L`EDUCAZIONE SI INCONTRA

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L`EDUCAZIONE SI INCONTRA
E.S.A.E.
Scuola Regionale per Operatori Sociali
P.zza Castello, 3
20121 MILANO
L’EDUCAZIONE SI INCONTRA
sentieri professionali a sostegno della genitorialità
Relatore: Paola EGINARDO
Allieva: Emanuela VALENTI
Anno formativo 1999/00
In realtà[...]non esiste sforzo più valido e meritevole
di quello orientato a prevenire e a ridurre la
sofferenza umana. Cambiamenti sociali ed
economici a parte, il sistema migliore di conseguire
l’obiettivo non è forse quello di offrire ai bambini
un’infanzia serena? E come si può essere sicuri di
realizzarlo se non dando loro comprensione e
sicurezza, famiglie libere da tensioni, con possibilità
di crescere e di dispiegare appieno le proprie
capacità?[...]
L’ambizione fondamentale dell’uomo
contemporaneo è quella di essere ragionevolmente
felice e di avere la capacità e la propensione a creare
un clima favorevole per se stesso e per gli altri.
In questo senso la famiglia svolge un ruolo
preminente.1
1
Slavson (1958), in Paola Milani, “PROGETTO GENITORI - Itinerari
educativi in piccolo e grande gruppo”, Trento, 1994 - pag. 9
2
INDICE
INTRODUZIONE ............................................................................ pag. 1
PRESENTAZIONE.......................................................................... pag. 6
1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. -
1.6. 1.7. 1.8. -
CAPITOLO I
CULTURA, SOCIETÀ ED EDUCAZIONE:
BISOGNI EMERGENTI E RISPOSTE NECESSARIE
........ PAG. 9
CULTURA, SOCIETÀ ED EDUCAZIONE:
ELEMENTI DI UN SISTEMA................................................ pag. 12
EDUCARE ALLA STABILITA’ E AL CAMBIAMENTO...... pag. 16
INCULTURAZIONE E SALTO GENERAZIONALE............. pag. 19
BISOGNO DI RITROVARE I SIGNIFICATI ......................... pag. 26
UNA LETTURA SOCIOCULTURALE DEL MONDO
OCCIDENTALE MODERNO................................................ pag. 29
1.5.a - Spazio urbano e cultura ........................................... pag. 30
1.5.b - Comunicazione e cultura........................................... pag. 32
1.5.c - I mezzi di comunicazione di massa........................... pag. 36
1.5.d - Relazioni virtuali....................................................... pag. 38
1.5.e - Tornare ad agire ...................................................... pag. 41
1.5.f - Esperti e narcisi........................................................ pag. 42
CENTRALITÀ DELLE RELAZIONI...................................... pag. 46
1.6.a - La pubblica affettività................................................ pag. 47
LA FAMIGLIA NELLA SOCIETÀ DELLE
DIFFERENZE...................................................................... pag. 50
PER CONTINUARE............................................................ pag. 52
CAPITOLO II
LA FAMIGLIA IN ITALIA
........
2.1. - CENNI STORICI..................................................................
2.1.a - Famiglia e parentela .................................................
2.2. - LA FAMIGLIA EDUCANTE .................................................
2.2.a - La nascita della cultura della maternità ....................
2.2.b - “Sterili per scelta, genitori ad ogni costo” .................
2.3. - GLI ESPERTI E LA DELEGA EDUCATIVA .......................
2.4. - GENITORI E FIGLI..............................................................
2.5. - PER CONTINUARE.............................................................
I
PAG. 54
pag. 56
pag. 60
pag. 63
pag. 65
pag. 67
pag. 70
pag. 74
pag. 80
CAPITOLO III
IL QUADRO LEGISLATIVO DI RIFERIMENTO
........ PAG. 86
3.1. - Legge 28 agosto 1997, n.285 “ Disposizioni per la
promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia
e l’adolescenza”................................................................... pag. 87
3.2. - Legge Regionale 6 dicembre 1999, n. 23 “Politiche
regionali per la famiglia”....................................................... pag. 93
CAPITOLO IV
I SERVIZI A MILANO E HINTERLAND
........ PAG. 95
4.1. - MADRI E PADRI ................................................................. pag. 97
4.2. - I TEMPI PER LE FAMIGLIE A MILANO E
HINTERLAND...................................................................... pag. 101
4.2.a - Esperienze e possibilità diverse................................ pag. 103
4.2.b - Finalità ed obiettivi dei Tempi per le Famiglie............
pag.
106
4.3. - COCCOLE E GIOCHI ......................................................... pag. 108
4.4. - CORSI PER GENITORI....................................................... pag. 112
4.4.a - Progetto Genitori....................................................... pag. 113
4.4.b - P.E.T. Parent Effectiveness Training......................... pag. 117
4.5. - PER CONTINUARE............................................................. pag. 119
5.1. 5.2. 5.3. 5.4. 5.5. 5.6. 5.7. -
5.8. 5.9. -
CAPITOLO V
LA PEDAGOGIA DELLA RELAZIONE E DELL’ESPERIENZA
APERTE AL POSSIBILE
........ PAG. 122
FONDARE LA PEDAGOGIA COME SCIENZA................... pag. 126
LA RAZIONALITÀ DELL’ESPERIENZA EDUCATIVA........ pag. 131
ATTENERSI ALLA RELAZIONE......................................... pag. 135
L’ESPANSIONE DELL’ESPERIENZA................................. pag. 136
L’OGGETTO INTENZIONALE............................................ pag. 137
IL CAMBIAMENTO............................................................. pag. 140
SISTEMA COMUNICATIVO E SISTEMA PSICHICO.......... pag. 143
5.7.a - La teoria dei sistemi e la sua applicazione
pedagogica................................................................ pag. 145
IL LINGUAGGIO EDUCATIVO............................................. pag. 152
RISPETTO, RESPONSABILITÀ E LIBERTÀ:
VALORI ETICI E DATI IMPRESCINDIBILI........................... pag. 160
II
CAPITOLO VI
DALLA TEORIA ALLA PRATICA
........ PAG. 164
6.1. - OCCUPIAMOCI DI EDUCAZIONE........................................ pag. 165
6.2. - ENTRARE IN RELAZIONE PER TRATTARE
LA RELAZIONE................................................................... pag. 172
6.2.a - Trattiamo la relazione. Quanto e quando
esplicitarlo? .............................................................. pag. 174
6.3. - CONDIVIDERE LE ESPERIENZE....................................... pag. 178
6.4. - IL GRUPPO......................................................................... pag. 180
6.5. - IN SINTESI.......................................................................... pag. 181
6.6 TRACCE DI ESPERIENZA ................................................. pag. 182
Non toccate il mio giocattolo ................................................ pag. 183
Un’occasione persa ............................................................. pag. 187
Una mamma “in gamba” ....................................................... pag. 191
Stabilità e movimento ........................................................... pag. 195
Il dolce sapore della vita ...................................................... pag. 198
Provare ad attendere............................................................ pag. 200
Trasformare ......................................................................... pag. 201
6.7. - LE CONSULENZE PEDAGOGICHE:
UNA POSSIBILITÀ’ ULTERIORE........................................ pag. 204
6.7.a - Due esempi per tutti................................................... pag. 208
L’unione fa la forza .................................................... pag. 208
Cambio di scena ........................................................ pag. 210
CAPITOLO VII
CONCLUSIONI
7.1. - Imparare ad imparare........................................................... pag. 213
7.2. - Andiamo oltre ...................................................................... pag. 214
7.3. - Per continuare ..................................................................... pag. 217
BIBLIOGRAFIA.............................................................................. pag. 219
III
INTRODUZIONE
Ricordo che durante una lezione del primo anno una
docente ci disse con insistenza che uno degli obiettivi del
suo corso era quello di stimolare in noi una riflessione circa
quelli che avrebbero potuto essere il nostro interesse ed il
nostro orientamento professionale; essi sarebbero stati il
frutto di una ricerca lunga, pressoché senza fine, che
iniziava in quel momento.
Allora non capii che cosa intendesse, perchè mi sembrava
che il solo fatto di aver scelto la scuola e di avere già una
serie di idee intorno al tema dell’educazione e del lavoro
dell’educatore professionale fossero elementi già dati ed
immutabili. Pensavo che avrei imparato delle nozioni
precise, che mi sarebbero stati forniti strumenti tecnici e
metodologici grazie ai quali sarei stata in grado di lavorare
sicuramente
con
i
minori
“disadattati”
o
con
gli
handicappati.
Ora, a distanza di più di tre anni, capisco a quale cammino
di ricerca si riferisse e quanto questo cammino abbia
aperto per me strade nuove.
1
Infatti non avrei mai creduto di approdare, per il tirocinio di
terzo anno, in un servizio fino ad allora a me sconosciuto
denominato Tempo per le Famiglie né, tanto meno, avrei
immaginato che l’esperienza in quel servizio sarebbe
diventata lo stimolo per scrivere una tesi su un tema a me
oggi molto caro: il ruolo e la specificità dell’educatore
professionale nei servizi educativi per il
sostegno alla
genitorialità.
L’esperienza di tirocinio non solo mi ha permesso di
scoprire un ambito professionale che non conoscevo
affatto e che oggi mi appassiona, ma anche di intuire
l’esistenza di
livelli di complessità nuovi nel lavoro
educativo con i genitori di bambini da zero a tre anni; livelli
di complessità che sono diventati proprio l’oggetto di
ricerca di questo lavoro e rispetto ai quali sento il profondo
bisogno, professionale ma anche personale, di fare
maggiore chiarezza.
Ma quali sono questi nuovi livelli di complessità ai quali mi
riferisco ?
2
La complessità sociale e culturale del nostro tempo e delle
nostre città; la complessità crescente dei bisogni, vecchi e
nuovi, della famiglia “educante” che si nutre di questo
sociale e di questa cultura; la complessità che deriva dalla
diffusione della cultura dell’infanzia e di modelli pedagogici
differenti, se non addirittura contraddittori; la complessità
della
relazione
genitore-figlio
ma,
soprattutto,
la
complessità della relazione tra l’educatore e la coppia
genitore-figlio nel contesto dei servizi di prevenzione e
supporto alla genitorialità.
Questo
lavoro
vuole
quindi
essere
una
riflessione
epistemologica e, insieme, una proposta metodologica
precisa che risponda alla domanda: quale pedagogia e, di
conseguenza, quale specificità per l’educatore che opera
in questi servizi?
La nostra proposta consiste nell’adesione al principio
pedagogico generale dell’attenersi alla relazione.
Ed aggiungiamo un dato ulteriore: l’educatore che opera
per il supporto della relazione genitore-figlio non può
attenersi solo alla propria relazione con l’adulto e/o con il
3
bambino ma deve utilizzare la propria relazione con la
coppia per trattare la relazione tra la coppia.
Trattare la relazione tra la coppia significa trovare in essa
l’oggetto intenzionale del proprio lavoro quotidiano e della
propria progettualità; significa che la relazione tra la coppia
diventa il tema principale ed unificante, la lente attraverso
la quale guardare a ciò che adulti e bambini portano nei
servizi e a partire dalla quale progettare spazi ed
esperienze da offrire a genitori e figli per ricercare
significati e possibilità di azione nuovi.
E ancora di più: non basta che l’educatore sappia condurre
in modo professionale la propria relazione con gli utenti e
che ne sappia parlare con loro; occorre che egli aiuti i
genitori a riflettere, tematizzare, condurre e parlare della
propria relazione educativa con i figli al fine di coglierne i
significati più profondi che essi stessi potranno e vorranno
darle e per sapersi muovere verso la sperimentazione di
modalità autonome di risoluzione dei problemi quotidiani.
L’educatore nei servizi che prenderemo in esame ha a
propria disposizione uno strumento potentissimo in quanto
autentico moltiplicatore delle possibilità. Stiamo parlando
del gruppo dei genitori. Tra i compiti dell’educatore vi sarà
4
anche quello di valorizzare il sapere educativo degli adulti
e di metterli nelle condizioni di farlo circolare all’interno del
gruppo.
L’esperienza fatta nei mesi di tirocinio e il lavoro di ricerca
svolto per questa tesi mi hanno messa di fronte a non
poche difficoltà proprio rispetto alla coerenza tra i principi e
il metodo sopra delineati e la prassi quotidiana così ricca di
“tranelli” che rischiano di far perdere proprio quella
specificità educativa che intendiamo proporre.
Anche questi pericoli saranno oggetto di indagine, insieme
alle diverse rappresentazioni ed interpretazioni del lavoro
educativo in questo settore.
5
PRESENTAZIONE
Il vecchio e il nuovo convivono, si toccano, si contaminano
e, a volte, si scontrano. Così l’educazione naturale e
l’educazione
professionale:
la
prima
che,
imprescindibile, continua ad esistere pur trasformandosi; la
seconda che appare sullo scenario socioculturale faticando
a trovare un proprio spazio ed una propria specificità. Non
possiamo pensare che l’una soccomba omologandosi
all’altra o sperare con nostalgia di non avere bisogno delle
agenzie educative alle quali le famiglie delegano alcuni dei
loro compiti. Ciò che i professionisti dell’educazione
devono impegnarsi a promuovere è un INCONTRO tra le
due che è possibile solo se si rintracciano, riconoscono e
mantengono vive le differenze e le specificità di ognuna.
Per questo motivo ho sentito l’esigenza di percorrere i
sentieri professionali a sostegno della genitorialità per
comprendere, dapprima, se e come sta cambiando il
compito educativo dei genitori e, di conseguenza, quali la
specificità, il valore aggiunto e le possibilità che l’educatore
professionale può offrire.
6
Il percorso si snoda lungo sette capitoli: il primo offre uno
sguardo antropologico sul mondo occidentale moderno,
attraverso il quale esploriamo alcune caratteristiche delle
nostre città da un punto di vista culturale e sociale per
comprendere
quale
rapporto
esista
tra
cultura
ed
educazione e come esse influiscono sulle relazioni sociali e
familiari. Nel secondo guardiamo la famiglia urbana in Italia
come fenomeno sociale immerso in questo contesto per
identificarne i bisogni rispetto al proprio compito educativo.
Il terzo capitolo contiene una lettura ed interpretazione del
quadro legislativo di riferimento con particolare attenzione
alla L. n. 285/97 che, riconoscendo e legittimando questi
bisogni, fornisce le linee guida perchè si attivino servizi
socio-educativi che contribuiscano a rispondervi. Nel
quarto percorriamo alcuni progetti ed iniziative che hanno
preso avvio grazie alla legge - con particolare attenzione ai
Tempi per le Famiglie - ed altre esperienze di supporto alla
funzione genitoriale che rappresentano, appunto, i luoghi e
le possibilità di questo incontro. Il quinto capitolo vuole
essere l’esplicitazione del paradigma pedagogico al quale,
secondo noi, deve fare riferimento l’educatore che lavora in
questi servizi per trovare la propria specificità. Nel sesto
7
decliniamo la teoria nel contesto dei servizi per il supporto
alla genitorialità, proponendo anche qualche esempio
pratico di applicazione. Con il settimo concludiamo il lavoro
facendo qualche breve riflessione sul significato e le
possibilità che questi servizi e, più in generale, l’educatore
professionale che intenda lavorare con le famiglie
possono offrire.
8
CAPITOLO I
CULTURA, SOCIETÀ ED EDUCAZIONE:
BISOGNI EMERGENTI E RISPOSTE NECESSARIE
Il bisogno di esplorare il tema di questa tesi nasce, come
scritto nell’introduzione, dall’esperienza vissuta nel Tempo
per le Famiglie e non può prescindere da uno sguardo al
contesto socioculturale che si presenta complesso, ricco di
contraddizioni e difficile da interpretare. L’educazione,
infatti, è strettamente legata all’ambiente in cui si svolge e
allo scenario socioculturale che ne definiscono alcuni
vincoli di significato verso i quali ogni interazione educativa
ed ogni soggetto tende a ricondursi.
L’assunto dal quale partiamo è che la famiglia, in quanto
sistema aperto, si nutre del contesto socioculturale che la
accoglie
e,
contemporaneamente,
contribuisce
a
modificarlo. Inoltre crediamo che cultura, società ed
educazione siano fortemente legate tra di loro e che a
creare questo legame contribuisca certamente la famiglia
“educante”.
9
Riteniamo poi che nonostante la diffusione della “cultura
degli esperti” e la moltiplicazione delle forme, più o meno
esplicite, di delega del compito educativo da parte della
famiglia verso i servizi, essa è e rimane il primo luogo
dell’educazione dei piccoli. I compiti ai quali è chiamata
sono sempre più delicati ed articolati ma sono e rimangono
compiti che le appartengono.
Qualcuno sostiene che oggi i bambini e gli adolescenti
vengono educati “dalla società” e dalla televisione, non
dalla famiglia, dalle esperienze e dalle persone in carne ed
ossa. Forse con questa affermazione ci si vuole ribellare e se così fosse siamo d’accordo - al sentire comune
secondo il quale la famiglia è causa di tutti i mali della
società proprio perchè colpevole e inadeguata nel suo
compito educativo. Ma se veramente il senso di questa
affermazione
è
quello
di
trovare
un
“colpevole”,
significherebbe scaricare le responsabilità su un’entità
astratta e impersonale (la società appunto) per sentirci tutti
vittime scagionate di un carnefice inattaccabile perchè non
identificabile. Ma attribuire colpe a destra e a manca non
serve a nessuno, non ci aiuta a comprendere i problemi e
a pensare a come risolverli. Lungi da noi pensare che la
10
famiglia o la società abbiano delle colpe o stiano
scaricando il barile, crediamo invece che la famiglia non
voglia affatto rinunciare alle proprie responsabilità e che,
nel volersene prendere carico, esprima dei bisogni.
Il semplice fatto di intuire l’esistenza di tali bisogni ci
“costringe” a farli oggetto di riflessione.
L’obiettivo di questo capitolo è dunque quello di provare a
tratteggiare alcune caratteristiche socioculturali del nostro
tempo per capire come esse influiscono sulla famiglia
contemporanea in Italia (specialmente quella delle città del
Nord che rappresentano il mio contesto di vita e di lavoro)
rispetto alle proprie relazioni interne ed esterne e,
soprattutto, al proprio compito educativo. Faremo ricorso
ad alcune riflessioni di carattere antropologico che ci
possono aiutare ad individuare i processi di mutamento
che investono la nostra società ed a interpretare le
trasformazioni culturali che stiamo vivendo.
Il quadro che tratteggeremo non è certamente univoco e
non ha pretese di esaurire l’argomento ma crediamo di
poter affermare che le famiglie di oggi stanno chiedendo
aiuto anche se, non sempre, la domanda è chiara ed
11
esplicita. Basta pensare alla grande quantità di servizi che
sono nati e continuano a sorgere, almeno in Lombardia, in
seguito all’emanazione della L. n. 285/97; è sufficiente
visitare una libreria ben fornita per notare la grande
quantità
di
testi
pubblicati
ed
esposti
sul
tema
dell’educazione dei bambini; pensiamo inoltre alle forme di
associazionismo
delle
famiglie
che
si
aiutano
reciprocamente nel loro compito di crescita dei figli.
Questi sono, secondo noi, segnali dell’esistenza di un
bisogno reale, che spetta anche a chi si occupa
professionalmente di educazione contribuire a soddisfare.
1.1. - CULTURA, SOCIETÀ ED EDUCAZIONE:
ELEMENTI DI UN SISTEMA
In questo paragrafo cerchiamo di capire meglio cosa
intendiamo per cultura, società ed educazione e se esiste
una relazione sistemica tra questi elementi.
12
Matilde Callari Galli2 ci ricorda che già due secoli fa JeanJacques Rousseau aveva intuito che occorre porre una
chiara distinzione tra i termini “società” e “cultura”. La prima
è un autentico prodotto dell’uomo e riguarda il rapporto che
gli individui stabiliscono tra di loro; la seconda, invece, è
ciò che determina il passaggio da uomo “animale” a uomo
“sociale” dal momento che sta alle origini di questo
rapporto o legame tra persone. La cultura, dunque,
rappresenta l’insieme dei significati che ogni uomo
attribuisce al proprio stare nel mondo e al proprio
relazionarsi ad esso mentre la società è qualche cosa che
serve agli uomini per aggregarsi attorno a questo impianto
di significati in qualche misura preesistente.
L’educazione ha a che fare con un tipo particolare di
rapporto sociale: quello che coinvolge una persona che
voglia insegnare ed un’altra che voglia imparare da chi
insegna. E questo rapporto “ha significato perchè
c’è sempre una antropologia che agisce da
significante.”3 Non esiste soluzione di continuità tra
stato di natura e di cultura; non è detto che una potenzialità
2
Matilde Callari Galli, “Antropologia culturale e processi educativi”, La
nuova Italia, Scandicci (FI), 1993
13
biologica (natura) diventi attuale (cultura): c’è di mezzo
l’educazione.
Abbiamo visto che cultura, società ed educazione non
devono essere sovrapposte; ora dobbiamo andare oltre
per capire come esse si intrecciano e si contaminano nel
processo educativo. Piero Bertolini4 ci viene in aiuto
scrivendo che una delle caratteristiche fondamentali
dell’interazione educativa è quella di essere una relazione
sistemica all’interno della quale entrano in gioco vari
elementi in stretta correlazione tra di loro. Primo tra tutti è
l’individuo inteso come singolo o come gruppo; secondo è
la comunità sociale con le persone e le istituzioni che
hanno, più o meno consapevolmente, una funzione
educativa; terzo è il patrimonio culturale cui la comunità
sociale
fa
costruendo.
riferimento
e,
Quest’ultimo
contemporaneamente,
rappresenta
il
sapere,
va
le
abitudini, le credenze, i valori ed un insieme di significati
che, seppure inevitabilmente aperti ai cambiamenti, si
pongono come materiale oggettivo (non vero e assoluto) e
3
Matilde Callari Galli, Ibidem, pag. 48
14
oggettivante con il quale l’educazione deve fare i conti. Per
esempio nella famiglia i figli rappresentano l’individuo; i
genitori la società educante; la cultura è l’insieme di
contenuti educativi e di valori presenti nel nucleo
famigliare.
Complessivamente possiamo concludere questo paragrafo
dicendo che, secondo il punto di vista che proponiamo, il
“sociale”, se considerato in senso astratto e come
elemento a sé stante, non educa perchè esso è il risultato
di un intreccio di legami che le persone creano a partire
dalla
cultura,
ovvero
dall’orizzonte
complessivo
dei
significati che questo sociale rappresenta, perpetua e,
nello spesso tempo, reinterpreta. Nemmeno il “culturale”
educa perchè gli occorre un sociale che lo incarni.
L’educazione è un fenomeno sistemico che ha bisogno di
contenuti culturali e strutture sociali dai quali è fortemente
influenzata ma che, contemporaneamente, contribuisce a
modificare. Essa infatti ha un compito particolare: non solo
garantisce la trasmissione della cultura; non solo consolida
4
Piero Bertolini, “L’esistere pedagogico”, La Nuova Italia, Scandicci (FI),
1990.
15
le forme di aggregazione sociale ma anche, e soprattutto,
contribuisce all’evoluzione di entrambe. Come scrive la
Callari Galli la cultura “si afferma, si nega, muta,
nel
rapporto
trasmissione
educativo.”
intergenerazionale,
culturale,
nella
cioè nel processo
5
1.2. - EDUCARE ALLA STABILITA’ E AL CAMBIAMENTO
Per comprendere i processi di trasmissione culturale sia
nella direzione del cambiamento che della stabilità, occorre
addentrarsi in quelli educativi. Infatti la Callari Galli scrive
che uno dei principali motivi per i quali l’antropologia non
è sempre riuscita a venire in aiuto all’educazione consiste
nel
fatto
che
spesso
essa
si
è
incentrata
sulla
comprensione del risultato che una certa educazione
produce, cioè dei comportamenti emessi quando una
cultura è già stata introiettata. L’attenzione è stata posta
sul prodotto finito e non sui processi educativi che vi
sottostanno e che sono necessari per produrlo.
5
M. Callari Galli, op. cit., pag. 169
16
Comprendere i processi educativi non significa solo capire
cosa deve fare e cosa fa l’adulto educatore (processi di
insegnamento): significa soprattutto capire cosa fa e di che
cosa ha bisogno il soggetto che sta imparando (processi di
apprendimento) e perchè un bambino impara certe cose e
non altre, come elabora ciò che ha imparato e come lo
modifica. Ci sembra importante, a questo proposito, citare
Ruth Benedict, che già nel 1940 cercò di formulare una
classificazione dei ruoli che l’educazione è chiamata a
svolgere e che si riconducono all’azione di trasmettere,
preparare ma anche trasformare. L’educazione non è
quindi “merce
prodotta”
ma
“produzione
di
cultura.”6
Igor Salomone7 ci dice che la trasmissione culturale,
ovvero il bisogno di tramandare da una generazione
all’altra ciò che si è imparato, è una delle caratteristiche
fondamentali dell’esperienza umana ed uno dei compiti
principali dell’educazione. Rispetto al passato remoto il
contesto socioculturale moderno si è estremamente
complessificato e, di conseguenza, si sono complessificati i
6
Matilde Callari Galli, Ibidem, pag. 97
17
bisogni ai quali l’educazione deve rispondere. La nostra
società tecnologica è pedagogicamente superiore rispetto
a quella di tremila anni fa per quel che riguarda la varietà
degli strumenti e dei metodi educativi, la specializzazione
dei contesti, la varietà dei compiti dovuta alla crescita dei
saperi e del numero dei soggetti ai quali tali saperi devono
essere trasmessi. Ma i problemi educativi di fondo che
vanno affrontati sono sostanzialmente gli stessi del
passato: aiutare le persone a crescere sane e a
mantenersi tali, addestrarle ai compiti socialmente utili ma
anche aiutarle a scegliere quali di questi compiti
preferiscono svolgere, trasmettere i saperi acquisiti
ma
anche le domande aperte, ottenere il rispetto delle regole
ma anche garantire un margine di flessibilità per affrontare
gli imprevisti.
Complessivamente l’educazione deve garantire una certa
stabilità culturale che mantenga gli equilibri raggiunti e,
contemporaneamente, stimolare la trasformazione. Ogni
cultura deve cercare di rimanere uguale a se stessa ma
anche di cambiare per non soccombere. L’educazione,
7
Igor Salomone, “Il setting pedagogico - Vincoli e possibilità per
l’interazione educativa”, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997
18
quindi, non è un processo di semplice integrazione sociale,
non è una “merce prodotta”; non è nemmeno un
processo di emancipazione e di controcultura perchè essa
ha a che fare sia con l’integrazione e lo sviluppo della
dipendenza dell’individuo dalla società, sia con la crescita
della sua autonomia. Ogni uomo deve appartenere alla
propria cultura dalla quale dipende la sua identità e
attraverso la quale contribuisce a creare quella collettiva;
nello steso tempo deve prenderne le distanze. Se
l’educazione integrasse e basta sarebbe inefficace. Se
sovvertisse il mondo ne sarebbe espulsa perchè il mondo
vuole sopravvivere. L’educazione insegna a mantenere la
cultura ma anche a trasformarla e non può fare a meno di
mantenere vivo questo paradosso: continuità che permetta
il cambiamento senza pregiudicare l’identità.
1.3. - INCULTURAZIONE E SALTO GENERAZIONALE
Per comprendere meglio come i processi educativi
possono garantire sia la stabilità che il cambiamento
culturale da un lato, e quale rapporto vi sia tra la
19
trasmissione della cultura e i vertiginosi mutamenti sociali
dall’altro, facciamo ricorso ad alcune interpretazioni del
concetto antropologico di “inculturazione”.
Abbiamo detto che per comprendere i processi di
trasformazione culturale occorre addentrarsi in quelli
educativi per rendersi conto che un bambino impara solo
alcune delle cose che gli adulti cercano di insegnargli e
che le cose imparate assumono inevitabilmente forme
diverse rispetto a quelle che avevano per il maestro.
Questa trasformazione, queste differenze hanno a che fare
sia con la sfera dei significati che chi impara attribuisce a
ciò che gli viene insegnato (pur sempre all’interno di un
orizzonte, più o meno condiviso, più o meno esplicito di
sensi comuni in movimento) che, come cercheremo di
dimostrare, con il cambiamento sociale, cioè con il
cambiamento del modo con cui le persone si aggregano, si
organizzano,
producono
e
comunicano.
