure, o questa conflittualità radicale trova modo di esprimersi in contesti decisionali deliberativi – che non devono affatto presupporre il consenso quale esito obbligato – ovvero ricade su qualche forma di aggregazione di preferenze contrapposte, o sulla violenza pura e semplice, ed in entrambi i casi vince
54. Circa il dibattito democrazia deliberativa vs agonistica si vedano: J. S. Dryzek, “Deliberative
Democracy in Divided Societies”; A. Schaap, “Agonism in divided societies”, Philosophy & Social
Criticism 32, no. 2 (2006): 255-77; A. Knops, “Debate: Agonism as Deliberation – On Mouffe’s
Theory of Democracy”, The Journal of Political Philosophy 15, no. 1 (2007): 115-26; B. Honig,
“Between Decision and Deliberation: Political Paradox in Democratic Theory”, American Political
Science Review 101, no. 1 (2007): 1-17.
55. F. Gürsözlü, “Debate: Agonism and Deliberation—Recognizing the Difference”, The Journal of
Political Philosophy 17, no. 3 (2009): 356-68.
56. L’autrice tiene a precisare che alla politica si debba guardare (diversamente da come, a suo parere, fanno Connolly o Honig) come ad «uno spazio di conflitto e antagonismo»: C. Mouffe, Sul politico, p. 153. Peraltro, lo stesso Connolly discute direttamente le posizioni della Mouffe, ironicamente mettendo in luce il rischio di creare nuove esclusioni, in: W. E. Connolly, “Twilight of the
idols”, in William E. Connolly: Democracy, Pluralism and Political Theory, a cura di S. A. Chambers e T. Carver, New York: Routledge, 2008.
Parte seconda: Temi e problemi
- 225 -
sempre ancora il più forte. Chi non crede più ai provvidenziali appelli al cielo suggeriti a suo tempo da Locke, né a filosofie della storia deterministicamente progressive,
potrebbe di nuovo sospettare che questo forte vincitore non sia il più giusto, o il più
oppresso. Contrariamente a quanto da varie parti sostenuto,57 il proceduralismo della
teoria deliberativa non può avere nulla a che fare con tentativi di rendere neutrale, o
“spoliticizzare” la democrazia; al contrario rappresentando la condizione perché possa darsi una politica sensata, con tutta la sua eventuale conflittualità.
***
Quanto detto non costituisce una condanna, di per sé nemmeno una critica, delle
“politiche della differenza”, delle concezioni radicalmente conflittuali della politica o,
tantomeno, delle istanze critico-emancipative in generale. Soltanto, si dovrebbe far
attenzione a che nulla di tutto ciò interferisca nella specifica eguaglianza – che, pace
Marx, ha un significato proprio e solo in quanto astratta – necessaria alla libertà politica. L’alternativa sarebbe sempre quella di sovra-ordinare al principio puramente
procedurale della deliberazione una serie di finalità specifiche. Se però un esito del
genere può perlomeno avere un senso (ancorché malamente violento) per una prospettiva tecnocratica, per un’ideologia più o meno totalitaria o per una fede religiosa
integralista, esso non è compatibile con il punto di vista dei critici d’una razionalità
considerata limitata ed esclusiva. Infatti, il tentativo di elaborare teleologicamente la
struttura di un sistema decisionale, comporterebbe inevitabilmente un di più di “autoritarismo epistemico” – la presunzione di sapere in anticipo quali siano i risultati
giusti, migliori, corretti – che, anche se non si accettasse l’argomentazione qui proposta contro la teleologia, sarebbe comunque incongruo rispetto alla denuncia delle
indebite costrizioni, violenze e oppressioni imposte dalla “ragione”.58 Ad una teoria
deliberativa strettamente procedurale ed astratta si potrebbe arrivare altrettanto
bene partendo dalla negazione di quei limiti che si suppone caratterizzino una razionalità bisognosa d’essere decostruita.
Tuttavia, per comprendere appieno cosa qui sia in discussione, resta da esaminare
una condizione basilare più volte enunciata ma non ancora approfondita. L’argomentazione fin qui svolta per difendere la compatibilità (perlomeno la compatibilità) di
una struttura istituzionale deliberativa con prospettive post-moderne, agonistiche o
con le politiche della differenza, infatti, poggia su un concetto di democrazia come
57. A. Pintore, I diritti della democrazia; C. Mouffe, Sul politico; G. Preterossi, “Soggettività e artificio giuridico in Habermas”.
58. Questo non è sorprendente, giacché le critiche più rilevanti contro la ragione – o contro una sua
versione limitata ed unilaterale, direbbe Habermas – si appuntano proprio contro il suo carattere
intrinsecamente teleologico. Di questo non posso certo qui dare conto, mi limito però a segnalare
come gli argomenti contro l’impiego di strutture teleologiche nell’elaborazione di teorie politiche
non coincidano necessariamente con una critica della struttura teleologica della razionalità tout
court.
- 226 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
spazio politico normativamente definito, dunque a sua volta debitore della possibilità di distinguere normatività e fattualità. Però, questo è esattamente ciò che molti
dei critici della deliberazione (ed alcuni tra i suoi sostenitori), in un modo o nell’altro, negherebbero – è il punto da cui si è partiti: le pretese di validità non si separano dall’esercizio del potere. Come argomentato, a meno di ricadere nuovamente sulla
deliberazione quale alternativa alla violenza, anche se questa posizione fosse corretta, la conseguenza potrebbe essere solo l’abbandono dell’azione politica concreta.
Perciò, anche se molti, o tutti, gli autori citati obietterebbero all’etichetta, si può
qui porre la questione nei termini del confronto con una posizione ideal-tipicamente
scettica – ed in questo senso, discorsi tanto lontani e diversi tra loro, dal postmoderno alla teoria dei sistemi, fino al più generico “realismo politico”, si presentano in
certo modo analogamente di fronte alla democrazia deliberativa come teoria normativa. Questo confronto, però, non può essere superato a meno d’una revisione del
modo in cui il concetto di potere è impiegato dalla maggior parte degli autori deliberativi. Infatti, finché si rimane dell’idea che razionalità e potere siano due poli
contrapposti, sempre si dovrà concludere che il problema più rilevante sia quello di
separare la deliberazione dall’influenza distorsiva del potere. Ciò però è impossibile
di fatto e, quand’anche questa impossibilità fosse riconosciuta e realisticamente
affrontata (d’altronde la perfezione non è raggiungibile), comunque contraddittorio
con l’ideale di una deliberazione politica, che in quanto tale deve risolversi proprio
nell’esercizio di un potere.59 L’opposizione potere-razionalità è tipica della teoria critica, ma nel campo deliberativo è più generalmente diffusa, poiché anche i teorici repubblicani e liberali usualmente adoperano in modo analogo il concetto di ‘potere’.
La riconsiderazione di questo punto consente di raggiungere due risultati tra loro
intrecciati. Da un lato si chiarisce il senso per cui la deliberazione democratica rappresenta la condizione di possibilità per una giusta politica – nonostante prescinda
completamente dalla definizione di una specifica concezione della giustizia, ed anzi
proprio perciò. D’altro canto si può riprendere il punto del potere comunicativo, lasciato in sospeso al termine del capitolo terzo,60 tanto più rilevante dopo che l’altro
pilastro della teoria habermasiana – la società civile radicata nelle strutture del
mondo della vita – è stato dimostrato indisponibile per la democrazia deliberativa,
nel corso del capitolo quarto. Questa rielaborazione, beninteso, non è di per sé sufficiente a risolvere i problemi dovuti all’esclusione, che sempre si ripresentano nella
59. Talvolta, basta un titolo ad esprimere l’insensatezza in cui si avvita chi vuole escludere la considerazione del potere dai princìpi normativi: J. Mansbridge, “Using Power/Fighting Power: The
Polity”, in Democracy and Difference, a cura di S. Benhabib, Princeton: Princeton University
Press, 1996.
60. Vedi sopra, p. 115.
Parte seconda: Temi e problemi
- 227 -
politica, consente però di ottenerne un concetto adeguato ad affrontarli contingentemente nella prassi, che è tutto ciò che è possibile fare.
6.2. Il potere comunicativo
Il ‘potere’ è stato definito un «concetto essenzialmente contestato»;61 ma che si
concordi o meno con questa etichetta, il dibattito in merito è innegabilmente ampio
e vario, incrociando filosofia, teoria politica e scienze sociali, molto al di là di quanto
posso qui ripercorrere.62 In questo paragrafo vorrei presentare un concetto di potere
che non corrisponde a quello più comunemente impiegato (esplicitamente o meno)
nel panorama deliberativo, ma che può contribuire a chiarire le questioni sopra introdotte, seppur al prezzo di un detour, utile a rendere plausibile la sola rilevante
affermazione fattuale su cui si reggerà il discorso.
Benché le assunzioni necessarie per quest’opera siano tutto sommato minimali,
compiendola si uscirebbe dai limiti del puro proceduralismo, soltanto però se tale
concetto di ‘potere’ importasse conseguenze per la struttura della teoria normativa.
Ma non è questo il caso: un’appropriata concezione del potere ha per la democrazia
deliberativa rilevanza soltanto motivazionale, che diviene manifesta di fronte alla critica delineata nel precedente paragrafo. Invero, anche se qui il principale bersaglio
polemico è il modo in cui viene scorrettamente contrapposto (dalla teoria critica, o
da molte delle sue volgarizzazioni) il potere alla verità, facendo del primo un
tutt’uno con il dominio, anche questa configurazione concettuale rimane compatibile
con la democrazia deliberativa; benché mostri il fianco quando messa a confronto
con una posizione scettica circa la possibilità di separare le istanze di validità
dall’esercizio del potere.
In altre parole, la democrazia deliberativa resta normativamente indifferente rispetto alle diverse concezioni del potere, e non si deve pretendere di modificare quella in conseguenza di queste. Ad esempio, chi trovasse convincente la difesa della Teoria dell’agire comunicativo condotta in termini sociologici, potrebbe allo stesso
tempo accettare la correlativa idea del potere comunicativo, espresso dalla società
civile radicata nel mondo della vita, ed essere anche un sostenitore della deliberazione democratica – pur restando l’impossibilità di trarre conseguenze normative
dalla ricostruzione descrittiva, che per l’appunto può avere un ruolo solo motivazionale, se la si crede vera. Lo stesso vale per quelle teorie repubblicane e liberali che,
61. S. Lukes, Il potere: una visione radicale, pp. 41 ss., 72 ss., 121 ss. L’originale definizione, non
però applicata al potere, era in: W. B. Gallie, “Essentially Contested Concepts”, Proceedings of the
Aristotelian Society, New Series 56 (1955): 167-98.
62. Oltre al già citato Lukes, per una panoramica sulla questione si vedano: M. Haugaard, a cura
di, Power: A Reader, Manchester: Manchester University Press, 2002; G. Preterossi, Potere, RomaBari: Laterza, 2007.
- 228 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
in questi casi senza troppe pretese sociologiche, condividono in buona misura la
concezione del potere come dominio.63
Seguendo una schema abbastanza comune, il concetto di ‘potere’ cui perlopiù fa
riferimento la democrazia deliberativa, può ricadere sotto la definizione di ‘potere
su’ (esercitato da qualcuno ‘su’ qualcun altro), mentre il concetto che intendo discutere corrisponde a quello più ampio di ‘potere di’ (potere ‘di’ agire). La distinzione
può essere specificata attraverso molte sfumature,64 e la si può far risalire almeno
fino alle radici della modernità politica,65 ma il tratto più comune è la contrapposizione tra i due termini. Così, per Habermas, al potere comunicativo, normativamente valido, si contrappone quello amministrativo, necessario ma pur sempre problematico in quanto coercitivo;66 mentre nella propria indagine Lukes condannava
l’ingenuità, peraltro politicamente sospetta, delle teorie del ‘potere di’ avanzate con
intenti e modi diversi da Talcott Parsons e da Hannah Arendt.67
Come si vedrà meglio più avanti, una contrapposizione in questi termini è da
scartare, ed ancora a maggior ragione se normativamente connotata. Viceversa, il
dato formale da tenere presente è come il ‘potere di’ copra sempre il campo concettuale più ampio, del quale il ‘potere su’ occupa un sottoinsieme. Ciò è banale: l’esercizio della dominazione presuppone il ‘potere di’ dominare (il dominio può essere a
sua volta inteso come sottoinsieme del ‘potere su’, ma qui non mi occuperò di questi
dettagli). Discutibile – forse suscettibile di verifica empirica, o magari «essenzialmente contestato» – è se ogni ‘potere di’ implichi il dominio di alcuni su altri. L’im63. Ad esempio, il repubblicanesimo di Pettit, centrato sul concetto di libertà come non-dominio, è
tutto attraversato dalla mancata distinzione tra potere e dominio, vedi ad esempio: P. Pettit,
“Freedom as Antipower”, Ethics 106, no. 3 (1996): 576-604.
64. La coppia weberiana Macht/Herrschaft, pur includendo connotazioni ulteriori – prima di tutto
la spinosa questione della legittimità – corrisponde logicamente a quella tra ‘potere di’ e ‘potere su’.
65. Potentia e potestas corrispondono ai due usi generali del termine potere, vedi: C. Altini, “«Potentia» come «potestas». Un’interpretazione della politica moderna tra Thomas Hobbes e Carl
Schmitt”, La Cultura 46, no. 2 (2008): 307-28. Analogamente si può ricordare come Locke definisse
il concetto più generale di potere: «... la mente considera, riguardo ad una cosa, la possibilità che
alcune delle sue idee semplici siano cambiate e, riguardo ad un’altra, la possibilità di effettuare
quel cambiamento; e così giunge ad avere l’idea che chiamiamo potere» e «... l’idea della libertà è
l’idea del potere di un agente di compiere un’azione particolare o di astenersene» (J. Locke, Saggio
sull’ intelletto umano, Milano: Bompiani, 2007 cap. XXI, §§ 1 e 23.2). Mentre circa la politica, assai più recisamente, «Per potere politico intendo il diritto di fare leggi con penalità di morte, e per
conseguenza con ogni penalità minore»: J. Locke, Secondo trattato sul governo, Milano: Rizzoli,
1998, cap. I, § 3.
66. Vedi sopra, p. 140.
67. S. Lukes, Il potere: una visione radicale, pp. 42 ss. Tuttavia, lo stesso autore riconoscerà poi
come il dominio copra un sottoinsieme del più generale concetto di ‘potere di’: Ivi, pp. 80 ss., 120.
Sfortunatamente, nella traduzione italiana, power to è stato reso con ‘potere verso’, il che può
creare ulteriore confusione in un campo semantico già abbondantemente ambiguo.
Parte seconda: Temi e problemi
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plicazione inversa è però logicamente certa: il ‘potere di’ rappresenta per definizione
il concetto più generale. Perciò, pretendere che i due termini vadano contrapposti o
persino disgiunti,68 che la pretesa sia avanzata normativamente o descrittivamente, è
insensato prima che scorretto; sebbene questo errore sia reso comprensibile dal fatto
che l’estrema estensione di relazioni di dominio tenderebbe ad annullare la possibilità d’esercitare potere.
Questo per quel che riguarda la struttura puramente formale del concetto, ma la
più ampia concezione sullo sfondo è quella proposta da Hannah Arendt, che pure
non posso giustificare adeguatamente entro l’ampio discorso di cui sopra,69 cosa resa
complessa dai numerosi fraintendimenti interpretativi, quello habermasiano essendo
forse il più noto, succedutisi in merito. Nonostante ciò, il risultato che vorrei raggiungere è una ricostruzione, perlomeno abbozzata, del concetto di potere comunicativo – e si deve subito notare come il termine non appartenga alla Arendt quale categoria distinta dal potere in genere – come avrebbe potuto essere meglio inteso se
non fosse stato piegato ad una sociologia teleologicamente orientata. In altre parole,
si tratta di mostrare come la condizione di possibilità del potere sia il suo essere comunicativo, dipendente in ultima istanza da un accordo raggiunto linguisticamente.70
Questa, e non di per sé la definizione del concetto di potere, è la sola pretesa fattuale che qui è necessario avanzare.
Proprio ponendo la questione sul piano concettuale – differente da quello, lato
sensu sociologico, su cui si è svolta la maggior parte del dibattito – è possibile evitare di pregiudicare un orizzonte normativo specifico, perché non si pretende di
offrire una concezione della società o della politica. Questo vale a dire che non si
tratta di presentare un concetto del potere, come se fosse un dato di fatto riscontrabile empiricamente, per poi impiegarlo in una catena d’inferenze che potrebbe
concludersi in una visione comprensiva di come ci si dovrebbe comportare ed orga68. Nella teoria habermasiana il nesso tra potere comunicativo e amministrativo sussiste sì come
necessità sistemico-sociale, ma dal punto di vista degli agenti l’uno esclude l’altro. L’opinione pubblica nella società civile è “libera” dal potere di prendere decisioni, che implica coercizione, ed è
questo il principale motivo per cui dovrebbe poter svolgere il ruolo normativo assegnatole. L’idea
che la libertà debba coincidere con l’impotenza decisionale non mi è mai parsa convincente.
69. Ho cercato di offrire un’interpretazione più ampia della concezione arendtiana della politica,
che è strettamente intrecciata a quella del potere, in: G. Parietti, “On the Autotelic Character of
Politics”, European Journal of Political Theory (di prossima pubblicazione)
70. Qui adotto un significato ampio di ‘comunicativo’, che non implica necessariamente il discorso
razionale e l’argomentazione, solo bensì la comunicazione linguistica. Si potrebbe allargare ulteriormente il campo alla comunicazione non linguistica, ed è piuttosto chiaro quanto i simboli (dalla
bandiera al corpo del sovrano) siano importanti nella politica; tuttavia senza l’ausilio della parola
non è possibile “attivarli”, se non in un senso molto basilare (come le reazioni all’atto di profanare
un monumento), che non basta a coprire il concetto di potere, e che presuppone comunque un più
ampio contesto linguistico.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
nizzare la società. Viceversa, il modello deliberativo qui difeso deve rimanere indeterminato su questo punto, proprio perché ricostruito in senso radicalmente procedurale. Si può invece dire che, non pregiudicando alcuna concezione comprensiva
della politica, una teoria deliberativa adeguatamente deontologia tuttavia “inviti” ad
impiegare un concetto del potere come quello che sarà qui delineato; il che non sarebbe poi così diverso da quanto argomentato in Fatti e norme rispetto al potere comunicativo, a meno però dell’incongruo aggancio ad una sociologia descrittiva.
In altre parole, la relazione motivazionale tra la democrazia deliberativa e la
concezione del potere comunicativo potrebbe anche essere considerata bidirezionale,
ma l’elaborazione di entrambe le posizioni rimane logicamente indipendente; non ci
sarebbe alcuna contraddizione nell’accettarne una rigettando l’altra. Evitando di
giustificare la deliberazione in forza della necessità sociale del potere – necessità diretta di “potere” amministrativo, il quale però a sua volta richiederebbe una “fonte”
comunicativa – è possibile formarsi un concetto di questo potere che sia adeguato
alla democrazia deliberativa, senza perciò compromettere la possibilità di convergere
su di essa provenendo da differenti posizioni interpretative.
6.2.1 Sul concetto di ‘potere’
La prima cosa da tener presente nell’esaminare il potere è che si tratta per l’appunto
di un concetto, non di un oggetto o un insieme di oggetti osservabili empiricamente.
Sebbene poi il potere, in un modo o nell’altro, si riferisca sempre a delle azioni,71
non è neanche riducibile ad un’azione o insieme di azioni. Queste considerazioni
sono banali, eppure non oziose, giacché le discussioni in merito sono per la più gran
parte articolate attorno a questioni di fatto, persino quando esplicitamente presentate come indagini concettuali.72 Mi pare che ciò sia vero tanto nella letteratura ac71. Questo riferimento può essere molto mediato. Ad esempio prima Bachrach e Baratz (P.
Bachrach e M. S. Baratz, “Two Faces of Power”, The American Political Science Review 56, no. 4
(1962): 947-52) e poi lo stesso Lukes (S. Lukes, Il potere: una visione radicale, cap. 1.) mettevano
in evidenza – contro «l’errore di esercizio» attribuito a Dahl e all’approccio pluralista, vedi: R. A.
Dahl, Introduzione alla scienza politica – come si potesse parlare di potere in assenza di azioni direttamente osservabili; ma l’efficacia del «secondo» e del «terzo volto del potere», anche quando rimane nascosta agli stessi agenti, consiste pur sempre nell’ampliare le possibilità d’azione di alcuni,
limitando quelle di altri.
72. Vedi ad esempio il classico: T. Parsons, “On the Concept of Political Power”, Proceedings of
the American Philosophical Society 107, no. 3 (1963): 232-62; o, più recentemente: V. G. Ledyaev,
Power: A Conceptual Analysis, New York: Nova Science Publishers, 1998. Lo stesso Habermas (J.
Habermas, “La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt”) criticava la concezione
Arendtiana del potere come irrealistica, in primo luogo perché descrittivamente incompleta. Però
questa critica si potrebbe applicare alla descrizione di un oggetto o un fatto, mentre la definizione
di un concetto può esser detta parziale solo presupponendo che il concetto corretto sia un altro,
giustificato a sua volta in qualsivoglia modo. Ad esempio, se siamo d’accordo che abbia senso racchiudere certi eventi sotto la definizione di Rivoluzione francese, possiamo poi discutere su quale
spiegazione storica, filosofica o sociologica sia per essa più realistica e completa; ma se fossimo in
Parte seconda: Temi e problemi
- 231 -
cademica – qui spaziando dalla filosofia alla sociologia, fino alle scienze politiche empiriche – quanto e soprattutto nel corrente discorso pubblico.
Certamente, un approccio fattuale (sia esso storico o empirico-sperimentale) può
difendersi affermando di riconoscere la necessità di definire un “oggetto” complesso e
sfuggente qual è il potere, prima di poterlo osservare come fenomeno, ma di volere
formulare questa definizione rispondendo alla finalità di cogliere certi fatti in un
modo considerato degno di attenzione per qualsivoglia motivo, filosofico, storico o
scientifico. D’altra parte, ciò corrisponde alla struttura formale dell’indagine scientifica, almeno oltre un minimo livello di complessità. Così una particella subatomica è
definita da certe proprietà, niente affatto immediatamente evidenti, all’interno di
una teoria che è valida nella misura in cui permette di spiegare coerentemente e nel
modo più semplice il più ampio insieme di fenomeni empiricamente osservabili – se
poi ontologicamente i neutrini esistano o meno dovrebbe essere, dopo Galileo, una
questione priva di interesse da un punto di vista strettamente scientifico.
La prima differenza rilevante è che il fine con cui sono individuate le particelle
subatomiche è relativamente chiaro e condiviso – variazioni nella finalità possono
corrispondere all’uscita dai limiti disciplinari riconosciuti dalla comunità scientifica –
mentre gli scopi con cui può essere costruito un concetto da impiegare nell’analisi
sociale o storica sono sia più vari sia più controversi. Anche per questa ragione i
concetti significativi delle scienze sociali hanno ottime probabilità di risultare “essenzialmente contestati”; tentare di imporre in questo campo un’uniformità dei fini
analoga a quella esistente per la fisica assomiglierebbe più alla censura che ad un’impresa scientifica. La seconda divergenza è che, per indagare i fatti politici, gli esperimenti o non sono affatto disponibili (in ambito storico) o comunque non sono ripetibili, risultando dunque inutili per sceverare una concezione errata da una corretta.
Assieme, queste due differenze rendono insensato un approccio descrittivo nel definire “cose” come il potere: per quanto si possa tentare di occultarla, la questione
primaria resterà la scelta di come delimitare il concetto, e con quali finalità. Giudicare una descrizione del potere più realistica di un’altra ha senso soltanto se già se
ne condivide il concetto, ma la determinazione di questo non si risolve in modo empirico, neppure mediatamente.
Assunto il dato che non si può iniziare ad indagare un fenomeno politico, storico
o sociale, senza averne delimitato il concetto, e che questa stessa delimitazione non
disaccordo su quale debba essere il significato del termine ‘rivoluzione’, faremmo ben poca strada
accusandoci l’un l’altro di inesattezze fattuali nella descrizione degli eventi accaduti a partire
dall’89. Così, la critica di Habermas può essere riassunta dicendo che la concezione arendtiana del
potere non è adatta a descrivere la realtà storico-sociale come la vede Habermas, ma potrebbe diventarlo, con le adeguate modifiche e integrazioni. Sennonché, nel definire il concetto di potere, la
Arendt non aveva affatto intenzione di proporre una descrizione sociologica, ed è perciò futile accusarla di aver fallito a tale riguardo.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
si risolve empiricamente, restano ancora delle strade per evitare che tale definizione
risulti arbitraria. Certo, individuare “metafisicamente” l’essenza di un “oggetto”
come il potere non sarebbe oggi un approccio sostenibile. Si potrebbe tuttavia tentare, per esempio, la via d’una «ontologia sociale» sul genere di quella proposta da
Searle.73 A partire dalla basilare considerazione (di per sé non certo nuova) che la
realtà sociale è costituita attraverso l’interazione tra individui che riconoscono determinate regole costitutive, una serie di fatti sociali possono essere analizzati in base
alle caratteristiche «deontiche» che li definiscono. Le banconote funzionano come
mezzo di scambio e il presidente degli Stati Uniti può esercitare i suoi poteri perché
i membri di una data società riconoscono l’insieme di regole e obbligazioni cui tali
oggetti corrispondono – in un senso per cui il ‘dovere’ non implica connotazioni morali, né il consenso degli individui che lo riconoscono, ma soltanto distingue la grammatica della normatività da quella della constatazione dei «bruti fatti», la cui esistenza non dipende dall’essere socialmente riconosciuti.74 Per Searle, i fenomeni
deontici consistono fondamentalmente in attribuzioni di status – questo pezzo di
carta vale come denaro, quella persona è il presidente – e tale operazione d’attribuzione ha la rilevante caratteristica di richiedere capacità rappresentative, che a loro
volta sono date solo nel linguaggio.75
La specifica proposta di Searle è senz’altro discutibile, e discussa,76 ma i dettagli
non hanno importanza nel presente contesto. Rilevante è che l’approccio di un’ontologia sociale, quale che sia il modo preciso di perseguirlo, consentirebbe di schivare
buona parte della confusione creata dal dilagare di metodologie empiristiche ricalcate sul modello delle scienze sperimentali. Porre come base gli atti linguistici dichiarativi, e il condiviso riconoscimento della loro validità, potrebbe a prima vista
apparire “superficiale”, ma il punto è che le indagini “profonde”, che possono riguardare cause remote ed effetti sistematici non riducibili alle definizioni accettate in
una data società, presuppongono comunque l’esistenza di oggetti sociali esplicitamente osservabili.77 Foucault non avrebbe potuto indagare le strutture implicite dei
73. J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, Torino: Einaudi, 2006; J. R. Searle, “Social ontology. Some basic principles”, Anthropological Theory 6, no. 1 (2009): 12-29; J. R. Searle, Making
the Social World: The Structure of Human Civilization, New York: Oxford University Press, 2010.
74. Un punto cardine per Searle è proprio la riconciliazione dei fenomeni intenzionali, e della
mente in generale, con l’orizzonte deterministico della scienza, senza però postulare alcun dualismo
metafisico: J. R. Searle, Mentre, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale, Milano: Raffaello
Cortina, 2000.
75. J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, cap. 3; J. R. Searle, “Language and social
ontology”.
76. In italiano, si veda la raccolta di saggi: P. Di Lucia, a cura di, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive, Macerata: Quodlibet, 2003.
77. Qui non è necessario esaminare o difendere la più onerosa pretesa (d’altra parte presentata più
come una definizione che non una descrizione) che tutti i fatti istituzionali siano creati da atti di-
Parte seconda: Temi e problemi
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poteri-saperi se non avesse potuto anche osservare la storia di istituzioni, come le
prigioni e le cliniche, che esistono o sono esistite in forza dell’esplicito riconoscimento da parte di un insieme di individui capaci di impiegare un linguaggio.78 Analogamente, Marx, Luhmann, o lo stesso Habermas, presentano una descrizione della società diversa da quella impiegata nelle interazioni quotidiane tra i suoi membri, ma
possono far ciò in modo sensato solo partendo dall’osservazione di fenomeni sociali
esistenti perché esplicitamente riconosciuti come tali (il denaro, le industrie, le società di capitali, i governi, le burocrazie statali, la famiglia, e così via).79
Di per sé, l’ontologia sociale non consente di rispondere a nessuna delle domande
più rilevanti da un punto di vista empirico-pratico. Se rimane nei suoi appropriati limiti, essa tenta solo di dirci che cosa sono nel senso più basilare oggetti come lo Stato o il baseball; poco o nulla ci offre sulle motivazioni per cui le istituzioni sono riconosciute come tali,80 come mai sono proprio fatte così e non in un altro modo, o su
come dovremmo o potremmo modificarle.81 Ma il punto è che per indagare i fatti secondo qualsivoglia metodologia empirica è necessario presupporre qualcosa come
un’ontologia sociale, e benché questa non ci dica quasi niente di per sé sola,
nell’esplicitare una definizione analitica degli oggetti d’indagine può svolgere un importante ruolo critico. Un approccio del genere parrebbe perciò promettente per
affrontare il concetto del potere. In particolare, l’analisi del nesso con il linguaggio
sarebbe cruciale dal punto di vista della democrazia deliberativa, cosa non sorprendente visto che la precedente opera filosofica di Searle è stata un’importante ispirazione per il discorsivismo.82 Se dal progetto filosofico complessivo di Searle si
estraesse l’analisi del nesso tra potere deontico e linguaggio,83 già si avrebbe almeno
lo scheletro della tesi per cui il potere politico è sempre comunicativo. Sebbene, per
chiarativi: J. R. Searle, Making the Social World, pp. 11 ss.
78. Tra le critiche mosse a Foucault c’è anche quella di essersi concentrato più sugli ideal-tipi che
non sull’effettivo funzionamento di tali istituzioni: D. Garland, Punishment and Modern Society,
Chicago: University Of Chicago Press, 1993, capp. 6 e 7. Se si condivide la critica, tuttavia resta
vero che gli ideal-tipi e i progetti devono al linguaggio la loro esistenza in modo ancor più evidente.
Thomas Lemke è più esplicito, «gli studi della governamentalità non vanno in cerca di ciò che è nascosto in qualche profonda struttura, ma si occupano della superficie [...] prendono i programmi per
come appaiono per scoprire ciò che nascondono ed escludono»: T. Lemke, Foucault, Governmentality, and Critique, Boulder CO: Paradigm Publishers, 2009, p. 83, traduzione mia.
79. Vedi anche: J. R. Searle, Making the Social World, pp. 116 ss.
80. Ivi, pp. 106-08.
81. Talvolta non è chiarissimo se Searle abbia presente questo limite, oppure pensi di poterlo valicare senza appoggiarsi ad elementi eccedenti l’ambito dell’ontologia sociale – i risultati della confusione possono non essere eccellenti, come quando l’autore discute alcune questioni direttamente politiche, dal potere dei governi, alla religione, ai diritti umani: Ivi, pp. 160 ss. e cap. 8.
82. Vedi sopra, pp. 81-83.
83. J. R. Searle, “Ontologia sociale e potere politico”, in Ontologia sociale, a cura di P. Di Lucia,
Macerata: Quodlibet, 2003; J. R. Searle, Making the Social World, cap. 4.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
quanto ne so, Searle non citi mai la Arendt, colpisce l’analogia di vari passaggi,84 il
che è tanto più rimarchevole considerando le stridenti differenze nello stile argomentativo, nelle premesse teoriche e nei giudizi politici.
Quando però Searle procede a definire il concetto di potere,85 il risultato non si
discosta in modo rilevante da quelli già proposti nell’ambito delle scienze sociali,86 ed
è deludente tanto quanto quelli. Invero, mentre Searle rimprovera tutti gli altri filosofi e teorici della società di non spiegare, in primo luogo, cosa sia il linguaggio,87 si
potrebbe osservare come egli adotti il medesimo atteggiamento nell’evitare la definizione del concetto di potere, nonostante questo sia continuamente presupposto, dal
«potere deontico» fino agli usi più generici del termine. La pervasiva circolarità di
questa presupposizione è più evidente in italiano che in inglese, per ragioni puramente etimologiche,88 e la si può osservare attraverso una semplice traduzione:
Il nucleo della nozione di potere è che A ha potere su S rispetto ad una azione B
se e solo se A può [can] intenzionalmente ottenere che S faccia ciò che A vuole riguardo B, che S lo voglia o meno.89
Il concetto di potere non è affatto colto da questa definizione – che, con variazioni
pro e contro l’individualismo metodologico, è ancora sostanzialmente quella weberiana – essa bensì lo presuppone per spiegare in che cosa consista una specie della categoria più generale. Dire che Tizio ha potere su Caio se e solo se Tizio ha il potere di
far fare qualcosa a Caio è una tautologia che non incrementa di una virgola la comprensione del concetto.
Certo, si può pensare che questo sia un difetto contingente di Searle, non intrinseco alla sua teoria, credo però che nessun approccio sul genere dell’ontologia sociale
possa offrire molto attorno al concetto di ‘potere’. Questo perché, sebbene rappresenti un utile correttivo rispetto alla pretesa di arrivare immediatamente all’osservazione empirica dei fatti politici, nondimeno l’ontologia sociale si occupa ancora della
definizione di oggetti, ed il potere poco si presta ad essere analizzato in questi termi84. L’esempio forse più suggestivo è quello della centralità riconosciuta alla promessa come atto
performativo. Quasi identica è anche la denuncia della stupidità dell’idea, prototipicamente “realistica”, del potere che «nasce dalla canna del fucile»: H. Arendt, Sulla violenza, Parma: Guanda,
2004, p. 57; J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, pp. 134-35.