Fenomeno,
quest’ultimo, che caratterizza fortemente il mondo di oggi
sia per la velocità con cui avviene che per le dimensioni
che lo caratterizzano e che, pertanto, deve essere preso
in considerazione nella nostra analisi.
20
L’inculturazione era definita dall’antropologia tradizionale
come programma di insegnamento conscio ed inconscio
attraverso il quale le generazioni più vecchie inducevano le
più giovani ad interiorizzare valori, atteggiamenti e
comportamenti appartenenti alla cultura del gruppo.
L’inculturazione ricostruiva, ad opera dell’educatore, la
stessa
immagine
della
cultura
nella
personalità
dell’individuo. Era intesa, inoltre, come processo educativo
unidirezionale dell’anziano verso il giovane il quale,
attraverso un sistema di punizioni e premi, esercitava un
controllo su quest’ultimo. Questo modo di intendere
l’inculturazione
attribuiva
all’educazione
il
compito
sostanziale di garantire stabilità culturale; l’educazione,
inoltre, era intesa come un processo sostanzialmente
consapevole e programmabile, i cui esiti sarebbero
prevedibili.
Una seconda definizione interpretava il processo di
inculturazione
evidenziandone
soprattutto
gli
aspetti
inconsci, pur continuando a considerarla come fenomeno
che garantisce la stabilità culturale. Essa partiva dal
presupposto che le nuove generazioni sono “programmate”
per replicare il comportamento delle generazioni anziane e
21
per “replicare le repliche”. Per chiarire questo concetto la
Callari Galli8 spiega che l’inculturazione, secondo questa
seconda definizione, non deve solo trasmettere i modelli di
comportamento (cultura) ma anche i modelli di interazione
di tali comportamenti a livello di stratificazione sociale
mantenendo la reciproca dipendenza tra strati. La cultura
trasferisce, quindi, anche società e, ancora di più,
trasferisce ideologia che, secondo questa visione, è la
variabile indipendente dalla cui trasformazione dipendono
le trasformazioni di altre variabili o comportamenti. I
comportamento
esteriori
nascondono
modelli
di
stratificazione sociale, cioè ideologie e valori che vanno
ben al di là dei comportamenti in sé e dell’insegnamento
cosciente.
Proseguiamo
l’inculturazione,
nel
ragionamento
intesa
come
per
capire
processo
se
conscio
(assumendo la prima definizione) o inconscio (stando alla
seconda) ma comunque proteso a mantenere la stabilità
culturale, può esserci ancora di aiuto per comprendere
come mai oggi esistano differenze culturali così marcate
tra le generazioni e come il processo educativo di
8
M. Callari Galli, op. cit..
22
inculturazione possa spiegarle. La Callari Galli scrive:
“Gli scambi continui e imprevedibili, che
avvengono
nella
società
fondati
su
contatti
contemporanea,
reali
e
virtuali,[...]pongono su basi nuove il tema
dell’inculturazione: oggi siamo sempre più
convinti che il repertorio comportamentale
di
qualunque
condizioni
spiegato
gruppo
del
tutto
inculturazione”9.
comportamentali
umano,
mondo,
e
solo
Infatti
vengono
non
in
oggi,
nelle
possa
attuali
essere
termini
nuovi
continuamente
di
modelli
aggiunti
al
patrimonio della cultura e i modelli vecchi non vengono
ripetuti fedelmente. Che cosa determina la ripetizione
infedele dei vecchi modelli e l’adozione di nuovi? Sono le
condizioni sociali? Sono i modelli educativi? L’educazione
dovrà essere programmata perchè il giovane si muova
verso il nuovo o verso la tradizione? E se l’educazione può
essere programmata, l’inculturazione continuerà ad essere
principalmente un processo inconscio o le scienze
9
Ibidem, pag. 188
23
dell’educazione lo hanno reso in gran parte conscio, in un
certo senso, deformandolo?
La Callari Galli riflette sul significato che l’interpretazione
tradizionale del concetto di inculturazione può avere oggi
rispetto all’attuale problema del conflitto generazionale che
pare così vicino al vivere quotidiano che, in futuro, le
differenze culturali si potranno esprimere proprio in termini
di generazioni. Il problema, secondo l’antropologa, non
consiste nel fatto che i genitori non sono più in grado di
essere guide per i figli ma che la guida in sé è scomparsa.
Se è vero che i vecchi non sanno ciò che sanno i giovani e
non serve che ciò che sanno i vecchi venga insegnato ai
giovani, il concetto tradizionale di inculturazione viene
messo in crisi perchè, ammettendo che essa servisse a
spiegare la continuità culturale tra le generazioni, non
potrebbe spiegare il salto generazionale. Inoltre pare che i
genitori non abbiano appreso come indurre i figli a
replicare i loro modelli: il che equivale a dire che i nonni
non sono stati a loro volta capaci di insegnare ai genitori di
oggi a replicarli. Quindi l’inculturazione non spiegherebbe
più nulla perchè non solo non sarebbe in grado di trasferire
contenuti in modo consapevole, ma nemmeno di replicare
24
le repliche in modo inconscio. Ma qui l’antropologa trova
un errore. Se ci chiediamo solo perchè e come le cose
sono cambiate e non ci chiediamo perchè e come altre
cose non sono cambiate non usciamo dal loop. Se
continuiamo a pensare che l’inculturazione serve solo a
conservare la cultura non impariamo nulla. Infatti vogliamo
assumere che l’inculturazione è produttrice di inconscio e,
facendolo, dobbiamo aspettarci che essa continui ad
esistere e funzionare anche, se non soprattutto, per
l’evoluzione e non solo per la stabilità culturale. Secondo
l’ipotesi della Callari Galli “l’inculturazione[...]è
incapace di spiegare alcunché se è vista
solo
come
cultura[...]
acquisizione
e
l’inculturazione
se
sono
cosciente
la
della
cultura
staccate
e
dalla
società.”10
Evoluzione e continuità non hanno a che fare tanto con la
cultura quanto con il sociale che determina appunto
evoluzione o continuità in funzione della presenza o meno
del rapporto di integrazione. L’inculturazione ha a che fare
con l’inconscio, con l’ideologia ma anche con il sociale
10
Ibidem, pag. 191
25
inteso come reciproca dipendenza che lega gli individui di
un gruppo. Così, di fronte alla continuità di modelli e valori
trasmessi
dall’inculturazione,
assistiamo
anche
all’evoluzione di comportamenti proprio di fronte ad una
società che cambia e che richiede di comportarsi sempre in
modo differente a seconda delle situazioni.
1.4. - BISOGNO DI RITROVARE I SIGNIFICATI
Al di là del significato socio-politico che chi legge può dare
a questo modo di intendere l’inculturazione, ciò che ci
importa sottolineare è che l’educazione è un processo che
contiene in sé sia elementi di consapevolezza che inconsci
e che essa ha a che fare con la continuità e con la
trasformazione socioculturale.
L’educazione ha sempre un significato e l’agente educativo
ne è insieme conscio e inconscio: conscia è l’intenzione di
insegnare qualche cosa; inconscio, o meglio implicito, può
essere il senso, il perchè si voglia insegnare quella tal cosa
dal momento che l’educatore potrebbe a sua volta aver
appreso quel comportamento in modo poco consapevole
26
quando era bambino. Il tutto è reso più complesso da un
sistema sociale in continua e rapida evoluzione che mette
in crisi contenuti culturali e modelli comportamentali dal
momento che essi sono sempre più difficilmente spendibili
in un futuro molto prossimo. Ma soprattutto ciò che viene
messo in crisi è il sistema dei significati soggettivi e
intersoggettivi. Non solo oggi siamo perplessi, e nello
stesso tempo entusiasti, di fronte al fatto che non serve più
imparare a compilare un bollettino postale perchè
c’è
Internet che ci permette di risparmiare tempo e denaro,
togliendoci pure dall’imbarazzo di dover vedere in faccia
quei signori dietro gli sportelli spesso così antipatici quanto
tristi. Ma ancora di più siamo disorientati se ci domandiamo
che senso ha che l’ufficio postale continui ad esistere con
le sue lunghe code, gli impiegati dietro i vetri e le
montagne di carta che si intravedono negli uffici. E noi che,
qualche volta e senza sapere bene perchè, preferiamo
continuare a far la coda pur di avere un contatto, seppure
minimo, con quel signore dietro lo sportello che magari
oggi ci concederà un sorriso.
27
Come scrive Igor Salomone11, il problema consiste nel
domandarsi che senso hanno le mille opportunità che il
mondo di oggi ci offre; domandarci se e come vogliamo
utilizzarle e quali di queste possono aggiungere valore al
nostro stare nel mondo e relazionarci con esso. Ognuno di
noi è chiamato, oggi più che mai, ad interrogarsi in prima
persona sul significato della propria esistenza e della
propria relazione con eventi e persone che incontriamo in
un mondo così fatto. Siamo chiamati ogni giorno a
scegliere come muoverci, con chi camminare e condividere
i momenti della vita, come comportarci, come confonderci
o come distinguerci, perchè nessuno ci sa dire che cosa
sia veramente buono o certamente cattivo per noi. E tutte
queste scelte diventano sempre più soggettive, dipendono
sempre
di
più
dalla
responsabilità
individuale,
dal
significato che ognuno di noi attribuisce ad esse e dal
valore che diamo loro, per noi stessi e per le persone che
amiamo. E’ proprio la sensazione che questo universo di
significati vada rivisitato, riletto e reinterpretato che ci mette
nelle
condizioni
di
ragionare
attorno
al
senso
dell’educazione e alle possibilità che un evento educativo
11
Igor Salomone, op. cit..
28
pedagogicamente fondato può e deve offrire. Come scrive
Bertolini “compito dell’educazione consiste nel
saper[...]condurre l’uomo alla consapevole
conquista
renderlo
della
sua
cosciente
umanità,
del
suo
ossia
nel
significato
e
quindi del suo valore, ma anche dei limiti
e
dei
rischi
di
caduta
che
gli
appartengono[...]”.12
1.5. - UNA LETTURA SOCIOCULTURALE DEL MONDO
OCCIDENTALE MODERNO
Abbiamo cercato di dimostrare, attraverso i contributi
teorici sinora considerati, che esiste un rapporto molto
stretto tra i cambiamenti sociali e quelli culturali e che
l’educazione non può non misurarsi con essi. Ora, facendo
ricorso
ad
alcuni
studi
antropologici,
proviamo
ad
addentrarci nella cultura delle nostre città per evidenziarne
gli aspetti che maggiormente le caratterizzano e che ci
12
Piero Bertolini, op. cit., pag. 12
29
aiutano a capire quale tipo di famiglia educante abbiamo di
fronte oggi e di quali bisogni potrebbe essere portatrice.
1.5.a - Spazio urbano e cultura
Uno dei concetti fondamentali dell’antropologia urbana è la
centralità del rapporto tra spazio e cultura. Se parliamo di
spazio urbano non possiamo non osservare come esso
influenzi,
per
la
sua
vastità
e
configurazione,
il
comportamento dei suoi abitanti i cui rapporti interpersonali
assumono dimensioni ridotte rispetto a quelli delle
comunità tradizionali. Le nostre città sono sempre più
grandi, sempre più articolate, sempre più popolose e
ricche di differenze culturali e sociali che vivono l’una
affianco all’altra. La Callari Galli13 descrive le nostre città
come luoghi che raccolgono ed esibiscono tutta la
complessità della nostra società: occasione di venire in
contatto con mille informazioni ed opportunità ma anche di
contattare il silenzio, la solitudine e la povertà; possibilità di
incontro tra gruppi diversi ma anche luogo di inimicizie e
30
violenza. La città è una grande occasione educante ma
anche dilapidazione di un patrimonio passato e di crescita
caotica; occasione di diffusione di modelli culturali di
uguaglianza ma, al contempo, luogo di esclusione e di
separazione. La sicurezza viene cercata tra le mura di
casa che si presenta però subito noiosa e gonfia di
solitudine, priva di altri bambini o altri adulti con cui giocare
o parlare. Nonostante la complessità, il movimento
frettoloso della nostra società e della nostra cultura
“cerchiamo
stabilità di giudizi, fedeltà
di rapporti, coerenza degli atteggiamenti,
unicità nelle scelte[...]”.14
Possiamo pensare, secondo il nostro ragionamento, che i
giudizi e le scelte di cui parla l’antropologa abbiano a che
fare con il bisogno di unità di senso e di orientamento?
Cosa
ce
ne
facciamo
delle
informazioni
e
delle
opportunità? E questo dilemma coinvolge ognuno di noi
come individuo, come essere sociale e, ancora di più,
come genitore.
13
14
M. Callari Galli, op. cit..
M. Callari Galli, Ibidem, pag. 220
31
1.5.b - Comunicazione e cultura
Anche le forme di comunicazione dominanti di una società
influenzano la cultura, lo stile generale di vita e i processi
educativi. La nostra è una società tecnologica e i diversi
linguaggi presenti possono essere considerati anche essi
apparati tecnologici che hanno implicazioni educative. Gli
storici della comunicazione e gli antropologi hanno
analizzato gli apparati linguistici presenti nella società
moderna occidentale, mettendo a confronto la cultura
analfabeta
e
quella
istruita,
che
vengono
definite
rispettivamente cultura orale e cultura scritta.
La cultura orale ha le caratteristiche del rapporto diretto e
del
coinvolgimento
dei
gruppi.
Insegnamento
e
apprendimento viaggiano sui binari della parola, della
vicinanza
fisica,
del
comportamento
direttamente
osservabile. Il rapporto tra le generazioni è improntato
sull’autorità e sul rispetto degli adulti che sono depositari
della conoscenza e della verità. La parola è preziosa
perchè carica di sentimenti ed emozioni che animano il
rapporto comunicativo; essa, in quanto ripetuta affinché
rimanga nella memoria, porta a strutturare persone che
32
tendono all’omologazione e al conformismo. L’individuo e il
gruppo sono coinvolti mente e corpo nei rapporti di
integrazione sociale.
La
cultura
scritta,
la
cui
nascita
all’invenzione della stampa, è
viene
ricondotta
caratterizzata dalla
distanza. Tramite la stampa si mette in moto il processo
che isola la conoscenza dell’individuo da quella del suo
gruppo di appartenenza: si apprende in solitudine, ci si
distacca dagli altri e ci si collega, solo mentalmente, ad
autori di giornali e libri distanti nel tempo e nello spazio. Il
coinvolgimento fisico ed emotivo spariscono. Con la
scrittura nasce il pensiero sequenziale, lineare. Nasce
l’ideologia dei mezzi di comunicazione di massa che
devono essere impersonali e neutrali.
Se confrontiamo i due modelli emerge chiaramente che
alla parola scritta manca un fattore importante: il tono,
l’inflessione che, potenzialmente, le possono conferire
significati
opposti.
Mentre
imparando
ad
usare
opportunamente la parola orale le persone raggiungono un
alto grado di estrinsecazione emotiva e personale, al
contrario, chi è educato alla parola scritta,
33
potenzia il
pensiero
intellettuale
ma
esprime
conformismo
del
comportamento emotivo e nel temperamento.
Anche le interpretazioni dello spazio e del tempo sono
diverse nelle due culture: lo spazio dell’alfabetizzato è
rettilineo, le case distinguono i luoghi di lavoro da quelli
familiari e sociali; i tempi, di conseguenza, sono spesi in
successione e non comunicano tra di loro.
Il
ghetto
dell’analfabeta
è
uno
spazio
temporale
completamente diverso: case e strada sono un tutt’uno,
vita pubblica e privata non sono divise e tutto confluisce in
una dimensione globale di spazi e tempi.
Le strutture familiari dei non alfabetizzati sono allargate e
coinvolgono finti parenti, amici, vicini e conoscenti. Agli
alfabetizzati questo appare caotico, irrazionale e forse
inutile. Ma al non alfabetizzato questi legami servono per
sopravvivere, per tessere rapporti economici e significati
esistenziali.
Questa suddivisione tra codici della parola scritta ed orale
può sembrare una forzatura, nel senso che gli alfabetizzati
possono anche comunicare prima oralmente per poi
scrivere ciò che hanno detto. L’istruito è come se
possedesse entrambi i codici e il non istruito ne possiede
34
solo uno. Ma il codice della parola scritta non è quello della
parola orale più una parte, così come il codice della parola
orale non è un codice a cui manca qualche cosa (il segno
grafico). Ai due codici corrispondono due mondi: il mondo
essenzialmente visivo dell’istruito e quello essenzialmente
sonoro del non istruito. Il mondo visivo separa pensiero da
azione, è meccanico e causale; quello sonoro ritiene che il
pensiero sia già azione, è simpatetico ed emotivo.
La cultura istruita vive nel futuro mentre il presente è
tempo indifferente. La cultura non istruita si focalizza sul
presente che diventa immutabile. La cultura scritta vede
nell’uomo colto colui che può decifrare e codificare il
sapere, un sapere fatto di grandi concetti ordinati
gerarchicamente e di importanti concetti-incrocio. E
l’educazione deve insegnare questi grandi concetti per
tappe successive dal più semplice al più complesso,
legandoli secondo una sequenza logica e lineare.
Il codice a cui siamo abituati da piccoli ci fa percepire il
mondo tutto in un modo o tutto nell’altro e la realtà che
costruiamo tenderà a ripetere la prospettiva a cui siamo
stati abituati facendocela sembrare unica, vera, necessaria
e naturale.
35
1.5.c - I mezzi di comunicazione di massa
Abbiamo accennato sopra all’ideologia dei mezzi di
comunicazione di massa come ad una delle caratteristiche
della
nostra
cultura
alfabetizzata.
Il
fenomeno
va
attentamente osservato perchè oggi è estremamente
radicato e diffuso ma, dal punto di vista della storia
dell’uomo, è un tema nuovo le cui implicazioni educative e
culturali non sono ancora del tutto esplorabili. La
moltiplicazione dei mezzi di informazione, l’accelerazione
delle conoscenze, la specializzazione e la frammentazione
del sapere, hanno rotto l’unitarietà del modello di
apprendimento-insegnamento logico e gerarchicamente
ordinato
mettendo
in
discussione
il
rapporto
tra
insegnamento e apprendimento. Chi insegna cosa, e
dove? Quante cose si imparano fuori dall’aula scolastica?
Che cosa è importante sapere? La televisione, i giornali, i
vicini, tutti ci bombardano di informazioni che non sono più
legate ad un sistema di conoscenze organico ma piuttosto
alla nostra storia, al nostro vissuto, ai nostri bisogni
immediati ed occasionali. La nostra è una cultura aleatoria
che giunge attraverso i mezzi di comunicazione di massa e
36
le informazioni ci colpiscono in modo frammentario e
superficiale, escludendo ogni sforzo di analisi critica e
censura selettiva. In noi è operante un paradosso:
vogliamo raccogliere un numero sempre maggiore di
informazioni, ma poi non troviamo più il senso che hanno
per
noi,
perchè
non
riusciamo
a
trasformarle
in
comunicazione. L’invasione della TV ha modificato anche i
modi della convivenza con i nostri familiari, con gli amici,
con la lettura e con noi stessi. I nostri bambini hanno
cambiato abitudini nella scansione dei tempi, nella
motricità, nell’uso e nella conoscenza dello spazio e degli
oggetti. I bambini che guardano la televisione vedono
immagini di luoghi ed oggetti di cui non hanno esperienza
reale
alla
quale
dell’esperienza
ricollegarle.
diretta
quale
Senza
livello
la
di
mediazione
conoscenza
producono le immagini della televisione? Cosa avviene nel
rapporto tra immaginario e reale quando potenziamo il
primo e riduciamo il secondo? Guardare la televisione ci
allena a ricevere stimoli in modo passivo, silenzioso, senza
selezione mentre sappiamo quanto per la crescita di un
bambino siano essenziali le dimensioni dell’esperienza
37
reale dello spazio e degli oggetti, del loro dominio e
manipolazione.
Secondo questa interpretazione diventa proprio un compito
dei genitori e delle istituzioni con funzione educativa
accompagnare
i
bambini
nel
difficile
passaggio
dall’informazione alla comunicazione, il che equivale a dire
attribuire senso a ciò che vediamo e sentiamo dal
momento che, di fatto, i mezzi di comunicazione di massa
esistono e ci invadono sin dalla più tenera età. Occorre che
qualcuno
ci
aiuti
ad
organizzare
e
rielaborare
le
informazioni in unità di senso che valgano per noi, a dare
valore a ciò che sperimentiamo, viviamo ed immaginiamo.
1.5.d - Relazioni virtuali
Da quanto abbiamo detto fino ad ora emerge che una delle
caratteristiche del nostro mondo è quella di essere virtuale.
Igor Salomone15 scrive che oggi il problema principale è
quello di discernere tra ciò che è reale e ciò che è
immaginario. Forse il problema più scottante consiste nel
38
fatto che virtuali non sono solo le immagini della televisione
ma anche le relazioni che sono mediate sempre di più dai
telefoni cellulari, da Internet, dalla Play Station. Sono
strumenti, questi, potentissimi che ci permettono di
metterci
in
contatto
in
tempo
reale
con
persone
lontanissime da noi. Quello che ci domandiamo è se
veramente possiamo parlare di contatto e, quando anche
decidessimo di chiamarlo così, non possiamo non
accorgerci che esso da un lato ci permette, dall’altro ci
costringe, a mettere in campo solo alcune parti di noi.
Il punto è domandarsi se queste relazioni sono vere o false
e che cosa mettiamo in esse: emozioni, affetti, pensieri?
A questo proposito ricordo di aver ascoltato alla televisione
l’intervista del Dott. Vittorino Andreoli, psichiatra che si
pronunciava rispetto all’uso sempre più diffuso della Play
Station tra i bambini e i giovani. Egli sosteneva che il gioco
può procurare intense emozioni, mai relazioni affettive. Il
mondo che propone è un mondo ordinato e colorato
mentre quello vero è disordinato e sbiadito. Non potrebbe
essere che il contatto con questo mondo virtuale ci renda
poi inaccettabile il mondo reale al punto da volerlo fuggire?
15
Igor Salomone, op. cit..
39
E allora su che cosa poggia l’educazione dal momento che
non abbiamo più certezze di valori e verità scientifiche?
Forse l’educazione oggi deve insegnare a convivere con
l’incertezza e la precarietà delle spiegazioni e deve
insegnare
a
significare
ciò
che,
ad
una
velocità
stratosferica, ci passa sotto gli occhi lasciando tracce non
sempre identificabili. Dobbiamo saperlo usare questo
mondo ma dobbiamo anche smettere di fantasticare e
sincronizzarci sul nostro presente, qui, ora, nell’esperienza
che viviamo e con le persone in carne ed ossa con le quali
viviamo. La struttura profonda di ogni interazione educativa
è infatti la sua concretezza, ciò che significa qui ed ora per
me e te che la viviamo. Dobbiamo imparare a domandarci
che senso hanno le cose per noi: questo è il bisogno
profondo
della
nostra
cultura,
che
è
un
universo
ricchissimo di significati difficilmente riconducibile alla
nostra esistenza e che rischia di non essere interpretabile.
1.5.e - Tornare ad agire
40
Forse la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e
il dilagare delle “relazioni virtuali” hanno finito per
atrofizzare
la
nostra
capacità
di
agire.
Dobbiamo
sincronizzarci sul tempo presente e sulla concretezza del
mondo reale per tornare ad essere protagonisti delle
nostre azioni. La Callari Galli,16 a questo proposito, scrive
che gli interventi educativi devono proprio stimolare la
capacità di agire in quanto essa è il potere umano di
generare il nuovo, di muovere nuovi processi attraverso la
rete delle relazioni umane. Richiede coraggio perchè, una
volta iniziato, il processo può avere sbocchi casuali ed
imprevedibili, così come casuali ed imprevedibili sono le
ramificazioni delle nostre relazioni; ma per noi che ne
siamo i protagonisti hanno un senso ed una finalità.
Essere attori di relazioni umane restituisce senso e
significato al nostro agire; essere spettatori dei mezzi di
comunicazione di massa ci rende passivi, omogenei e
nega ogni senso, ci rende alienati perchè ci fa sentire
strumenti di forze esterne alla rete delle nostre relazioni. Il
16
Matilde Callari Galli, op. cit..
41
primo requisito di un progetto comunitario è che ogni
persona sia responsabile delle proprie azioni e delle
conseguenze di tali azioni. Ma se le persone non sono
chiamate ad agire, se la società appare il risultato di forze
impersonali e potenti quasi come quelle della natura,
cercare un senso di ciò che succede non serve. I conflitti
non si svolgono faccia a faccia e nessuno è più
responsabile di nulla (che equivale a dire: è tutta colpa
della società).
1.5.f - Esperti e narcisi
Tra le conseguenze della progressiva perdita della
capacità di agire vi è la sempre maggiore dipendenza dagli
altri per molti aspetti della nostra vita lavorativa e privata.
Questi “altri”, scrive la Callari Galli17, sono sempre di più
gli esperti: ricorriamo a loro per risolvere problemi legati ai
rapporti affettivi e di coppia, all’educazione dei figli e le
nostre azioni non sono più motivate da scelte e riflessioni
17
Ibidem
42
personali ma risultano in gran parte eterodirette. Anche se
molte madri e padri seguono i modelli educativi dei propri
genitori replicando le repliche, la miriade di messaggi degli
esperti della TV (per lo più ricchissimi di contraddizioni)
mettono per lo meno in dubbio le scelte personali col
rischio di mandarli in confusione. Così la vita familiare è
imbevuta di insicurezze come quella lavorativa; c’è un
continuo distacco tra ciò che si fa e ciò che gli altri dicono
si dovrebbe fare. L’interesse per il sé si radica sempre di
più nel dubbio, si perde fiducia nella propria autorità e nel
proprio vissuto e si cerca la conferma di sé e la
soddisfazione
nei
consumi
più
svariati.
L’interesse
narcisistico è anche alimentato dalla sfiducia nelle
istituzioni che non sono in grado di soddisfare i bisogni
dell’individuo. Siamo sospettosi nei confronti dell’intera
società e la nostra insoddisfazione non si trasforma in un
desiderio di trasformazione sociale ma in un ritirarsi in se
stessi, in ambiti sempre più ristretti fino al ritiro nell’ambito
familiare. Ma chiudere la porta di casa sperando che i
problemi restino fuori è un’illusione: la famiglia e la vita
privata riflettono la società di cui si nutrono. La società
narcisistica detta che le nostre attività devono essere
43
piacevoli e divertenti, ma crescere un figlio non lo è
sempre; al contrario, è un compito impegnativo e faticoso,
incompatibile con il bisogno di gratificazione immediata.
Anche
Igor
Salomone18 osserva il fenomeno della
diffusione della cultura degli esperti e della conseguente
specializzazione interpretandolo “come fosse un gatto che
si morde la coda”. Infatti decidiamo di risolvere molti dei
nostri
problemi
ricorrendo
ai
servizi
specialistici
e
pagandoli per le loro prestazioni; siamo sempre più
convinti che
facciamo
essi debbano esistere perchè le cose che
da
soli
sono
sempre
di
meno.
Contemporaneamente, maggiori sono i servizi, minori sono
le cose che impariamo a fare da soli. La progressiva
specializzazione e professionalizzazione è un dato di fatto.
Esistono dei profondi bisogni di relazione per la soluzione
dei nostri problemi ed ora questi bisogni che non sono più
soddisfatti da parenti e amici si soddisfano pagando degli
specialisti. Crescono le professioni e i ruoli competenti sui
problemi
e
cresce
l’incompetenza generale su tali
problemi. L’aiuto faccia a faccia sparisce e sembra che
tutto si possa risolvere con gli specialisti. L’eccesso di
44
professionalizzazione non è augurabile in nessun campo e
tanto
meno
nel
sociale
e
nell’educativo.
Mancano
prossimità, contatti, relazioni che insegnano e tramandano:
le mamme non sanno a chi chiedere come si crescono i
piccoli, tanto meno se i loro piccoli hanno dei problemi
particolari. Più crescono le conoscenze specialistiche più
creiamo incompetenza intorno a noi.
Compito delle agenzie educative è, come abbiamo già
detto, anche quello di aiutare i genitori ed i loro bambini ad
organizzare
le
informazioni,
a
trasformarle
in
comunicazione, a trovare orientamenti di senso che non
possono più essere trovati in una cultura monolitica, certa
e lineare. Non c’è più chiarezza rispetto a ciò che “si deve
o non si deve”, ciò che “è giusto o sbagliato”. Il significato
che andiamo cercando tocca il vissuto soggettivo di
ognuno di noi, le esperienze ed i valori di ognuno maturati
nelle relazioni con gli altri.