85. J. R. Searle, Making the Social World, cap. 7.
86. Searle fa riferimento in particolare a: V. G. Ledyaev, Power: A Conceptual Analysis; S. Lukes,
Il potere: una visione radicale.
87. J. R. Searle, Making the Social World, p. 62.
88. Si potrebbe anche pensare che lo sfortunato fatto che il termine power sia stato importato dal
francese pouvoir contribuisca alla confusione, se non fosse per il fatto che il dibattito è altrettanto e
forse più disordinato nelle lingue in cui il nesso tra il sostantivo e la forma verbale è rimasto evidente (come in italiano, spagnolo o francese).
89. Ivi, p. 151, traduzione mia.
Parte seconda: Temi e problemi
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ni. L’impresa dell’ontologia sociale è quella di dimostrare in modo rigoroso in che
senso cose come lo Stato o il denaro siano reali, nonostante non corrispondano direttamente ad alcun oggetto materiale; ma la presupposizione di una struttura oggettuale rimane la medesima. Perciò, questo approccio funziona bene per un’ampia
classe di istituzioni, diviene problematico rispetto ad altri concetti, come il diritto o
la sovranità,90 e relativamente inutile riguardo il potere, che ancor meno di questi si
presta ad essere reificato. In effetti, la riduzione del potere ad un oggetto da poter
indagare avviene attraverso l’aggiunta di specificazioni che presuppongono il concetto più generale.
Ciò considerato, per capire cosa mai significhi ‘potere’, l’approccio più serio potrebbe proprio essere quello linguistico. Se però il linguaggio è convenzionale e le sue
norme spesso confuse, partendo da esso non si potranno soddisfare pretese di oggettività troppo esigenti. Certo, iniziando col dire che il potere è una paperella di gomma gialla starei infrangendo le condivise regole linguistiche, per quanto vaghe queste
possano essere. Ma ricavare una definizione univoca soltanto dagli usi linguistici può
essere impossibile; già solo affermando che molte delle definizioni proposte siano errate si escludono usi che pure di fatto sono praticati, talvolta ben al di là dei ristretti circoli accademici. D’altra parte, l’esclusione di alcuni di questi usi rappresenta
l’intento esplicito con cui si propone una definizione alternativa, ché altrimenti non
avrebbe ragion d’essere. Tuttavia, se al requisito di non allontanarsi eccessivamente – per quanto imprecisa sia la distanza tollerabile – dall’uso linguistico corrente si accoppiasse quello di offrire un concetto coerente e perspicuo, si potrebbero
definire le condizioni per una ri-definizione non insignificante.
La variegata molteplicità degli usi del termine ‘potere’ è stata spesso rimarcata:
Non è così evidente che cosa abbiano in comune l'immaginazione al potere, il potere della grazia e quello del castigo, gli scontri dei poteri e la separazione dei poteri, i 'poteri degli impotenti' e la corruzione dei poteri assoluti.91
Tuttavia, a me pare sufficientemente evidente che cosa questi ed altri usi del termine abbiano in comune, ed è il riferimento alla categoria della possibilità. Questo è
certo dire molto poco, tuttavia non è del tutto scontato, visto quanto spesso, al di là
di ogni plausibilità, il nesso tra potere e possibilità viene rimosso dal discorso. Soprattutto, però, l’accento deve cadere sulla ‘categoria’. Constatare che, in un senso
molto generale, il potere significhi la possibilità non consente di allontanarsi nemmeno di un passo dalla tautologia: X ha potere, X può, X ha la possibilità. Comprendere come prima d’essere un oggetto il potere corrisponda ad una categoria, invece,
90. Neppure Searle, d’altronde, ritiene si possa fare granché con la nozione di sovranità, vedi: J. R.
Searle, “Ontologia sociale e potere politico”.
91. S. Lukes, Il potere: una visione radicale, p. 73.
- 236 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
permette di capire perché i tentativi di definirlo nella forma di un oggetto o di un
fenomeno risultino sempre circolari o tautologici. Probabilmente, pochi oggi difenderebbero la pretesa di Kant che le categorie si diano come concetti puri dell’intelletto,
ma in qualsiasi modo si voglia intendere la questione (dall’empirismo di Locke, alla
filosofia del linguaggio, fino alle neuro-scienze, o quel che si voglia), poco cambia: il
punto è che il concetto più basilare del potere non corrisponde ad un oggetto, rappresentando bensì la condizione per cui è possibile parlare in un certo modo, la modalità del possibile, di oggetti e fenomeni.
Per discutere del potere nel suo significato politico, è necessario aggiungere alcune
specificazioni, a “riempire” la vuota categoria della possibilità. Tuttavia, una classe
degli usi della parola ‘potere’ in ambito politico è toccata da questa prima considerazione senza bisogno di ulteriori assunzioni. Mi riferisco per l’appunto all’uso del
termine come soggetto od oggetto privo di caratterizzazioni. L’esempio classico può
essere il celebre detto «il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente». Altri, forse più diffusi nella retorica corrente, hanno forme del tipo «combattiamo il/opponiamoci al potere». Enunciati di questo tipo o non hanno un significato letterale ovvero, dove se ne può assegnare uno, esso appare inquietantemente
contrario alle presumibili intenzioni di chi li pronuncia – chi “combatte contro il potere”, immagino, vorrebbe abbattere un certo sistema di dominio, o porre fine ad
ogni dominio, ma non apprezzerebbe, spero, un mondo in cui tutti fossero condannati all’assoluta impotenza.
Questi usi metaforici rappresentano la contrazione retoricamente efficace di affermazioni più precise: sarei d’accordo, ad esempio, con chi affermasse che l’esercizio
del potere di costringere gli altri a fare o non fare qualcosa, che si può chiamare dominio, tende a corrompere chi lo pratica, e l’esercizio di un dominio assoluto, privo
d’ogni limite, corrompe assolutamente. Come sempre accade, esplicitando si perde la
portata retorica, ma questi sono per l’appunto tra quei casi in cui il potere della comunicazione sfugge di mano, mettendo in circolo metafore che, “morendo” ed ossificandosi in significati stabili,92 finiscono per ostacolare le stesse possibilità di agire
che avrebbero dovuto favorire. Probabilmente, la scarsa cogenza di tanti discorsi attorno al potere deriva dal cadere in metafore del genere senza riconoscerle come tali.
6.2.2 Potere politico, norme, linguaggio
Nel passare dalla categoria della possibilità al potere politico, come minimo si dovranno considerare le relazioni intercorrenti tra diversi agenti, e gruppi di agenti. Io
da solo ho il potere di alzarmi dalla sedia, ma nulla che abbia a che vedere con il potere politico si può riferire ad un individuo isolato. Anche i poteri più basilari, ga92. P. Ricoeur, La metafora viva, Milano: Jaca Book, 2010.
Parte seconda: Temi e problemi
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rantiti da una serie di diritti individuali, come la libertà di parola e di movimento, o
la capacità di ricorrere in tribunale, hanno significato solo in un contesto relazionale.
In alcune tra le più fraintese parole scritte da Hannah Arendt:
Potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire ma di agire di concerto.
Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e continua a
esistere soltanto finché il gruppo rimane unito. Quando diciamo di qualcuno che è
«al potere», in effetti ci riferiamo al fatto che è stato messo al potere da un certo
numero di persone per agire in loro nome.93
Molti interpreti hanno caricato espressioni di questo genere di significati grandiosi, ammirando l’originalità e il coraggio intellettuale della Arendt, oppure criticandone l’ingenuo idealismo. Con tutta evidenza, però, ciò che l’autrice intende dire è
relativamente semplice. Un individuo da solo non ha potere: in primo luogo perché
qualsiasi azione significativa richiede la collaborazione di numerose persone; poi, più
radicalmente, perché la pluralità, la «rete delle relazioni umane»,94 è la condizione
per comprendere come esercizio di potere le proprie azioni, ché altrimenti sarebbero,
per definizione, risposte determinate da esigenze e stimoli oggettivi. Solo tra soggetti
liberi si può esercitare potere in senso proprio, e questo non è che un altro modo per
dire che la pluralità umana è condizione di possibilità dell’azione.
Però, in molti casi l’attualizzazione del potere coincide con l’impartire un comando, mantenere efficace una struttura di dominio o, più in generale, coordinare gli
atti degli altri senza bisogno di iniziare alcuna relazione comunicativa, senza cioè
considerarli quali soggetti capaci d’azione. Nel caso di una democrazia, questo ancora potrebbe assomigliare all’investitura di uno ad agire per conto di molti: l’intero
popolo, come sovrano, autorizza i suo rappresentanti a governarlo, come suddito (ed
anche qui i critici non mancano di mostrare quanto la realtà cada lontano
dall’ideale). Ad ogni modo, questa flebile corrispondenza viene a mancare nel caso di
regimi variamente autoritari, come così quando il risultato è ottenuto attraverso
l’impiego diretto della coercizione, o di incentivi come il pagamento in denaro.
Contro interpretazioni favolosamente edulcorate, si deve notare come la Arendt
avesse ben presente l’ovvia possibilità di attualizzare il potere nel ‘potere di’ dominare. Qui la sua analisi era davvero nello spirito di Machiavelli – non già “immorale”, consapevole bensì della differenza che passa tra etica e teoria politica:95
Perfino la dominazione più dispotica che conosciamo, il dominio del padrone sugli
93. H. Arendt, Sulla violenza, p. 47.
94. H. Arendt, Vita Activa, Milano: Bompiani, 2000, cap. 5, §25.
95. D’altronde, la distinzione tra ‘potere di’ e ‘potere su’ non può neanche voler dire che il primo
sia «relativamente benigno» rispetto al secondo, come troppo spesso si è inteso, vedi ad esempio: J.
Mansbridge, “Using Power/Fighting Power: The Polity,” p. 60.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
schiavi, che erano sempre numericamente superiori a lui, non si basava su superiori
mezzi di coercizione in quanto tali, ma su una superiore organizzazione del potere,
cioè sulla solidarietà organizzata dei padroni.96
Così, ad esempio, il potere dello Stato d’imporre coercitivamente i propri comandi
ha sempre bisogno del sostegno attivo di un gruppo organizzato, sebbene questo
possa essere considerevolmente più piccolo dell’insieme dei sottoposti – il potere richiede la pluralità, ma non dipende linearmente dal numero. Parimenti, l’impiego di
risorse economiche per incentivare gli altri a comportarsi nel modo voluto presuppone il potere di mantenere un minimo d’ordine, senza il quale il «fatto istituzionale» (Searle) che è il denaro non esisterebbe.
Si potrebbe, certo, tentare di descrivere una società il cui ordine non dipenda in
alcun modo dell’attivo consenso da parte dei suoi membri,97 oppure come questo
consenso sia automaticamente “fabbricato” da meccanismi sociali de-soggettivizzati – tra la teoria dei sistemi di Luhmann, la «tolleranza repressiva» di Marcuse e
l’«industria culturale» di Horkheimer e Adorno. Come osservato nel capitolo quarto,
qui Habermas vorrebbe difendere la necessità fattuale dell’agire comunicativo,
contro i tentativi di spiegare per intero la società attraverso un paradigma, in senso
lato, sistemico. A meno del riferimento sociologico al mondo della vita, la Arendt sarebbe stata d’accordo, affermando la necessità del potere per mantenere in essere
qualsiasi organizzazione umana: «anche il dittatore totalitario, il cui principale strumento di violenza è la tortura, ha bisogno di una base di potere: la polizia segreta e
la sua rete di informatori».98
D’altro canto, altrove il potere era connesso al mantenimento non di qualsivoglia
organizzazione, ma di una specificamente politica, del pubblico spazio delle apparenze, assieme condizione e risultato del potere.99 Probabilmente, l’ambiguità dipende dal fatto che la logica dei regimi totalitari – secondo la Arendt l’illimitata
estensione del campo di concentramento – non è mai stata pienamente realizzata. Se
mai si desse il caso di un’organizzazione del genere, in grado di mantenersi indefini-
96. H. Arendt, Sulla violenza, p. 54. En passant, la nota a questo passaggio così recita: «Nell’antica Grecia, un’organizzazione di poteri di questo genere era la polis, il cui principale merito, secondo
Senofonte, era quello di consentire ai “cittadini di agire da guardie del corpo gli uni degli altri
contro gli schiavi e i criminali affinché nessuno potesse morire di morte violenta” (Hiero, IV, 3)» Il
che dovrebbe far riflettere circa la “nostalgia della polis” spesso attribuita all’autrice; ma si veda
anche: R. T. Tsao, “Arendt Against Athens: Rereading the Human Condition”, Political Theory 30,
no. 1 (2002): 97-123.
97. Questo il tentativo di Barry Barnes, soprattutto contra Parsons: B. Barnes, La natura del
potere.
98. H. Arendt, Sulla violenza, pp. 53-54.
99. H. Arendt, Vita Activa, cap. 5, § 28.
Parte seconda: Temi e problemi
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tamente, davvero non ci sarebbe più bisogno, né possibilità, di esercitare potere.100
In un certo senso, tale sarebbe una società integralmente sistemica, pienamente “mediatizzata”, nella quale ogni atto non sarebbe che il risultato dello spostamento, a
sua volta automaticamente guidato dalla necessità, da un punto ad un altro di risorse atte a rappresentare incentivi o punizioni, stimoli e impedimenti. La questione
non è se una simile distopia possa realizzarsi oppure no (lasciando da parte il significato preciso di questo ‘possa’), soltanto però che in tal caso non si darebbe alcuno
spazio per il potere.101 Dunque, nel constatare come la relazione fra diversi agenti sia
condizione del potere, non c’è nulla di irrealistico o utopico, si tratta di un’affermazione persino banale.
Tuttavia, non è questo il senso in cui usualmente si definisce il potere come relazionale. Perlopiù, la relazione cui si fa riferimento è quella per cui esso è esercitato
da qualcuno su qualcun altro, per l’appunto il ‘potere su’ o ‘dominio’. Così, ancora
seguendo Lukes, «In questa concezione più restrittiva, ma diffusa, il 'potere' è esplicitamente relazionale e asimmetrico: avere potere significa avere potere sull'uno o
sull'altro».102 Il senso dell’asimmetria può essere riconsiderato, come per Foucault,
evidenziando come l’esercizio del potere coincida con la creazione di punti di resistenza e contro-poteri, fino alle pratiche di soggettivazione/assoggettamento.103 Lo
stesso Foucault aveva sostenuto che «il potere è dappertutto»,104 apparentemente
pensando ad ogni relazione come relazione di potere,105 attirandosi le ire “metodoideologiche” tanto delle scienze politiche quanto della teoria critica.106
100.Si ricorderà come Barnes impiegasse, fallacemente, il campo come esempio di una “società” che
non necessita di alcun tipo di consenso da parte dei dominati: vedi sopra, p. 136, n. 42.
101.Anche per questo motivo, era riduttivo fissarsi sulla contrapposizione tra un atteggiamento sistemico o funzionale, e il carattere “esistenziale” che apparterrebbe all’azione secondo la Arendt,
come fosse una riproposizione della querelle tra scienziati e umanisti: L. P. Hinchman e S. K.
Hinchman, “Existentialism Politicized: Arendt’s Debt to Jaspers”, in Hannah Arendt: Critical Essays, a cura di L. P. Hinchman e S. K. Hinchman, Albany NY: SUNY Press, 1994.
102.S. Lukes, Il potere: una visione radicale, p. 84.
103.M. Foucault, Ermeneutica del soggetto, Milano: Feltrinelli, 2003.
104.M. Foucault, La volontà di sapere, Milano: Feltrinelli, 2001, p. 82.
105.Il che equivale a ri-definire qualsiasi ‘relazione’ come ‘potere’; cosa che capita di fare agli autori
influenzati da Foucault. Ad esempio, in: C. R. Hayward, De-Facing Power, Cambridge: Cambridge
University Press, 2000. Ad eccezione degli usi riferiti ai soggetti agenti (tipicamente «empowerment»), che sono poi quelli che l’autrice vorrebbe criticare, quasi tutte le occorrenze del termine
‘potere’ potrebbero essere eliminate o sostituite con ‘relazione/i’ senza cambiare il senso dello studio – peraltro interessante proprio nel mostrare come i soggetti meglio posizionati nella gerarchia
sociale siano sottoposti ad altrettante e talvolta più costrizioni rispetto ai poveri e agli esclusi; ed
in questo senso, per quanto privilegiati e dominanti, non sia poi molto il potere di cui godono.
106.Per ragioni parzialmente divergenti, si veda il già citato: N. Fraser, “Foucault on Modern Power: Empirical Insights and Normative Confusions”. Mentre per Lukes il primo problema di Foucault è «uno stile troppo retorico e totalmente privo di rigore metodologico»: S. Lukes, Il potere:
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
Questi significati non possono esaurire il senso per cui il potere ha a che vedere
con le relazioni, e non sono neanche i più rilevanti per comprenderlo. Nel primo caso
perché, come Lukes appunto riconosce, si tratta della più ristretta concezione del
potere come dominio, che si è già visto presuppone il ‘potere di’, nonostante implichi
anche la tendenza a limitarlo. L’esempio di Foucault è altrettanto inutile per definire
il potere, ma, consentendo di capire meglio fino a che punto sia possibile spingerne
la negazione, vale un’ulteriore digressione.
Per le ragioni già percorse, nell’opera foucaultiana non si può esplicitare una definizione del concetto di potere, pur variamente presente come oggetto di descrizioni
ed analisi; d’altronde, le definizioni implicitamente presupposte risulterebbero tra
loro assai difformi.107 Tuttavia, Foucault è qui interessante, perché evidenzia come le
relazioni asimmetriche, che caratterizzano i rapporti sociali, fino anche al livello della costituzione dei soggetti, siano sempre costitutive/costrittive in entrambe le direzioni – un punto probabilmente già presente, benché meno chiaramente, nelle precedenti analisi dei poteri disciplinari, più prossime ad un orizzonte strutturalista nel
quale il soggetto come agente non trovava posto. Anche se sono originali le indagini
storiche attraverso le quali Foucault giunge a riscontrarlo, sarebbe di per sé ovvio il
fatto che ogni limite crea o rende presenti alcune possibilità, alcune libertà, allo stesso tempo e solo in quanto ne nega ed impedisce altre – allargando lo sguardo, gli
esempi di condizioni costrittive/costitutive (dal limite kantiano, al riconoscimento
hegeliano, fino al ruolo politico del diritto) sarebbero ovviamente un’infinità.
Però, l’accento posto sulla pervasiva bidirezionalità di queste relazioni (per molti
aspetti una “onni-direzionalità”) mostra in modo efficace come le costrizioni imposte
da un apparato di controllo si esercitino sempre nei due sensi e come tendenzialmente, anche se non si può pretendere di stabilire una correlazione precisa, tanto più
opprimono i dominati tanto più limitano la libertà d’azione, dunque il potere, dei
dominanti. Dettagli a parte, tutto ciò che si può obiettare in merito è proprio l’uso,
retoricamente fin troppo efficace, del termine ‘potere’ per indicare relazioni il cui
tratto più appariscente sta nell’annullamento del potere coerentemente inteso.108
Certo, queste relazioni/pratiche/discipline sono sempre anche funzionali a schiudere
ulteriori possibilità, e dunque poteri per gli agenti “soggettivizzati” attraverso di
una visione radicale, p. 71.
107.Il che sarebbe coerente con l’intento di analizzare le diverse forme del potere, evidenziando più
i punti di divergenza tra i saperi e le tecniche caratterizzanti epoche diverse che non la continuità
di narrazioni unitarie. Un progetto che però ancora presuppone, senza fornirlo, un concetto di potere del quale si possa dire che specifiche manifestazioni storiche sono sue forme.
108.D’altronde, lo stesso Foucault riconosceva d’essere caduto in una certa confusione concettuale e
terminologica, proprio nel senso di mescolare potere e dominio: M. Foucault, Antologia: l’impazienza della libertà, Milano: Feltrinelli, 2006, p. 252.
Parte seconda: Temi e problemi
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esse. Ma il senso per cui queste possibilità sono effettivamente tali, per cui gli agenti
possono esercitare il loro potere, deve implicare l’uscita dagli schemi determinati da
quelle relazioni; altrimenti ricadrebbe nell’altra concezione spesso attribuita a Foucault – meno interessante, e d’altronde auto-contraddittoria109 – per cui semplicemente non ci sarebbe via di scampo dall’onnicomprensiva rete del potere/sapere, e
per conseguenza a poco varrebbe preoccuparsene.110
Il caso del rapporto maestro-allievo, o delle relazioni educative in genere, può essere preso ad esempio. Chi insegna si trova in una posizione d’autorità o, quando
questa viene a mancare, di aperto dominio rispetto al discente, somministrandogli
discipline, premi e punizioni. Tuttavia, l’allievo non è puramente coartato, la stessa
relazione asimmetrica contribuisce in mille modi a definirlo come un soggetto con
determinate esigenze, prerogative e capacità di auto-affermazione, sia nell’accettare
sia nell’opporsi alle discipline imposte. Ma quanto potere, in senso proprio, si può
dare in una relazione di questo tipo? Il punto è che se una descrizione del genere è
valida – cosa sulla quale mi guardo dal pronunciarmi, l’intero discorso rimane entro
il modo della possibilità – e proprio nella misura in cui è valida, entrambi i poli della
relazione sono determinati dalla propria posizione, in positivo come in negativo;
hanno sì delle libertà, ma perché l’esercizio di queste rappresenti un potere, deve significare qualcosa al di là della relazione medesima. Se fosse altrimenti, non realizzerebbe una possibilità, ma la necessaria ripetizione dei comportamenti che definiscono i ruoli sociali. Le strategie di controllo impiegate nei contesti educativi hanno
come fine la creazione di un soggetto di poteri/possibilità, soltanto se questo può
agire anche al di là delle relazioni stesse.
Anche mentre i soggetti si trovano nella relazione di asimmetrica ma reciproca dipendenza, il loro potere si manifesta nella possibilità di trascenderne, almeno in
parte, i limiti. Nel caso in cui il maestro non facesse davvero altro che rispondere
alle aspettative dei suoi studenti, e più in generale a quelle della società, nei suoi
confronti, e nel quale gli studenti non facessero altro che apprendere e mostrare deferenza, o viceversa “ribellarsi” proprio come perlopiù ci si aspetta facciano i giovani
(i.e. senza conseguenze rilevanti), né l’uno né gli altri starebbero esercitando potere.
Certo, anche la continuazione delle pratiche esistenti, in particolare dal punto di vista di chi non le condivida, rappresenta un potere. Ma, per l’appunto, questo diviene
avvertibile dai soggetti coinvolti solo quando tali pratiche siano messe in discussione
o sembrino comunque minacciate. La facoltà di iniziare, opportunamente enfatizzata
109.J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, cap. 10; A. Honneth, Critica del potere: la
teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, Bari: Dedalo, 2002, cap. 5.
110.Da cui la curiosa etichetta di «giovane conservatore», affibbiatagli da Habermas, vedi: N. Fraser, “Michel Foucault: a “Young Conservative”?”, Ethics 96, no. 1 (1985): 165-84.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
dalla Arendt, collima con il potere in quanto coincide con l’attualizzazione di una
possibilità, riconosciuta come contingente.111
È tautologico che il potere di ciascuno sia limitato dalle possibilità che, soggettivamente, appaiono disponibili. In questo senso, la relazionalità del potere ne implica
la relatività. Rilevare la presenza del dominio (‘potere su’) può essere difficoltoso, ad
esempio quando questo operi informando le preferenze degli agenti senza ch’essi ne
siano consapevoli, e persino impossibile dato il suo carattere «essenzialmente contestato», perché dipendente da giudizi di valore mai scontati.112 Nonostante ciò, la
grammatica del dominio – e in generale delle relazioni centrate sul controllo, comunque concepite, compresi i dispositivi foucaultiani – è spiccatamente oggettivante.
Si può esercitare e subire dominio senza rendersene conto, strutture gerarchiche implicite possono essere invisibili eppure efficaci; ma non ha significato dire che un soggetto che non percepisce diverse possibilità d’azione sia potente, se non nel senso ricorsivo per cui ‘potrebbe’ esserlo, fosse magari consapevole del potenziale intrinseco
alle sue relazioni con gli altri. Il che equivarrebbe a dire che il potere in senso proprio può manifestarsi, ma non è detto che ciò accada, dovunque vi siano relazioni
tra le persone. Un’altra constatazione ovvia: «il potere è sempre, diremmo, un potenziale di potere, non un’entità immodificabile, misurabile e affidabile come la
forza».113
Fin qui gli esempi hanno riguardato relazioni che, anche se moltiplicate attraverso
innumerevoli istanze, coinvolgono volta per volta solo pochi soggetti. Ma, benché
non sia poi il numero l’elemento dirimente, parlando di potere politico, di solito, si
pensa a contesti più ampi, e relazioni meno dirette di quelle intercorrenti tra penitente e confessore, discente e insegnante, malato e medico, prigioniero e guardia, e
così via. D’altronde, Foucault intendeva impiegare l’analisi della «microfisica del potere»114 per dire qualcosa di significativo anche sul livello “macro” della società.115
111.Le riflessioni arendtiane sul nesso contingenza-potere percorrono l’intero pensiero Arendtiano,
culminando nell’ultima incompiuta opera: H. Arendt, La vita della mente, Bologna: il Mulino,
2006, pp. 143 ss, 341 ss., 455 ss., 522 ss.
112.S. Lukes, Il potere: una visione radicale, cap. 3.
113.H. Arendt, Vita Activa, p. 147. Ho leggermente modificato la traduzione, l’originale inglese è:
«Power is always, as we would say, a power potential and not an unchangeable, measurable, and
reliable entity like force or strength.»: H. Arendt, The Human Condition, Chicago: University of
Chicago Press, 1998, p. 200.
114.M. Foucault, Sorvegliare e punire, Torino: Einaudi, 2005; M. Foucault, Il potere psichiatrico,
Milano: Feltrinelli, 2010, pp. 28-46.
115.«... l'analisi dei micropoteri, o delle procedure della governamentalità, non si limita per definizione a un ambito preciso, definito da un determinato settore della scala, ma deve piuttosto essere
considerata semplicemente come un punto di vista, un metodo di decifrazione che può essere valido
per l'intera scala, qualunque sia la sua grandezza»: M. Foucault, Nascita della biopolitica, Milano:
Feltrinelli, 2005, p. 154.
Parte seconda: Temi e problemi
- 243 -
Così, il paradigma «biopolitico» potrebbe rappresentare una specifica forma di «governamentalità», preceduta e in futuro presumibilmente seguita da altre, caratterizzate dalla centralità di «tecniche» differenti.116
Benché l’intento di Foucault fosse quello di smascherare la contingenza e la storicità di poteri-saperi che appaiono scontati e inevitabili, mentre sono perlopiù creazioni relativamente recenti, le sue indagini offrono un modello intrigante di come i
dispositivi governamentali potrebbero informare l’intera società, annullando o neutralizzando il potere, in senso proprio, dei governati come dei governanti; tutti quanti imbrigliati nella rete che distribuisce premi e punizioni, piaceri e discipline, coercizione e responsabilità, razionalità e follia. Osservato dall’esterno, per così dire, il
governo di una società richiede pur sempre l’esercizio del potere, sono continuamente
necessari interventi di aggiustamento (per l’appunto: Bisogna difendere la società) – il problema è che tale punto di vista “esterno” non è generalmente disponibile
agli attori politici. Si potrebbe dire che, se la razionalità governamentale funzionasse
perfettamente,117 le stesse reazioni di fronte all’imprevisto, all’anomalia, assumerebbero (da un punto di vista “interno”) l’aspetto di risposte necessarie, auto-evidenti,
circa le quali nessuno avrebbe gran possibilità di scegliere. I governanti sono più o
meno costretti ad amministrare la società, gli altri possono, se proprio va bene, esercitare «l’arte di essere governati il meno possibile».118
Per quanto si approfondiscano le indagini storico-sociali, se qui si trova uno spazio per l’azione, per il potere in senso proprio, questo è assai residuale. L’esito “positivo” delle precedenti e più “pessimiste” indagini foucaltiane possono ben essere le
«tecniche di sé»;119 tuttavia, il laborioso parto di questo soggetto non porta che alla
soglia dell’esercizio del potere, al quale non si arriva mai. L’opera di Foucault può
essere interessante, probabilmente contro le intenzioni dell’autore, nel mostrare come
la descrizione della rete di reciproche determinazioni possa essere estesa all’intero
della società. Non ci si limita a spiegare come i meccanismi storico-sociali sfuggano
al controllo dei soggetti, seguendo una logica propria,120 si spinge invece lo “smasche116.M. Foucault, “Sicurezza, territorio, popolazione”, (2005); M. Foucault, Nascita della biopolitica. La ricerca di Foucault era continuamente in corso di modifica, anche entro un singolo progetto
(come per la Storia della sessualità), ma qui la precisione della ricostruzione non è molto rilevante.
117.Ma, ovviamente, «Ogni governamentalità non può essere che strategica e programmatica. Non
funziona mai, ma è rispetto a un programma che si può dire che non funziona mai»: M. Foucault,
“Sicurezza, territorio, popolazione,” p. 288.
118.M. Foucault, Illuminismo e critica, Roma: Donzelli, 1997.
119.M. Foucault, Ermeneutica del soggetto; M. Foucault, L’uso dei piaceri, Milano: Feltrinelli,
2004, p. 16.
120.Il che, in modo più o meno radicale, è ciò che fa chiunque voglia spiegare qualcosa nell’ambito
delle scienze umane. Se si accettasse di fermarsi alle azioni dei soggetti non si darebbe spiegazione
alcuna, ma solo narrazioni – e questo vale tanto per la teoria sistemica o lo strutturalismo quanto
per quelle discipline che, all’opposto, sottoscrivono in pieno l’individualismo metodologico, come la
- 244 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
ramento” fino alla costituzione di questi stessi soggetti. Per chi intenda poggiare la
propria teoria politica su una considerazione sociologica della sfera pubblica, una descrizione del genere è piuttosto pericolosa: non basta più difendere la distinzione tra
Lebenswelt e System, perché lo stesso mondo della vita sarebbe avvinto in logiche di
dominio sue proprie, per nulla riducibili ad un processo di “colonizzazione”. D’altronde, anche abbandonando il piano sociologico, se è facile mostrare l’auto-contraddizione performativa commessa da chi nega la libertà tout court, la stessa contraddizione non si dà nel negare il potere – che pure, in ambito pratico, della libertà è la
sola attualizzazione significativa: «La libertà politica si distingue dalla libertà filosofica per essere palesemente un attributo non dell'Io-voglio, ma dell'Io-posso».121
Ora, il punto non è se descrizioni del genere siano vere, se lascino spazio per una
teoria critica, se siano metodologicamente valide, e così via – perseguire tali questioni è in questo caso futile: lo stesso Foucault non pensava sistematicamente alla propria opera,122 o se lo ha fatto non si è fermato sul medesimo sistema che per brevissimo tempo. Una ricostruzione del genere mostra però che, se è possibile parlare di
potere in senso proprio, certamente non se ne riscontrerà la presenza in relazioni sociali di questo tipo, neanche evidenziandone gli aspetti “produttivi”. D’altronde, perlomeno in un foglio di appunti, Foucault scriveva:
Insomma, due formulazioni: tutto è politico perché è nella natura delle cose; tutto è politico perché esistono degli avversari. Si tratta invece di dire: niente è politico, tutto è politicizzabile, tutto può diventare politico. La politica non è niente di
più e niente di meno di ciò che nasce con la resistenza alla governamentalità [...]123
E la politica – nella lettura arendtiana, qui sorprendentemente calzante – non è
altro se non lo spazio per l’azione, la condizione per il potere. Questa condizione non
ha nulla di “naturale”, deve piuttosto essere attivamente differita da quell’orizzonte
pseudo-naturalistico che è la società, nel suo significato oggi più comune. Circa la
differenza tra lo spazio pubblico e quello sociale – che mescola elementi pubblici e
privati, tendendo a distruggere il significato degli uni e degli altri124 – operata dalla
Arendt è stato scritto molto, perlopiù in tono critico, talvolta al di là del giustificabile.125 Partendo dal presupposto che l’autrice stesse descrivendo un oggetto, la sosocial choice theory o la maggior parte delle scienze politiche empiriche.
121.H. Arendt, La vita della mente, p. 528.
122.Si può forse prendere sul serio l’immagine delle «scatole di attrezzi» attraverso la quale Foucault definiva ironicamente l’uso possibile delle proprie opere: M. Foucault, Conversazioni. Interviste di Roger-Pol Droit, Milano: Mimesis Edizioni, 2007, p. 34.
123.M. Foucault, “Sicurezza, territorio, popolazione,” p. 291.
124.H. Arendt, Vita Activa, cap. 2.
125.La Pitkin arriva ad appoggiare la propria lettura su spiegazioni psicoanalitiche: H. F. Pitkin,
The Attack of the Blob: Hannah Arendt’s Concept of the Social, Chicago: University Of Chicago
Parte seconda: Temi e problemi
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cietà, in relazione ad un altro, la politica, risulta effettivamente un quadro insensato.
Ma se invece, prendendo sul serio l’ostilità dell’autrice verso la reificazione dei
concetti,126 si vede come in questione sia il modo in cui concettualizzare le interazioni, allora diviene meglio comprensibile il significato della problematica distinzione.