18
Igor Salomone, op. cit..
45
1.6. - CENTRALITÀ DELLE RELAZIONI
Abbiamo tratteggiato alcune delle caratteristiche culturali
delle nostre città per renderci conto di quanto oggi, più che
mai, abbiamo bisogno di curare le relazioni e di instaurare
rapporti sociali, di pensare ad un mondo diverso basato sul
rapporto con gli altri e tra gli altri.
La complessità della nostra società è resa tale dalla sua
dilatazione nel tempo e nello spazio, dalle differenze e
dalle
contraddizioni.
L’uomo
è
esaltato
nelle
sue
espressioni più narcisistiche, spinto al piacere, alla
creatività, all’autonomia, all’autodeterminazione ma, nello
stesso tempo, pare che “l’uomo sia stato perso”. La
persona è libera ma la sua libertà si misura nella sua
capacità di possedere beni e merci. Viviamo in un mondo
ricco di opportunità e di energie positive ma nello stesso
tempo pieno di solitudine, violenza, negativismo e
conformismo, mentre da più parti avanza la necessità di
ritrovare la certezza di una comune natura umana. La
Callari Galli scrive che oggi “la verità non può più
essere un valore assoluto; essa si forma
46
dinamicamente
nelle
interpersonali[...]”.
19
Per
quanto
deleghiamo
ad
esperti
relazioni
e
servizi
il
soddisfacimento di molti dei nostri bisogni, ne esistono
alcuni
cui
non
possiamo
rispondere
che
grazie
all’attivazione delle nostre risorse, della nostra creatività ed
energia e attraverso la creazione di legami concreti, nei
quali mettiamo in gioco i pensieri, le emozioni, i sentimenti
ma anche la nostra corporeità: sono il bisogno di sicurezza
e di amore, di appartenenza e di integrazione, di
espressione e di orientamento nelle scelte, di salute e di
cura di sé.
1.6.a - La pubblica affettività
Un’altra testimonianza che si sembra importante citare per
evidenziare quanto sia vivo tra di noi il bisogno di costruire
relazioni significative, è quella che ci offre il Dott. Vito
Volte, psicosociologo e formatore dell’ISMO (Istituto
Interventi e Studi Multidisciplinari nelle Organizzazioni).
19
Ibidem, pag. 262
47
Egli si occupa da molti anni di seminari di formazione sulle
dinamiche di gruppo e sulle relazioni organizzative allo
scopo di addestrare i partecipanti all’utilizzo della propria
influenza in sistemi di relazione più o meno complessi. Nel
suo articolo intitolato “La pubblica affettività” 20 egli parla di
crisi della società moderna come crisi di legami. Per
pubblica affettività intende la dimensione dei legami sociali
da lui definiti, sempre e comunque, legami d’amore; per
quanto deboli, per quanto “passioni leggere” rimangono
“legami d’amore” compatibili con altre passioni e perciò
non totalizzanti. L’evento sociale nasce da questi legami
anche minimi; la partecipazione li alimenta e li materializza.
I legami sono composti dalle due facce di una stessa
medaglia: controllo ed interesse; sono da un lato matrice
generatrice
della
vita,
desiderio
di
comunanza
e
somiglianza, di fare gruppo ed appartenere; dall’altro sono
fonte di controllo. Spesso per paura che legarsi possa
significare anche soffrire, le persone preferiscono stare
sole e chiudersi in se stesse. Ma chi non ha legami non è
un uomo libero perchè chi è solo, spesso accetta anche le
20
in AA.VV., “L’IMPRESA AL PLURALE - Quaderni della partecipazione”,
nr. 3/4, Franco Angeli Editore, Milano, 1999
48
“cattive compagnie”. Egli afferma di aver verificato nei
diversi laboratori di formazione che esiste un ambiguo e
contrastante bisogno di socialità e di appartenenza:
assistiamo alla frenetica ed intensa ricerca di relazioni da
una parte, e alle straordinarie resistenze, paure e difficoltà
a comunicare dall’altra.
I legami familiari sono diversi da quelli pubblici: non sono
scelti, sono dati ed investono affetti, relazioni, sentimenti
ed emozioni la cui intensità e dimensione è vastissima e
fungono da matrice per altri legami sociali. La difficoltà che
viviamo oggi è proprio quella di imparare a coniugare
legami forti e legami deboli, a far convivere relazioni di
natura e livello diversi. Anche la famiglia vive questo
paradosso della doppia tensione tra chiudersi in se stessa
perchè si sente minacciata da una società pericolosa e
perchè si illude di bastare a se stessa, ed il bisogno di
aprirsi all’esterno e di appartenere ad un sociale più ampio
per sopravvivere e crescere.
1.7. - LA FAMIGLIA NELLA SOCIETÀ DELLE DIFFERENZE
49
Abbiamo scritto che la nostra società è ricca di opportunità,
dilatata nello spazio e nel tempo, che chiede ad ognuno di
saper fronteggiare situazioni sempre differenti mettendo in
campo tutte le abilità personali. Essa sembra dibattersi in
una duplice tensione: da una parte la ricerca spasmodica
di identità (personale, di gruppo e di comunità), dall’altra la
spinta all’omologazione, al consumo, alla massificazione.
Le nostre sono città dove incontriamo e ci scontriamo
continuamente con la diversità: affermiamo il principio
dell’uguaglianza ma, d’altro canto, fatichiamo a stare vicino
a chi non è simile a noi. Anche la famiglia vive queste
contraddizioni tra il bisogno di difendere la propria identità
e quello di aprirsi verso il nuovo e il diverso. La Callari Galli
scrive che la famiglia è il luogo dove i comportamenti, gli
atteggiamenti e le articolazioni di ruolo si concretizzano e
si tramandano più a livello implicito che esplicito, è lo
spazio in cui il fenomeno dell’inculturazione raggiunge il
massimo della sua espressione. In essa vivono emozioni,
affetti e rappresentazioni che contribuiscono (se non a
volte determinano) a costruire quella che Bertolini definisce
“la visione del mondo” di ogni bambino. Le forme di
50
comunicazione
famigliari
strutturano
diversamente
le
relazioni a seconda che il codice prevalente sia quello
orale, alfabetico o multimediale. Il modo con il quale ogni
bambino impara a strutturare le relazioni primarie ha una
grande ricaduta sulla sua capacità di muoversi nel mondo
e di creare relazioni di secondo livello. Inoltre è ormai
provato quanto la cultura famigliare sia importante nella
formazione
della
personalità
dei
bambini,
nella
trasmissione di valori e di modalità di apprendimento.
Dunque insegnare che si può appartenere mantenendo
vive le differenze è uno degli obiettivi educativi che la
famiglia - proprio in quanto luogo di appartenenza e di
unione delle differenze - si può porre: essa è lo spazio
simbolico e concreto dove, attraverso le azioni quotidiane
e sin dal primo giorno di vita dei bambini, è possibile
costruire
relazioni
che
si
ispirino
all’ascolto,
alla
comprensione e all’accoglienza, che rifiutino “la spinta
a
discriminare,
a
sopraffare[...]”,
che
escludano di “accettare la discriminazione
e la sopraffazione.”21
1.8. - PER CONTINUARE
21
M. Callari Galli, Ibidem, pag. 289
51
Il quadro culturale che abbiamo delineato mette in luce
alcuni che, a nostro parere, sono i bisogni vecchi e nuovi
della famiglia educante oggi. Per chiarezza e semplicità di
esposizione, ci sentiamo di sintetizzarli come segue:
• bisogno dei genitori di orientarsi e di scegliere tra le mille
opportunità che la società di oggi offre per se stessi e
per i loro figli;
• bisogno di trasformare le informazioni in comunicazione,
ovvero attribuire senso;
• bisogno
di
concretezza
recuperare
delle
il
valore
esperienze
e
educativo
delle
della
relazioni
quotidiane;
• bisogno di riappropriarsi delle proprie competenze
educative per agirle in prima persona;
• bisogno di discernere tra i modelli educativi proposti per
giungere, consapevolmente, a fare propri quelli che
hanno significato per loro;
• bisogno di recuperare una autentica capacità di
comunicare che sappia mettere in gioco emozioni,
sentimenti, cognizioni, valori e fisicità;
52
• bisogno di intrecciare legami significativi all’interno e al
di fuori del proprio nucleo;
• bisogno di imparare a far vivere al proprio interno le
differenze, le contraddizioni senza paura di perdere la
propria identità.
In sintesi ci piace dire che i genitori e più in generale gli
educatori,
devono
essere
aiutati
a comprendere il
significato e il potenziale educativo delle esperienze e delle
relazioni che quotidianamente vivono con i loro figli; hanno
bisogno di uscire dall’isolamento e dalla confusione che
troppo spesso finisce per paralizzare le loro capacità
educative e relazionali rendendoli a volte tiranni, a volte
schiavi dei loro stessi figli.
E’ a partire da questi bisogni che tenteremo di riconoscere
il ruolo e la specificità dell’educatore professionale nei
servizi di supporto al ruolo genitoriale.
CAPITOLO II
LA FAMIGLIA IN ITALIA
53
Abbiamo interpretato alcune delle caratteristiche culturali
della nostra società per comprendere come esse, secondo
la nostra riflessione, potrebbero influire sui bisogni della
famiglia.
Ora
guardiamo
la
famiglia
italiana
come
fenomeno sociale con particolare riguardo alla sua
funzione educativa.
La famiglia viene presa in considerazione oggi da molti
studiosi e politici come origine del malessere sociale e
soluzione di esso; è istituzione da difendere nella propria
unità e nei propri confini, da stimolare all’apertura verso
l’esterno; la famiglia è soggetto di iniziative politiche e
sociali, oggetto di interventi istituzionali; è roccaforte dei
valori che la nostra società rischia di perdere ma anche in
crisi come luogo dei legami e degli affetti. Se, come
abbiamo scritto precedentemente, la nostra società è ricca
di contraddizioni e se è vero che la famiglia si nutre della
società nella quale vive, ci sentiamo di dire che anche la
famiglia è un luogo pieno di contraddizioni interne ed
esterne. Per interne intendiamo la doppia tendenza ad
essere da un lato nucleo chiuso, autosufficiente e privato
54
soprattutto per ciò che riguarda il proprio compito
educativo, dall’altro il bisogno di aprirsi per sopravvivere.
Per contraddizioni esterne potremmo intendere quelle che
vengono dai diversi tentativi istituzionali di definire la
famiglia e di assegnarle ruoli e compiti sociali. La famiglia è
comunque un fenomeno complesso al di là delle strutture,
delle
definizioni che se ne possono dare, dei confini e
delle appartenenze. Possiamo pensare ad essa come
spazio fisico, simbolico e relazionale dove si verificano
eventi naturali ai quali ogni individuo attribuisce un
significato. Ma soprattutto è una costruzione sociale con
una forza normativa entro specifiche codifiche. La famiglia
è anche luogo di unione delle differenze: sessuali,
generazionali, di ruolo, di gerarchie e responsabilità. E’ un
sistema aperto, inserito in una società con la quale
intrattiene rapporti di scambio; non è né passiva, né
indipendente. La famiglia è un sistema con un equilibrio
dinamico che cambia lungo il proprio ciclo di vita interno e
rispetto ai rapporti con la società. Se accettiamo il
presupposto secondo il quale la famiglia non è un
terminale passivo del cambiamento sociale ma anche
costruttrice di modi e sensi di mutamento, possiamo anche
55
pensare che comprendere come la nostra società intende,
organizza e norma la famiglia ci permette di capire quale
significato essa stessa attribuisca al proprio stare nel
mondo e viceversa: capire quale significato la famiglia
attribuisce al proprio stare nel mondo ci aiuta ad intuire
perchè la società la organizza e la norma in un certo modo
piuttosto che in un altro.
2.1. - CENNI STORICI
Gli studi storici e sociologici sulla famiglia raccolti ed
elaborati da Chiara Saraceno22 ci aiutano a rilevare come,
contrariamente a quanto si pensa, non esistono solo
elementi di rottura ma anche di continuità tra la famiglia di
un tempo e quella di oggi. Per esempio, secondo l’analisi
di molti antropologi, la famiglia nucleare pare non essere
solo un prodotto dell’industrializzazione perchè essa si è
sviluppata più velocemente e precocemente là dove la
famiglia nucleare già esisteva. In particolare l’Italia ha visto
in passato strutture e forme di famiglia molto variegate
56
(forse più di oggi) ed i processi di trasformazione non sono
stati per nulla lineari anche se ha finito per prevalere la
forma nucleare sotto la spinta dell’industrializzazione.
Certamente questo fenomeno ha avuto delle conseguenze
importanti sull’organizzazione famigliare, perchè l’uso e la
formazione della forza lavoro sono state trasferite fuori
dalla famiglia: lavorare fuori casa implica il bisogno di
dividere spazio e tempo domestico da spazio e tempo del
lavoro, richiede di dividere i compiti tra chi rimane a casa e
chi va a lavorare. In particolare la cura dei figli deve essere
affidata
alla
persona
che
rimane
a
casa.
L’industrializzazione, quindi, rafforza la struttura familiare
nucleare creando l’operaio e la casalinga, due figure
complementari e speculari.
Un altro dato interessante per noi è che il fenomeno
dell’instabilità della famiglia non è per nulla nuovo, benché
oggi si presenti in maniera diversa rispetto al passato. La
famiglia di ieri era fortemente soggetta a disgregazione a
causa
delle
morti
precoci
di
adulti
e
bambini,
dell’emigrazione e delle guerre. Molte erano le famiglie
ricostituite a causa delle frequenti vedovanze o morti di
22
Chiara Saraceno, “Sociologia della famiglia”, il Mulino, Bologna, 1996.
57
entrambi i genitori. Ci importa evidenziare che mentre in
passato la famiglia si scioglieva, perdeva alcuni dei suoi
componenti e si ricostituiva per necessità o a causa di
incidenti e decessi, oggi sciogliere e ricostituire la famiglia
ha più a che fare con la scelta dei singoli individui che la
compongono. Questo ci fa riflettere sul fatto che,
probabilmente, non è così vero che una delle cause della
crisi della famiglia contemporanea va ricercata nella sua
instabilità. Forse è il caso di ragionare sul fatto che
l’instabilità è di una natura diversa rispetto ad una volta: è
una scelta le cui radici potrebbero essere ritrovate in un
contesto socioculturale del quale abbiamo rilevato anche le
componenti narcisistiche ed individualiste; oppure in una
struttura sociale ed economica che permette alle persone
di “cavarsela” anche se vivono da sole; oppure in una
difficoltà a vivere le relazioni.
V. Melchiorre, Presidente del comitato scientifico del
C.I.S.F. (Centro Italiano Studi Famiglia), durante un
convegno tenutosi a Milano nel dicembre 2000, presenta
l’ultimo lavoro intitolato “Leggere la famiglia in Italia: dati,
tendenze
e
interpretazioni”.
Gli
studi
più
recenti
confermano ed evidenziano la resistenza del nucleo
58
famigliare in termini di valori, cultura a legami pur
modificandosi le strutture famigliari. Queste ultime sono
sempre più piccole, aumenta il numero complessivo delle
famiglie
in
particolare
di
quelle
unipersonali
e
monogenitoriali; diminuisce inoltre la natalità. La famiglia
diventa “lunga” perchè i figli hanno sempre più difficoltà a
decidere di diventare adulti e ad uscire di casa. Essa
rimane infatti l’unico baluardo degli scambi, del dialogo e
dei rapporti generazionali: è il luogo del rifugio dalla paura
e dalla freddezza di ciò che sta “fuori”, è il luogo della cura
e della protezione. Contemporaneamente emerge la
fragilità della vita domestica come fragilità di relazioni in
quanto ognuno è attento ai propri destini individuali e alla
propria realizzazione. Pare che all’interno della famiglia
ognuno cammini su binari paralleli che non si incontrano
mai perchè comportamenti, valori, modi di divertirsi sono
condivisi
a
livello
intragenerazionale,
non
intergenerazionale. L’attenzione alla autorealizzazione e la
fragilità delle relazioni si traducono sempre più spesso
nella scelta, da parte dei coniugi, di sospendere o rompere
la loro convivenza. Quello che a noi interessa, rispetto a
questo fenomeno, è il fatto che divorzi e separazioni non
59
hanno solo conseguenze sul significato del matrimonio ma
anche sulla continuità dei rapporti genitori-figli.
2.1.a - Famiglia e parentela
Anche le strutture parentali e il loro significato vanno lette
alla luce della continuità e della rottura rispetto al passato.
La domanda che ci poniamo è la seguente: è così vero che
oggi i legami di parentela sono meno forti di quelli coniugali
e comunque meno forti di ieri? La parentela è un fatto
sociale nella misura in cui delimita spazi e flussi di
relazioni, confini, alleanze, appartenenze e separazioni tra
persone
e
tra
gruppi
di
persone.
Essa
esprime
discendenza, appartenenza e controllo; vincola e collega
le generazioni. Essa è anche, se non soprattutto, aiuto,
collaborazione, sostegno materiale ed affettivo. Oggi,
infatti, l’organizzazione del lavoro e quella sociale rendono
disfunzionale la famiglia allargata e privilegiano quella
nucleare alle origini della quale ci sono, e ci devono
essere, soprattutto legami di affetto. Nel contempo, il
valore sociale della parentela in termini di appartenenza,
60
controllo e mutuo aiuto continua ad esistere pur andando
al di là della convivenza e resistendo come fitta rete di
legami anche nella società moderna.
Da quanto abbiamo scritto fino ad ora possiamo dedurre
che l’ideologia della famiglia nucleare isolata e della
perdita dell’importanza sociale della parentela, forse non
corrisponde ad una esperienza effettiva ma legittima, in
termini culturali e valoriali, la flessibilità dei rapporti di
parentela consentendone un utilizzo più individualizzato,
tagliato su misura del singolo o della singola famiglia, dei
bisogni contingenti, delle preferenze ed affinità di coloro
che si pongono in relazione. Non si tratta di una differenza
di quantità di parenti con cui si intrattiene uno scambio, ma
di una diversità qualitativa legata alle scelte relative a con
chi, quanto e come legarsi. Certamente oggi chi è privo di
questa rete o intrattiene legami di parentela caratterizzati
non da scambio ma da obbligatorietà, è più solo ed
indifeso, ha minori risorse e rischia maggiormente per la
qualità della sua vita. Nei ceti meno abbienti il ricorso
all’aiuto parentale può essere motivo di stress emotivo,
psichico ed economico per chi questo aiuto lo deve dare
perché mancano alternative provenienti sia da altri parenti
61
che dai servizi disponibili. Pare che più elevata sia la
posizione sociale, più articolata risulti la rete di sostegno
cui accedere mentre le famiglie meno abbienti hanno meno
alternative e sono obbligate a rivolgersi ai parenti stretti.
Per queste ultime la solidarietà familiare può presentarsi
più esplicitamente con tratti di doverosità e obbligatorietà.
Complessivamente possiamo constatare che l’affettività è
l’elemento sottostante gli scambi parentali mentre i tratti di
doverosità sociale e obbedienza vengono affievoliti: gli
anziani dipendono dai giovani soprattutto da un punto di
vista affettivo e spesso il prestare loro dei servizi è un
modo per garantirsi l’affetto. Questo scambio affettivo e
materiale non è esente da conflitti perchè vi sono implicate
dimensioni relative all’identità familiare e personale: i
genitori diventano nonni, i figli genitori e questo occupare
posizioni e ruoli diversi ingenera conflitti che adombrano
non solo l’appartenenza a riferimenti culturali diversi, ma
anche le differenze individuali. A questo proposito uno dei
motivi di maggior conflitto riguarda proprio l’educazione dei
piccoli che sono contemporaneamente figli e nipoti: spesso
i bambini vengono accuditi dai nonni e questo è motivo di
62
non poche divergenze tra genitori e figli a causa delle
differenze tra generazioni.
2.2. - LA FAMIGLIA EDUCANTE
Cerchiamo
ora,
sempre
facendo
ricorso
ad
alcuni
riferimenti storici, di capire come nasce la famiglia
moderna e come giunge a caratterizzarsi tipicamente come
famiglia educante.
Secondo gli studi di P. Ariés23 (1968) l’origine del processo
di privatizzazione della famiglia moderna così come la
intendiamo oggi, investe inizialmente la famiglia borghese
ed aristocratica del diciannovesimo secolo ed ha a che
fare con il suo ritiro dallo spazio ed agire pubblici
conseguente alla nascita dello stato moderno. Le altre
famiglie arrivano a “privatizzarsi” per contaminazione ed a
causa delle condizioni socioeconomiche e lavorative.
Infatti, siccome si lavora sempre di più fuori casa e si
lavora meno, lo spazio di lavoro (pubblico) si divide da
quello familiare (privato) e nasce la vita domestica vera e
63
propria. A questo fenomeno di privatizzazione si aggiunge
un forte cambiamento culturale e sociale del modo di
intendere i figli: essi non rappresentano più solo il
proseguimento della generazione e la forza lavoro ma
diventano il centro affettivo e simbolico della affettività
familiare. Questo processo ha tra le sue conseguenze la
progressiva diminuzione del numero dei figli a mano a
mano che la loro importanza affettiva aumenta. “La
stessa
immagine
moderna[...]come
privati
e
privata[...]è
famiglia
di
relazione
costituenti
nata
famiglia
di
affetti
una
innanzitutto
genitoriale
educante,
prima
come coppia coniugale amorosa.”24
2.2.a - La nascita della cultura della maternità
23
24
sfera
Chiara Saraceno, op. cit.
C. Saraceno, Ibidem, p.134
64
come
che
E’ interessante per la nostra riflessione sapere che, in
passato, l’esperienza di crescita dei figli in tutte le famiglia
(tranne in quelle poverissime) era caratterizzata dalla
presenza
di
tante
figure
differenti
per
posizione,
competenza, responsabilità ed autorità: c’erano i genitori,
gli istitutori, i servi, le balie, i fratelli, le sorelle, i nonni
eccetera che vivevano in case piene di bambini ed adulti.
Alcune di queste persone erano pagate per svolgere, a
vario titolo, un compito educativo nei confronti dei figli dei
“signori” garantendo, così, la presenza di una pluralità di
figure adulte di riferimento. Questo fenomeno subisce delle
modificazioni proprio grazie alla diffusione della cultura
della maternità le cui origini risalgono all’Ottocento, quando
l’attenzione per l’infanzia si manifesta, sul principio,
attraverso atteggiamenti di controllo fisico e morale dei
piccoli da parte degli adulti. Nascono spazi e figure
apposite: la scuola con programmi di insegnamento
graduati
secondo
l’età,
insegnanti
e
medici
che
sensibilizzano i genitori rispetto alle norme igieniche ed
alimentari. Al centro delle strategie familiari e del progetto
educativo per i figli sta la madre: la famiglia moderna intesa
come affettiva ed educante, nasce intorno alla coppia
65
madre-bambino, asimmetrici ed uniti. La madre non lo è
solo in senso biologico ma anche e soprattutto educativo
ed affettivo perchè è proprio lei ad esprimere per prima la
dimensione affettiva verso i figli i quali da strumento per le
strategie familiari diventano fini.
Un altro elemento di rilievo consiste nel fatto che all’epoca,
la madre è considerata educatrice ma è anche da educare
al suo naturale e vocazionale compito. Ad educarla ci
pensano moralisti, sacerdoti e medici, nonché i mariti.
Questi soggetti, ritenendo immorale ed imprudente lasciare
i figli alle balie e non allattarli in prima persona,
convincono le madri dapprima a controllare sempre di più
l’opera delle balie fino a occuparsi loro stesse dei figli in
nome di una maggiore sicurezza igienico-sanitaria e di una
più elevata responsabilità e moralità materna. Questa
nuova responsabilità circoscrive sempre di più il ruolo
sociale delle donne: la maternità diventa culturalmente e
socialmente costruita.
Aumentando
l’interesse
e
l’investimento
sui
figli,
prolungandosi il periodo di allattamento dei bambini da
parte delle loro madri, si sviluppa una strategia naturale di
diminuzione delle nascite. In Italia il fenomeno del controllo
66
delle nascite si sviluppa in maniera più massiccia verso la
seconda metà del diciannovesimo, inizi ventesimo secolo,
quando aumentando appunto l’investimento affettivo sui
figli e l’espressione dei sentimenti tra generazioni,
cambiando l’idea di famiglia. La madre è soggetto da
educare ma anche educante e civilizzatore del cittadino
moderno. Nascono, anche in Italia, le prime iniziative per la
custodia e l’istruzione dei figli delle famiglie operaie.
2.2.b - “Sterili per scelta, genitori ad
ogni costo.”25
Dopo il boom degli anni ‘60, tutta l’Europa assiste ad un
calo della natalità che ha caratterizzato e caratterizza
tutt’oggi, in modo particolare, l’Italia. Avviene una sorta di
seconda svolta contraccettiva: non più solo controllo delle
nascite nella direzione del contenimento ma anche della
intenzionalità; avere un figlio diventa atto di volontà. I figli
devono essere due, massimo tre e l’assenza di maternità è
25
C. Saraceno, Ibidem, pag. 160
67
uno stato normale. Mentre la prima rivoluzione vedeva
ancora sesso e fecondità legati, la seconda rivoluzione,
con l’introduzione della pillola anticoncezionale, slega del
tutto sesso e procreazione. Ogni figlio deve essere
desiderato e programmato ed ogni figlio desiderato deve
nascere:
“la
sterilità
non
appare
più
accettabile non già[...]perchè non consente
la
piena
realizzazione
della
identità
sociale adulta femminile e maschile, o la
realizzazione di un progetto di continuità
familiare, ma perchè non consente di dar
corso ad un desiderio, ad una scelta, che,
proprio
una
perchè
volta
opzionale, non necessaria,
compiuta
chiede
di
essere
realizzata”.26
I figli, dunque, rappresentano la realizzazione di una scelta
che, come tale, è e deve essere fonte di piacere.
Tra le conseguenze dell’investimento affettivo sui figli in
quanto fonte di piacere e della scelta di averne pochi, vi è
la ridotta differenziazione di articolazione per età all’interno
della
26
famiglia:
spesso
i
C. Saraceno, Ibidem, pag. 160
68
bambini
crescono
senza
confrontarsi con chi è un po' più grande o un po' più
piccolo di loro e, per i genitori, questo significa che ogni età
del figlio rappresenta un’esperienza nuova dal momento
che manca loro un bagaglio esperienziale che faciliterebbe
il compito educativo. Ancora una volta la principale
protagonista è la madre e per lei si apre un nuovo
problema: il periodo della vita durante il quale si deve
occupare dei figli è molto più breve rispetto ad una volta
perchè il numero dei bambini è inferiore e perchè nascono
in
un
arco
di
tempo
molto
ravvicinato.
Contemporaneamente la vita media, soprattutto delle
donne, aumenta. Cosa faranno quando i piccoli saranno
grandi e non ci saranno nuovi piccoli di cui occuparsi? Si
pone, quindi, la questione della donna e il mondo del
lavoro fuori casa: quelle che già hanno un’occupazione
tenteranno di mantenerla ricorrendo all’aiuto dei parenti o
dei servizi per la cura dei bambini durante la loro assenza
da casa.
2.3. - GLI ESPERTI E LA DELEGA EDUCATIVA
69
Tra i fenomeni recenti che maggiormente ci interessano
per la nostra riflessione e la cui nascita può essere
ricondotta a quella della famiglia moderna educante, vi è
quello dello sviluppo enorme di istituzioni e professioni di
sostegno ai genitori nel loro compito di cura e crescita dei
bambini. Accanto alla scuola, alle strutture del tempo libero
e ai mass media vi sono gli esperti: medici, pediatri,
psicologi e pedagogisti. In particolare l’istituzione medica,
come quella scolastica, è diventata un interlocutore
obbligatorio delle famiglie. Il pediatra è ormai un riferimento
privilegiato dei genitori soprattutto nelle prime fasi della
crescita dei bambini: a lui le neo mamme e i neo papà si
rivolgono per far fronte alle incertezze e alle ansie rispetto
al loro compito perchè, spesso, non hanno esperienze
precedenti e difficilmente possono confrontarsi con altri
genitori. Ecco che il pediatra diventa anche psicologo e
pedagogista e fornisce indicazioni non solo di carattere
medico,
nutrizionale
ed
igienico
ma
anche
comportamentale, relazionale se non, addirittura, morale.