Rileggendo l’antichità greca, la Arendt notava come la rigida separazione tra sfera
privata e pubblica corrispondesse a quella tra necessità e libertà. Il privato, l’oikos
era il luogo deputato al lavoro, alla produzione ed al consumo: processi dal carattere
necessario, perciò adatti ad essere sottoposti al dominio dispotico del capofamiglia.
La polis era lo spazio nel quale i cittadini potevano interagire, dunque essere liberi
ed esercitare potere. Uno spazio che, mentre racchiudeva e separava le diverse private dimore, era al contempo separato da un esterno,127 nel quale di nuovo dominavano le necessità naturali. Ma questa non può essere presa per una descrizione storica o un’analisi sociologica di cosa fosse la polis, e neppure per un’indagine filosofica
sul senso complessivo della cultura greca o dell’antichità classica. Piuttosto, va letta
come una ricostruzione delle distinzioni concettuali impiegate da chi partecipava alla
politica – da chi conduceva per l’appunto una vita activa, contrapposta a quella,
contemplativa, dei sapienti distaccati dal mondo.
In tale contesto, data l’ostilità della Arendt verso la filosofia della storia, la “diagnosi epocale” circa le vicende della vita activa – glorificata dall’antichità, sottomessa
alla contemplazione nel medioevo cristiano e di nuovo risollevata nella modernità,
però invertendone l’ordine interno, privilegiando prima l’opera e poi il lavoro, a scapito dell’azione128 – non ha e non può avere un ruolo strettamente argomentativo.
Viceversa, si tratta di una narrazione attraverso cui emergono una serie di distinzioni, la teoria politica entra poi in gioco nell’analizzare il significato e le implicazioni
di categorie che possono essere attualizzate in modi molto diversi.129 Questo non
vuol dire che la storia sia opera di fantasia, ma soltanto che non pretende di descrivere lo svolgimento di un processo necessario, tantomeno la sua totalità.
Press, 2000.
126.R. Fine, “Judgment and the reification of the faculties”, Philosophy & Social Criticism 34, no.
1-2 (2008): 155-76.
127.Per operare questa separazione, il nomos ricopriva un significato analogo a quello delle mura
che materialmente cingevano la città. Sull’interpretazione del diritto della Arendt ho cercato di dire
qualcosa in: G. Parietti, “Osservazioni circa diritto e mondo in Hannah Arendt”, La Cultura 47, no.
3 (2009): 495-516.
128.L’ultimo momento di questa storia torna a coincidere con la preminenza dell’azione, però trasposta dal piano politico a quello delle scienze naturali: H. Arendt, “Il concetto di storia: nell’antichità e oggi”, in Tra passato e futuro, Milano: Garzanti, 1999, 91-96.
129.Si deve anche ricordare che, per la Arendt, il libro sulla Vita activa doveva rappresentare una
sorta di “prolegomenon” all’introduzione alla politica propriamente detta, poi non più realizzata
nella forma prevista: H. Arendt, Che cos’è la politica?, Torino: Einaudi, 2006, p. 118.
- 246 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
Ciò che si può trarre da questo discorso non è la poco plausibile riproposizione di
modelli politici del passato. Piuttosto, anche se non si concorda con il modo in cui
la Arendt definiva i luoghi delle necessità, si deve intendere come il potere possa
darsi soltanto al di là di questi. È d’altronde tautologico che ciò che è necessario non
sia possibile, e viceversa. Quel che insistentemente appare attraverso le più diverse
metodologie di descrizione della società è quanto sia arduo riscontrare entro di essa
uno spazio per il potere – e che la società corrisponda ad un luogo di relazioni determinanti, sia come cliché letterario, sia come modello per l’indagine scientifica e filosofica, non è certo un’invenzione della Arendt. D’altronde, partendo dall’intento di
spiegare il funzionamento di un oggetto o di un processo, è chiaro come limitarsi a
constatare indeterminate possibilità non rappresenti che una rinuncia, o un sintomo
di scarso rigore metodologico.
Giacché mettersi in cammino per uscire dalla società non è un’opzione disponibile – seppure lo fosse, consentirebbe di trovare la “libertà” di un eremita, ma non il
potere – la definizione di uno spazio politico non può avere carattere descrittivo,
deve corrispondere alla posizione di una norma. Come analiticamente dimostrato da
Searle, riconoscere una norma come tale implica il possesso di un linguaggio, condizione di possibilità di ogni istituzione, pur senza essere letteralmente istituito. Ed in
questo senso il potere è, per così dire, doppiamente comunicativo: tanto nell’esercizio
quanto nelle condizioni di possibilità. D’altra parte, è proprio prendendo sul serio i
vari tentativi di ridurre la società a descrizioni più o meno meccaniche, e così anche
le critiche all’idea di un soggetto autonomo incondizionatamente dato, che si comprende come tra le condizioni del potere ci sia la possibilità di differenziare le norme
dai fatti.
6.3. Potere e deliberazione
Se si accetta la concezione del potere delineata nel precedente paragrafo, il nesso con
la deliberazione appare evidente. L’interazione discorsiva è per definizione possibile
soltanto tra soggetti liberi di avanzare pretese di validità, quindi accettare o rifiutare
quelle altrui. L’ambito di questa libertà è definito dallo stesso differimento dalle necessità (comunque le si voglia concretamente intendere) che costituisce lo spazio per
il potere. Nella misura in cui si desidera che i soggetti della deliberazione politica
siano in grado di approssimare il proprio dibattito a risultati moralmente e cognitivamente validi – perlomeno, più delle alternative disponibili130 – si deve anche concedere che questi soggetti esercitino potere. Un soggetto che non percepisca se stesso
130.La tendenza a comparare la democrazia reale, con tutti i suoi difetti, con altri regimi ideali,
dunque immaginari, è stata notata e deprecata anche al di fuori del campo deliberativo in senso
stretto, vedi: R. A. Dahl, La democrazia e i suoi critici.
Parte seconda: Temi e problemi
- 247 -
come dotato di potere è per definizione incapace di partecipare ad un discorso pratico. Se l’accordo tra i liberi partecipanti al discorso rappresenta la sola realizzabile
approssimazione all’ideale di ogni pretesa di validità, teoretica tanto quanto pratica,
allora si può effettivamente affermare la coincidenza tra sapere e potere, perlomeno
riguardo al comune punto d’origine.
Non si deve però cadere nella rosea visione di un potere comunicativo “buono” in
quanto tale. Non si può semplicemente dire che:
il potere delle convinzioni comuni, prodotto dalla comunicazione, ha origine nel
fatto che le persone coinvolte sono orientate a raggiungere l’accordo e non primariamente a perseguire i rispettivi obiettivi individuali. Esso si basa sul fatto che gli individui agenti non usano il linguaggio in funzione «perlocutiva», semplicemente per
incitare altri soggetti a un comportamento desiderato, ma in funzione «illocutiva»,
cioè per instaurare senza coercizione relazioni intersoggettive.131
La distinzione tra usi perlocutivi e illocutivi non regge rispetto al potere, perché è
evidente che le persone possano essere mosse all’azione sì comunicativamente, ma
niente affatto razionalmente. Il demagogo che gioca sui più bassi istinti della folla, o
l’avvocato che inganna la giuria con una raffinata retorica, esercitano entrambi un
potere, perché sono in grado di mobilitare un’azione collettiva che trascende l’impiego di risorse pre-esistenti, tuttavia sono strategicamente orientati al proprio successo, e senz’altro fanno un uso spiccatamente manipolativo del linguaggio. Dire questo
non significa intaccare il primato normativo delle pretese di validità, e neppure
contraddire la presunzione di poter riscontrare sociologicamente un telos verso l’intesa; ciò è irrilevante rispetto al fatto che ogni singolo contingente esercizio del potere
comunicativo potrebbe comunque risultare irrazionale, e persino apertamente maligno. È plausibile sostenere che tanto più in una società prevalgono gli usi strategici
del linguaggio, tanto più si restringe il potere e dunque la possibilità di agire significativamente entro di essa, ma questo non implica alcunché riguardo l’occorrenza di
ogni singola azione – e sono sempre contingenze singolari quelle che s’incontrano
nell’agire politico.
Si può concordare con la Arendt nel pensare che il male radicale (o la sua banalità)132 coinciderebbe con il completo annullamento della spontaneità umana, delle
possibilità d’azione, del potere; ma da ciò non segue affatto che il potere sia di per
sé qualcosa di positivo o tendente al bene. Come si è visto, un esempio del potere è
il dominio dei padroni sugli schiavi. A rigore, non è neppure corretto dire che «Han-
131.J. Habermas, “La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt,” pp. 58-59.
132.H. Arendt, Le origini del totalitarismo, capp. 12-13; H. Arendt, La banalità del male, Milano:
Feltrinelli, 2001; H. Arendt, Ebraismo e modernità, Milano: Feltrinelli, 1993, pp. 215 ss.
- 248 -
6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
nah Arendt disgiunge il concetto di potere dal modello teleologico»;133 vero è che la
definizione della politica trascende la teleologia, e tuttavia:
il potere, lungi dall’essere il mezzo per un fine, è effettivamente la condizione
stessa che consente a un gruppo di persone di pensare e di agire nei termini della
categoria mezzi-fine.134
Il che non dovrebbe sorprendere da un punto di vista habermasiano, giacché, se
pure non si deve elevare la tecnica a unico modello razionale, della razionalità essa
rimane parte assai rilevante.
Il potere comunicativo, di per sé, non implica una forma politica democratica, deliberativa, né tanto meno universale. È vero che in linea di principio un regime politico sarebbe tanto più potente quanto più estesamente libero e democratico, a patto
però di riuscire a coordinare efficacemente la propria azione, il che non è certo scontato. La libertà è una condizione per il potere, e l’eguale libertà di tutti corrisponderebbe al massimo del potere, soltanto però in una struttura politica adeguatamente
organizzata. Ma le risorse organizzative, simboliche, materiali e intellettuali per sostenere la politica non sono mai illimitate.135 Sebbene per il potere una misura di
partecipazione spontanea sia necessaria, di fatto ad una partecipazione più limitata
può corrispondere un potere maggiore, ed il potere di un gruppo ristretto può attualizzarsi nel dominio su masse innumerevoli.
Perciò, che le condizioni per il potere corrispondano a quelle della deliberazione
non significa che si possa dedurre questa da quello. Il crocevia per la democrazia deliberativa resta il principio del discorso – ed in senso ancor più basilare le pretese di
validità implicite in ogni atto linguistico – che invece richiama intrinsecamente l’universalità. Ma se la possibilità di esplicitare queste pretese normative rappresenta un
potere niente affatto “naturale”, allo stesso modo la loro realizzazione corrisponde
all’esercizio di un potere. Si può dire che la capacità di includere in un discorso
condiviso – non il consenso, esito soltanto eventuale – rappresenti l’esercizio paradigmatico del potere. Nonostante il “paradosso” del limite che mentre costituisce
esclude resti tale e quale, ostinatamente indifferente ai filosofi che ci girano attorno,
di certo un’inclusione rispettosa delle differenze non sarà mai raggiunta fuggendo
dalla razionalità, dalla prassi, dal potere.
133.J. Habermas, “La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt,” p. 59.
134.H. Arendt, Sulla violenza, p. 55.
135.«Lo specifico rischio che corrono tutte le forme di governo basate sull'uguaglianza è che nel
momento in cui la struttura della legalità – all'interno della quale l'esperienza dell'uguaglianza di
potere riceve il suo significato e la sua direzione – crolla o si trasforma, gli uguali poteri degli individui si annullano l'uno con l'altro e ciò che resta è l'esperienza dell'impotenza assoluta»: H.
Arendt, “La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione”, in Hannah Arendt. Antologia,
a cura di P. Costa, Milano: Feltrinelli, 2006, p. 108.
Parte seconda: Temi e problemi
- 249 -
***
Vorrei ora riassumere in due punti il risultato di quanto fin qui argomentato, per
così dire attraverso questo percorso: potere, deliberazione, inclusione ed esclusione.
1. Soltanto per il fatto che impieghiamo il linguaggio, prima ancora di considerare il
ruolo delle pretese di validità, presupponiamo il nostro ruolo di agenti – la qual
cosa è stata resa esplicita ed analizzata filosoficamente dalla teoria degli atti linguistici, ma appare già evidente nelle lingue naturali che prevedono qualcosa
come una struttura soggetto-verbo. Ciò non implica assunzioni ontologiche –
anche se può di fatto favorirle, in un contesto filosofico pre-critico – rispondendo
bensì ad una struttura grammaticale, che può pur essere superficiale ed illusoria,
o bisognosa d’essere de-costruita, ma che nondimeno rappresenta un orizzonte per
noi – parlanti come così scriventi – ineludibile.136 Esplicitare questa presupposizione, definendo soggetti e spazi per l’azione, è il ruolo democraticamente più rilevante che il diritto deve svolgere. In questo, le condizioni per il potere e quelle del
discorso coincidono.
2. La deliberazione, il fatto che siano disponibili almeno alcuni spazi nei quali discutere liberamente le decisioni politiche, è la condizione di possibilità perché le
istanze di oppressi ed esclusi siano significativamente messe a tema, e poi possano
essere affrontate in modo equo e razionale. Questo però è radicalmente possibile
soltanto a patto che gli stessi spazi deliberativi siano costruiti secondo il proprio
principio, che è universalistico e inclusivo ma non corrisponde immediatamente a
quelle misure concrete (ammesso di poterle conoscere con esatta certezza) necessarie per migliorare la sorte dei più svantaggiati. L’apparente mancanza di comprensione per i problemi concreti, così come la più generica assenza di compassione,137 potrebbero esser considerati difetti fatali per una teoria politica
rigorosamente procedurale. Tutto ciò che si può ribattere è che la fredda asserzione di una libertà discorsiva priva di finalità predefinite, che proprio e solo in
quanto tale può essere universalizzata, rappresenta la condizione per il potere di
agire conformemente a finalità normative – ivi comprese, tra le molte possibili,
quelle della giustizia sociale – il che poi varrebbe a dire agire significativamente, o
ancor meglio agire tout court.
In conclusione, neppure un’idea di ragione non procedurale (contenutistica, monologica, strategica, tecnica e così via) è direttamente pregiudicata dalla teoria deliberativa, una volta inteso come sia la stessa possibilità di agire nel mondo (potere) a
richiedere quel sistema politico fatto di procedure “vuote” che è la democrazia deli136.J. Habermas, Fatti e norme, p. 528.
137.Ma, circa il nefasto ruolo della compassione in politica, vedi anches H. Arendt, Sulla rivoluzione, cap. 2.
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6. Inclusione ed esclusione, praxis ed episteme
berativa. A meno di arrendersi al triste risvolto del fallimento di una filosofia della
storia, ossia all’equazione tra ragione e dominio/oppressione, si dovrà riconoscere
come le possibilità di realizzare qualunque criterio razionale, dunque la giustizia,
poggino sull’esistenza di spazi discorsivi liberi dalla violenza, nei quali le persone
possano essere convinte e persuase ma non obbligate. In questo modo, e soltanto secondo questa limitata modalità, il consenso, che presuppone sempre la fattuale possibilità del dissenso, può essere assunto come ideale regolativo per la deliberazione
politica. Se può darsi il potere di ottenere qualsivoglia risultato politico significativo,
questo potere è intrinsecamente comunicativo. Perché questo risultato possa essere
razionale, giusto, equo, la comunicazione dev’essere democratica e deliberativa.
Conclusioni
In tutte le sue imprese, la ragione deve sottomettersi alla critica, e non può usare alcun divieto per limitare la libertà di tale critica, senza danneggiare se stessa e attirare su di sé un
sospetto pericoloso. Non vi è nulla di così importante (rispetto all’utilità), non vi è nulla di
così sacro, che possa sottrarsi a questa indagine, la quale esamina e ispeziona, senza riconoscere privilegi ad alcuno. Su questa libertà si fonda l’esistenza stessa della ragione: la ragione non ha affatto un’autorità dittatoriale, e i suoi decreti, piuttosto, non sono mai dettati
da altro se non dall’accordo di liberi cittadini, ciascuno dei quali deve potere esprimere senza impedimenti i suoi dubbi, anzi persino il suo veto. (Immanuel Kant, A 484, 4-16)
Ho iniziato constatando come quella deliberativa sia divenuta la più diffusa teoria
normativa della democrazia. Attraverso questa tesi ho cercato di mostrare fino a che
punto ciò sia vero, includendo la più ampia varietà possibile di approcci; e su questo
piano molto si potrebbe aggiungere, non fosse che la disponibilità di tempo e spazio
è pressoché terminata. Si può concludere tornando a chiedere se la democrazia deliberativa non possegga una qualche caratteristica specifica tale da spiegare il successo raccolto, fino a diventare un punto di riferimento ineludibile anche per i suoi oppositori. La domanda è dunque quale sia la motivazione de facto per cui così tanti e
diversi teorici si sono rivolti alla deliberazione. Il punto è ovviamente l’enfasi sul dialogo e la discussione, ma per evitare di ridurre questa caratterizzazione ad uno slogan insensato è stato necessario percorrere le argomentazioni che formano questa
tesi.