Le interpretazioni della diffusione della cultura degli esperti
e della sua ricaduta sulle competenze educative dei
genitori sono varie. Alcuni la leggono come “intrusione”
70
dello stato nella famiglia ma crediamo che questa
interpretazione sia riduttiva perchè non tiene conto del fatto
che anche in passato non erano solo i genitori ad
occuparsi dei loro figli.
Inoltre bisogna considerare un dato di fatto importante: le
famiglie sembrano molto disponibili a farsi influenzare
dagli esperti, non solo per motivi di delega e passività ma
soprattutto perchè la moltiplicazione e la diffusione dei
saperi attorno alla prima infanzia, il proliferare dei modelli
educativi che alternano i decaloghi del permissivismo e
dell’autoritarismo, le modificazioni culturali e sociali, il salto
generazionale aggiungono incertezza ai rapporti familiari,
soprattutto a quelli genitori-figli.
Salomone27 affronta il tema del passaggio da educazione
come fatto naturale e parentale a fatto specialistico e
differenziato domandandosi quali sono i tratti fondamentali
dell’educazione specialistica e che rapporto esiste tra
educazione familiare e professionale o di secondo livello.
La prima considerazione è quella che rileva quanto la
famiglia non possa essere considerata “agenzia educativa”
al pari della scuola e del gruppo dei pari. La famiglia è
71
soggetto delegante, la scuola è agenzia che opera per
conto della delega della famiglia. Inoltre, da un punto di
vista antropologico e sociale, il processo di delega delle
funzioni educative alle agenzie è piuttosto recente. Esse
nascono come conseguenza della scelta di una parte della
società di occuparsi di un problema lasciato scoperto da
un’altra parte e dalla autocomprensione di sé come
portatrice di prestazioni educative. Per esempio gli asili
nido e le scuole materne nascono per rispondere ai
problemi aperti dalla trasformazione sociale che vede
sempre più donne occupate nel lavoro a tempo pieno fuori
casa. I Centri Socio Educativi servono per accogliere gli
espulsi dal mondo della scuola e del lavoro e per pensare
ad una loro integrazione sociale. Complessificandosi il dato
sociale e culturale, aumentano i bisogni educativi e le
risposte agli stessi. Il risultato di questo processo è la
parcellizzazione, per cui tanti attori socio-educativi si
occupano di un pezzo della crescita del bambino, se non,
addirittura, di un pezzo del bambino stesso: qualcuno si
occupa della sua mente, qualcuno dei suoi affetti, qualcun
altro del suo corpo e così via. I processi di delega e
27
Igor Salomone, op. cit..
72
professionalizzazione
stanno
alla
base
di
questo
movimento verso la parcellizzazione e, nello stesso tempo,
producono o alimentano la progressiva incompetenza
sociale ed educativa di chi, quotidianamente, è chiamato a
svolgere il compito di genitore.
In sintesi la tecnologia, il mondo del lavoro, della scuola e
del tempo libero, il proliferare di agenzie educative
specializzate hanno modificato il contesto dei rapporti e
della trasmissione culturale tra le generazioni al punto che i
saperi tradizionali sembrano sempre più difficilmente
spendibili ed efficaci. Tradizione e saperi di ieri non sono
più sufficienti e non possono essere trasmessi in modo
lineare; essi richiedono di essere sempre più rielaborati,
selezionati ed adattati. Questo i genitori lo percepiscono e
può diventare per loro motivo di ansia, incertezza, senso di
solitudine e disorientamento rispetto al loro compito
educativo, piuttosto che di chiusura in modelli stereotipati
ed atteggiamenti oggettivanti che poco si confanno alle
caratteristiche di flessibilità e pluralità della nostra società
che sempre di più ci chiede di saperci
modo creativo e selettivo.
73
comportare
in
2.4. - GENITORI E FIGLI
Ora, con l’aiuto di alcuni dati e riflessioni emerse durante il
convegno C.I.S.F. già citato, ci addentriamo maggiormente
nel rapporto genitori-figli così come è stato rilevato dalle
ricerche più recenti. In particolare ci interessano le
informazioni relative alla percezione che i genitori hanno
del
proprio
ruolo
e
della
capacità
di
interpretarlo
autonomamente.
La Dott.ssa Sabatini, ricercatrice I.S.T.A.T., documenta
che stiamo assistendo allo spostamento in avanti per età
del ruolo di genitori e che il fenomeno del figlio unico è in
aumento. Per questo motivo le famiglie spesso scelgono di
utilizzare
spazi
e
servizi
esterni
per
favorire
la
socializzazione dei piccoli proprio perchè, in casa, manca
la possibilità di convivere con bambini della stessa età. La
madre rimane protagonista della relazione educativa ma i
padri si stanno avvicinando sempre di più. I rapporti
genitori-figli sono sempre meno gerarchici e le reti di aiuto
informali/solidali sono fortemente basate sulla parentela
74
stretta dove sono soprattutto le donne a svolgere servizi di
aiuto.
Il Dott. Castagnaro, sociologo che ha collaborato alla
stesura dell’ultimo lavoro del C.I.S.F., interviene portando
un punto di vista che ci pare
molto interessante per
comprendere come in Italia i fenomeni di cambiamento che
investono la famiglia siano più lenti e comunque diversi
rispetto al resto d’Europa e come sopravvivano forti
resistenze da parte delle famiglie ad avvalersi dell’aiuto
professionale in campo strettamente educativo. Rispetto ai
fenomeni di cambiamento delle strutture famigliari egli
sostiene che le “nuove famiglie” non sono così numerose
come pare e dipendono più dall’invecchiamento della
popolazione che da un fenomeno di innovazione. Inoltre la
famiglia è e rimane importante come punto di riferimento
per vecchi e giovani e continua a svolgere funzioni
essenziali. Il sociologo sostiene che stiamo ponendo
troppa attenzione a ciò che ci pare cambi e nessuna a ciò
che rimane invariato. E’ veramente corretto attribuire alla
politica ed al Welfare State la responsabilità del fatto che la
famiglia italiana non viene sufficientemente aiutata a
svolgere i suoi compiti educativi? Non è piuttosto che la
75
cultura italiana è una cultura familista che antepone le
esigenze del nucleo a quelle del sociale e dell’individuo
nella famiglia? La famiglia è privatizzata e questo non è un
dato nuovo ma, secondo il sociologo, l’Italia è un paese
familista, non individualista. Le scarse forme di aiuto
extraparentale non hanno solo radici di politica sociale ma
trovano
la
loro
origine
soprattutto
nel
familismo.
Culturalmente la famiglia si deve arrangiare, le relazioni di
aiuto extraparentali sono scarse perchè i disagi della
famiglia e dei suoi componenti rimangono attributo della
famiglia stessa. Gli amici e la comunità si attivano solo per
il tempo libero, mossi da ideali o da forme di volontariato.
La comunità si sente tenuta ad intervenire solo se ci sono
problemi e secondo il “sentire comune” se una famiglia ha
semplicemente dei figli se la deve cavare da sola a meno
che non vi siano dei problemi e, in questo caso, gli
interlocutori privilegiati sono il medico e lo psicologo.
Piero Bertolini, a proposito delle resistenze della famiglia a
rivolgersi agli esperti di educazione per chiedere aiuto
quando la situazione rientra nella sfera della “normalità”,
76
nel 1984 scrive un articolo28 che ci pare ancora attuale. Tra
le cause di tale resistenza egli registra prima tra tutte la
difficoltà di alcuni professionisti (medici in testa) a cedere
una fetta del potere da loro stessi accumulato e dunque
una
resistenza
alla
demedicalizzazione.
Inoltre
egli
sostiene che il versante pedagogico rappresenta oggi un
terreno di conquista particolarmente ambìto perché si va
diffondendo la consapevolezza della necessità di un
interesse educativo che vada ben al di là delle quattro
mura della casa e della scuola. Poiché è ancora assai
diffusa l’opinione secondo cui la competenza educativa è
in larga misura coincidente con un certo “ buon senso “, è
piuttosto frequente che tanto i genitori quanto gli insegnanti
si credano gli unici depositari di quella competenza, con la
conseguenza che se per qualche motivo sentono di dover
ricorrere a degli aiuti, lo fanno rivolgendosi a competenze
considerate più specialistiche e quindi più “serie” (psicologi
primi tra tutti). Complessivamente, dunque, la Community
Care cura poco, la famiglia cura ancora molto e si
vergogna a chiedere aiuto per l’educazione dei figli se si
28
Piero Bertolini, rivista E.D.A. (Bimestrale per lo sviluppo dell’educazione
degli adulti), 1984
77
trova in una condizione di normalità, perchè la vita di tutti i
giorni con i bambini deve essere gestita tra le quattro mura
domestiche mediante il buon senso educativo che tutti
dobbiamo avere. Troppo spesso ci si rivolge agli esperti
quando si crede di avere problemi che non vengono certo
considerati risolvibili per mezzo del rapporto educativo.
Infatti questi esperti sono soprattutto i medici e gli psicologi
ai quali ci si sente maggiormente autorizzati a rivolgersi
proprio in nome della loro competenza a risolvere i
problemi seri. Difficilmente ci si rivolge ad altri per
confrontarsi sui temi educativi. Pertanto, i servizi a
sostegno alla genitorialità, per essere adeguati, non
possono fare a meno di prendere in considerazione questo
aspetto culturale rispettando da un lato il pudore dei
genitori e riconoscendo la loro difficoltà a chiedere aiuto,
dall’altro aiutandoli a spostare l’attenzione dall’elemento
“problema” alla possibilità di investire sulla quotidianità
senza sentirsi per questo stigmatizzati o inadeguati. La
quotidianità, infatti, può essere anche essa fonte di disagio
senza per forza sfociare in condizione patologica. Inoltre gli
operatori dei
VERO
servizi devono contribuire a realizzare UN
INCONTRO
TRA
EDUCAZIONE
78
NATURALE
E
PROFESSIONALE
COMINCIANDO
DAL
CONSIDERARE
IL
SOGGETTO FAMIGLIA COME PARTNER COMPETENTE, NON
OGGETTO PASSIVO DI UN INTERVENTO DI AIUTO.
Infine ci sembrano interessanti alcune riflessioni presentate
dalla Dott.ssa Calvi Parisetti dell’Eurisko sul tema “La vita
quotidiana nella famiglia”. I dati raccolti fanno pensare che
esista una grande idea di famiglia come valore e fonte di
benessere, nonostante le sue diverse forme. L’Italia è un
paese di famiglie (il 90% delle persone vive a vario titolo in
famiglia) e chi non vive in una famiglia lo fa più per
necessità che per scelta.
La Dott.ssa interpreta alcuni dati raccolti sui modelli
educativi della famiglia con bambini piccoli (fino a 10 anni)
evidenziando la massiccia presenza della madre nei
rapporti con i figli e il basso livello di stile educativo che
punti all’autonomia dei piccoli; quasi la metà dei genitori
dichiara di avere difficoltà nell’educare i figli. La restante
metà dice di fare riferimento ai nonni per essere aiutati in
questo compito. L’educazione tende a diventare sempre
più importante e consapevole ma sempre più complessa
da indagare e ricca di difficoltà applicative.
79
2.5. - PER CONTINUARE
Come abbiamo visto, la famiglia italiana vive tra continuità
e cambiamento: muta le sue forme ma non si trasforma
nella sostanza; delega parte dei propri compiti educativi
ma si riconosce ancora come prima responsabile. Molti
genitori si sentono smarriti, insicuri e soli rispetto al proprio
impegno educativo ma sentono di non voler rinunciare ad
esso. La conseguenza della privatizzazione della famiglia,
del suo sentirsi in dovere di svolgere da sola - o al
massimo con l’aiuto dei parenti stretti - il proprio compito
educativo, è il suo isolamento, soprattutto nelle grandi città.
Un isolamento controproducente perchè non consente a
genitori e bambini di stare insieme, di confrontarsi, di
riflettere ed elaborare insieme le difficoltà quotidiane che
investono
la
crescita
dei
bambini;
un
isolamento
controproducente per la salute dei singoli individui che la
compongono ed inconciliabile con una società che ci
chiede di avere “abilità sociali e relazionali” sempre più
articolate
e
complesse.
La
conseguenza
della
specializzazione e parcellizzazione dei saperi, unita
80
all’isolamento, è la progressiva perdita di sicurezza nelle
proprie capacità educative al punto che i genitori finiscono
per pensare di non avere più nulla da insegnare ai loro
bambini, piuttosto che decidere di chiudere gli occhi sul
mondo e continuare ad insegnare cose che probabilmente
non servono più.
LA QUESTIONE E’ CAPIRE CHE IL COMPITO DEI GENITORI STA
CAMBIANDO MA NON STA SPARENDO. La scuola, infatti, si
occupa di alcune cose, il medico, il pediatra, lo psicologo,
le associazioni del tempo libero di altre. Ai genitori rimane
tutto il resto. Rispetto al passato le forme di aiuto alle
famiglie con bambini piccoli sono cambiate e devono
continuare a farlo: non servono balie, preti o istruttori di
morale. Non servono nemmeno esperti di educazione che
prescrivano, sotto forma di buoni e dotti consigli, come
mamma e papà devono comportarsi nella tal situazione;
non serve che snocciolino il decalogo del “buon genitore”
senza rendersi conto che quel genitore non ha nessuna
intenzione di metterlo in pratica perchè non ne capisce il
significato per sé e per il proprio bambino.
81
Giorgio Macario29 scrive che ai genitori è richiesta una
competenza
che
sempre
più
difficilmente
si
può
tramandare di padre in figlio a causa della complessità
della società e della velocità dei cambiamenti, così che
essi finiscono per avere sempre più difficoltà a considerarsi
adeguati. Basta essere informati su come gira il mondo e
su cosa dicono gli esperti? Forse no. Probabilmente
occorre che gli educatori naturali e professionali si
incontrino per
percorrere insieme un cammino di
“autoriflessione” intesa come sviluppo della capacità di
ascolto di sé e dell’altro per avviare una comunicazione
autentica; capacità di esplicitare emozioni, sentimenti ed
obiettivi; di progettare razionalmente pur accettando la
caratteristica incertezza del nostro contesto socioculturale.
Genitori ed educatori possono imparare insieme che è
possibile “pensare mentre agiscono e ad agire pensando”
nella concretezza della quotidianità che non può più essere
considerata solo la ripetizione di gesti insignificanti ma il
“rinnovarsi giornaliero di un incontro con
l’altro ricco di significati[...]” e perchè
una
29
quotidianità
qualificata
è
l’“imprescindibile
Giorgio Macario, “L’arte di educarsi”, Meltemi, Roma, 1999
82
indicatore
vita.”
di
una
migliore
qualità
della
30
E’ da tutto quanto abbiamo scritto che nasce l’esigenza di
ragionare attorno al ruolo dell’educatore professionale nei
servizi per bambini piccoli con i loro genitori. Di che cosa si
deve occupare? Cosa può fare per aiutare veramente
adulti e piccini che frequentano i servizi dove egli è
presente? Di che cosa deve essere esperto?
Come
tenteremo
di
argomentare
successivamente,
l’educatore professionale che lavori per il sostegno al ruolo
genitoriale è un operatore che si occupa della relazione tra
adulto e bambino cercando di coglierne il senso profondo
per renderlo più facilmente accessibile ai protagonisti della
relazione stessa; è un operatore che si sforza di proporre
ai genitori nuove possibilità di attribuzione di significato alla
loro relazione con i piccoli; è colui che condivide con grandi
e piccini parte delle esperienze quotidiane, delle ansie e
delle difficoltà che comportano la cura e la crescita dei
bambini. Egli è esperto nella conduzione della propria
relazione con le coppie adulto-bambino finalizzata alla
30
G. Macario, Ibidem, pag. 105
83
crescita della relazione tra la coppia adulto-bambino; è un
operatore che sa pensare e riflettere sul significato
educativo della concretezza delle esperienze che egli
stesso propone ma che sa anche trasformare in occasioni
di crescita e apprendimento ciò che bambini e genitori
sperimentano spontaneamente nei servizi, nonché ciò che
di imprevedibile e spiacevole potrebbe accadere. Infine è
un operatore che lavora per scomparire: la sua finalità è
quella di trasferire le sue competenze ai genitori che le
vorranno accogliere e trasformare a propria immagine a
vantaggio di se stessi e dei loro bambini. Egli deve aiutare
i genitori a rielaborare i propri valori, ad esplicitare i propri
obiettivi, a riflettere sul significato dei propri atteggiamenti
per attivare strategie proprie di azione.
La riflessione sul ruolo dell’educatore si rende necessaria,
inoltre, per un motivo fondamentale: esiste una normativa
istituzionale che legittima i bisogni delle famiglie con
84
bambini piccoli e che prevede la presenza di servizi con
operatori in grado di aiutarle a rispondere a tali bisogni.
CAPITOLO III
IL QUADRO LEGISLATIVO DI RIFERIMENTO
85
Il valore di una legge consiste nel fatto che essa giunge a
sancire e ufficializzare ciò che culturalmente e socialmente
già
esiste
e,
contemporaneamente,
attraverso
la
legittimazione, getta uno sguardo in avanti sui problemi
potenziali esplicitando bisogni non evidenti. A noi importa
che
lo
Stato
prima,
la
Regione
Lombardia
successivamente, si sono attivati e continuano a farlo,
dimostrando una sensibilità rinnovata nei confronti della
“cellula della nostra società”, del valore sociale e culturale
della maternità e della paternità e riconoscendo l’esigenza
di pensare e realizzare servizi innovativi che rispondano ai
bisogni della famiglia educante che, come abbiamo
ampiamente
argomentato,
stanno
profondamente
cambiando. Questa tensione innovativa si traduce in una
legge dello Stato che prevede interventi di prevenzione e di
aiuto alla funzione genitoriale attraverso l’implementazione
di servizi e progetti innovativi all’interno dei quali operino
persone qualificate.
86
3.1. - Legge 28 agosto 1997, n.285 “Disposizione per
la promozione di diritti e di opportunità per
l’infanzia e l’adolescenza”
La legge n. 285/97 rappresenta, per la nostra esplorazione,
il quadro di riferimento obbligato, poiché si presenta come
la sintesi di quel movimento socioculturale di cui abbiamo
ricercato ed individuato le tracce. Gli assunti e le
disposizioni
contenuti
nella
legge
documentano
il
radicamento di una rinnovata attenzione per l’infanzia e,
soprattutto, per la relazione genitori-figli. La legge, come è
logico per la prospettiva che si è data, non si limita ad una
dichiarazione di intenti, ma promuove, anche attraverso
cospicui finanziamenti, l’attivazione e la diffusione di servizi
di
sostegno
alla
genitorialità,
ad
alcuni
dei
quali
riserveremo attenzione più avanti.
Rispetto all’impianto generale della legge, ci sembra
importante evidenziare che essa prevede sì interventi sul
disagio ma, soprattutto, si orienta verso la promozione
dell’agio. In realtà essa sceglie gli itinerari di crescita,
educazione, formazione e socializzazione delle persone
come luogo di prevenzione primaria del disagio, di
87
rafforzamento
della
personalità,
di investimento per
migliorare le condizioni di vita. Secondo questa prospettiva,
la riduzione degli effetti negativi del disagio passa
attraverso la riduzione del degrado ambientale, sociale ma
soprattutto relazionale. L’educazione è un investimento che
deve essere fatto per tutta la società al fine di migliorare la
qualità delle relazioni e questo significa prospettare nuovi
spazi e nuove opportunità per l’educatore professionale.
L’azione preventiva non può che partire dalla prima cellula
della
nostra
società,
preoccupandosi
di
prevedere
interventi di sostegno al ruolo genitoriale e alla famiglia, di
creare luoghi di incontro e socializzazione tra adulti e
bambini. La sua finalità è quella di promuovere i diritti
dell’infanzia e dell’adolescenza scostandosi dalla logica
tradizionale di sanzionare comportamenti scorretti o
abusanti nei confronti dei soggetti più deboli per assicurare
ai minori opportunità indispensabili per un adeguato
processo di sviluppo. Non è sufficiente proclamare dei
diritti, occorre preoccuparsi di predisporre strumenti
attraverso
i
effettivamente
quali
questi
goduti
da
diritti
persone
88
possono
che,
essere
essendo
in
formazione, non sono sempre in grado di esigerne il pieno
rispetto.
Un altro elemento di rilievo consiste nel fatto che la legge
porta in sé l’idea di fondo secondo la quale, affinché gli
interventi siano efficaci, essi devono partire dal bisogno
reale della popolazione locale. Questa idea ha tra le sue
prime conseguenze quella di individuare nel Comune il
soggetto istituzionale responsabile delle politiche per
l’infanzia. Infatti il livello “centrale” definisce le finalità e la
filosofia generale degli interventi ma è consapevole che
solo quello “locale” può governare le politiche per l’infanzia
dal momento che è l’unico in grado di mettere a confronto il
bisogno della popolazione, le risorse esistenti e
la
possibilità di potenziare i servizi. L’Ente Locale, fermo
restando il perseguimento delle finalità della legge, ha una
grande autonomia di scelta rispetto al
tipo di servizi e
progetti che intende realizzare, rispetto ai luoghi dove
insediarli, alla popolazione alla quale rivolgerli e alla
possibilità di avvalersi della collaborazione del privatosociale per la gestione dei servizi stessi.
Stato, Regioni, Comuni ma anche associazioni di cittadini,
sono soggetti coinvolti per pensare e realizzare una rete di
89
interventi e di servizi in una direzione comune: quella di
tentare di realizzare la cultura della comunità che cura i
suoi piccoli e che si cura di coloro che hanno il compito di
occuparsi di loro.
La legge riconosce che occorre valorizzare e promuovere il
ruolo dei genitori nel loro compito educativo attraverso il
miglioramento delle loro condizioni di vita. Essi infatti non
sono solo invitati ad usufruire dei servizi esistenti ma
anche ad associarsi per ideare, organizzare e realizzare
opportunità
di
incontro
e
confronto
sui
temi
dell’educazione. Paolo Onelli dichiara in un’intervista che
l’autorganizzazione dei servizi da parte dei genitori è un
aspetto innovativo che la legge promuove “così come
un nuovo atteggiamento del servizio verso
l’utente
più
dinamico.”
imprenditivo, promozionale e
31
Grazie alle iniziative dei genitori e degli Enti Locali, grazie
alla presenza di operatori qualificati nei servizi è possibile
promuovere la cultura dell’infanzia ma, soprattutto, è
possibile sviluppare e diffondere competenze relazionali ed
90
educative che risultano essenziali per la prevenzione del
disagio dei bambini e dei loro stessi genitori.
Riportiamo
di
seguito
gli
articoli
della
legge
che
maggiormente ci interessano perchè sono quelli che hanno
consentito la nascita dei servizi che esploreremo, ovvero
quelli rivolti ai genitori (o adulti che a vario titolo si
occupano dei bambini anche per solo una parte della
giornata) e ai loro bambini in età compresa tra gli zero e i
tre anni e che hanno le finalità di favorire la socializzazione
tra adulti e bambini e promuovere la relazione genitorefiglio.
Art. 1. E’ istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei
ministri, il Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza
finalizzato alla realizzazione di interventi a livello nazionale,
regionale e locale per favorire la promozione dei diritti, la qualità
della vita, lo sviluppo, la realizzazione individuale e la
socializzazione dell’infanzia e dell’adolescenza, privilegiando
31
Paolo Onelli, vice capo di gabinetto del Dipartimento Affari Sociali .
Intervista di Matteo Lo Schiavo, in “Prospettive sociali e sanitarie”, nr. 13,
Luglio 2000.
91
l’ambiente ad esse più confacente ovvero la famiglia naturale,
adottiva o affidataria.
Art. 3. Sono ammessi al finanziamento di cui all’articolo 1 i
progetti che perseguono le seguenti finalità :
a) realizzazione di servizi di preparazione e sostegno alla
relazione genitore - figli [...];
b) innovazione e sperimentazione di servizi socio-educativi per
la prima infanzia;
[...]
Art. 5. Le finalità dei progetti di cui all’articolo 3, comma 1,
punto b) possono essere perseguiti in particolare, attraverso:
a) servizi con caratteristiche educative, ludiche, culturali e di
aggregazione sociale per i bambini da 0 a 3 anni, che prevedano
la presenza dei genitori, familiari o adulti che quotidianamente si
occupano della loro cura, organizzati secondo criteri di
flessibilità.
[...]
92
I servizi [...] non sono sostitutivi degli asili nido [...] e possono
essere anche autorganizzati dalle famiglie, dalle associazioni e
dai gruppi.
3.2. - Legge
Regionale
6
Dicembre
1999
n.
23
“Politiche regionali per la famiglia”.
Anche la Regione Lombardia si sta muovendo nella
direzione dell’attenzione alla famiglia identificando in essa
un soggetto politicamente rilevante e promuovendo una
rete integrata di servizi di sostegno al nucleo familiare che
favorisca soprattutto la libera iniziativa delle famiglie
stesse. Una volta associatesi, esse sono riconosciute
come soggetti politici a tutti gli effetti e, per questo, aiutate
dalle istituzioni nello svolgimento delle finalità che si
propongono. Per realizzare un efficace impianto di aiuti alla
famiglia
occorre
che
i
servizi
tradizionali
vengano
potenziati, rinnovati e resi maggiormente flessibili sulla
base delle nuove esigenze della famiglia con bambini
93
piccoli. In particolare, all’art. 2, punto e) troviamo tra gli
obiettivi quello di promuovere e sostenere l’armonioso
sviluppo delle relazioni familiari; al punto I) si intendono
sostenere le iniziative di reti sociali che tendano a
sviluppare
le
capacità
delle
famiglie
ad
assumere
efficacemente le proprie funzioni educative e sociali; al
punto n) la legge prevede la formazione e l’aggiornamento
degli operatori dei servizi alla famiglia.
CAPITOLO IV
I SERVIZI A MILANO E HINTERLAND
94
In Lombardia, e soprattutto a Milano e provincia, la L. n.
285/97 ha avuto un grande riscontro e ha promosso lo
sviluppo di molte esperienze innovative nel campo dei
servizi per adulti con bambini da zero a tre anni finalizzate
a favorire l’aggregazione e a supportare il ruolo genitoriale.
Durante il lavoro di ricerca per questa tesi, ci siamo
concentrati su Milano e hinterland non solo perchè è l’area
nella quale viviamo e lavoriamo, ma anche perchè è una
grande città dove i cambiamenti socioculturali dei quali
abbiamo parlato sono particolarmente evidenti, così come
lo sono i bisogni delle famiglie e, di conseguenza, ha
potuto diventare un territorio ricco di servizi e progetti.
Infatti, secondo una riflessione di Susanna Mantovani32, la
realtà sociale di Milano e hinterland si presenta come
particolarmente frammentata e ricca di pluralità, dove gli
spazi
di
discrezionalità
di
ogni
individuo
sono
estremamente ampi. Se da un lato l’autodeterminazione
rappresenta
un’importante
conquista,
dall’altro
l’esaltazione dell’individualità e dell’autonomia - valori di
32
Anna Bondioli e Susanna Mantovani (a cura di), “Manuale Critico
dell’Asilo Nido”, Franco Angeli, Milano, 1997
95
per sé inviolabili - possono trasformarsi in indifferenza ed
anonimato che trovano, tra l’altro, terreno estremamente
fertile nella configurazione urbanistica della città. Il passo
verso l’allentamento dei legami sociali e l’isolamento è
breve. L’isolamento può esprimersi in uno smarrimento
ideologico, incertezza emotiva e cognitiva che hanno
ricadute importanti: l’enfatizzazione e la monopolizzazione
dei rapporti affettivi famigliari che assumono caratteri di
difesa rispetto ad una società con la quale si ha poco in
comune sul piano relazionale; gli interessi dei genitori sono
focalizzati quasi esclusivamente sui figli; al bambino
manca la possibilità di fare riferimento a modelli di adulti
molteplici come avveniva, invece, nella famiglia allargata.
L’isolamento comporta confusione ed incertezza anche in
campo educativo: i genitori si sentono sempre più insicuri,
cercano risposte preconfezionate sotto forma di ricette
miracolose,
si
fanno
confondere
dalle
“mode
pedagogiche”. Perdono progressivamente fiducia nelle
proprie capacità educative e finiscono per cercare soluzioni
specialistiche ai loro problemi quotidiani rinunciando così a
trovare, nella dimensione della relazione educativa con i
96
figli, una possibilità di crescita e superamento delle
difficoltà.
4.1. - MADRI E PADRI
Prima di continuare nella nostra riflessione per addentrarci
nei servizi che abbiamo incontrato, ci sembra importante
sottolineare che fino ad ora abbiamo parlato di “famiglie”
ma forse abbiamo usato questo termine in modo improprio
perchè, pur essendo vero che il contributo dei padri alla
crescita ed educazione dei bambini sta cambiando, è
anche vero che oltre il 60% degli utenti adulti di questi
servizi sono le mamme (il 36% è composto dalle nonne e
dalle
baby-sitter)
principalmente
si
che
rimangono
occupano
della
le
persone
crescita
e
che
della
educazione dei bambini diventando, se così possiamo dire,
catalizzatrici delle responsabilità e, di conseguenza,
portavoce delle difficoltà. La percentuale delle mamme
97
aumenta di molto se consideriamo i bambini entro il primo
anno di età. I padri sono, al massimo, il 4%.33
I
padri
non
sono
immuni
alle
conseguenze
della
complessità socioculturale di cui abbiamo ampiamente
parlato; in questo senso parlare di “bisogni della famiglia”
ha senso ed è coerente; non sono immuni nemmeno alle
incertezze rispetto al modo in cui interpretare il loro ruolo
educativo (tanto è vero che si parla dei “nuovi mammi” cioè
di femminilizzazione del ruolo paterno) ma rimangono
piuttosto ai margini quando si tratta di attivarsi al di fuori
delle mura domestiche per farsi promotori della crescita
della loro relazione con i figli. Le mamme rimangono
coloro che più facilmente si occupano e si “devono
occupare” dei bambini rinunciando, in alcuni casi, alla
propria vita professionale e alla cura di sé.
Nonostante Milano sia una delle aree dove i servizi per
l’infanzia
sono
maggiormente
sviluppati
e
dove
la
percentuale di mamme lavoratrici è tra le più alte, la
maggior parte delle famiglie non usufruisce dell’asilo nido
perchè non risponde ai loro bisogni, non rispetta le loro
33
Dati tratti da AA.VV., “Bambini a Milano”, Francesco Caggio e Mimma
Noziglia, Comune di Milano, Settore Servizi Sociali, edizioni Junior ,
98
scelte o non incontra le loro esigenze (per esempio la
rigidità degli orari). Il 90% dei bambini cresce quindi in
famiglia, specialmente con le mamme, fino ai tre anni
senza utilizzare servizi pubblici. Molte donne conducono la
prima esperienza di crescita dei figli in condizioni
ambientali precarie, senza confrontarsi con gli altri, in
grande isolamento e solitudine, prive di riferimenti amicali o
di parentela (pensiamo soprattutto agli immigrati) che le
aiutino a ridimensionare, sdrammatizzare ed affrontare i
problemi che la crescita di un bambino comporta. Non
stiamo parlando di soggetti disagiati nel senso classico
della parola ma di persone che, come abbiamo già scritto,
hanno semplicemente dei figli, sono “normali” e stanno
bene, ma questo non giustifica il fatto che debbano essere
lasciate sole e che non abbiano diritto a trovare occasioni
di scambio e confronto. A questo proposito ci sembra
interessante la testimonianza di una mamma di 35 anni,
medico anestesista di Milano, pubblicata sul “Corriere della
Sera” del 9 dicembre 2000. La donna frequenta ora un
servizio del progetto Tempi per le Famiglie di Milano e
dice: “poppate
e
cambi
Bergamo, 1999
99
di
pannolini:
non
facevo altro dopo la nascita di mia figlia.
Di colpo niente lavoro, niente uscite con
le amiche, niente palestra. Soltanto rapide
uscite
con
il
passeggino,
tempo
permettendo.
E
anche
al
parco
scarse
possibilità di incontrarmi con altre mamme
con cui confrontarmi. Il vuoto, insomma.”
Proseguendo
lungo
il
ragionamento,
soprattutto
le
mamme (a questo punto possiamo dirlo) che vivono a
Milano e hinterland hanno urgente bisogno di avere un
tempo e uno spazio di aggregazione dove potersi
confrontare, condividere esperienze e scambiarsi domande
rispetto alla crescita dei bambini; recuperare fiducia nelle
proprie competenze educative e nelle proprie capacità di
trovare soluzioni creative, a partire dalla valorizzazione di
sé come persone e come genitori.
La richiesta è quella di poter usufruire di servizi flessibili
che rispettino le loro scelte di vita, che si pongano come
integrativi alla famiglia e che, contemporaneamente,
possano diventare riferimenti stabili.
Le pagine che seguiranno gettano uno sguardo su alcuni
progetti che ci pare esemplifichino, nel versante operativo
100
e sull’onda delle riflessioni sin qui proposte, i contenuti che
andiamo
tematizzando.
Il
panorama
complessivo
dell’offerta educativa è assai più ampio ed articolato di
quanto risulti dalla nostra selezione, ma un’esplorazione
esaustiva avrebbe travalicato le finalità del presente lavoro
ed il nostro obiettivo conoscitivo.
4.2. -
I TEMPI PER LE FAMIGLIE A MILANO E
HINTERLAND
Il mio sentiero di ricerca sui servizi a sostegno della
genitorialità inizia nel Tempo per le Famiglie di San Donato
Milanese dove ho svolto il tirocinio e non può che
proseguire verso altri progetti e servizi che ho scelto di
conoscere (attraverso la lettura di documenti e alcune
visite) per estendere la lettura dei bisogni degli utenti, per
addentrarmi nella realtà cittadina e per raccogliere ulteriori
elementi
per
la
riflessione sul ruolo dell’educatore
professionale.
101
Rispetto alla nascita dei servizi, Susanna Mantovani34
scrive che già verso la metà degli anni ottanta, per la prima
volta a Milano, in seguito alle ricerche commissionate dal
Comune che evidenziavano la fiducia delle famiglie nei
servizi per l’infanzia, le richieste di consulenza educativa
(ed il conseguente bisogno di formazione adeguata per gli
educatori), la necessità di trovare nuove forme e spazi di
aggregazione per genitori e bambini, si sperimentarono
nella città nuovi progetti tra i quali i “Tempi per le Famiglie”.
Il primo fu aperto nel 1986 proprio su iniziativa della
Mantovani ed utilizzò, per la prima volta, la formula della
collaborazione tra pubblico e privato anticipando i nuovi
servizi che oggi sono previsti e promossi dalla L. n.285/97
e che sono riconosciuti come parte integrante del sistema
delle offerte per l’infanzia. Si tratta di servizi innovativi che
hanno permesso ai concetti di socializzazione degli adulti,
di attenzione ai bisogni emotivi ed affettivi del genitore, di
supporto alla relazione madre-bambino di diventare
obiettivo
esplicito,
itinerario
di
approfondimento
occasione di formazione per molti educatori.
34
AA.VV., “Bambini a Milano”, ibidem.
102
ed
Tra i temi e le possibilità che questi servizi hanno
permesso di mettere a fuoco vi sono soprattutto la
mediazione tra gli aspetti relazionali e le proposte
educative che coinvolgono sia i bisogni di crescita del
bambino (il gioco, la manipolazione, l’uso del corpo, la
socialità, l’espressione della propria volontà ed autonomia)
che le emozioni ed i bisogni degli adulti; l’attenzione alla
dimensione dell’accoglienza e dell’ascolto delle mamme e
dei bambini da parte degli educatori; l’attenzione alla
quotidianità come occasione di crescita, fonte di benessere
e di piacere per mamme e bambini.
4.2.a - Esperienze e possibilità diverse
Una ricerca del Giugno 199935 documenta che esistono a
Milano 11 centri che fanno parte del progetto “Tempi per le
Famiglie” ed accolgono adulti che accompagnano bambini
in età compresa tra gli zero e i tre anni. Altri servizi
analoghi si chiamano in modo diverso pur facendo parte
35
AA.VV., “Bambini a Milano”, ibidem
103
della stesso progetto e riferendosi alla medesima filosofia
di base. Ciascuno di essi ha le proprie peculiarità rispetto
alle possibilità che offre e alle esperienze sulle quali di
focalizza, rispetto agli orari di apertura e al funzionamento
generale, al tipo di famiglie che accoglie (alcuni dedicano
degli spazi alle mamme straniere), agli adulti che
maggiormente
accompagnano
i
bambini,
all’età
dei
bambini e alla professionalità degli operatori che vi
lavorano,
oltre
naturalmente
agli
educatori.
Originariamente l’accesso ai servizi, nel rispetto degli orari
di apertura, era completamente libero ma oggi, in seguito
alla grande risposta di mamme e bambini, alcuni centri
scelgono di creare gruppi omogenei di utenti per età dei
bambini dedicando loro giorni fissi della settimana. In ogni
caso mamme e bambini che si iscrivono al servizio sono
liberi di frequentare se e quando vogliono e all’ora che
desiderano, compatibilmente con le scelte organizzative. A
seconda del tipo di utenza e delle proposte del servizio, in
alcuni centri vengono allestiti locali - o parti di essi appositamente studiati per lo svolgimento di attività
particolari: dal massaggio dei piccolissimi da parte delle
mamme sotto la guida di tecnici per favorire l’intimità della
104
relazione dove non è possibile utilizzare altri mediatori; ai
laboratori gestiti interamente dagli adulti, al gioco libero, a
quello simbolico, all’uso dei colori e alla manipolazione dei
materiali, alla stanza del “caffè” per le sole mamme,
eccetera.
Anche
nell’hinterland
queste
esperienze
si
stanno
moltiplicando: una ricerca promossa a novembre del 2000
da
Confcooperative - Unione Provinciale di Milano e
UnionGest S.r.l., "Sviluppo delle cooperative e servizi
diurni per la prima infanzia a Milano", ha preso in esame,
oltre agli asili nido, i numerosi Tempi per le Famiglie che
sono stati aperti in molti Comuni attorno a Milano grazie
alla collaborazione tra ben dieci cooperative del privato
sociale e gli Enti Locali competenti.
Complessivamente questi luoghi consentono a mamme e
bambini di stare vicini ma in un contesto sociale allargato,
di fare esperienze diverse da quelle che l’ambiente
famigliare permette, di imparare che è possibile stabilire un
rapporto di distanza-vicinanza ottimale a seconda del
contesto e dell’età del bambino, di creare legami
extrafamiliari significativi e di essere aiutati dagli educatori
105
a trovare significati e possibilità nuove per la loro
relazione.
Oltre alle attività che si svolgono in compresenza di
mamme, bambini ed educatori, alcuni Tempi per le
Famiglie di Milano ed altri dell’hinterland gestiti dalle dieci
cooperative del privato sociale di cui abbiamo parlato,
stanno sperimentando attività formative per genitori, gruppi
di
autoaiuto,
orientamento
momenti
per
le
informali
mamme
di
informazione
straniere,
incontri
e
di
discussione e confronto su alcuni temi con educatori,
pedagogisti e psicologi, colloqui individuali con i genitori. Il
tutto cercando di favorire la libera aggregazione tra adulti
e puntando l’attenzione sulla qualità del clima relazionale
che si viene a creare tra genitori, e tra genitori e
professionisti.
4.2.b - Finalità ed obiettivi dei Tempi per le Famiglie
Si tratta prima di tutto luoghi di aggregazione sociale che
rispondono al bisogno dei bambini e dei loro genitori di non
106
stare soli. La loro finalità è quella di fornire un sostegno per
prevenire ed affrontare insieme ai genitori i processi e le
difficoltà nella cura e nella crescita dei figli durante la prima
infanzia. Rappresentano un osservatorio privilegiato della
realtà infantile che consente di prevenire il disagio
relazionale tra bambino e adulto di riferimento.
La finalità viene raggiunta attraverso il perseguimento dei
seguenti obiettivi dei quali l’educatore deve farsi promotore
e garante:
• coinvolgere i genitori nella scoperta e conduzione di
attività
ed
esperienze
che,
consentendo
loro
di
cimentarsi in nuove strategie educative, favoriscono la
crescita della relazione tra la coppia adulto-bambino e la
soluzione dei problemi quotidiani;
• favorire l’aggregazione spontanea tra le famiglie;
• permettere la valorizzazione e la circolazione dei saperi
educativi all’interno del gruppo di genitori;
• offrire al bambino uno spazio ed un tempo educativo
integrativo alla famiglia nel quale poter trovare altri
coetanei e nuove figure adulte di riferimento con cui
107
sviluppare processi di attaccamento ed identificazione
complementari a quelli familiari;
• fornire agli adulti un sostegno al loro compito educativo
flessibile ed informale, non patologizzante e clinico;
• dare ai genitori l’opportunità di confrontarsi su temi
educativi aiutandoli a maturare un modello educativo
proprio,
in
cui
si
incontrino
la
professionalità
dell’educatore e l’iniziativa autonoma dei genitori.
4.3. - COCCOLE E GIOCHI
Tra i progetti che si collocano nell’area della prevenzione
primaria, per alcuni aspetti vicini alla filosofia dei Tempi per
le Famiglie, troviamo, sempre a Milano, “Coccole e giochi”
dedicato ai bambini entro il primo anno di età. Il bisogno di
prendere
in
esame
questo
servizio
nasce
dalla
constatazione che i Tempi per le Famiglie sono servizi
comunali che, pur essendo aperti ai bambini tra gli zero e i
tre anni, vengono frequentati sostanzialmente da quelli che
hanno compiuto il primo anno di età. L’organizzazione del
setting e la varietà dei materiali disponibili, l’ampiezza degli
108
spazi e la conseguente dispersione fanno sì che le
mamme preferiscano aspettare che il bambino sia almeno
in grado di camminare da solo prima di portarlo al Tempo
per le Famiglie. Infatti circa l’80% dei piccoli ha più di un
anno36. L’età dei bambini è un fatto rilevante perchè ha
conseguenze importanti sulle possibilità di azione e di
interazione del genitore e dell’educatore con i piccoli:
mentre nei Tempi per le Famiglie il ricorso al gioco, alle
attività e alla “parola” come mediatori della relazione è
molto frequente, a Coccole e Giochi questo non è possibile
data proprio la tenerissima età dei bambini. Ecco perchè
serviva andare ad esplorare anche questo progetto.
Coccole e Giochi è un progetto finanziato dalla L. n. 285/97
ma è gestito dalla A.S.L. anziché dall’Ente Locale. La
prima esperienza pilota è nata nel 1986 (come il primo
Tempo per le Famiglie) ed oggi i poli sono 13, distribuiti sul
territorio cittadino.
La particolarità che dobbiamo rilevare è la gestione da
parte dell’A.S.L. le cui finalità di individuare precocemente
le disfunzioni dello sviluppo dei bambini per la promozione
della salute, bene si conciliano con quelle di prevenzione
36
Da AA.VV., “Bambini a Milano”, op. cit..
109
primaria a partire dalle difficoltà relazionali genitore-figlio
della L. n.285/97. Inoltre, accanto allo psicologo e al
tecnico della riabilitazione, l’A.S.L. ha scelto di avvalersi
proprio dell’educatore professionale, riconoscendogli la
competenza per quanto concerne gli aspetti educativorelazionali. A lui è anche richiesto di instaurare relazioni
privilegiate con le mamme che lo desiderassero attraverso
lo strumento delle visite domiciliari e di accompagnarle,
laddove opportuno, alla conoscenza e all’utilizzo dei servizi
per l’infanzia presenti sul territorio.
Gli operatori dell’équipe lavorano in compresenza e sono
specializzati nell’utilizzo di un metodo di osservazione che
ha come riferimento teorico il modello Tavistock, che punta
l’attenzione sulla capacità del professionista di osservare la
relazione tra mamma e bambino.
L’accesso al servizio è settimanale, libero e non necessita
di iscrizione; gli incontri si svolgono nell’arco di due ore,
durante la mattinata. Il gruppo delle mamme risulta
sostanzialmente “mobile”, e la garanzia di continuità è
rappresentata
dalla
presenza
degli
operatori
e
dall’organizzazione del setting. Questo è particolarmente
significativo: è costituito da una stanza di dimensioni ridotte
110
al centro della quale si trova un tappeto dove i bambini
vengono adagiati e dove possono giocare, quando le
abilità manuali e motorie glielo consentono, con piccoli
oggetti; tutti intorno a cerchio, gli adulti (accompagnatori ed
operatori) interagiscono con i piccoli e tra di loro stando
seduti a terra o su cuscini. Il significato di questo “cerchio”
è quello di creare una sorta di “abbraccio simbolico” tra gli
adulti e tra loro e i bambini, in un clima di incontro disteso e
rilassante, ma anche di contenimento fisico per i
piccolissimi. Il tappeto permette ai bambini di essere
comodamente adagiati, di muoversi senza incontrare
pericoli e sperimentarsi in piccole esplorazioni dello spazio
e degli oggetti avendo la mamma come riferimento affettivo
rassicurante. Gli adulti verificano che è possibile avere una
relazione visiva a distanza, ma pur sempre una relazione e
che non è necessario tenere sempre i bambini in braccio o
nella carrozzina.
L’obiettivo principale è quello di aiutare le mamme ad
osservare i loro bambini e di mettere in luce le prime
dinamiche relazionali per fare emergere la coppia. La
Dott.ssa Mioli -psicologa e referente tecnico cittadino del
progetto - mi racconta durante un colloquio che le mamme
111
vengono aiutate a “vedere i loro bambini” anche
grazie al fatto che gli operatori tentano di “dare voce”
ai piccoli; questo può accadere in un ambiente accogliente,
non giudicante e protetto dove esse stesse sono
supportate e contenute rispetto alle loro ansie;
in un
tempo in cui è possibile dedicarsi solo ai bambini perchè
non vi sono altre distrazioni.
Al valore del gruppo come risorsa per l’intervento educativo
abbiamo fatto accenno in un paragrafo precedente, e verrà
ripreso in uno dei capitoli a venire.
4.4. - CORSI PER GENITORI
A testimoniare la crescente sensibilità delle istituzioni e
l’emergere del bisogno dei genitori di essere aiutati nello
svolgimento del loro compito, esistono in Italia, oltre ai
servizi pubblici finanziati dalla L.. n.285/97, esperienze di
corsi per genitori che abbiamo scelto di indagare perchè,
seppure attualmente non vedono impegnati gli educatori
professionali, potrebbero rappresentare un’interessante
possibilità di espansione per il nostro lavoro.
112
Inoltre la
filosofia che sta alla base di questi corsi e le loro finalità
rappresentano una risposta opportuna ai bisogni della
famiglia educante di cui abbiamo parlato.
Vogliamo
citare
due
esperienze
che
ci
sembrano
significative in quanto sono promosse principalmente
dall’istituzione scolastica e si configurano come veri e
propri corsi per genitori che si svolgono in piccoli gruppi
durante i quali i genitori sono invitati a ragionare tra di loro
e con il conduttore/formatore sulla loro relazione con i figli
in un tempo e in uno spazio dove tale relazione è
fisicamente assente.
4.4.a - Progetto Genitori 37
In Italia i segni più evidenti dell’interesse per il problema
della relazione educativa genitore-figlio vengono dal
mondo della scuola. Il Ministero della Pubblica Istruzione
nel 1992 emanò due circolari che prevedevano, a partire
dall’anno scolastico successivo, l’organizzazione di corsi
37
Paola Milani, “PROGETTO GENITORI. Itinerari educativi in piccolo e
grande gruppo”, Edizioni Erickson, Trento, 1994.
113
per i genitori dei bambini delle scuole elementari e dei
ragazzi delle scuole medie. Il Dipartimento di Scienze
dell’Educazione dell’Università di Padova avviò una
riflessione e una ricerca-azione per capire dapprima quale
tipo di corsi si sarebbero potuti realizzare, fino a giungere a
formulare un preciso “Itinerario educativo per piccoli e
grandi gruppi di genitori”. Il lavoro si sviluppa in 18 incontri
di gruppo e parte da due ordini di presupposti :
• occorre rafforzare la famiglia come base relazionale
della comunità la cui salute è principio, strumento e fine
ultimo della Community care;
• agire in senso pedagogico significa riflettere per agire.
La finalità è quella di fare leva sulle risorse dei genitori per
potenziarle e fare in modo che giungano a riconoscere che
è possibile trovare soluzioni efficaci e creative ai propri
problemi non in modo immediato ed automatico, ma dopo
una riflessione personale che tenga conto del punto di
vista dei figli. I gruppi di lavoro vengono formati a seconda
delle fasce d’età dei figli e possono essere rivolti sia a
genitori di bambini o ragazzi che non hanno particolari
114
problemi
che
ad
altri
con
figli
handicappati,
tossicodipendenti, ospedalizzati o affidati.
Gli obiettivi del lavoro con i genitori sono di fornire loro
informazioni scientificamente corrette, uno spazio di
riflessione e contatto con se stessi, di accoglienza,
accettazione e condivisione dei loro vissuti, di confronto
con le pratiche educative degli altri in modo che le loro
risorse possano essere moltiplicate e non offese da ricette
preconfezionate. Il concetto che sta alla base del lavoro è
quello dell’empowerment: il
genitore è la persona più
adeguata a comprendere i propri bisogni e quelli del
proprio figlio se aiutato ad ascoltarsi e ad ascoltare, a
riflettere e sperimentare soluzioni creative in prima
persona. Vengono utilizzati vari strumenti per la riflessione
e la discussione: letture, film, esercitazioni su casi portati
dai conduttori e dagli stessi genitori, contributi teorici,
schede di autocomprensione e autovalutazione dei propri
modelli educativi.
Per concludere questa breve esplorazione, ci sembra
interessante recuperare alcune indicazioni circa il ruolo del
professionista conduttore dei gruppi in quanto possono
essere utili per la nostra riflessione sul ruolo dell’educatore:
115
egli deve essere cosciente delle proprie convinzioni ma
deve saper utilizzare strumenti e principi che si ispirino ai
differenti
modelli
educativi,
indipendentemente
dalle
proprie credenze; deve aiutare il genitore ad esplicitare i
propri
obiettivi
facendo
attenzione
a
non
proporre
cambiamenti che siano in disaccordo con le sue credenze
ed aspirazioni o che, in ogni caso, non possono essere
accettati; deve credere fermamente nella capacità del
genitore di attivarsi, modificare il proprio comportamento
per raggiungere gli obiettivi che lui stesso si è proposto;
deve agire sempre mantenendo coerenza tra ciò che
dichiara e il modo in cui si comporta; egli è partner del
genitore il quale è considerato per definizione competente
in quanto è in grado di modificare il proprio comportamento
in seguito ad una attenta riflessione.
4.4.b - P.E.T. Parent Effectiveness Training38
38
Thomas Gordon, “GENITORI EFFICACI - Educare figli responsabili”,
edizioni la meridiana, Molfetta (BA), 1997
116
I corsi per “Genitori efficaci” nascono nel 1975 negli Stati
Uniti. In venti anni hanno avuto uno sviluppo enorme (il
primo gruppo era composto da 17 genitori; nel 1994 sono
stati contati 250.000 partecipanti e 7000 formatori). In Italia
fanno capo allo I.A.C.P. (Istituto dell’Approccio Centrato
sulla Persona) - Dipartimento di Psicologia dell’Educazione
di Roma. La filosofia di base fa riferimento a Carl Rogers,
Thomas Gordon ed altri educatori di orientamento
umanistico-esistenziale secondo i quali compito dei genitori
è soprattutto quello di creare un clima di rispetto e di
accettazione che escluda l’uso coercitivo del potere senza
per questo sfociare nel permissivismo e nel disinteresse
che sarebbero ancora più dannosi per i bambini. Secondo
questo approccio è possibile coniugare libertà e disciplina
senza rinunciare ad influenzare positivamente i figli. I
genitori imparano a riconoscere ed esplicitare i propri
bisogni come persone ed i propri sentimenti nei confronti
dei figli; imparano a comprendere i bisogni di crescita dei
figli e i loro sentimenti attraverso un ascolto attento. La
risoluzione dei conflitti familiari viene affidata alla possibilità
di riconoscere come degni di attenzione i bisogni di grandi
117
e
piccoli e alla fiducia di poter trovare soluzioni
soddisfacenti per tutti.
Anche questi corsi si svolgono in piccoli gruppi; sono
condotti da formatori ed hanno come principali committenti
le scuole materne ed elementari. Negli ultimi anni si è
assistito, grazie al passaparola, alla crescita delle richieste
di formazione da parte di gruppi di genitori che,
privatamente, si rivolgono alla scuola di Rogers. Questo
dato ci sembra interessante perchè significa che ci sono
persone disposte a pagare cifre anche consistenti per
essere aiutate a svolgere il proprio compito educativo.
A differenza del “Progetto Genitori”, questi corsi si
configurano
principalmente
come
luoghi
di
“addestramento” dei genitori all’utilizzo di un metodo
preciso: essi sono invitati a portare nel gruppo le situazioni
che vivono con i figli per provare a riguardarle da un altro
punto di vista e per tentare di risolverle - attraverso l’aiuto
del formatore e degli altri genitori - utilizzando il metodo. Lo
strumento che viene principalmente usato è quello della
simulazione.
118
4.5. - PER CONTINUARE
Igor Salomone39 sostiene che dalla moltiplicazione delle
risposte ai bisogni socio-educativi nasce il bisogno di
specificazione: in generale ogni singola agenzia educativa
non può riassumere in sé tutte le istanze pedagogiche ma
deve domandarsi che cosa sa offrire, in che cosa è esperta
per sapersi confrontare con le altre agenzie e con le
famiglie sul piano delle differenze, non su quello delle
sovrapposizioni e delle omologazioni. Deve rintracciare
nella parzialità della delega di cui è portatrice il proprio
oggetto
intenzionale,
pena
la
perdita
della
propria
specificità e della possibilità di sopravvivere.
I servizi educativi non possono percepirsi come coloro che
risolvono i problemi degli altri sostituendovisi, ma come
esperti di quei problemi e quindi in grado di aiutare chi ne è
portatore a risolverli. Questo significa delimitare la propria
prestazione nei confronti dei deleganti e non farsi chiedere
tutto e il contrario di tutto.
A maggior ragione i servizi di supporto alla genitorialità
devono promuovere questa riflessione circa la loro
119
specificità perchè hanno una storia recentissima e non
possono contare sulla tradizione culturale o riferirsi ad
esperienze sociali precedenti. E’ vero che essi sono luoghi
di socializzazione tra adulti ma non insegnano agli adulti a
socializzare; è vero che sono spazi dove i bambini
possono giocare tra di loro ma potrebbero farlo anche al
parco giochi sotto casa o in una ludoteca; è vero che sono
servizi che stimolano la crescita dei bambini ma, al loro
interno, non operano “tecnici” specialisti nell’allestimento e
nella conduzione di laboratori espressivi e didattici; è vero
che gli educatori sono bravi a stare con i bambini ma non
devono solo intrattenerli mentre le mamme chiacchierano
tra di loro; è vero che sono luoghi dove i saperi scientifici
attorno ai bisogni di crescita del bambino sono diffusi ma
è anche vero che non ci si aspetta che gli educatori
tengano delle conferenza a tema.
Secondo la nostra ipotesi, la specificazione di questi servizi
passa attraverso l’identificazione del proprio oggetto
intenzionale (cioè del tema che viene trattato in quei servizi
e non in altri) nella relazione educativa tra la mamma e il
bambino e la scelta da parte degli educatori di lavorare
39
Igor Salomone, op. cit..
120
secondo un paradigma pedagogicamente fondato cioè
quello della relazione e della esperienza aperta al
possibile. L’educatore nei servizi considerati condivide con
mamme e bambini esperienze e relazioni il cui valore
educativo sta proprio nella loro dimensione di apertura
al possibile.
CAPITOLO V
LA PEDAGOGIA DELLA RELAZIONE E
DELL’ESPERIENZA APERTE AL POSSIBILE
121
In questo capitolo tenteremo di argomentare i principi
pedagogici che stanno a fondamento della nostra ipotesi di
fondo. Faremo riferimento, sostanzialmente, al pensiero di
due autori che ho incontrato lungo il mio sentiero: Piero
Bertolini ed Igor Salomone.
In particolare ci interessa capire PERCHÉ relazione ed
esperienza sono campi di indagine propri della pedagogia
e COME relazione ed esperienza possono diventare
educative.
Per provare a rispondere a questi quesiti prenderemo in
esame due definizioni di educazione che, mettendone in
luce aspetti differenti ed estremamente importanti, ci
possono aiutare nella nostra esplorazione.