L’idea generale che la democrazia sia la migliore forma di governo, comunque la
sola pienamente legittima, è ormai da tempo, ma in una spettacolare inversione del
parere prevalente nei millenni trascorsi dalla sua invenzione, un’ovvietà. Interessante
è proprio come il favore per la democrazia possa coniugarsi, da un lato, con la costante delusione verso la sua incapacità di corrispondere al proprio ideale; mentre
dall’altro con l’evidente confusione circa che cosa esattamente sia questo ideale, giustificato poi in modi ancor più variegati. Ci si può ben chiedere se ci sia un modo
d’individuare ‘una’ democrazia in comune tra Baruch Spinoza, Thomas Paine, Walt
- 252 -
Conclusioni
Whitman, Hans Kelsen, Norberto Bobbio, Cornelius Castoriadis, John Rawls, Robert Dahl e Jürgen Habermas; e probabilmente non c’è. Una lista del genere, già potenzialmente infinita, contiene soltanto intellettuali riconducibili alla tradizione europea ed occidentale. Ma le persone parlano di democrazia, e la pretendono, bene al di
là di questi ristretti confini, ed è davvero una lunga via dalle riforme di Clistene ed
Efialte (c’è poi senz’altro chi, più o meno persuasivamente, sposta altrove e più indietro il punto d’origine), fino all’India o ai dissidenti cinesi di oggi. Il tentativo di
riunire i significati circolanti in un campo così vasto è proprio una tela di Penelope,
giacché, oltre ad essere straordinariamente molteplici, questi variano per di più
continuamente. Lo scienziato politico o lo storico che cercano di descriverla e spiegarla, come così il filosofo che vuole farla corrispondere ad un preciso insieme di valori, sono condannati a rimanere frustrati dalla democrazia, tanto come ideale quanto come realizzazione pratica.
Un approccio più astratto sembra dunque preferibile, o perlomeno appare l’unico
di fatto percorribile. Si potrebbe, certo, partire dalla libertà e dall’eguaglianza, il cui
teso intreccio ha percorso tutta la storia della democrazia. Però, anche qui, il problema è che il modo in cui questi termini sono intesi è variabile e confuso quanto e più
del significato della democrazia. Un punto d’avvio appropriato, nella sua modestia
forse in grado di sfuggire al fuoco di fila dei vari “realismi”, potrebbe essere semplicemente negativo: la democrazia, perché ogni altra forma politica sembra essere ormai diventata ingiustificabile. Questo non è a dire che sistemi di potere differenti
non possano de facto godere dell’approvazione popolare, oppure funzionare con poco
o punto consenso, ma soltanto che non trovano più giustificazioni valide in linea di
principio.
Così è non solo e non tanto perché molti credono all’auto-evidente verità che gli
esseri umani siano stati creati liberi ed eguali; dopotutto, molti altri, a vario titolo,
non credono lo stesso. Che si sia eguali e liberi, o diseguali ed etero-determinati, il
punto è che la definizione di ‘chi’ sia concretamente “migliore”, ed abbia eventualmente diritto ad esercitare potere sugli altri, resta un’affermazione bisognosa di giustificazioni che sempre più scarseggiano. Certo, molti ancora credono che Dio prescriva chi deve governare, ed in che modo; altri soccombono in varia misura al
mitologico carisma del capo, e così via. Nondimeno, sono ormai secoli che è sempre
più difficile far credere a qualcuno che qualcun altro possegga un intrinseco diritto a
comandare, per la sua superiore nobiltà, perché prescelto dal Signore, o per qualsiasi
altro motivo. Perlomeno in ambito politico, il privilegio può essere sopportato, tollerato anche, ma non più validamente argomentato. La democrazia, la cui realizzazione è così difficile da frustrare sempre le aspettative dei suoi sostenitori, è il solo
regime politico che è oggi facile, persino troppo immediato, giustificare.
Parte seconda: Temi e problemi
- 253 -
Così, ci si potrebbe trovare grossomodo all’altezza della teoria democratica di
Hans Kelsen.1 Il principio è la libertà come non-impedimento, dalla quale deriva
l’ideale dell’eguale partecipazione di tutti alla legislazione, la cui realizzazione possibile sta nella scelta dei capi da parte del popolo. Pragmaticamente, questa democrazia serve a raggiungere il risultato della pace sociale, ma normativamente poggia sul
valore del relativismo, coincidente con la condizione per l’avanzamento del sapere
pratico e teoretico; enfatizzando quest’ultima condizione si troverebbe poi il nesso
con il pragmatismo filosofico. Una teoria politica del genere può essere accusata di
fornire motivazioni che fattualmente risulterebbero troppo deboli per sostenere l’impegno necessario alla democrazia.2 I maligni potrebbero poi notare come la caratteristica saliente del modello kelseniano – un parlamentarismo la cui quotidianità già
secondo la teoria doveva corrispondere ad una soffocante partitocrazia – non sia stato proprio di buon auspicio per il successo e la stabilità delle istituzioni democratiche. Così, la ricerca di ragioni per un modello normativamente più esigente, nonché
maggiormente partecipativo, potrebbe essere persino considerata una necessità di
fatto.
Su questo tono generale – la constatazione realistica della necessità di un idealismo democratico – sono stati criticati non soltanto i modelli minimali ma ancora
spiccatamente normativi della democrazia, come quelli di Kelsen o Bobbio, bensì
anche e più efficacemente le posizioni “realistiche”, dagli elitisti a Schumpeter, fino
alle teorie sistemiche. D’altra parte, spingere il realismo fino a dare una definizione
puramente funzionale della democrazia implicherebbe che di essa si potrebbe fare a
meno in presenza di alternative capaci di garantire altrettanto bene, o meglio, le
stesse finalità considerate socialmente necessarie. Ciò rappresenterebbe l’esito più radicale dell’atteggiamento teleologico criticato lungo tutta questa tesi: di fronte alla
complessità dei problemi ci si lascerebbe guidare da un “uomo forte”, o da élite tecnocratiche più o meno illuminate, che avrebbero in mano “la soluzione”. Il guaio non
è tanto che sarebbe riprovevole buttare a mare la libertà politica per consegnarsi ad
un dittatore, o ad un’oligarchia, forse meglio in grado di garantire il benessere sociale – questo è accaduto tanto spesso nella storia che nessun realista degno del
nome sarebbe minimamente scosso da una considerazione del genere. Neppure ci si
può limitare a considerare come un quid di partecipazione democratica sia necessario
per garantire che il governo si comporti bene.3 Il problema più radicale è che la pre1.
H. Kelsen, “Essenza e valore della democrazia”.
2. Tuttavia, da sola quest’obiezione non sarebbe rilevante, dato che nessuna teoria democratica
elaborata accademicamente ha dato miglior prova di sé in questo senso, perlomeno non nell’ultimo
secolo.
3. Già Benjamin Constant, nell’asserire la preminenza della libertà dei moderni su quella degli
antichi, giustificava tuttavia la seconda come garanzia della prima: B. Constant, La libertà degli an-
- 254 -
Conclusioni
tesa di giustificare qualsiasi regime politico in base ai suoi risultati, come distinti
dall’esistenza del sistema stesso,4 non è razionalmente riscattabile; e ciò già basterebbe ad escludere ogni possibile lettura “valoriale” della democrazia.
Faceva fin troppo bene il professo realista Danilo Zolo a richiamarsi a Machiavelli.
Infatti, per sostenere la tesi che una certa forma di democrazia (realistica sì, ma soltanto vagamente delineata) fosse in grado di svolgere l’essenziale funzione sociale di
«ridurre la paura»,5 presumibilmente meglio di alternative (ancor) meno democratiche, non rimane che un giudizio prudenziale, nel senso dell’antica phronesis, informato sì dagli esempi storici, ma che non può avanzare alcuna pretesa di rigore scientifico.6 Un giudizio del genere include sempre, e dichiaratamente, una dimensione
assiologica; perciò il “realista” si ritrova saldamente immobile al punto di partenza,
inchiodato ad assunzioni normative delle quali dovrà pur dare conto.7 Di converso, le
apodittiche certezze della scienza politica hobbesiana arrivavano a giustificare rigorosamente, al più, la necessità di una istituzione capace di applicare in ultima istanza la coercizione, lasciandone indeterminata la forma d’esercizio, dalla democrazia
diretta alla monarchia assoluta. E a tale riguardo il giudizio di Montesquieu, che la
paura fosse il principio del dispotismo, resta ancora oggi più penetrante di quanto
non pensasse Zolo.8
Pace le schiere di realisti e cinici, se si vuole la democrazia – ed in un certo senso
sembra non si possa fare a meno di volerla, nonostante l’apatia che i cittadini sanno
così bene dimostrare – la si deve considerare in modo apertamente normativo. Pure,
le critiche “realistiche”, e poi diversamente quelle “post-moderne”, contro ogni ingenuo universalismo, non sono state avanzate invano. Non si può più pensare ad un
unico modello di «forma di vita» democratica; ed anche accettata quest’inevitabile
pluralità, neanche una singola società democratica può essere rappresentata come
tichi paragonata a quella dei moderni, Torino: Einaudi, 2005.
4. Questa precisazione è rilevante, perché prima di assumere la distinzione tra politica e società
una pretesa del genere non sarebbe stata altrettanto assurda. Nessun teorico minimamente realistico sottoscriverebbe più l’immagine di una società unificata in una totalità; la differenziazione – siano le più filosofiche “sfere”, oppure i sotto-sistemi delle teorie funzionaliste – è forse il punto di partenza più comune tra le descrizioni sociologiche. Posta questa differenziazione, è possibile ‘spiegare’
(ex post) una forma politica, che non coincide più con una totalità, in modo teleologico, non la si
può però allo stesso modo ‘giustificare’.
5. D. Zolo, Il principato democratico: per una teoria realistica della democrazia, Milano: Feltrinelli, 1996, p. 63.
6.
Cosa che lo stesso Zolo afferma esplicitamente, senza però trarne le conseguenze: Ivi, pp. 47 ss.
7. Certo, ci si può rifugiare ancora nel particolarismo di «etiche locali», con ciò però lasciando cadere la pretesa di dire qualcosa di rilevante sulla democrazia e la politica, che tanto “locali” poi
non sono.
8.
Ivi, p. 76.
Parte seconda: Temi e problemi
- 255 -
una comunità integralmente auto-organizzata.9 Nel senso più ampio, l’approccio deliberativo alla democrazia rappresenta una risposta alla tensione tra il realismo descrittivo e l’idealismo normativo – per l’appunto: tra fattualità e validità.
Data l’ampiezza della questione, nessuna sorpresa che alla deliberazione si giunga
da punti di partenza tanto diversi. La constatazione del fatto del pluralismo spinge i
liberali alla ricerca di un orizzonte morale plausibilmente condivisibile, la cui traduzione politica è la deliberazione nei limiti della ragione pubblica. La teoria critica
compie la svolta comunicativa per sfuggire al destino di una razionalità che, concepita come realizzazione di un processo storico, finiva per autodistruggersi quando messa a confronto con una società fattualmente non conforme al suo presunto telos; ed
una volta teorizzato l’agire comunicativo, è relativamente immediato ridefinire deliberativamente la democrazia. Il repubblicanesimo, dal quale l’approccio deliberativo
ha preso avvio, si trovava di fronte un problema più direttamente politico, volendo
difendere la ragionevolezza del costituzionalismo dagli attacchi di scettici e cinici,
senza però cadere nell’acritica adorazione della tradizione statunitense tipica di molti conservatori; ed anche qui si è cercata la risposta in un dibattito pubblico capace
di ospitare le ragioni più diverse, grazie a regole pragmaticamente condivisibili, benché storicamente contingenti e dunque sempre perfettibili. Anche dal punto di vista
delle scienze politiche empiriche, si guarda alla deliberazione come al “meccanismo”
capace di produrre quel consenso consapevole e informato che nelle democrazie
contemporanee – caratterizzate alternativamente da movimenti di massa e da apatia
e disimpegno, nonché dalla pervasiva influenza dei media – appare sempre più
sfuggente.
***
Che la democrazia deliberativa solleciti aspettative tanto varie è tra le sue caratteristiche più interessanti, ma ha anche contribuito a confonderne la definizione. Pure,
tanti più risultati ci si attendono dalla deliberazione, tanto più precisamente se ne
dovrebbe individuare il significato. Questo è quel che ho cercato di fare, e poiché è
pacifico che tale significato sia anche normativo, nel senso più ampio questa definizione coincide con le implicazioni che se ne possono trarre. Le critiche avanzate nel
corso di questa tesi possono essere riassunte dicendo che i teorici, impegnatisi con
più o meno successo nel difendere la necessità della democrazia deliberativa, hanno
spesso proceduto ad impiegarla in contraddizione con i suoi stessi princìpi.
9. Sebbene, a tale riguardo si possa notare come l’interpretazione della «dottrina classica della
democrazia» (J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, cap. 21.), tipica della scienza politica “realistica”, sia alquanto caricaturale, vedi: G. Mackie, “Schumpeter’s Leadership Democracy”, Political Theory 37, no. 1 (2009): 128-53.
- 256 -
Conclusioni
Già la concezione iniziale della democrazia deliberativa, quella repubblicana, dimostrava un orientamento teleologico di fondo; il che potrebbe sorprendere, considerando l’enfasi posta sulle norme costituzionali. Ma anche dal punto di vista dei repubblicani, i criteri della deliberazione puntano sempre verso i risultati, comunque li
si voglia definire. Questo è reso evidente già dalla fittizia equivalenza posta tra una
decisione presa da alcuni e la medesima presa da tutti – e vale tanto per l’immagine
della rappresentanza usualmente attribuita ai Framers, quanto per i campioni statistici impiegati da sondaggi deliberativi e affini. La situazione diventa più chiara negli esiti inquietantemente “paternalistici” cui approda Cass Sunstein.10 Tuttavia, la
teoria non può fare a meno dell’appello all’autonomia dei partecipanti, perché è solo
dall’esercizio di questa che ci si attendono quei buoni risultati che non si può più
pensare di definire a priori come universalmente validi. Ma, se ci si deve affidare alla
ragione discorsiva dei soggetti coinvolti, non si può poi asserire l’equivalenza tra una
decisione assunta deliberativamente in un dato contesto e una (puramente presunta)
col medesimo contenuto proposizionale che sarebbe condivisa da tutti, se solo potessero partecipare in condizioni adeguate. Come emerso nel corso del capitolo quinto,
non è questo un modo congruamente deliberativo di interpretare la rappresentanza,
o la democrazia in genere.
Nello spirito del pragmatismo, che a vari livelli di profondità percorre tutto il
campo della democrazia deliberativa, ad essa si è guardato prevalentemente come ad
un problem solver. La deliberazione è stata pensata come un dispositivo da applicare
nella teoria e nella pratica per superare questioni altrimenti impervie, dalla conciliazione dei princìpi democratici con quelli dello Stato di diritto, fino alla produzione
del consenso riguardo una qualunque policy locale. Coerentemente con questo approccio, della deliberazione si sono discusse soprattutto le possibilità d’implementazione, benché tale discussione abbia attraversato metodologie assai varie. Passa certo
una notevole differenza tra il domandarsi come integrare la democrazia deliberativa
in una teoria filosofica della modernità, e il chiedersi invece come estrarre il massimo
del consenso da portatori di interessi divergenti, convenuti magari per discutere dello smaltimento dei rifiuti. Tuttavia, nell’ampia maggioranza dei casi, l’approccio resta strumentale: come utilizzare la deliberazione per una data finalità, teoretica o
pragmatica; ovvero, di converso, criticarla perché non può essere realisticamente impiegata nell’uno o nell’altro modo.
Diversamente, io ho lasciato in sospeso la questione della necessità, pragmatica o
teorica che sia, iniziando dall’analisi della logica deliberativa in quanto tale. L’intento di fondo può essere così riassunto: preso atto dell’ampia molteplicità delle motiva10. C. R. Sunstein, “Preferences and Politics”; R. H. Thaler e C. R. Sunstein, Nudge: Improving
Decisions About Health, Wealth, and Happiness.
Parte seconda: Temi e problemi
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zioni che conducono alla deliberazione, si tratta di ricostruirne adeguatamente le
condizioni di possibilità. Forse paradossalmente, il risultato è che la forma più generale della democrazia deliberativa finisce per essere quella della condizione di possibilità dell’impiego della razionalità in politica. La prospettiva scelta trova però
conferme tanto estrinseche quanto, ricorsivamente, interne all’ideale stesso.