Secondo Bertolini l’educazione è l’insieme dei fenomeni
“dello
sviluppo
o
della
crescita
bio-
psicologica-spirituale che la comunicazione
122
interpersonale e la trasmissione culturale
consentono o talvolta determinano [...]”. 40
L’insieme dei fenomeni che consentono sviluppo e crescita
potrebbe essere definito come l’insieme delle ESPERIENZE
che la persona vive; queste esperienze sono sempre e
comunque esperienze di RELAZIONE tra la persona e il
mondo, tra la persona e gli eventi, tra la persona e le altre
persone. Relazionarsi al mondo e alle persone significa
contattare un universo di contenuti, comportamenti,
significati e valori soggettivi ed intersoggettivi che, in una
parola, potremmo definire CULTURA. Se assumiamo che
ognuno di noi si nutre e cresce grazie alle relazioni,
riconosciamo che imparare a viverle in modo consapevole
e produttivo diventa un obiettivo che l’educazione si deve
porre.
Esperienze
e
relazioni
non
sono
sempre
e
necessariamente educative. Igor Salomone ci ricorda infatti
che
“non
tutto
educa
e
non
si
educa
dappertutto”41. Sostenere il contrario equivarrebbe a
40
41
Piero Bertolini, op. cit., pag. 155
Igor Salomone, op. cit., pag. 57
123
negare
l’utilità
di
qualsiasi
riflessione
sul
tema
dell’educazione. Non basta che un soggetto che si
definisca educatore incontri un altro soggetto da educare.
Inoltre, pur essendo un luogo comune che l’esperienza
insegni, è anche vero che non sappiamo che cosa insegni
perchè questo dipende solo ed esclusivamente dal
SIGNIFICATO che ogni individuo può e vuole dare a tale
esperienza. L’esperienza è azione, prodotta qui ed ora, per
definizione non riproducibile. Lo stesso possiamo dire per
quanto riguarda i contenuti e i saperi: anche essi
insegnano per il significato che chi impara attribuisce loro.
Comprendiamo, dunque, che esperienza e contenuti non
possono
essere
trasmessi
così
come
appaiono
all’educatore e che, di conseguenza, pretendere o credere
di farlo non significa affatto educare. Ciò che conta per la
crescita e lo sviluppo delle persone non è la conoscenza
della “verità” quanto il significato che ogni individuo
attribuisce a ciò che conosce.
L’esperienza diventa educativa quando agìta insieme da
educatore ed educando, all’interno di un “progetto di
un incontro appositamente finalizzato a far
124
imparare”42 e che richiede necessariamente l’adesione
di entrambi i soggetti a tale progetto. “E l’educazione,
intesa
nel
senso
di
un’interazione
educativa tra un soggetto che insegna e uno
che impara da chi insegna, non è altro che
questo:
l’elaborazione
un’esperienza
finalizzata
giocata
ad
comune
qui
ed
orientare
le
di
ora
e
scelte
successive per entrambi”43. Non è sufficiente che
un soggetto sia sottoposto ad una serie di esperienze dalle
quali può o meno scegliere di imparare ma, soprattutto,
può scegliere che cosa imparare. Non basta nemmeno
cercare di rendere accessibili una serie di contenuti perchè
essi vengano imparati. Occorre una interazione, una
relazione
tra
educatore
ed
educando
che
sia
intenzionalmente orientata a rendere tali esperienze e tali
contenuti educativi, ovvero che ne esplori i possibili
significati prodotti qui, ora, tra i protagonisti e che si sforzi
di ricondurli ad unità di senso che possano orientare la
propria esistenza, le proprie scelte.
42
43
Igor Salomone, Ibidem, pag. 18
Igor Salomone, Ibidem, pag. 20
125
5.1. - FONDARE LA PEDAGOGIA COME SCIENZA
Dopo aver esposto le nostre premesse fondamentali,
cerchiamo
di
ripercorrerle
ed
argomentarle
più
approfonditamente dal punto di vista teorico.
Torniamo alla prima domanda: perchè relazione ed
esperienza sono campi di indagine della pedagogia? Come
possiamo affermare che è proprio ponendo in essi il
fondamento della
propria ricerca e della propria azione
che la pedagogia è scientificamente fondata?
Cerchiamo di trovare una possibile risposta facendo
ricorso alla riflessione di P. Bertolini44 sul possibile
significato pedagogico della fenomenologia di Husserl che,
appunto, può contribuire a fondare la pedagogia come
scienza.
Il bisogno di interrogarsi sui fondamenti epistemologici
della pedagogia per tornare a fondarla come scienza
rigorosa, viene, secondo Husserl, da una profonda crisi
che investe le discipline umane tra cui la pedagogia e la
126
psicologia moderne. Questa crisi è dovuta, secondo il
filosofo, ad una sostanziale ricerca di oggettività ed
esattezza che hanno estromesso dal campo di indagine
scientifica
l’ambito
della
soggettività:
“fino
a
costruire[...]delle scienze dello spirito a
somiglianza
cioè
di
quelle
riducendo
la
naturalistiche,
soggettività
a
e
mera
oggettività.”45 Anche la psicologia moderna (quella
sperimentale e la psicanalisi) ha fatto lo stesso errore
pretendendo di possedere una esattezza analoga a quella
delle scienze della natura. Ha tentato di spiegare le cause
dei
fenomeni
psichici,
di
produrre
schematiche
interpretazioni degli stessi basandosi su leggi di causaeffetto, rinunciando così a cogliere il significato soggettivo
ed intersoggettivo dei fenomeni psichici.
Complessivamente,
dunque,
la
crisi
del
mondo
contemporaneo viene attribuita a quella del senso
dell’esistenza umana che non è solo crisi di valori ma
anche di razionalità; alla crisi della soggettività intesa come
rifiuto
44
45
della
responsabilità
Piero Bertolini, op. cit..
P. Bertolini, Ibidem, pag. 21
127
di
ognuno
nei
rapporti
interpersonali e con le cose; a quella di autenticità come
perdita delle “essenze”. Anche, se non soprattutto, alla crisi
della pedagogia che non assolve più la sua originaria
funzione di orientare l’uomo alla consapevole conquista
della propria umanità.
Alla
pedagogia,
in
quanto
scienza
dello
spirito,
spetterebbe il compito di contribuire ad uscire dalla crisi del
mondo moderno e delle scienze “oggettive” attraverso un
ritorno alla ricerca delle essenze dell’uomo, del senso della
sua vita personale e relazionale.
Il primo passo verso la ricostruzione della pedagogia come
scienza rigorosa consiste (secondo la “traduzione” di
Bertolini del pensiero di Husserl) nel proporre un concetto
di razionalità nuova in quanto non legata alla ricerca di
oggettività e verità assolute che stanno fuori dalla persona,
ma come movimento del soggetto verso la ricerca del
senso della relazione tra se stesso e l’oggetto, tra se
stesso e gli altri soggetti. Questo movimento è possibile
grazie alla coscienza presente in ogni individuo la quale si
muove intenzionalmente verso oggetti, esperienze e
persone e, per questo, è definita coscienza razionale. La
128
coscienza si dirige intenzionalmente verso il mondo
realizzando un processo di costruzione di senso propria
per il soggetto. Ogni processo di conoscenza è, quindi, un
processo di movimento intenzionale della coscienza del
soggetto verso qualche cosa che definiamo “essenze”.
Queste essenze sono autonome rispetto al soggetto
perchè stanno fuori di esso; pertanto la razionalità è
relazionistica:
“l’autentica
dell’esperienza
umana[...]si
concretezza
realizza
sempre nell’effettiva relazione tra l’io e
il dato.”46
Il processo di conoscenza non si esaurisce nello sforzo
dell’intelletto di cogliere la realtà esterna oggettiva e vera,
ma consiste nella ricerca e nella attribuzione del senso che
ogni soggetto dà alla relazione tra sé e il dato, tra sé e le
esperienze, tra sé e gli altri verso i quali la sua coscienza
intenzionalmente (quindi razionalmente) si dirige.
Se conoscere significa dare senso, se per conoscere
dobbiamo metterci in relazione con qualche cosa o
qualcuno, risulta evidente che le “scienze dello spirito” non
possono avere a che fare con il mondo dell’oggettivismo
46
P. Bertolini, Ibidem, pag. 56
129
ma
costringono
ad
un
ritorno
alla
soggettività
e
all’intersoggettività.
Sostenere
la
razionalità
della
relazione
significa
interrogarsi sul rapporto con l’altro: ecco che il secondo
passo della ricostruzione della pedagogia come scienza
rigorosa
consiste
nel
porsi
il
problema
della
comunicazione. Entrare in relazione e comunicare consiste
nell’accedere alla comprensione dell’altro, penetrare l’altrui
esperienza non inserendovisi in modo intellettuale ma
provando a sentire con l’altro, vedere nell’altro “ciò che io
sarei se fossi al suo posto”. Il senso che l’altro dà alla sua
relazione con noi e con il mondo ci è suggerito dal suo
comportamento esteriore e ci è comprensibile a partire
dalle “differenze” del nostro comportamento in circostanze
simili. L’ “entropatia” - così Husserl definisce questo tipo di
comprensione - non consente una conoscenza oggettiva e
vera dell’altro (cioè una conoscenza di qualche cosa che,
in modo verificabile e stabilmente ripetibile, sta fuori da me
e dall’altro) perchè la comprensione empatica avviene solo
ed
esclusivamente
nella
reciprocità,
ovvero
nella
dimensione che coinvolge ciò che di me e di te mettiamo in
comune nella nostra relazione, in questo momento,
130
condividendo un’esperienza. Ogni comprensione dell’altro
apre per i protagonisti reciprocamente coinvolti nuove
associazioni, nuove possibilità
e nuovi significati per il
rapporto con l’altro, con se stessi e con il mondo nella
misura in cui tali significati vengono condivisi.
5.2 - LA RAZIONALITÀ DELL’ESPERIENZA EDUCATIVA
Cerchiamo ora di capire come razionalità e comunicazione
si ritrovano nell’esperienza educativa diventando, così,
campi di indagine propri di una pedagogia che possa dirsi
scientificamente fondata.
La concezione relazionistica della razionalità di Husserl si
presenta come uno degli elementi strutturalmente fondanti
dell’esperienza educativa “che è sempre e comunque
una relazione, un rapporto.”47 Questo rapporto
è presente nella vita dell’uomo come legame tra soggetto
ed oggetto, tra coscienza e realtà, e come legame tra
soggetti. Affinché questo rapporto sia scientificamente
47
P. Bertolini, Ibidem, pag. 112
131
fondato
deve
rinunciare
a
qualsiasi
atteggiamento
oggettivante e assolutizzante che pretenda di porsi come
vero e incontrovertibile. Abbiamo detto che la relazione
apre ai protagonisti nuove possibilità e nuovi significati ed
è proprio l’ambito delle possibilità e dei significati che
esclude quello delle verità precostituite. L’esperienza è
relazionale, contingente, non automatizzabile. Questo
significa che ogni evento educativo è costituito dal rapporto
tra educatore, educando e contesto all’interno del quale si
svolge. Inoltre, ogni evento educativo “parte dalla
convinzione
che
ogni
situazione
data
è
[...] modificabile in una situazione nuova,
che nasce e si costituisce proprio mediante
la relazione.”48. La relazione e la comunicazione
autentiche che si fondino sulla comprensione empatica,
mettono in contatto due soggetti nella concretezza di una
situazione o esperienza data. E’ questo contatto che apre
ai protagonisti nuovi mondi, nuove prospettive, nuove
possibilità. Le situazioni date sono modificabili proprio
perchè possono assumere significati diversi per i soggetti
coinvolti che si comprendano reciprocamente.
48
P. Bertolini, Ibidem, pag. 114
132
Ogni evento educativo deve caratterizzarsi come uno
sforzo di produzione e costruzione di senso per educando
ed educatore. In caso contrario non si potrebbe parlare di
rapporto educativo ma di riproduzione, se non addirittura
imposizione,
di
un
senso
già
dato
dall’educatore
all’educando. Come non si può parlare di evento educativo
scientificamente fondato quando questo si accontenti di
“elargire” significati
già dati, ugualmente non possiamo
pensare che un evento educativo si configuri come
passaggio di contenuti precostituiti da trasmettere per forza
in modo autoritario.
L’esperienza
educativa
in
situazione
non
è
mai
un’esperienza sicura e priva di rischi ma può essere legata
al negativo. Il negativo viene soprattutto da tutti quegli
atteggiamenti educativi irrelazionistici che rifiutano di
riconoscere l’altro da sé e che conducono alla chiusura, al
settarismo,
all’egoismo,
all’incomprensione
e
alla
mancanza di amore.
Siamo quindi arrivati ad affermare che l’esperienza
educativa
scientificamente
fondata
è
esperienza
relazionale aperta al possibile, che rifiuti posizioni
oggettivanti e assolutizzanti ma che aiuti le persone a
133
crescere attraverso la progressiva costruzione e revisione
del significato della propria esistenza, del proprio rapporto
con le cose e con le persone; che aiuti gli uomini ad essere
consapevoli
di
potersi
autodeterminare
in
modo
responsabile pur riconoscendo che la propria libertà è
condizionata in quanto contestualizzata.
A questo punto è importante mettere in evidenza due
concetti fondamentali che approfondiremo di seguito:
• L’estensione della categoria della relazione è il
principio operativo dell’ATTENERSI ALLA RELAZIONE;
• l’estensione della categoria dell’apertura al possibile
è
il
principio
operativo
della
ESPANSIONE
dell’ESPERIENZA DELL’EDUCANDO.
5.3 - ATTENERSI ALLA RELAZIONE
La funzione prassico-metodologica del principio della
relazione è proprio quello dell’attenersi alla relazione.
Cosa significa questo per noi? Prima di tutto significa
domandarsi se il nostro rapporto con l’educando è
veramente ispirato alla reciprocità, alla comunicazione e
134
alla comprensione empatica perchè è solo questo lo spazio
dentro il quale e grazie al quale possono avvenire dei
cambiamenti. In sintesi significa domandarsi: siamo in
relazione? Ma dobbiamo fare ancora un passo in avanti.
Se siamo in relazione, stiamo trattando la relazione? Siamo
in grado di parlare “sulla relazione”? Stiamo ragionando
attorno al senso che la nostra relazione assume dentro
l’esperienza che condividiamo? Quali significati nuovi apre
il nostro rapporto rispetto a ciò che viviamo insieme?
5.4. - L’ESPANSIONE DELL’ESPERIENZA
P. Bertolini sottolinea che quando anche fossimo in grado
di comprendere il mondo dell’educando grazie alla
comprensione empatica ma ci fermassimo ad esso,
rinunceremmo a qualsiasi azione educativa. Questo
significa che l’educatore deve essere in grado di progettare
e condurre insieme all’educando una serie di esperienze
che
possano
arricchire
il
135
mondo
dei
significati
dell’educando. Ma proporre tante esperienze, per quanto
significative in potenza, e farle vivere in modo attivo e
consapevole all’educando non significa di per sé fare
educazione. Non si tratta dunque di organizzare un
numero vasto di “occasioni di apprendimento” - Salomone
ci ricorda che per apprendere non c’è bisogno di alcun
incontro tra educatore ed educando dal momento che
l’azione di apprendere inizia e finisce in chi decide di
compierla - ma di indagare ed ampliare il più possibile i
significati che le esperienze vissute insieme, qui ed ora,
anche se negative e poco numerose, possono suggerire ai
protagonisti
delle
stesse.
Secondo
il
principio
dell’espansione dell’esperienza dobbiamo domandarci:
stiamo condividendo e rielaborando il significato delle
esperienze che viviamo insieme? Stiamo progettando e
conducendo esperienze che, almeno potenzialmente,
possono aiutare le persone a crescere, cioè ad ampliare la
propria possibilità di azione e di significazione?
5.5. - L’OGGETTO INTENZIONALE
136
Parlare di relazioni ed esperienze che fanno crescere,
quindi educative, richiede l’introduzione, a supporto del
nostro ragionamento, di altri concetti fondamentali. Primo
tra questi l’oggetto intenzionale.
Ci siamo riferiti in precedenza all’intenzionalità della
coscienza di ogni uomo come “direzione verso qualche
cosa e qualcuno”. Spesso, soprattutto quando ci siamo
riferiti alla dimensione progettuale dell’evento educativo,
abbiamo attribuito al termine “intenzionale” il significato di
volontario, prevedibile, predefinito e determinante un
cambiamento in una direzione prestabilita. In sintesi
abbiamo pensato che costruendo intenzionalmente certe
esperienze o progettando taluni interventi “sulle persone”
avremmo
prodotto
in
loro
determinati
cambiamenti.
L’esperienza educativa è, secondo il nostro approccio,
anche essa un’esperienza intenzionale prima di tutto
perchè non è casuale, estemporanea e non può esaurirsi
in un rapporto caloroso ed affettivo. Essa deve certamente
essere caratterizzata dalla dimensione della progettualità
nella prospettiva dello sviluppo e della crescita cognitiva,
valoriale, comportamentale e relazionale dell’educando e,
aggiungerei, dell’educatore, perchè queste sono le finalità
137
di qualsiasi progetto educativo. Ma l’evento educativo
concretizza la sua intenzionalità nella misura in cui si dirige
verso un oggetto che diventa il tema sul quale ragionare e
attorno al quale produrre significati. Secondo l’accezione
che complessivamente i due autori propongono, l’evento
educativo diventa intenzionale nella misura in cui si orienta
verso qualche cosa che sta fuori di noi - esperienza o
persona che sia - ma che è presente tra noi, qui ed ora.
Non possiamo pensare di rendere educative esperienze
che non viviamo o relazioni dalle quali ci sforziamo di stare
fuori. Per tornare al principio dell’attenersi alla relazione,
possiamo a questo punto sostenere che la relazione
diventa il nostro oggetto intenzionale, il tema attorno al
quale vogliamo e possiamo costruire e condividere i
significati.
Riprendendo
il
principio
dell’espansione
dell’esperienza possiamo sostenere che le esperienze
diventano il nostro oggetto intenzionale nella misura in cui
educatori
ed
educandi
tematizzano
concretamente, tali esperienze trattano.
138
ciò
che,
molto
A questo proposito vorrei citare un esempio di Igor
Salomone49: una vacanza estiva per preadolescenti ha
come oggetto intenzionale non certo la socializzazione - i
ragazzi potrebbero viversi tale vacanza in completo
isolamento e scegliere altri luoghi e altri tempi per
socializzare - ma la vacanza stessa in quanto essa
rappresenta un certo modello di vacanza comunitaria che
apre attorno a sé significati e vincoli propri. L’esperienza
della vacanza diventa educativa se essa stessa diventa il
tema, il filo conduttore rispetto al quale chi la vive viene
aiutato a comprendere il proprio rapporto con essa nel
bene e nel male,
se riesce ad intuire che cosa gli è
piaciuto e cosa non gli è piaciuto, se riesce a decidere se
quel particolare modo di fare vacanza, così diverso dagli
altri, vale la pena di essere vissuto e per quali motivi.
5.6. - IL CAMBIAMENTO
Se l’intenzionalità educativa si realizza nell’ampliamento
dei significati della relazione tra noi e le esperienze che
49
Igor Salomone, op. cit..
139
viviamo, tra noi e le persone con le quali le viviamo, non
possiamo
più
pensare
che
una
buona
interazione
educativa è solo quella che produce un cambiamento
visibile e ripetibile del comportamento dell’educando. “La
misura
del
successo”50
non
consiste
nella
obbedienza, quindi nella ripetizione di atteggiamenti o
comportamenti che l’educatore definisce “corretti” a priori.
E non consiste nemmeno nella continuità dell’emissione di
comportamenti simili in contesti differenti. Il cambiamento
di cui parliamo non è il cambiamento della persona dal
punto di vista intrapsichico e comportamentale ma è
ampliamento degli orizzonti dei significati che tale persona
può attribuire al proprio modo di vivere gli eventi, di
rapportarsi con il mondo e con le persone. In questo senso
cambiamento non è modificazione della persona nel suo
modo di vivere e di essere - in tal caso l’educando
diventerebbe oggetto della nostra azione educativa - ma è
movimento del soggetto verso la complessificazione del
modo di interpretare e significare il proprio modo di essere
nel mondo. Progettando esperienze educative pensiamo
50
I. Salomone, Ibidem, pag. 172
140
spesso di poter cambiare la testa delle persone mentre
possiamo sperare di modificare, educatori ed educandi
insieme, solo il modo in cui stiamo nelle esperienze e ci
relazioniamo ad esse ampliandone i significati. P. Bertolini,
a proposito dell’importanza delle esperienze, scrive che
esse trovano il loro potenziale educativo nella misura in cui
possono suggerire all’educando una revisione autonoma
del proprio vissuto dalla quale potrà spontaneamente ma
non automaticamente discendere una revisione delle
proprie esperienze passate ed una modificazione del
comportamento attuale e futuro.
Ugualmente ci illudiamo che i nostri interventi educativi
possano
migliorare
la
personalità
dell’educando
rafforzandola; invece, secondo la nostra prospettiva,
possono ridefinire la nostra relazione con l’educando
esplicitandone il senso. Il cambiamento del comportamento
può essere una conseguenza delle esperienze e delle
relazioni educative, ma non c’è certamente un legame di
causa-effetto
tra
intenzionalità
educativa
e
risultato
comportamentale se partiamo dal presupposto che la sfera
dei significati ha a che fare con la soggettività (altrimenti
non ci spiegheremmo come mai persone che vivono
141
esperienze simili reagiscono in modi completamente
diversi e perchè noi siamo sempre gli stessi ma le relazioni
che abbiamo sono così differenti)
e se accettiamo che
decidere di farsi educare ed eventualmente di cambiare,
sono faccende che riguardano l’educando più che
l’educatore e che solo il soggetto che cambia possiede la
misura e la direzione del proprio cambiamento. Certo
auspichiamo che questo modo di vivere le esperienze e di
stare nelle relazioni si orienti nella direzione di una sempre
maggiore consapevolezza, significatività e reciprocità: è
solo quest’ultima che, nella misura in cui mette in comune
significati e punti di vista diversi e li fa sopravvivere in
modo dialettico, può arricchire la nostra visione del mondo
e farci crescere.
5.7. - SISTEMA COMUNICATIVO E SISTEMA PSICHICO
Nel paragrafo precedente abbiamo usato espressioni quali
“personalità”,
“intrapsichico”, “modo di essere”.
Essi si
riferiscono chiaramente ad un campo di indagine propri
della psicologia anche se, forse troppo spesso, entrano nel
linguaggio educativo. Lo stesso Bertolini riconosce che la
142
psicologia è giustamente considerata come scienza molto
vicina alla pedagogia; così vicina da averla non solo
fortemente influenzata ma addirittura invasa con il proprio
linguaggio e i propri significati contribuendo a farle perdere
una propria specificità. Matilde Callari Galli51 critica
aspramente ogni tentativo di qualsiasi disciplina di porsi
come “la” disciplina in grado di spiegare tutto lo scibile
umano. A suo parere, l’antropologia, la pedagogia, la
psicologia a turno si illudono di poter comprendere in se
stesse tutte le risposte ai perchè dell’uomo per poi
ritrovarsi nello sconforto più totale quando si rendono conto
che ognuna di loro può essere portatrice di “un” punto di
vista, non della totalità e che pretendere di occuparsi di
tutto significa finire per occuparsi di niente.
In questo senso non vogliamo fare il processo alla
psicologia “invasore” del campo della pedagogia perchè
qualcuno potrebbe giustamente obiettare che la pedagogia
si è lasciata invadere.
Il nostro obiettivo è quello di chiarire che se la pedagogia
trovasse il proprio specifico ambito di interesse potrebbe
smettere di temere i saperi forti e di difendersi da essi
51
Matilde Callari Galli, op. cit..
143
perchè la psicologia ha già un proprio campo di indagine e
non ha bisogno di appropriarsi di quello della pedagogia
nella misura in cui quest’ultimo risulti chiaro prima di tutto a
chi di educazione si occupa. Riconoscere e riconoscersi in
un campo di studio conferisce specificità, consapevolezza
della propria parzialità ed elimina il bisogno di copiare altri
professionisti - peraltro senza riuscirci - o di professarsi
“tuttologi” che equivale spesso, nella prassi quotidiana del
lavoro educativo, a presentarsi e ad essere percepiti come
coloro che “tutto fanno” grazie ad un sano buon senso, ma
che poco hanno a che fare con scienza e professionalità.
5.7.a - La teoria dei sistemi e la sua applicazione
pedagogica
Dopo
questa
lunga
premessa
vogliamo
tornare
al
paradigma pedagogico che stiamo esplorando facendoci
aiutare dalle argomentazioni, per noi estremamente
convincenti, di Igor Salomone che spiega come sia
144
possibile sgombrare il campo dell’educazione da ogni
interferenza psicologica facendo riferimento alla teoria dei
sistemi che cercheremo di esporre di seguito.
La sua riflessione parte dall’assunto teorico secondo il
quale il sistema, inteso come insieme di elementi
interagenti tra di loro all’interno di uno spazio delimitato da
confini, è un’entità concreta e viva che, come tale, ha
bisogno di alimentarsi per sopravvivere. Ogni essere
vivente è un sistema ed ognuno di noi è immerso in una
moltitudine di sistemi in relazione non gerarchica tra di
loro. Ogni sistema ha un proprio ambiente di riferimento il
quale vive secondo regole differenti dalle regole interne al
sistema.
Elementi definitori del sistema
Il confine del sistema è ciò che definisce ciò che sta dentro
il sistema e ciò che sta nell’ambiente; di conseguenza
definisce l’ambito di applicabilità delle regole che valgono
dentro il sistema ma non nel suo ambiente. Pertanto non
tutto dipende da tutto: esiste una forte interdipendenza tra
gli elementi del sistema; esiste una influenza non
145
deterministica tra ambiente e sistema. Il sistema è
autonomo perchè interpreta appunto autonomamente i dati
provenienti
dall’ambiente.
Non
è
indipendente
dall’ambiente perchè ne subisce le influenze seppure in
modo non deterministico. Le regole di interdipendenza tra
elementi del sistema sono diverse dalle regole di
influenzamento dell’ambiente verso il sistema. Ogni
sistema è ambiente di altri sistemi .
L’ambiente è tutto ciò che sta fuori dal confine del sistema
e lo influenza attraverso un rapporto di inputs e outputs. Gli
inputs forniti dall’ambiente al sistema non possono essere
scelti
da
quest’ultimo
ma,
contemporaneamente,
l’ambiente non può definire come gli inputs saranno
interpretati e trattati dal sistema.
I vincoli sono regole necessarie e inviolabili provenienti
dall’ambiente
che
ogni
sistema
può
e
deve
autonomamente interpretare. Se da un lato i vincoli
definiscono ciò che è impossibile o necessario, dall’altro
aprono una vasta serie di possibilità di azione. Infatti ogni
sistema vivente si rapporta allo stesso vincolo in modo
diverso nella misura in cui diversamente lo interpreta. Il
146
vincolo è necessario, inviolabile ma relativo nella sua
dimensione spazio temporale.
Ogni persona è un insieme di sistemi i quali si riferiscono
ad
ambienti
diversi:
il
sistema
organico,
quello
cognitivo/psichico, quello comunicativo.
Ogni sistema è a sua volta ambiente per gli altri: il sistema
organico è ambiente per quello cognitivo e ne definisce i
vincoli, tanto che, per esempio, se non si nutre di cibo ed
acqua interferisce sulla capacità di pensiero. Ma le
interferenze od influenze non sono determinanti: un corpo
che non si nutre può assopire la capacità di pensiero o, al
contrario, stimolarla affinché si trovino le strategie per
trovare del cibo. Questo significa interpretare in modi
differenti i vincoli provenienti dall’ambiente.
Ciò che ci interessa ora sottolineare è che il sistema di
riferimento in campo educativo è quello COMUNICATIVO.
Esso definisce il campo di azione proprio della pedagogia
perchè è in esso che educatore ed educando possono
praticare e lavorare e perchè ognuno di noi ha accesso al
sistema comunicativo dell’altro, meno ne ha al sistema
psichico. E’ ciò che educatore ed educando si dicono (non
147
solo con le parole), ciò che essi mettono a disposizione
l’uno dell’altro
nell’atto comunicativo che può essere
trattato da un punto di vista educativo, non ciò che passa
nella testa dei due, le loro più remote e recondite
intenzioni. Un’intenzione o un pensiero non comunicati ripeto non solo con le parole ma anche con il
comportamento - rimangono fuori dal sistema comunicativo
e, per definizione, fuori dal campo di azione educativo.
Inoltre il principio di “indeterminazione psicologica” dice
che noi non conosciamo mai gli altri, ma solo il nostro
rapporto con loro. Un rapporto che si concretizza nella
comunicazione la quale produce influenzamento reciproco:
noi non riusciamo a conoscere gli altri per quello che sono
ma solo gli aspetti che con la comunicazione emergono e
che la comunicazione influenza.
Due persone che comunicano appartengono a due sistemi
psichici differenti; la psiche è ambiente del sistema
comunicativo, appartiene al complesso dei vincoli ma non
determina la relazione, mentre il sistema comunicativo è e
rimane l’unico al quale entrambe appartengono. Il sistema
comunicativo seleziona infatti una parte del sistema
psichico
e
quest’ultimo
148
continua
a
funzionare
indipendentemente
da
ciò
che
avviene
nella
comunicazione: sappiamo tutti che comunichiamo parti di
noi differenti a seconda del contesto in cui ci troviamo e
delle persone con le quali ci relazioniamo, ma questo non
significa che smettiamo di essere noi stessi. Vale anche il
ragionamento contrario: dentro di noi abbiamo molti
pensieri, emozioni e intenzioni ma non sempre vogliamo e
possiamo metterli a disposizione dei nostri interlocutori
senza però pensare che non dire tutto di noi significhi non
comunicare affatto.
Se vogliamo ricondurre questa affermazione ai principi
teorici esposti sopra, possiamo ricordare che l’ambiente
psiche influenza il sistema comunicativo ma non lo
determina perchè ogni sistema interpreta autonomamente
gli inputs provenienti dall’ambiente. Infatti il sistema
comunicativo/relazionale
apre
possibilità
nuove
di
espressione di parti di sé e di interpretazione dei vincoli
provenienti dal proprio sistema psichico. E’ anche vero che
il processo di influenzamento reciproco degli elementi
all’interno dello stesso sistema (in questo caso quello
comunicativo) è più potente di quello che interessa
l’ambiente verso il sistema ed è all’interno del sistema
149
relazionale che avvengono le contaminazioni reciproche
che a noi piace definire come produzione di significati
nuovi.
Tutto quanto abbiamo detto finora implica che ciò che
conta in educazione è ciò che ci si trasmette e i significati
che emergono nella comunicazione; meno importante è ciò
che pensiamo e quelle che potrebbero essere le cause
remote del nostro comportamento attuale. Normalmente gli
educatori lavorano in situazioni nelle quali le informazioni e
le conoscenze dei soggetti riguardo il loro passato non
sono esaurienti. Ma questo non è un ostacolo se pensiamo
che la storia, i vissuti e i sentimenti esistono come
“ambiente” di ciò che le persone ci dicono e fanno oggi e,
fortunatamente, ciò che esprimono oggi è largamente
autonomo rispetto a ciò che hanno vissuto.
Spesso abbiamo pensato che sapere tutto del passato dei
soggetti significa conoscerli e che per poter agire con loro
occorre raccogliere tutte le informazioni possibili che li
riguardano. Ancora ci siamo illusi che le spiegazioni e le
letture psicologiche ci autorizzassero a penetrare la testa
altrui per manipolarla. Ma una volta che avessimo una
conoscenza analitica di fatti, eventi e vissuti che non sono
150
presenti oggi nell’esperienza che condividiamo, cosa ce ne
facciamo?
Se
anche
comportamenti
di
potessimo
oggi
trovano
ipotizzare
la
loro
che
“causa”
i
in
esperienze passate, come potremmo trattare quelle
cause? Le spiegazioni psicologiche, le diagnosi dettagliate
non rispondono al bisogno di azione propri dell’educazione
proprio perchè i contesti educativi e quelli terapeutici sono
completamente diversi. Dal punto di vista educativo ciò
che è stato è stato e non possiamo né cancellarlo né
modificarlo. Ciò che possiamo fare è trattare ciò che del
passato emerge ora e sperare di produrre significati nuovi
spendibili nel futuro. Il lavoro educativo consiste, infatti,
nel saper agire sulla base delle informazioni prodotte nel
momento presente; informazioni che trovano il loro
ambiente anche nel passato e nella visione del mondo che
ogni individuo è andato costruendosi ma che hanno come
obiettivo quello di orientare le scelte future.
In
sintesi
elaborazione
condivisione
abbiamo
dei
di
sostenuto
significati
un’esperienza
che
che
che
l’educazione
emergono
possono
è
dalla
essere
ricondotti ad unità di senso permanenti e che potrebbero
orientare scelte future.
151
Cosa elaboriamo? Come elaboriamo?
Elaboriamo con la comunicazione ciò che riusciamo a
comunicarci vivendo insieme un’esperienza, qui ed ora;
un’esperienza che produce un sapere nuovo e condiviso.
5.8. - IL LINGUAGGIO EDUCATIVO
Dopo aver risposto alle due domande iniziali, dopo aver
sgombrato il campo dalle interferenze epistemologiche di
altre discipline, ci domandiamo ora di che cosa parlano
educatore ed educando, come parlano, con quali strumenti
ed atteggiamenti. Per tentare di rispondere a questi quesiti
ricorriamo
ancora
ad
alcuni
fondamenti
pedagogici
elaborati dai due autori considerati, primo tra tutti quello
della sospensione del giudizio come condizione per
accedere alla comprensione dell’altro.
Nei paragrafi precedenti abbiamo parlato di entropatia
come capacità di comprendere l’altro nei suoi più originari
orientamenti di senso. Tale tipo di comprensione ha
l’obiettivo di mettere in contatto due soggetti e perchè
questo avvenga occorre che l’educatore sospenda il
152
giudizio nei confronti dell’educando e di se stesso.
Sospendere il giudizio sull’altro e su se stessi significa
rinunciare all’oggettivismo e alle verità precostituite da
offrire in pillole a se stessi, prima di tutto, e agli altri;
significa soprattutto tenere spalancate le porte della
comunicazione, consentire ai significati di affiorare e tenerli
vivi anche quando fossero in contraddizione tra di loro.
“Non ci è possibile biasimare le cose che
comprendiamo”52, non ci è possibile comprendere le
cose e le persone che biasimiamo. Se partiamo dal
presupposto, peraltro argomentato sopra, che l’educatore
non è colui che prescrive, impone, valuta e decide per
conto dell’educando ma crediamo che la relazione è lo
spazio all’interno del quale una situazione data può
modificarsi mediante l’ampliamento degli orizzonti del
possibile che essa stessa consente, non dobbiamo cadere
nell’insidiante tranello del sentirci in dovere, come
educatori, di dare delle risposte sagge e dotte, di
pronunciare sentenze e schierarci nel mondo dei “giusti”
52
Bruno Bettelheim, “Un genitore quasi perfetto”, Universale Economica
Feltrinelli, Milano, 1987, pag. 71
153
portando con noi coloro che, secondo il nostro giudizio,
sbagliano.
Tutto questo non significa ovviamente che l’educatore non
debba essere portatore in sé di giudizi e valori, che non
possa e non debba mai dire la sua; non significa nemmeno
che tutto va bene, che tutto è consentito. La libertà di
ognuno non è mai assoluta ma è sempre contestualizzata
rispetto alla cultura e ai valori di riferimento, rispetto al
luogo e al tempo nei quali si svolgono esperienze e
relazioni. Se proviamo a leggere il concetto di libertà
secondo la visione sistemica di cui abbiamo parlato sopra,
comprendiamo che essa è condizionata dall’ambiente che
pone vincoli e regole che ognuno di noi può, ma forse
ancora di più non può fare a meno di trattare in modo
originale. Aggiungiamo che la libertà è condizionata, o
meglio, caratterizzata dal ruolo che ognuno di noi ricopre.
Se intendiamo il ruolo come filtro che seleziona le parti di
noi che vogliamo e possiamo esprimere in un determinato
contesto, comprendiamo che l’educatore può certamente
dire la sua, ma tutto quello che dice e fa avrà un impatto
sull’educando caratterizzato dal fatto che uno è educatore
e l’altro è educando. Il ruolo , in questo senso, diventa
154
vincolo che ha a che fare con la necessità (l’educatore è
educatore e non può essere amico, fratello, compagno o
terapeuta) e con la possibilità (i significati del rapporto che
l’educando ha con l’autorità sono molteplici e possono
essere trattati, arricchiti, modificati grazie all’elaborazione
comune).
Sospendiamo il giudizio non per annullare ciò che
pensiamo e ciò in cui crediamo ma per accedere alla
comprensione dell’altro; successivamente, quando la
relazione lo consente, possiamo riappropriarci del nostro
giudizio per renderlo accessibile all’educando come
proposta di significato, non come verità assoluta.
P. Bertolini53 scrive che comprendere l’educando non
significa adeguarvisi passivamente ma significa metterlo
nelle condizioni di essere disponibile, proprio perchè si
sente compreso, a prendere contatto con altri pensieri,
altre
esperienze,
altri
significati
dall’educatore.
53
Piero Bertolini, op. cit..
155
proposti
proprio
Addentriamoci ora nel linguaggio educativo vero e proprio
che è, secondo noi, quello dei significati, dell’esperienza e
della relazione aperte al possibile.
Wittghenstein sosteneva che il linguaggio è portatore di
una visione del mondo, di una chiave di lettura e di
interpretazione della realtà e che i limiti del linguaggio sono
i limiti del nostro mondo.
Ogni professione ed ogni disciplina possiedono un
linguaggio specifico che determina la specificità del ruolo di
chi quella professione svolge. Ma il linguaggio educativo
incappa in due ordini di problemi: la contaminazione di altri
linguaggi scientificamente “forti” e la sua origine naturale,
in quanto nasce dalla pratica famigliare.
Per quanto riguarda la prima annotazione ci rendiamo
conto di quanto, nel tentativo di conferire carattere di
scientificità al linguaggio pedagogico, spesso prendiamo a
prestito i linguaggi forti della psicologia (in particolare della
psicanalisi), della psicosociologia e della sociologia. Per
ciò che concerne invece la seconda, non possiamo non
riflettere sul fatto che l’educazione professionale nasce
come emanazione di quella naturale e, forse, questo ne
spiega la debolezza sul piano scientifico.
156
Forse possiamo uscire da questo circolo vizioso facendo
un doppio sforzo: da una parte ritagliandoci un ambito di
specificità del linguaggio; dall’altro scostandoci dallo
stereotipo secondo il quale scientifico è quel linguaggio
complesso, spesso poco comprensibile e, in ogni caso,
accessibile a pochi.
Proviamo a domandarci se già esiste un linguaggio
specificatamente
educativo
e,
in
caso
di
risposta
affermativa, come deve essere perchè sia scientificamente
fondato. Salomone risponde che il linguaggio educativo
esiste già, che esso è un discorso che ha a che fare con il
mondo delle esperienze, delle relazioni e dei significati; un
mondo non certo di pochi eletti ma di tutti noi ed è proprio
questo che lo rende forte. E’ il linguaggio delle cose
concrete di tutti i giorni. Educatore ed educando devono
far parlare le esperienze, ciò che fanno insieme e il
significato che danno agli eventi. Per esempio, in una
comunità per minori educatori e ragazzi vivono, seppure in
misura diversa, la dimensione della convivenza che si pone
come vincolo di necessità (non si può avere la propria
stanza, la propria cucina, non si può nemmeno andare a
vivere da soli) ma anche di possibilità. Un educatore che
157
voglia aiutare il giovane a rielaborare il significato di “dover”
vivere con altre persone, che tra l’altro non sono famigliari
ma perfetti estranei, deve essersi posto la domanda su
come egli stesso vive, sente e gestisce la convivenza in
quella stessa comunità. Una volta che l’educatore ha
elaborato il proprio sistema di significati attorno alla
convivenza la può offrire all’educando come “pietra di
paragone” che lo aiuti a costruirsi il proprio significato
attorno allo stesso tema. Inoltre educatore ed educando
devono far parlare la loro relazione, parlare “sulla” loro
relazione. Tornando all’esempio di cui sopra, occorre
tematizzare il significato che l’educando dà al proprio
rapporto con l’educatore il quale, nel momento presente,
rappresenta l’autorità, rappresenta un padre ma padre non
è; prima di tutto
perchè quello di genitore non è
specificatamente il suo ruolo e, se anche volessimo
trovarvi delle somiglianze, l’educatore lo interpreta in modo
molto differente rispetto a quello in cui lo interpreta il vero
padre. E tutta l’interazione avviene in un contesto
particolare, dove esistono regole e vincoli differenti da
quelli esistenti nel proprio nucleo famigliare.
158
P. Bertolini condanna come non scientificamente fondati
tutti
quei
linguaggi
che
escludono
la
reciprocità.
Pedagogico è quel linguaggio che non si presenta come un
discorso di verità oggettivante che assolutizzi pensieri,
esperienze e possibilità perchè finirebbe per non rispettare
la libertà di ogni individuo; pedagogico è il linguaggio che si
presenta come “discorso progettante”54, aperto al
possibile
(come
lo
è
l’esperienza
educativa
scientificamente fondata), dinamico ed intenzionalmente
diretto verso la costruzione del significato del proprio vivere
nel mondo. Il linguaggio educativo per eccellenza è il
linguaggio dell’esempio, completo e convincente perchè
rimanda alla corporeità dell’educatore e dell’educando.
Esso diventa forte nella misura in cui rappresenta la
continuità
e l’identità tra il contenuto e la forma ed è
orientato
ad
indicare
orizzonti
possibili,
valori
autenticamente incarnati e, per questo, degni di essere
presi in considerazione ed, eventualmente, condivisi.
Tornando all’esempio della convivenza in comunità: un
educatore che professi che è bello vivere tutti insieme, che
è arricchente e poi, appena ha cinque minuti, si isola in un
54
P. Bertolini, Ibidem, pag. 213
159
angolo per leggersi il suo libro non sta utilizzando un
linguaggio
pedagogico
coerente
e
scientificamente
fondato.
5.9 - RISPETTO, RESPONSABILITÀ E LIBERTÀ:
VALORI ETICI E DATI IMPRESCINDIBILI
“Si
può
educazione
affermare
consiste
in
che[...]la
una
vera
educazione
al
senso di responsabilità, nel rispetto di sé
e
degli
altri:[...]solo
in
tal
modo
l’individuo è in grado di dare alla propria
esistenza
un
valore
morale
e[...]di
sviluppare in sé le caratteristiche proprie
del cittadino.”.55
Ognuno di noi incontra nella vita persone che pretendono
di esserci maestre. Ma un maestro diventa tale solo se
l’allievo lo sceglie. Se ripensiamo alla nostra vita e
cerchiamo di ricordare persone ed esperienze che “ci
55
P. Bertolini, Ibidem, pag. 142
160
hanno insegnato qualche cosa” ci ritroviamo a contarle
sulla punta delle dita di una mano, non perchè siamo stati
sfortunati e pochi ci hanno aiutato a crescere, ma perchè
abbiamo selezionato solo persone ed esperienze che sono
state per noi particolarmente significative.
Questa premessa serve per riflettere sul fatto che rispetto,
libertà e responsabilità sono valori universalmente (o
quasi)
riconosciuti
ma
sono
anche
dati
di
fatto
imprescindibili per chi si accinge a fare educazione.
Chiunque pretendesse di intendere l’educazione come
prescrizione, giudizio di valore e ripetizione di contenuti e
significati già dati, non solo rinuncerebbe ad una prassi
pedagogicamente fondata ed al perseguimento degli
obiettivi autentici dell’educazione; la sua opera risulterebbe
fallimentare perchè, come dice Salomone, decidere di farsi
educare e di ampliare la propria visione del mondo sono
fatti che riguardano più l’educando che l’educatore e per
imparare occorre la volontà di “lasciarsi insegnare”. Come
abbiamo più volte ribadito, il processo di attribuzione di
significato ha a che fare con la soggettività. Ben inteso che
stiamo parlando di educazione, non di manipolazione e
condizionamento.
161
Questi valori assumono un significato ancora più forte in
riferimento all’ipotesi di fondo del movimento di educazione
umanistico-esistenziale: se si è in grado di arrivare al
nucleo centrale della persona si troverà una tendenza
positiva verso l’autorealizzazione e non una bestia
selvaggia da domare. Quando si crea un clima di autentico
ascolto, fiducia e libertà, la persona può seguire qualsiasi
direzione ma di fatto sceglie spesso strade positive e
costruttive.
“Non
tutto
educa”56;
non tutti educhiamo e se
ripensiamo ancora a quelle persone che ci hanno
insegnato qualche cosa forse scopriamo che sono state
quelle che ci hanno insegnato a rispettarle perchè per
prime ci hanno rispettati; sono quelle che si sono proposte
a noi come esempi di “possibilità” e non come “modelli da
riprodurre”; sono quelle che ci hanno accettato come “altro”
da sé senza giudicarci; sono quelle che ci hanno aiutati a
prenderci le nostre responsabilità assumendosi per primi le
loro e consentendoci di percepire noi stessi all’origine delle
nostre scelte e comportamenti. Sono stati i nostri genitori,
56
I. Salomone, Ibidem, pag. 57
162
se e quando hanno potuto “regalarci soltanto due
cose: le radici e le ali.”57
CAPITOLO VI
DALLA TEORIA ALLA PRATICA
L’obiettivo di questo capitolo è quello di declinare il
paradigma pedagogico che abbiamo assunto all’interno
dell’esperienza dei progetti Tempi per le Famiglie e
Coccole e Giochi. Cercheremo dapprima di “tradurlo” per
57
Proverbio del Quebec su G. Macario, op. cit..
163
il significato che può assumere per l’Educatore in questi
servizi; successivamente ricostruiremo delle situazioni
concrete che ho vissuto in prima persona durante il
tirocinio e che mi sono state raccontate da educatori
esperti che lavorano da molti anni in questo campo. Le
situazioni verranno descritte per come gli operatori le
hanno colte, e commentate alla luce dei concetti teorici per
evidenziare i nodi problematici e le incoerenze rispetto al
modello al quale ci riferiamo.
Vorrei precisare che nelle prossime pagine useremo
spesso l’espressione “mamma-bambino” per indicare la
madre, il padre, la nonna, la baby-sitter o comunque
l’adulto
che
accompagna
il
bambino
al
servizio.
Ovviamente preferiamo riferirci alla madre perchè nella
stragrande maggioranza dei casi è con lei che l’educatore
ha a che fare, soprattutto a Coccole e Giochi dove, data
l’età
dei
bambini,
sono
solo
le
accompagnano.
6.1. - OCCUPIAMOCI DI EDUCAZIONE
164
mamme
che
li
Bruno Bettelheim58 scrive che il suo obiettivo principale nei
lunghi anni di lavoro con i genitori è stato quello di aiutarli
ad imparare a fare fronte da soli ai problemi riguardo la
crescita e l’educazione dei figli, incoraggiandoli a pensare
con la propria testa per potenziare il loro intuito educativo,
per imparare a riflettere a fondo circa ciò che sta
accadendo tra loro e i loro figli e per trasformare tale intuito
e tale riflessione in atteggiamenti e comportamenti che
sarebbero diventati efficaci per il raggiungimento dei loro
obiettivi nel rispetto di se stessi e dei bisogni di crescita dei
loro figli.
Anche l’Educatore nei servizi presi in esame si pone, in
estrema sintesi, lo stesso obiettivo: trattare insieme ai
genitori i temi e i problemi educativi che essi portano per
aiutarli a trovare soluzioni proprie. Coerentemente con
l’impianto teorico che abbiamo esplicitato, educativo è tutto
ciò che ha a che fare con il processo di crescita del
bambino che avviene per mezzo delle esperienze di
relazione che egli vive con il mondo e con le persone che
intendono aiutarlo in questo percorso, prime tra tutte i
58
Bruno Bettelheim, op. cit..
165
genitori, e che prende direzioni diverse a seconda del
significato che egli attribuisce loro.
Ciò che ci interessa è capire cosa deve fare
l’educatore
in
questi
servizi
per
realizzare
un
INCONTRO significativo tra i SAPERI NATURALI E
PROFESSIONALI allo scopo di aiutare i genitori nel
LORO COMPITO PROPRIAMENTE EDUCATIVO.
Mi rendo conto di quanto sia complesso dare una risposta
a questo quesito perchè io stessa, nell’esperienza che ho
vissuto, mi sono scontrata con alcune difficoltà: prima tra
tutte quella di non riuscire, a volte, a riferirmi al paradigma
pedagogico in quanto esso non è sempre chiaro agli stessi
operatori dei servizi educativi; in secondo luogo mi sono
ritrovata a cedere alla tentazione di evitare l’incontro con i
genitori dando loro consigli e prescrizioni in nome di un
sapere professionale che, però, poco si concilia con i
bisogni degli utenti;
in terzo luogo mi sono sovente
improvvisata, con gli altri operatori, “il piccolo psicologo”
perchè questa è la richiesta che più spesso viene dalle
mamme e perchè quella dello “psicologismo” - secondo la
quale per educare occorre risalire alle remote cause
166
intrapsichiche
dei
comportamenti
-
è
una
cultura
fortemente radicata anche nei contesti educativi.
Fortunatamente il sentiero di ricerca teorico-pratico che ho
percorso per elaborare questa tesi mi ha consentito di
guardare e riguardare la mia e l’altrui esperienza con un
occhio più critico per rendermi conto, per esempio, di
quanto troppo spesso il supporto alla funzione genitoriale
venga intesa, anche dagli educatori, come l’indicazione,
che spesso sfocia in prescrizione, di un comportamento da
tenere con i figli. Ma che
l’educatore dica al genitore
esattamente cosa fare o cosa non fare in certe situazioni
non serve e soprattutto, non funziona perchè difficilmente il
genitore sarà pronto ad applicare il consiglio se esso non è
conforme ai suoi pensieri, alle proprie credenze e
convinzioni, alla conoscenza che lui, e solo lui, ha del
proprio figlio e all’idea che egli si è già fatta sulla
situazione; “chiediamo consiglio, ma intendiamo
approvazione”59,
Inoltre
scrive C.C. Colton nel Lacone.
la probabilità che il consiglio non funzioni è
altissima e il fallimento potrebbe scoraggiare ulteriormente
59
Da Bruno Bettelheim, Ibidem, pag. 37
167
il genitore che finirebbe, nella migliore delle ipotesi, per
non fidarsi più dell’educatore e nell’avere la conferma di
non essere stato capito; nella peggiore per pensare che
“non esistono vie di uscita” perchè nemmeno gli esperti
sono riusciti a risolvere la questione. Dare prescrizioni non
è coerente con l’obiettivo di aiutare i genitori a sviluppare
un
pensiero
autonomo,
aumenta
il
loro
senso
di
inadeguatezza e la loro dipendenza dall’esperto; la “ricetta”
preconfezionata è simile ad un rituale sempre uguale a se
stesso che nulla ha a che fare con l’esplorazione delle
possibilità che, per definizione, sono tante e sempre
diverse. Principalmente crediamo che non funzioni perchè
la prescrizione prescinde e sta fuori dall’unicità della
relazione tra quello specifico genitore e quello specifico
bambino e dal significato di ciò che accade tra di loro, per
loro stessi. La relazione si costruisce e cambia attraverso
la sperimentazione, anche per tentativi ed errori, di tante
possibilità. Ogni parola che mamma e piccolo si dicono,
ogni gesto e
comportamento diventa atto comunicativo
che assume un valore unico ed irripetibile perchè unici ed
irripetibili sono gli attori che comunicano, il mondo di
significati di cui sono portatori ed il processo di ri-
168
attribuzione di senso che la loro comunicazione può
evocare.
Un ragionamento simile può essere fatto circa l’efficacia
delle spiegazioni e delle interpretazioni psicologiche delle
situazioni. La lettura delle situazioni, l’intuizione delle
possibili “origini” dei comportamenti serve, è importante,
ma non basta perchè non risponde direttamente al bisogno
di azione proprio del contesto educativo. L’educatore e il
genitore, a diverso titolo e con ruoli differenti, hanno
bisogno di osservare ciò che accade per comprendere; di
riflettere su ciò che hanno compreso per scegliere cosa
fare!
Sappiamo
inoltre
ormai
per
certo
che
aggiungere
informazioni non assicura che le persone decidano, sulla
base delle nuove conoscenze, di orientare in modo
differente il proprio comportamento. Infatti esplicitare che
il bambino si comporta in un determinato modo perchè sta
esprimendo un bisogno tipico di una determinata fase della
sua crescita psicologica, oppure capire che il genitore
risponde in un altro perchè porta dentro di sé un
determinato vissuto profondo, pensa certe cose e crede
169
che sia giusto fare così, serve ma non basta perchè da
queste consapevolezze non discendono, sempre ed
automaticamente, i significati che stati psicologici e
intenzioni recondite assumono dentro la relazione tra quei
protagonisti
e non ci suggeriscono
cosa fare. Quante
volte facciamo o diciamo delle cose mossi da determinate
intenzioni pensando che l’altro reagisca in un certo modo
e, inaspettatamente, verifichiamo che la sua
risposta è
opposta rispetto alle nostre previsioni. Questo accade
perchè, in termini di comunicazione, il significato dei
comportamenti può essere diverso per chi li emette e per
chi li riceve.
L’educazione ha a che fare con la riflessione a cui segue
l’azione nell’esperienza e nella relazione ed è a questo
bisogno di azione che dobbiamo rispondere. Per un
genitore fare una cosa piuttosto che un’altra non è giusto o
sbagliato per definizione, ma funziona o non funziona per
aiutare il bambino a crescere o per uscire da una
situazione insostenibile per entrambi.
Per quanto abbiamo detto l’educatore ha certamente il
dovere e la responsabilità di trasmettere contenuti
scientificamente
corretti
ai
170
genitori
che
non
li
conoscessero; deve mettere a disposizione delle mamme
le sue conoscenze rispetto ai bisogni di crescita dei
bambini - in questo senso è importante avere una
competenza nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva ma
deve
farlo
sempre
tenendo
presente
che
le
informazioni, di per se stesse, non hanno alcun valore se
non sono tradotte per il loro significato educativo, cioè se
non sono ricondotte a ciò che quella mamma e quel
bambino si stanno comunicando in quella situazione e a
ciò che la mamma può fare per rispondere alle richieste del
proprio figlio.
L’educatore deve aiutare il genitore ad interrogarsi
sulla sfera dei significati che si giocano nella relazione
con il bambino, cioè su ciò che i due si dicono e si
chiedono vicendevolmente attraverso le parole e i
comportamenti.
Questa è secondo la nostra ipotesi, la strada per pervenire
ad una comunicazione più efficace e ad una reale
comprensione reciproca che può incoraggiare il genitore a
rileggere la propria relazione con il bambino, ad accedere a
nuove chiavi di interpretazione e a sperimentare diverse
171
possibilità di azione e di interazione che egli stesso è
riuscito ad individuare come opportune per aiutare il suo
bambino a crescere e per raggiungere i suoi obiettivi.
6.2. - ENTRARE
IN
RELAZIONE
PER
TRATTARE
LA
RELAZIONE
L’oggetto intenzionale dell’educatore che opera nei servizi
per il supporto alla genitorialità, ciò verso cui il suo lavoro
si dirige è la relazione educativa tra mamma e bambino.
Per giungere a tematizzarla egli può fare riferimento,
secondo la nostra ipotesi, solo al sistema comunicativo
comune che si viene a creare
tra mamma e bambino,
all’interno
adulti,
del
gruppo
degli
tra
i
genitori
(singolarmente o in gruppo) e se stesso. Le occasioni e gli
strumenti per mettere a tema l’oggetto intenzionale sono le
esperienze che spontaneamente si vivono nel servizio o
quelle che l’educatore intenzionalmente propone; i temi e
le domande che i genitori, singolarmente o in gruppo,
portano e discutono tra di loro o con l’educatore durante i
colloqui informali. Ma per poter utilizzare in modo
172
intenzionale uno qualsiasi degli strumenti egli deve prima
entrare in relazione con il genitore. In questo senso
possiamo dire che all’educatore
“serve” entrare in
relazione con la mamma perchè questa è la pre-condizione
affinché quest’ultima sia disponibile a considerare la
possibilità di trattare, per mezzo delle esperienze che si
condividono
con gli altri genitori e con l’educatore, la
propria relazione con il figlio.