Da un punto di vista “esterno” alla teoria deliberativa, quello per cui la si potrebbe concepire strumentalmente, si deve comunque rammentare che il motivo per
cui la si considera utile sta nella sua capacità di rispondere al radicale pluralismo,
fattuale e valoriale, che caratterizza le società contemporanee. Ma riconoscere tale
pluralismo vuol dire anche accettare che non c’è, dal punto di vista degli attori politici, alcuna finalità privilegiata a priori. Da ciò consegue che non è plausibile pretendere di elaborare una teoria democratica a partire da uno scopo universalmente
condiviso. Neanche la mera necessità di conservare la società è in grado di chiudere
il circuito argomentativo. In primo luogo perché, appena se ne determina il significato – ‘quale’ società dev’essere perpetuata? – subito si riapre il vaso di Pandora; ma
anche, più radicalmente, perché l’indeterminata continuazione dell’esistenza, preposta a qualsiasi altro valore o principio, giustifica tutto e niente, dall’anarchia al totalitarismo (con una certa inclinazione verso il secondo termine).
Però, anche se si potesse determinare in un senso politicamente rilevante una finalità condivisa in base alla quale giustificare la democrazia deliberativa, comunque
la logica di questa non permetterebbe di includere tale finalità nella struttura della
teoria. Il significato minimo della deliberazione – sul quale le teorie più diverse non
possono fare a meno di convergere, anche se ne specificano variamente le implicazioni – è quello di una discussione tra eguali, libera da coercizione, il cui esito sia l’esercizio di un potere. Si può girarci attorno quanto si vuole ma, dal punto di vista dei
partecipanti ad un tale dibattito, l’imposizione di una finalità aprioristicamente indiscutibile rappresenterà sempre una limitazione della libertà discorsiva. Questo è, nella forma più sintetica, il motivo per cui la teoria della democrazia deliberativa deve
darsi come puramente procedurale.
Di solito, le argomentazioni contro il proceduralismo non ne attaccano direttamente la coerenza logica, assumendo piuttosto l’impossibilità di realizzarlo concretamente. Questa linea di critica si può sviluppare su più livelli, però tutti inefficaci,
dalla constatazione che non è possibile affermare il valore di una procedura senza
con ciò implicare un contenuto, fino al giudizio secondo cui i possibili partecipanti
non troverebbero motivazioni sufficienti per conformarsi a regole prive di uno scopo
tangibile. Il fraintendimento di fondo è proprio quello per cui l’unica forma di giustificazione accettabile sarebbe quella teleologica, ossia la conformità ad uno scopo
dato. Il fine può essere rappresentato come uno specifico stato di cose (e.g. la solu-
- 258 -
Conclusioni
zione di un problema sociale), o come un valore morale molto generale (e.g. la giustizia come equità, o l’etica del discorso), ma quale che sia il caso, posta così la questione, il proceduralismo, la cui esigenza si avverte proprio a partire dal fatto che
uno scopo condiviso non sembra affatto esser ‘dato’, è tautologicamente escluso.
Sennonché, come osservato nel capitolo terzo, nessuna istituzione politica rilevante può essere giustificata a partire da simili presupposti. Il tentativo di convalidare un intero sistema politico in base ai suoi risultati, finendo per far collassare
quello su questi, è auto-contraddittorio: se l’unico modo sensato di giustificare teleologicamente un sistema decisionale è quello di pre-determinarne le decisioni, anche
ammettendo che ciò fosse possibile, è chiaro che si dissolverebbe la validità delle
procedure decisionali in quanto tali. A meno di invocare presupposti tra il metafisico
e il mitologico, non è possibile sostenere una posizione procedurale ‘soltanto un
poco’; o si porta fino in fondo un proceduralismo puramente deontologico, oppure si
rinuncia a fondare seriamente qualsiasi procedura politica.11 Il che equivarrebbe certo ad una resa all’irrazionalismo.
Questo non significa che una posizione del genere sia semplice da tenere. Tuttavia, proprio a partire dalla distinzione tra princìpi e valori si può intendere come la
procedura deliberativa rappresenti un ideale pratico, non la descrizione di uno stato
di cose nella società. Per la deliberazione, la dimensione normativa è costitutiva: soltanto in uno spazio delimitato da norme – giuridiche, certo, ma in senso più ampio
già a partire dalla grammatica di un linguaggio condiviso – è possibile discorrere liberamente. Si deve notare, non ‘è di fatto possibile’, descrittivamente non si dà alcunché che corrisponda ad una situazione del genere, ed è pressoché impensabile che
possa mai darsi. Piuttosto: ‘per definizione’ un discorso libero è possibile solo secondo tali norme, che non si danno se non come dover essere. Questo non rappresenta
un volo pindarico dell’immaginazione filosofica, bensì il solo gioco linguistico nel
quale i princìpi normativi hanno significato.
Dunque, ciò di cui si occupa la teoria non sono ‘fatti’, ma le condizioni di possibilità della deliberazione. La realizzazione possibile della democrazia non corrisponde
ad uno specifico stato di cose nel mondo, bensì al rispetto dei suoi princìpi. Quello
democratico ha perciò da essere un ethos molto particolare, il cui nucleo spiccata11. Qui, un critico come Schumpeter vedeva più chiaro di tanti altri, quando scriveva che «poiché
quella volontà [la volontà generale] non coincide con un “bene”, per riconoscere al risultato una dignità morale bisogna ripiegare su una fede incondizionata nelle forme democratiche di governo
come tali – fede che, in linea di principio, dovrebb'essere indipendente dalla desiderabilità o meno
del risultato. Ora, come si è visto, non è facile accettare questo criterio e, se anche lo fosse, la rinunzia al “bene comune” dell'utilitarismo ci lascerebbe in un groviglio di difficoltà inestricabili.»: J.
A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, p. 242. Districare il groviglio è il compito
della teoria come della prassi deliberativa. Non è facile, restano molte difficoltà; tutto vero, e però è
l’unica strada che si può ragionevolmente percorrere.
Parte seconda: Temi e problemi
- 259 -
mente formalistico corrisponde alla volontà di sovra-ordinare i princìpi della democrazia, e della deliberazione, al perseguimento immediato dei propri scopi, ivi compresi i più giusti, altruisti e nobili. Questo, non nel senso di risolvere le proprie idee
in quelle che sembrano riscuotere maggior consenso, comprendendo bensì come un
sistema adeguatamente deliberativo rappresenti la condizione perché qualsiasi giudizio od opinione possa essere politicamente rilevante, vale a dire tradursi nell’esercizio
di un potere. D’altronde, il rendere giustizia è pur sempre un’azione, ed anche un
progetto comprensivo di trasformazione della società richiederebbe d’essere sostenuto ed applicato nei singoli casi attraverso atti puntuali. Perciò, le condizioni per
agire razionalmente prevalgono deontologicamente sulle finalità specifiche, anche dal
punto di vista di chi sia interessato soltanto a realizzare i propri obiettivi. Questo è
il senso per cui i princìpi procedurali devono essere prioritari rispetto a qualsiasi valore contenutistico – tenendo però bene a mente come ciò non implichi l’esclusione
aprioristica di alcun contenuto dal novero delle finalità possibili.
Qui, l’apice dell’astrazione normativa corrisponde anche ad una posizione modestamente realistica. Che il rispetto di tali princìpi politici, questo ri-definito ethos
democratico, si manifesti o meno è completamente contingente dal punto di vista
della teoria politica. Considerazioni fattuali possono accendere, o raffreddare, le speranze in merito, ma non giocano alcun ruolo nella logica normativa. Una teoria coerentemente deliberativa, non pretendendo di includere descrizioni di fatto, non è invero attaccabile sul fronte del realismo politico. La forma generale di questo tipo di
critica infatti, presuppone proprio quella struttura teleologica incompatibile con la
democrazia. Sarebbe a dire: la teoria ritiene si otterranno una serie di risultati agendo in un dato modo, ma per come le cose stanno realmente questo è impossibile oppure controproducente. Simili critiche non toccano la democrazia deliberativa come
qui ricostruita, perché essa non presume una finalità della quale poter valutare la
maggiore o minore probabilità di realizzazione.12
Ma, anche senza presupporre alcuna finalità, si potrebbe subito replicare, è certamente irrealistico pensare ad una società integralmente organizzata attraverso la deliberazione democratica. D’altronde, questo è quanto già Habermas esplicitamente
affermava in forza della propria concezione bipartita dell’integrazione sociale. Non
c’è bisogno, però, di sottoscrivere una complessa teoria della società per accettare il
fatto ovvio che la deliberazione democratica non possa essere estesa indefinitamente.
12. La deliberazione non fa alcuna “promessa”, ed è fuorviante porre la questione in tali termini:
Pellizzoni, Luigi, “Cosa significa deliberare? Promesse e problemi della democrazia deliberativa”, in
La deliberazione pubblica, a cura di L. Pellizzoni, Roma: Meltemi, 2005. Il punto è che, fuor da implausibili superstizioni, un sistema politico può ‘permettere’ molte cose buone, ma non ‘promettere’
alcunché. Dimenticarsi di ciò, come come spesso accade per gli approcci empirici, può condurre a
risultati decisamente antidemocratici.
- 260 -
Conclusioni
La questione, piuttosto, è come la teoria deliberativa debba intendere i limiti della
propria applicabilità pragmatica.
A tale riguardo, l’atteggiamento più diffuso – certo in modi diversi, dall’equilibrio
riflessivo alla sociologia ricostruttiva – è quello di tentare di ri-comprendere tali limiti entro la stessa teoria normativa. Però, se questo approccio funziona, essendo probabilmente l’unico percorribile, per quanto riguarda la scelta prudenziale di un corso
d’azione – che è sempre anche teleologico, dunque deve tenere conto delle situazioni
di fatto che possono influenzarne gli esiti – non va altrettanto bene per una teoria
dedicata a stabilire come si dovrebbero prendere decisioni collettivamente vincolanti.
I limiti della decidibilità democratica possono essere legittimamente riscontrati solo
dalla prospettiva dei partecipanti. D’altra parte, neanche chi propone una descrizione fattuale di questi limiti – per esempio: la deliberazione democratica non può
regolare l’economia, perché questa funziona efficacemente soltanto seguendo la sua
propria logica sistemica – dovrebbe essere in disaccordo, giacché ciò che si pretende
di descrivere è proprio lo scontro, concreto non solo ipotizzato, tra il tentativo di decidere democraticamente e i suoi effettivi limiti.
Finché sociologi, economisti e filosofi constatano che in una serie di casi è stato
impossibile estendere il raggio d’azione della democrazia, o che tale tentativo abbia
dato risultati negativi, essi restano negli appropriati limiti delle rispettive discipline.
E se, come partecipanti al dibattito politico, ottengono ascolto e consenso, buon per
loro. Il problema sorge quando una serie di giudizi prudenziali vengono elevati a teorie pseudo-scientifiche, poi a dogmi indiscutibili, e con ciò tendenzialmente sottratti
alla discutibilità pubblica. Questo non sarebbe che un modo appena camuffato di
giustificare un ordine politico in base ad elementi trascendenti, ideologie, o mere superstizioni. Senz’altro, di fatto, vigono sempre alcuni limiti indiscutibili, ed è ben
possibile che in ogni dato momento la maggior parte dei pregiudizi socialmente
condivisi siano “corretti” – o piuttosto, che si rivelerebbero tali se potessero essere
messi in discussione senza distruggerli. Se così non fosse, probabilmente le società
fondate su di essi non sarebbero in grado di mantenersi stabili. Ma queste constatazioni sono ovvie soltanto in astratta e generale, mentre diventano immediatamente
problematiche non appena siano specificate. Perciò, inserirle nella teoria normativa
della deliberazione – che si occupa per l’appunto di ciò che può essere esplicitamente
discusso, una possibilità che si può riscontrare soltanto nella prassi – sarebbe
senz’altro contraddittorio.
La definizione dei limiti costitutivi della democrazia deliberativa si può operare
soltanto a partire dai suoi stessi princìpi. Questo la rende una teoria programmaticamente incompleta;13 il che, in armonia con l’idea di overlapping consensus di Rawls,
13. Quella deliberativa potrebbe divenire una teoria completa della democrazia se fosse sostenibile
una ricostruzione sociologica, come quella tentata da Habermas, delle condizioni della comunica-
Parte seconda: Temi e problemi
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è d’altronde la condizione per cui può rappresentare il punto di convergenza di posizioni così diverse. Per il resto, si dovranno senz’altro riconoscere le sempre presenti
costrizioni fattuali, ma queste possono essere solo esperite, niente affatto individuate
a priori da chicchessia. A tale riguardo, chi invocasse un maggiore “realismo”, come
terreno su cui elaborare la teoria normativa, sarebbe vittima dell’illusione di poter
conoscere, da solo o in un contesto ristretto, l’indeterminato insieme delle cangianti
condizioni che limitano l’applicabilità della democrazia, o del potere in generale.
Non importa quanto una simile hubris sia diffusa tra intellettuali e filosofi; messa in
pratica non può produrre altro che una (ancora) maggiore irrazionalità politica.
Perciò, non si può neanche più dire che l’applicazione diretta del principio del discorso alla politica produca insensatezze.14 Sarebbe così soltanto se lo si intendesse
come una ricostruzione descrittiva, dovendo poi constatare l’incolmabile distanza tra
l’ideale e la realtà. Se però si comprende come l’ideale possa essere soltanto regolativo, l’assurdità scompare, perché non c’è alcuna pretesa che la società, intesa come
oggetto d’osservazione, si conformi ai criteri dell’etica del discorso, della ragione
pubblica, o di quel che si voglia. L’errore attribuibile alla “dottrina classica” della
democrazia, vale a dire la presunzione di una società integralmente auto-organizzata
attraverso l’espressione della propria volontà, è del tutto estraneo ad una adeguata
teoria deliberativa. Anzi, come osservato nel capitolo quinto, la stessa applicazione
del modello della sovranità all’azione politica è di per sé contraddittoria con la deliberazione. Il problema primario della “dottrina classica” della sovranità popolare, o
del modo in cui viene volgarizzata, non è tanto l’essere irrealistica, quanto piuttosto
la sua ispirazione anti-politica, e perciò anti-democratica.
Dunque, abbandonare l’idea di una società interamente dedita alla discussione razionale (ammesso che qualcuno abbia mai coltivato una simile illusione) non può significare la riproposizione “sottobanco” di un risultato omologo attraverso un modello descrittivo più complesso e, presumibilmente, più realistico. Invero, il tentativo
di usare una descrizione sociologica come “ponte” tra l’ideale della sovranità popolare e la sua impossibile concretizzazione, non fa che ripetere l’ipostasi già implicita
nel modello della sovranità, per cui una volontà unitaria potrebbe, in qualche magico modo, stare in luogo delle diverse e conflittuali volontà di tutti. Viceversa, la democrazia deliberativa principia dalla consapevolezza che volontà ed opinioni polizione nel mondo della vita/società civile. Poiché però trarre inferenze dal piano descrittivo a quello
normativo resterebbe comunque contraddittorio, come abbondantemente osservato nel capitolo
quarto, persino in tal caso sarebbe probabilmente più appropriato parlare di due teorie che si corrispondono, ma restano pur sempre giustapposte. Il tentativo che ho intrapreso, nel capitolo sesto, di
delineare una concezione del potere adeguata alla deliberazione si può intendere come un’alternativa, a mio parere più plausibile e teoreticamente meno onerosa, ma con una analoga posizione
sistematica.
14. J. Habermas, Fatti e norme, p. 188.
- 262 -
Conclusioni
tiche non esistono in modo significativo prima d’essere state elaborate e messe alla
prova nel discorso pubblico. Ma se è così, per essere razionale, ognuna delle molteplici occorrenze del potere politico dovrebbe essere regolata deliberativamente, senza
subordinazione gerarchica fra l’una e l’altra. Questo significa proprio l’applicazione
del principio del discorso, tradotto nella costituzione di spazi politici adeguatamente
deliberativi, entro i quali sia possibile avanzare pretese di validità. Eliminate le improprie ambizioni descrittive, non c’è nulla di assurdo in questo principio, il solo in
forza del quale è almeno possibile pensare un agire politico razionale.
Così, quella deliberativa può essere una teoria assai radicale della democrazia;
anche radicalmente partecipativa, una volta chiarita l’inconsistenza della contrapposizione tra partecipazione e rappresentanza. Non per questo essa deve richiedere ai
cittadini di partecipare continuamente, un onere certo impossibile da assolvere.
Però, che gli spazi deliberativi restino sempre aperti e disponibili è necessario perché
ciascuno possa (perlomeno possa) riconoscere la legittimità delle decisioni prodotte,
sapendo che potrebbe non soltanto esprimere il proprio disaccordo, ma anche farlo
in un contesto tale da osservare risultati concreti, se riuscisse a convincere i propri
concittadini. Questo è, da un lato, incompatibile con una concezione dell’azione politica informata sulla sovranità, mentre d’altro canto rende evidente come il suo correlativo/surrogato in molte teorie deliberative, vale a dire una ricostruzione descrittiva
del ruolo della società civile, non possa svolgere alcun ruolo normativamente significativo. In effetti, il darsi della deliberazione, poca o tanta che sia, riposa comunque
sulla possibilità, almeno la possibilità, di esercitare concretamente un potere. Senza
questo potere, la deliberazione degenererebbe in una chiacchiera oziosa, o in
quell’asettico discorso accademico che è stata spesso accusata di scimmiottare, con
ciò favorendo più il cinismo che la libertà e la giustizia.
Tuttavia, evitando di presentarsi come un’ideologia che pretende di sapere tutto
di com’è il mondo e come sarà, la democrazia deliberativa non cade nel significato
deteriore del radicalismo, coincidente con l’estremismo politico. Ancora, questo non
nel senso di assumere una posizione per definizione “moderata”, come pure talvolta
si è voluto intendere; piuttosto, al più schietto radicalismo procedurale non deve corrispondere alcun pregiudizio riguardo i risultati contenutistici.15 Non è scopo della
democrazia deliberativa quello di sostituire questioni di forma a questioni di contenuto; la rilevanza del proceduralismo sta invece nella possibilità di costituire un quadro politico nel quale sia possibile discutere disaccordi anche radicali, mettendo in
gioco, se è il caso, tutto l’antagonismo ad essi inerente, senza però ricorrere alla violenza. In questione è dunque sì la possibilità di raggiungere un esito ragionevole,
senza però che questo pregiudichi alcuna concezione contenutistica della ragionevo15. Dovrebbe a questo punto esser chiaro quanto anticipato nel primo capitolo, vedi sopra, p. 35.
Parte seconda: Temi e problemi
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lezza, della giustizia o dell’equità.16 Escludere la violenza, o realisticamente limitarla
al minimo, non è un modo per mettere sotto il tappeto i conflitti profondi, per
creare un’armonia consensuale dove prima c’era la guerra di tutti contro tutti. Al
contrario, limitare la violenza, data la natura distruttiva di questa – non solo di cose
e di esseri umani, ma anche e soprattutto della possibilità di agire – è il solo modo
per consentire che differenze e conflittualità continuino ad essere espresse.
Ma, come già notato, la stessa differenza tra procedura e contenuto appare indifendibile se la si pensa descrittivamente. È chiaro come, di fatto, tutte le questioni
politiche siano ad un tempo contenutistiche e procedurali, se non altro perché ogni
variazione su di un piano implica conseguenze sull’altro; anche dove il nesso non è
immediatamente evidente, è sempre facile rinvenire motivazioni faziose, finalità
contenutistiche, dietro qualunque procedura decisionale, vigente o proposta. Tuttavia, in una forma o nell’altra, la distinzione tra procedura e contenuto deve far parte
di qualsiasi teoria democratica che non creda più in una volontà generale automaticamente orientata verso il bene comune, o in omologhi ideali che potrebbero fingere
di garantire risultati buoni e giusti per tutti. In breve, la sfida più radicale della democrazia deliberativa sta nel rendere possibile questo differimento normativo cui
non corrisponde alcuna fattualità. Su questo vertice convergono d’altronde le più
profonde istanze sollevate dalle diverse teorie che popolano il campo deliberativo: la
necessità di rispondere al fatto del pluralismo, di riconoscere una costituzione che
trascenda le fazioni, di salvare la razionalità dal crollo della filosofia della storia.
***
Nel primo capitolo di questa tesi, ho indicato sei punti attraverso cui individuare
quel che l’approccio deliberativo, talvolta contraddittoriamente, è stato finora.17 A
partire dai motivi fondamentali della deliberazione, molto di ciò è stato analizzato
più approfonditamente nel corso della tesi, vari elementi sono stati criticati e
contraddetti, altri aggiunti ed altri ancora, infine, elaborati in una forma diversa.
Avendo iniziato da una descrizione il più possibile inclusiva di quel che poteva ricadere sotto tale approccio, riprendendo gli stessi sei punti, vorrei ora chiudere con
una sintesi di che cosa coerentemente possa, e dunque debba essere una teoria adeguata della democrazia deliberativa.
1. Dev’essere una teoria politica in un senso specifico:
16. Il senso in cui la democrazia deliberativa può pretendere di definire una “tendenza” verso risultati corretti è soltanto quello di una condizione di possibilità; così, e solo così, è possibile evitare la
ricaduta in un’incongrua posizione parzialmente contenutistica, che alcuni ritengono inevitabile: F.
Michelman, “Constitutionalism as Proceduralism”.
17. Sopra, pp. 18 ss.
- 264 -
Conclusioni
•Analogamente al liberalismo rawlsiano, la democrazia deliberativa può presentarsi soltanto come politica, in contrapposizione alle teorie comprensive. Però,
attraverso il proceduralismo, questa posizione appare più radicale, a cominciare
dal fatto che neanche il minimale contenuto etico difeso da Rawls e dagli autori
liberali entra a far parte della teoria. D’altro canto, l’essere politica significa
escludere di impiegare come fondamento qualsiasi posizione morale, anche se
essa stessa formale, come ad esempio quella dell’etica del discorso. Habermas
aveva visto benissimo la necessità di separare il principio democratico da quello
morale, benché poi non sia stato sempre conseguente negli sviluppi. A maggior
ragione sono da rigettare i tentativi di altri teorici discorsivisti – ad esempio,
tra loro diversamente, Apel e la Benhabib – di derivare l’opzione democratica
da presupposti morali. La teoria deliberativa non si dà affatto come parte organica di una filosofia onnicomprensiva.
•La democrazia deliberativa non deve nemmeno pretendere di rappresentare, di
per sé, la norma di come la società dovrebbe essere, e neppure d’includerne una
descrizione, e dunque basare su quest’ultima la propria giustificazione. In quanto procedurale, la teoria implica la definizione di un contesto propriamente politico. Ciò corrisponde non alla descrizione di stati di fatto, bensì ad un insieme
di norme che, differendo specifici spazi deliberativi, consentono l’esercizio della
libertà discorsiva. Questo differimento, però, resta indeterminato, non implica
cioè una forma fissa della distinzione società/politica – al limite potrebbe essere
compatibile anche con un pan-politicismo (per quanto ciò possa sembrare di fatto impossibile e/o indesiderabile, ma questo è un problema diverso). Perciò, il
diritto, secondo l’aspetto per cui definisce la capacità deliberativa di soggetti
singoli e collettivi, è l’oggetto principale della teoria. Anche per questo motivo,
seppure si volesse mettere da parte l’interna contraddittorietà, la costruzione di
spazi deliberativi “sperimentali”, quando non è pericolosa, risulta comunque
insignificante.
2. Circa il pluralismo ed il carattere pubblico della deliberazione:
•Abbandonata l’idea di impiegare una descrizione sociologica per “fare da ponte”
tra i princìpi normativi e l’evidente impossibilità della partecipazione effettiva
di un intero popolo alla comune deliberazione, diviene chiaro come il pluralismo
degli spazi deliberativi debba assumere un aspetto più radicale. Ciò vuol dire
che la deliberazione ha significato e legittimità soltanto in quanto è effettivamente partecipata e che, di conseguenza, non la si può riassumere sotto il modello della sovranità. Per esser tale, ogni spazio deliberativo – che abbia forma
di parlamento, corte giudiziaria, spontanea assemblea di cittadini, o qualsivoglia – deve discutere e prendere le proprie decisioni non già in condizioni di as-
Parte seconda: Temi e problemi
- 265 -
soluta indipendenza rispetto agli altri attori politici (il che sarebbe assurdo),
bensì senza ricevere da questi ordini e comandi.
•Non rientrando nello schema di una comune volontà unitaria, la deliberazione
democratica deve però essere pubblica, nei due correlati significati di restare
aperta alla potenziale (benché mai attuale) partecipazione di tutti, e di pubblicizzare i contenuti delle proprie discussioni e decisioni.18 Questo significa che, se
le condizioni fossero ideali, sarebbe possibile (non mai sicuro) riprodurre effettivamente un’opinione, una volontà e un giudizio comuni attraverso l’interazione
continuativa tra diversi spazi deliberativi – ciò però non autorizza a passare il
limite, intendendo quest’unità come obbligata per finzione ideologico-giuridica
o, tanto meno, già sempre data attraverso la ricostruzione descrittiva dei processi comunicativi sociali.
3. Le caratteristiche che definiscono la qualità della discussione e dello scambio d’argomenti sono anch’esse da intendere in senso puramente procedurale:
•Alla già notevole difficoltà teoretica di definire che cosa sia, o non sia, un razionale scambio di argomenti, si aggiunge, non appena se ne siano asseverate le
condizioni, l’impossibilità pratica d’imporne qualunque definizione, seppure questa fosse disponibile. Così è non perché si debba necessariamente assumere una
postura relativista, né tantomeno eguagliare le pretese di razionalità all’esercizio
della violenza. Piuttosto, il punto è che nemmeno dalla più razionalista delle
prospettive è possibile negare come tali criteri non possano essere coercitivamente imposti dall’esterno del medesimo scambio argomentativo, perché questo
presuppone per definizione la presenza di agenti autonomi. Il pensiero di poter
aggirare tale ostacolo, fissando coercitivamente quali argomenti possano essere
avanzati, o in che modo, deve certo rimanere estraneo all’orizzonte democraticodeliberativo.
•Perciò, sebbene la deliberazione si fondi sul principio del discorso – ma ancor
più precisamente sul fatto che soltanto attraverso l’argomentazione è possibile
sollevare pretese di validità – questo può tradursi nella prassi solo negativamente, rimuovendo per quanto possibile gli ostacoli, proprio come soltanto in
negativo avrebbe senso definire la situazione discorsiva ideale. Qualsiasi tentativo di specificarne i contenuti, o indirizzarne gli esiti, sarebbe contraddittorio
con la libertà discorsiva affermata e presupposta dal principio stesso. Dunque, il
criterio pratico corrispondente al principio ideale può trovarsi solo nell’esclu18. Poiché i fattori che influenzano le decisioni politiche sono in larga parte tutt’altro che discorsivi, in vari casi la segretezza parziale o completa del processo deliberativo – non mai però delle decisioni risultanti – può essere difesa su base pragmatica; si tratta però sempre di un second best,
anche chi di volta in volta propone qualcosa del genere non deve dimenticarlo, senza intrinseca validità normativa.
- 266 -
Conclusioni
sione dagli spazi deliberativi dalle influenze che è possibile individuare univocamente come non comunicative – in primo luogo: denaro, coercizione, violenza –
in modo tale da lasciar libera l’espressione di ragioni. Benché anche un simile
criterio si presti ad abusi, a questi si può rimediare solo attraverso la prassi; regolazioni preventive, nella forma di assetti istituzionali, sono di per sé accettabili solo se non confliggono con l’apertura discorsiva.
4. Riguardo quali debbano essere le decisioni pratiche oggetto della deliberazione:
•Come osservato soprattutto nel capitolo quinto, non solo il contenuto o l’esito,
ma neanche la forma delle decisioni da deliberare è determinabile a priori rispetto alla medesima prassi deliberativa. Non ha alcun senso pensare, come
pure si è fatto, di concentrare il momento della decisione democratica su una
forma – la legge, perlopiù – dalla quale tutto il resto discenderebbe amministrativamente, come se amministrare la legge fosse qualcosa di “automatico”. Diversamente, ogni decisione collettivamente vincolante, di qualsiasi tipo essa sia,
idealmente richiederebbe un appropriato spazio deliberativo. Questo principio
può trovare un limite solo nell’impossibilità pragmatica, dovuta alla sempre
scarsa disponibilità di tempo e risorse, ma non può essere razionalmente subordinato ad alcuna altra istanza normativa.
•D’altronde, che persino la forma delle decisioni da prendere sia indeterminata
non è solo richiesto dalla coerenza con il principio della deliberazione, corrispondendo bensì ad una contingenza eliminabile soltanto in un’opera di fantasia. Ai
momenti costituenti, e alle altre occasioni di progettazione istituzionale, hanno
corrisposto definizioni che, anche quando pensate come fondate su verità eterne,
sono state a loro volta il prodotto di decisioni e deliberazioni contingentemente
situate, pur sempre successivamente rivedibili. Su questo punto la teoria non fa
che riconoscere l’inaggirabilità d’una contingenza che dev’essere piuttosto
anch’essa ordinata, per quanto possibile, in modo democratico-deliberativo.
5. L’esame di come la pubblica deliberazione può giustificare e legittimare la democrazia rivela un nesso anche più stretto fra i due termini dell’endiadi:
•La deliberazione appare chiaramente come la logica della democrazia non appena si abbandonino le visioni teleologiche che in passato hanno caratterizzato
quest’ultima. Dal «vox populi, vox Dei» fino alle paradossali ipostasi della volontà generale, la perniciosa convinzione che il popolo sia dalla parte della giustizia solo perché è il popolo (peggio ancora se poi questo ‘è’ passa ad indicare
un’idealizzazione controfattuale) ha favorito molto più il danno che non il beneficio della democrazia, nella prassi come nella teoria, dal Terrore della rivolu-
Parte seconda: Temi e problemi
- 267 -
zione francese fino all’atteggiamento così anti-politico della scienza politica
contemporanea.
•Diversamente, il fatto che i princìpi della deliberazione non pregiudichino alcun
contenuto, proprio perché ed in quanto rappresentano la condizione per potere
decidere significativamente qualsiasi corso d’azione, conduce logicamente alla
più ampia apertura democratica. Stabilita l’indeterminatezza del contenuto,
non è più disponibile alcun terreno normativo per limitare la partecipazione.
Ammesso che la possibile razionalità degli esiti abbia per condizione ch’essi non
siano stabiliti a priori, e di conseguenza che il sistema politico non possa essere
teleologicamente informato su di essi, tutte le figure del ‘chi’ debba governare –
dai custodi di Platone ai cittadini moderatamente benestanti di Aristotele, dal
sovrano per diritto divino fino al proletariato, o la burocrazia, quale «classe universale» – non sono nemmeno più intelligibili. Semmai, resteranno in campo
motivazioni pragmatiche (riguardo le quali dovremmo essere più creativi di
quanto non siamo) che potranno talvolta valere come ragioni per limitare la deliberazione democratica, e sempre soltanto nella minor misura possibile, ma non
per giustificare un diverso principio politico.
6. La relazione della teoria con i risultati cognitivi e morali deve risolversi nella determinazione di condizioni di possibilità, e niente altro:
•Il percorso compiuto rende chiaro come nessuna affermazione di una tendenza
oggettiva, tanto meno empiricamente riscontrabile, verso risultati razionali possa essere integrata alla teoria normativa. Sarà certo interessante indagare empiricamente il funzionamento dei sistemi democratici; mancando però un criterio
esterno alla deliberazione pubblica per giudicare significativamente dei risultati,
nulla di tutto ciò potrà valere come prova o giustificazione della democrazia.
D’altra parte, una volta compreso come la deliberazione corrisponda alla logica
della democrazia, la questione degli esiti di quest’ultima perde molta della sua
possibile rilevanza.
•Viceversa, la relazione tra la democrazia deliberativa e i suoi risultati può essere
intesa soltanto nel modo della possibilità. L’interazione discorsiva è la condizione di possibilità per la razionalità di ogni corso d’azione, giudizio, norma.
Certo, anche solo la possibilità è contestualmente limitata ma, per l’appunto,
questo è tutto ciò che realisticamente è possibile ottenere. In linea di principio,
ogni locale esercizio di potere dev’essere democraticamente deliberato, per questo motivo è raccomandabile la più ampia decentralizzazione degli spazi deliberativi, compatibilmente con le risorse materiali e organizzative volta per volta
disponibili. Che questi spazi non gerarchizzati interagiscano significativamente,
senza degenerare in un esasperato particolarismo, è reso possibile non dalla figu-
- 268 -
Conclusioni
ra spettrale di una sovrana volontà, ma dalla reciproca intelligibilità delle azioni
entro un’adeguata struttura legale.
***
Come ogni sistema istituzionale, anche una democrazia deliberativa perfettamente
realizzata, di per sé, non contribuirebbe in nulla ad un mondo complessivamente migliore, quali che fossero i criteri prescelti per misurarlo. Il risultato che ci si può
aspettare da un sistema politico giusto e razionale – ed il solo significato per cui non
è contraddittorio, o fattualmente assurdo, legare la democrazia ai propri esiti – non
consiste nella realizzazione della giustizia o della razionalità, solo però nel potere di
perseguirle nell’azione.
Bibliografie
Bibliografia per argomento
Elenco qui, ordinati per argomento e data di pubblicazione, una serie di testi che
certamente non esauriscono l’argomento della democrazia deliberativa, ma che puntano a coprire perlomeno gli aspetti essenziali, attraverso un elenco più gestibile di
quello delle opere citate, peraltro esorbitanti dall’ambito strettamente deliberativo.
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