Il principio dell’attenersi alla relazione per l’educatore si
concretizza ai due livelli che mettiamo in evidenza:
• l’essere in relazione con l’adulto che rimanda alla
capacità di stare in una dimensione di reciprocità, di
ascolto,
di
rifiuto
di
posizioni
oggettivanti,
di
comprensione empatica, di accoglienza delle fatiche dei
genitori come espressione di bisogni, di sospensione
del giudizio sull’altro;
• dirigere la propria intenzionalità verso la relazione tra
adulto e bambino senza attribuirvi giudizi di valore,
senza valutarla secondo criteri propri di altre discipline,
173
ma ricercandone i significati che si giocano nel qui ed
ora e le possibilità di espansione.
6.2.a -Trattiamo la relazione. Quanto e quando
esplicitarlo?
Questa domanda nasce perchè i servizi che stiamo
prendendo in considerazione si presentano al pubblico attraverso i volantini informativi, il passaparola, nonché gli
annunci sui giornali locali e nazionali - principalmente
come luoghi di incontro e socializzazione tra adulti e
bambini. I grandi, si scrive e si dice, possono scambiarsi
esperienze ed opinioni, parlare dei temi relativi alla crescita
dei bambini tra di loro o con gli educatori mentre i bambini
possono giocare ed incontrare altri adulti ed altri bambini,
fare delle piccole attività condotte dagli educatori. A volte
si dice che i bambini sono “accuditi” dalle educatrici che
propongono piccoli laboratori e giochi mentre le mamme,
finalmente, possono bersi un caffè e chiacchierare tra di
loro. Tutto questo è vero ed assume connotazioni più o
meno spiccate a seconda delle scelte specifiche di ogni
174
singolo servizio. Esistono esperienze nelle quali alcuni
educatori si occupano principalmente di intrattenere i
bambini nel gioco più o meno strutturato, mentre altri
stanno con gli adulti a parlare dei loro problemi. I genitori
vengono al servizio perchè si aspettano di poter trovare
risposte alle loro domande, di ricevere informazioni sui
temi più ricorrenti; vengono per rilassarsi un po' ma
soprattutto
-
come
afferma
durante
un’intervista
un’educatrice esperta di un Tempo per le Famiglie di
Milano - per trovare uno spazio protetto nel quale i loro
bambini possano giocare e crescere. Tutto questo è
sacrosanto perchè risponde ai bisogni delle famiglie di cui
abbiamo molto parlato e alla filosofia della L. n. 285/97.
Ma offrire solo questo tipo di risposte alle domande più o
meno esplicite dei genitori non è sufficiente, secondo noi,
a qualificare questi servizi come spazi propriamente
educativi
e,
soprattutto,
a
giustificare
la
presenza
dell’educatore professionale e a specificarne il ruolo
perchè egli non ha esclusivamente il compito di “accudire
i bambini” e di proporre loro attività pseudo-didattiche; non
deve solo parlare dei temi della crescita ed educazione dei
bambini divulgando le sue competenze tecniche attraverso
175
delle mini-conferenze più o meno informali. Spesso
l’educatore cade nei “tranelli” proprio perchè collude con la
domanda dei genitori di avere delle risposte precise ai loro
problemi o di trovare un luogo dove i loro bambini possono
fare delle attività particolari sotto la guida degli educatori
che li aiutino a sviluppare la loro creatività, intelligenza e
socialità.
Il dubbio che ci sorge è questo: il contratto (ciò che si
scrive sui volantini e ciò che ne consegue a livello di
rappresentazione generale circa i servizi) è poco chiaro e
incompleto, quindi ingannevole, o se dichiarassimo che i
genitori possono venire al servizio anche per ragionare
sulla loro relazione con i figli non verrebbe nessuno perchè
non si capirebbe che cosa significa e, in fondo, metterebbe
tutti in allarme?
Non disponiamo di una risposta sufficientemente fondata
perchè, nonostante tutte le fonti contattate (personalmente
o attraverso la lettura di documenti) dichiarino che
l’educatore si occupa della relazione madre-bambino, non
conosciamo servizi che abbiano scelto di esplicitare la loro
offerta anche in questo senso. Ciò che si sentiamo di dire
per il momento è che forse è proprio il modo con cui
176
l’educatore avvia e conduce la propria relazione con il
genitore che permette, poco per volta e solo quando la
relazione lo consente, di mettere a tema la relazione
educativa con il bambino, ed è attraverso il graduale
mettere a tema la relazione madre-bambino che si
specifica e si chiarisce anche agli occhi del genitore
l’oggetto intenzionale sul quale si lavora.
6.3. - CONDIVIDERE LE ESPERIENZE
L’educatore lavora in una situazione di compresenza di
mamme e bambini. Questo gli consente di conoscerli, di
osservare relazioni, comportamenti, bisogni, difficoltà e
particolarità; in sintesi, di raccogliere una serie di elementi
che possano meglio orientare il suo intervento. Soprattutto,
la compresenza gli permette di essere dentro e di
comprendere la relazione tra mamma e bambino; gli
consente, mediante la condivisione, di fare egli stesso
delle cose per ampliare le possibilità in termini di
esperienze e di relazione. Ciò che l’educatore fa e propone
177
in termini di esperienza dovranno sempre dirigersi verso
l’oggetto intenzionale, ovvero verso la crescita della
relazione tra la mamma e il bambino.
L’educatore, dunque, si troverà a partecipare al gioco delle
mamme con i loro bambini quando l’età di questi ultimi lo
consente;
a
condividere
i
momenti
di
cura
e
di
accudimento dei più piccoli; a stare con loro nei momenti
nei quali si organizzano piccole attività
e festicciole;
semplicemente a chiacchierare. Il tutto con due attenzioni
importanti: la prima è che gli obiettivi dell’educatore
saranno quelli
di favorire, con la sua presenza,
l’evidenziarsi dei significati che la relazione tra la coppia fa
emergere proprio mediante la condivisione dell’esperienza
qui ed ora; di aiutare la mamma a prenderne coscienza per
assumere un atteggiamento educativo più consapevole; la
seconda che l’educatore non deve instaurare una relazione
privilegiata con il bambino per quanto bella, ricca e
gratificante possa essere, perchè questo significherebbe
perdere l’oggetto intenzionale e dare vita a “fughe” degli
utenti che potrebbero non gradire la situazione, piuttosto
che a situazioni conflittuali con conseguenti processi di
delega da parte del genitore nei confronti dell’educatore.
178
Ovviamente non intendiamo dire che l’educatore non
debba mai interagire con il bambino e non debba mai fare
delle cose con lui ma, quando lo facesse, dovrebbe avere
sempre in mente che ciò che gli importa è proporre e
proporsi come una possibilità di interazione che potrebbe
suggerire alla mamma spunti di riflessione, NON la
possibilità migliore, MAI un mero modello da imitare.
E’ importante che l’educatore abbia ben presente che le
esperienze che propone e condivide, le sue parole e i suoi
comportamenti nella relazione con l’adulto e con il bambino
dovranno
rappresentare
esempi
di
apertura
delle
possibilità con le quali il genitore potrà confrontarsi
in
termini di differenza e opportunità, mai in termini di giudizio,
omologazione o ripetizione. In questo senso crediamo che
si realizzi il principio dell’espansione dell’esperienza.
6.4. - IL GRUPPO
Abbiamo accennato nell’introduzione al valore del gruppo
di genitori che frequentano il servizio come “moltiplicatore
delle possibilità”. Con questa espressione intendiamo
179
mettere in evidenza quanto sia importante che l’educatore
valorizzi e faccia circolare nel gruppo i saperi educativi e le
strategie di azione dei genitori che si sono già trovati ad
affrontare e risolvere alcuni passaggi evolutivi. Può essere
utile, a tale proposito, che alcune delle domande che le
mamme pongono all’educatore vengano “rilanciate” nel
gruppo dei genitori ed affrontate proprio mediante la
discussione e la condivisione di ciò che ognuno ha potuto
sperimentare o può giungere ad ipotizzare. Oltre a
rappresentare una risorsa efficace da un punto di vista
educativo, questo approccio ha altre ricadute: i genitori
diventano protagonisti nel servizio; essi sentono di essere
“presenti” nella mente degli educatori che ricordano la loro
storia al punto da richiamarla all’occorrenza; i genitori che
preferiscono non rivolgersi direttamente agli educatori
hanno comunque la possibilità di condividere la loro
esperienza con altri adulti competenti e verificare, proprio
grazie al racconto di altre mamme, quanto le strategie
educative siano differenti ed efficaci a seconda della
singolarità della coppia genitore-figlio che le mette in atto.
180
6.5. - IN SINTESI
Quando educatore e genitore sono in relazione, quando
quest’ultimo si sente accolto e non giudicato, quando ha
compreso quali possibilità può offrire il servizio, quando è
disponibile a parlare del suo bambino e a trattare la sua
relazione con il piccolo, solo allora l’educatore potrà
guidarlo verso l’esplorazione del significato di ciò che
accade, del senso che egli attribuisce al comportamento
del figlio e al proprio in termini di comunicazione, delle sue
ansie e preoccupazioni, dei sentimenti ed emozioni
coinvolti, degli obiettivi e bisogni di entrambi. L’educatore
dovrà
tenere
vivo
e
aperto
questo
canale
di
comunicazione, favorire la piena espressione del genitore
e, solo allora, aiutarlo verso l’esplorazione di altre
possibilità che questi potrà trovare ascoltando se stesso e
il suo bambino, confrontandosi con gli altri genitori e con
l’educatore, buttandosi fiducioso nella condivisione delle
esperienze.
6.6. - TRACCE DI ESPERIENZA
181
A questo punto della nostra riflessione, ci è parso
imprescindibile riferirci ad alcune esperienze sul campo
che cercheremo di ricostruire e commentare. Alcune di
esse provengono dalla mia esperienza nel Tempo per le
Famiglie di San Donato Milanese, dove ho svolto il
tirocinio; altre mi sono state raccontate da un’educatrice
esperta che lavora in due poli di Coccole e Giochi di
Milano. Nel rispetto del segreto professionale, sono stati
utilizzati nomi di fantasia.
Non toccate il mio giocattolo
La signora Gianna arriva al centro per la prima volta con suo
figlio Bruno di due anni e mezzo. Quando entra l’educatrice
la accoglie, si presenta e le fa vedere i locali. La donna
inizia a raccontarsi: è irlandese, sposata con un italiano,
vive in Italia da pochi mesi. Ha due figli tra cui Bruno, il più
piccolo. Dice di non conoscere nessuno nella località dove
vive e che è molto felice di essere arrivata al centro dove
potrà conoscere qualcuno, anche se non nasconde di
avere molte difficoltà a raggiungerlo con i mezzi pubblici.
182
Mentre parla con l’educatrice, il bambino le sta accanto e si
guarda intorno. La signora cerca numerose volte di togliere
dalle mani di Bruno un giocattolo che egli tiene stretto e
non vuole lasciare. Si accorge che l’educatrice nota che il
bambino non demorde e si innervosisce. Improvvisamente
smette di raccontare e dice all’educatrice “vede, mio figlio
tiene sempre questo oggetto tra le mani e non lo molla
mai. Non fa nulla senza il suo giocattolo, se lo porta anche
a letto. Non va bene per niente”. Cerca ancora di togliere il
giocattolo al bambino con maggiore energia senza
riuscirvi. Guarda l’educatrice, come per chiederle aiuto per
raggiungere il suo obiettivo. L’educatrice dice: “Signora, lei
continua a volerlo togliere e forse è per questo che il
bambino non lo lascia nemmeno quando va a dormire. Ha
paura di non ritrovarlo più”. La donna si innervosisce
ulteriormente e comincia a giustificarsi: “Non che io non
voglia che lui abbia i suoi giochi ma mi sembra eccessivo
questo attaccamento. Lei da cosa pensa che dipenda?”.
L’educatrice
improvvisa
un’interpretazione
psicologica
poco convincente sull’attaccamento dei bambini agli
oggetti.
183
La settimana successiva la signora Gianna e suo figlio Bruno
ritornano
al
centro.
La
mamma
raggiunge
subito
l’educatrice e le dice: “Vede, gli ho lasciato il gioco che
aveva la scorsa settimana come mi ha detto lei. Poi un
giorno lui lo ha dimenticato e io l’ho fatto sparire. Ma lui ne
ha voluto subito un altro e non lo lascia più”.
L’educatrice questa volta non dice nulla ma invita i due ad
andare a giocare con lei nell’altra stanza.
Dopo quella volta mamma Gianna e il piccolo Bruno non
sono più venuti al servizio.
Che cosa non ha funzionato? L’errore dell’educatrice è stato
quello di chiudere la comunicazione che la mamma stava
cercando di aprire rispetto ad un problema che per lei era
importante. Invece di accogliere il fatto così come lo
portava la signora, invece di assumere che quello per la
mamma era un problema, invece di chiederle di spiegare
che cosa la preoccupasse di quel giocattolo tra le mani del
piccolo, invece di lasciare che raccontasse di più e che
facesse emergere il significato che lei attribuiva al
comportamento del bambino, le ipotesi che aveva in
mente, invece di farle raccontare come affrontava la
184
faccenda a casa, l’educatrice ha dato immediatamente la
sua interpretazione sotto forma di prescrizione perchè era
essa stessa, come il bambino, infastidita da questa
mamma che insisteva per togliere di mano il gioco; ha
fornito una risposta secca accusando in buona sostanza la
mamma e mettendola nella condizione di sentirsi in colpa
per il suo comportamento e di doversi giustificare.
La relazione tra mamma ed educatrice non era tale da
consentire a quest’ultima quel tipo di intervento non solo
perchè la mamma non poteva essere disposta ad
accettarlo,
ma
anche
perchè
la
conoscenza
che
l’educatrice aveva della coppia era praticamente nulla e il
suo intervento si è rivelato fuori luogo: non aveva idea del
significato che questo oggetto aveva per il bambino e non
aveva potuto osservare alcunché sulla relazione tra i due.
Quando la mamma ha chiesto spiegazioni circa il perchè
del comportamento del bambino, l’educatrice invece di
ammettere che, per il momento, non poteva avanzare
nessuna ipotesi, si è sentita in dovere di dare una risposta.
Non
solo:
il
messaggio
dell’educatrice
non
è
stato,
comprensibilmente, preso in considerazione dalla mamma
che non si è sentita ascoltata e compresa in questa sua
185
difficoltà, si è sentita giudicata e, la volta successiva, si è
riproposta
aggiungendo
nella
un
stessa
identica
pizzico
di
sfida
maniera,
nei
forse
confronti
dell’educatrice. Il gioco insieme non è servito a recuperare
la situazione e la signora con il suo bambino non si sono
visti più.
Un’occasione persa
La signora Anita frequenta il centro, praticamente tutti i giorni,
da due anni con suo figlio Marco che ora ne ha quasi tre.
La conoscenza tra l’educatrice e la coppia inizia un giorno
quasi per caso quando il bambino la invita a giocare con
lui.
Passano le settimane
e la relazione si intensifica:
Marco vuole giocare solo con l’educatrice, la cerca
insistentemente, le butta le braccia al collo quando arriva al
centro, si rivolge sempre meno alla mamma e non si
relaziona con gli altri bambini; la signora Anita non perde
occasione per “attaccare bottone” con l’educatrice e si
congratula con lei per avere questo rapporto così “bello”
con suo figlio che, a suo giudizio, è un bambino un po'
noioso. Progressivamente la signora Anita delega sempre
di più all’educatrice il compito di giocare con Marco e di
186
rispondere alle sue richieste di cibo, acqua e via dicendo,
così che lei può intrattenersi con le altre mamme.
La valutazione complessiva che l’équipe dà alla relazione tra
questa coppia mette in evidenza che non esiste un buon
legame di attaccamento tra i due e che la madre, in questo
momento, non è in grado di ascoltare il suo bambino, il
quale si difende da questa delusione prendendola sempre
meno in considerazione ed affezionandosi a chi gli dà più
ascolto. Occorre che l’educatrice che ha una relazione
privilegiata con loro metta in atto delle strategie affinché
mamma e bambino facciano delle cose insieme ed
aumentino l’efficacia della loro comunicazione.
Alla fine dell’anno non è cambiato quasi nulla: Marco
continua a prediligere l’educatrice nonostante inizi a
giocare con gli altri bambini. Non è più remissivo e
spaventato
come
all’inizio
ma
agisce,
a
volte,
comportamenti aggressivi nei confronti della mamma e
degli altri bambini. La signora Anita si intrattiene sempre
più a lungo con l’educatrice confidandole problemi molto
seri riguardo la sua vita matrimoniale, la grave malattia
della nonna di Marco, la sua solitudine e il suo senso di
isolamento, il suo sentirsi emarginata dal resto del gruppo
187
dei genitori. Quando l’educatrice propone attività e giochi
alla
coppia,
la
mamma
si
cimenta
malvolentieri.
L’educatrice, dal canto suo, si sente sollevata per il fatto di
non dover stare sempre con Marco e, durante i lunghi
colloqui con la mamma, si limita ad accogliere ed ascoltare
ciò che le dice dimostrandole comprensione.
La relazione tra la mamma e il bambino non è cambiata
rispetto a otto mesi prima, nessun significato è stato
esplorato, nessuna possibilità nuova sperimentata.
Cosa è successo in questi mesi? La relazione tra mamma e
bambino non è mai stata esplicitamente tematizzata.
Durante i colloqui con la mamma, l’educatrice non è stata
in grado di spostare l’attenzione dai problemi personali
della mamma a come essi potevano incidere sul suo
rapporto con il bambino. E’ vero che l’educatore ha anche
il compito di accogliere ed ascoltare le persone ma, nel
caso specifico, non poteva fare nulla per aiutare la signora
a risolvere i suoi problemi con il marito, a fare guarire la
nonna o quant’altro. L’educatrice si è fatta coinvolgere
troppo dalle difficoltà che la mamma portava, ha colluso al
punto di non volerla deludere ammettendo che non
188
sarebbe stata in grado di aiutarla. Forse, dichiarandolo,
avrebbe perso la fiducia della mamma ma, non facendolo,
ha perso un’occasione importante per lavorare sull’oggetto
intenzionale che era, tra l’altro, l’unico sul quale avrebbe
potuto fare qualche cosa e che, nella situazione specifica,
aveva urgente bisogno di essere trattato.
L’altro errore dell’educatrice è stato quello di farsi ingaggiare
dalle pressanti richieste di attenzione del bambino; ha
instaurato una relazione privilegiata con lui finendo per
entrare in conflitto con la mamma la quale “le ha lasciato
fare” quasi per vedere fino a che punto l’educatrice
sarebbe arrivata. In quel momento la signora viveva il suo
bambino come “pesante” e, se da un alto voleva trovare un
luogo dove potersi distrarre da lui, dall’altro è come se
avesse detto all’educatrice “visto che tu sei così brava a
stare con lui, fai pure. Vedrai che poi ti stancherai”. E così
è stato: se inizialmente l’educatrice era appagata e
gratificata da queste manifestazioni di affetto da parte del
bambino, con il tempo se ne è sentita soffocata e ha
desiderato liberarsene.
189
Una mamma “in gamba”
La signora Rosi, una giovane mamma di 26 anni, arriva al
centro per il terzo giorno consecutivo con Erika, la sua
bambina di due anni e mezzo. L’educatrice la accoglie, la
saluta e la accompagna vicino ad altre mamme dove Rosi
si ferma a chiacchierare, mentre la bambina si precipita
nell’angolo cucina a giocare.
Dopo circa un’ora, al termine dell’attività strutturata, Rosi e
l’educatrice si ritrovano sedute allo stesso tavolo e la
signora comincia a parlare. Racconta di avere delle
difficoltà a relazionarsi con la sua piccola la quale è una
bambina che lei definisce molto testarda, autonoma e con
una volontà di ferro. E’ sempre stata particolarmente vispa,
ma ultimamente Rosi ed Erika si ritrovano a dover “lottare”
per ogni minima cosa: dal lavarsi, al salire in macchina,
all’andare a letto. Tutto sommato questo “carattere” della
sua bimba non le dispiace, è contenta che sia una
bambina che sa quello che vuole e si diverte a stare con lei
ma, negli ultimi giorni, comincia a temere che in futuro le
cose potrebbero peggiorare. La settimana precedente
mamma e bambina sono andate dal pediatra. Anche in
quella occasione è stata una lotta per svestirsi, per farsi
190
visitare e la signora Rosi non è stata in grado di tenere la
bambina tranquilla. Il pediatra le ha restituito che la
bambina è troppo disubbidiente e che le sta mettendo i
piedi in testa. Forse, le dice il medico, è il caso che “lei si
riprenda il suo ruolo”. Questo mette in allarme la mamma
la quale mette in discussione tutto il rapporto con la figlia.
Si rivolge all’educatrice e le domanda cosa ne pensi.
Quest’ultima le risponde che probabilmente il pediatra ha
reagito in questo modo perchè quella è stata la sua lettura
di ciò che ha visto durante la visita. La bambina era
scalmanata e non ascoltava la mamma. Questo gli ha fatto
pensare che, forse, potevano esserci dei problemi più seri
e si è sentito in dovere di allertarla. Poi prosegue
chiedendo alla mamma quale idea lei stessa si era fatta del
comportamento della bambina dal medico. La signora
risponde che Erika aveva paura ed è per questo che era
incontenibile; lei non si era sentita di aggredirla e bloccarla
proprio perchè conosce la sua bambina; semplicemente
aveva ritenuto di doverla rassicurare e contenere come
poteva. L’educatrice le chiede di raccontare altri episodi nei
quali ha dovuto, per così dire, “lottare” con la bambina. La
signora racconta come, in molte occasioni, ci siano stati
191
degli scontri che però si sono conclusi nel migliore dei
modi sia per la mamma, che per il papà,
che per la
bambina. Durante il racconto, l’educatrice commenta
insieme alla mamma i comportamenti proprio in termini di
significati e di comunicazione.
Rosi sembra più tranquilla e continua a raccontare di lei e
di Erika. Nei giorni seguenti, quando torna al centro, ha
voglia di confrontarsi ancora con l’educatrice rispetto a
come è andata la giornata precedente. E’ contenta di avere
una figlia così forte, si diverte perchè la mette nelle
condizioni di “studiarle
proprie tutte” per riuscire a fare
delle cose con lei anche quando la bambina non sembra
molto contenta di farle. Un giorno arriva al centro molto
fiera dicendo alle mamme: “avete visto che sono riuscita a
tagliare i capelli ad Erika?”. In fondo, dice, sulle cose
importanti a cui tiene molto, riesce a trovare un’intesa
soddisfacente e la bambina si affida a lei. La mamma dice
che probabilmente la piccola è “testarda come lei”, è una
persona che ha bisogno di essere conquistata prima di
fidarsi e, forse, le sta chiedendo proprio il massimo in
questo senso. Un giorno un’altra mamma arriva al centro
con le occhiaie e lamenta che non ha dormito tutta la notte,
192
che suo figlio (che ha la stessa età di Erika) è una peste e
non ne può più. “Non mi ascolta, non mi rispetta”, dice.
L’educatrice chiama la signora Rosi e la invita a
confrontarsi con questa mamma.
In questo caso l’educatrice ha accolto le preoccupazioni
della mamma così come erano, senza esprimere giudizi o
accertarsi che fossero più o meno fondate. Chiedendo alla
mamma di riflettere sull’accaduto e sul modo con cui lei
affronta le situazioni le ha permesso di ridimensionare il
problema, di capire che esistono tante possibilità concrete
per fronteggiare le difficoltà, di far emergere i significati
della sua relazione con la bambina: significati che, tra
l’altro, erano già ben presenti nella mente della mamma
ma che, forse, avevano solo bisogno di essere esplicitati.
Dai racconti emerge che la mamma conosce molto bene la
sua piccola, e che è molto presente ed attenta. Le strategie
che la signora utilizza, la sua sensibilità nel cogliere i
bisogni della bambina sono risorse importantissime che
l’educatrice ha ritenuto di dover valorizzare mettendole a
disposizione del gruppo di genitori.
Stabilità e cambiamento
193
Cecilia, figlia unica, con la sua mamma Anna partecipa al
gruppo da quando aveva sei mesi, con assiduità. Anna è
una signora sulla trentina, tranquilla, che intrattiene con la
sua bambina una relazione molto intensa, da cui emerge
sensibilità ed attenzione per i bisogni affettivi della piccola.
Sin dall’inizio della frequenza, arrivano al servizio quasi
sempre per prime, la signora entra nella stanza con la figlia
in braccio e si accomodano sempre allo stesso posto, l’una
accanto all’altra. La signora è visibilmente contenta di
tenere vicino a sé Cecilia, con la quale può comunicare ed
operare un’azione di rinforzo verso l’attività manipolativa
della bambina. In realtà, è la mamma a porgere gli oggetti
a Cecilia, la quale non si muove per raggiungerli, benché
visibilmente interessata. La signora, per quello che è dato
vedere a Coccole, porge il mondo alla figlia, proteggendola
parecchio dalle fatiche che sono richieste a chi desidera
occupare uno spazio partecipe nel mondo. Di fatto, Cecilia
non appare attratta dal movimento autonomo nello spazio:
con il passare del tempo, non gattona, né cammina. Le
operatrici hanno presto rilevato nella bimba uno slancio
evolutivo rallentato, ed un certo timore ad affrontare con
fiducia l’uscita dal contenimento tutelante della mamma;
194
consapevoli però che restituire alla signora il suo
involontario contributo a tenere la piccola ancorata a sé
non avrebbe fatto altro che farla sentire in colpa e
inadeguata, hanno lasciato che, grazie all’osservazione
degli altri bambini presenti, si confrontasse con le altre
mamme sulle caratteristiche dello sviluppo dei rispettivi figli
e sui differenti modi e stili di relazione con loro. Da sola, la
signora ha cominciato a chiedersi se, forse, la sua
bambina
non
necessitasse
di
uno
stimolo
verso
l’esplorazione e, a partire da questa consapevolezza, le
operatrici
hanno
cominciato
ad
affrontare
con
lei,
attraverso anche il contributo delle mamme presenti, il
senso, le possibilità e le fatiche dell’accompagnamento dei
figli verso un progressivo distanziamento dalla figura
materna. La relazione instaurata con la signora nei mesi di
frequenza ha rappresentato la base per poter trattare il suo
bisogno di tenere Cecilia fisicamente e simbolicamente
vicina a sé, ma i suggerimenti degli adulti presenti, madri o
professionisti che fossero, non aprivano ancora lo spazio
per un’azione direzionata. Accade che un giorno, entrando,
la signora posa Cecilia sul tappeto e si allontana di un paio
di metri per prelevare qualcosa dalla borsa lasciata
195
all’ingresso; la piccola, dalla sua posizione seduta, non
perde d’occhio la mamma. L’educatrice chiama la signora
accanto a sé per darle un’informazione, e questa le si
siede al fianco e le parla con piacere. Poco dopo, Cecilia fa
cenni di richiamo alla mamma, che fa per alzarsi per
andarla a prendere; l’educatrice invita la signora a provare
a rimanere seduta mentre invita la piccola a tentare di
raggiungerla.
Cecilia,
dopo
un
breve
lamento
di
malcontento, prende a muoversi spingendosi con il bacino,
in direzione della mamma, arrivando a lei. Quel giorno
Cecilia si sposta per l’ambiente in questo modo originale,
in direzione della mamma; a sedici mesi non cammina
ancora, ma sperimenta con piacere il movimento e la
scoperta e l’autonomia ad esso legati. La sua mamma ha
cominciato da allora a riconoscere le possibilità della figlia,
i suoi bisogni non solo affettivi e a considerare che la
solidità di un rapporto non si misura soltanto dalla
vicinanza fisica tra chi lo vive.
Il dolce sapore della vita
196
Irene comincia a partecipare al gruppo di Coccole e Giochi
a dieci mesi; è una bambina vivace e socievole, interagisce
con piacere con le figure presenti, è attratta dagli oggetti a
disposizione. Raggiunge ciò che le interessa gattonando.
La sua mamma Cristina la descrive come una bambina di
facile gestione, impegnativa perchè interessata a tutto ma
anche fonte di enormi gratificazioni. Dopo poco più di un
mese
di
frequenza,
la
signora
confida
di
essere
preoccupata per l’alimentazione della figlia: Irene rifiuta i
cibi solidi, anche se sminuzzati e morbidi, e non mangia
altro che non siano i soliti papponi. La signora, intelligente
ed informata, sa che attorno all’anno di età i bambini
dovrebbero assumere alimenti solidi e tenta di persuadere
la figlia ad accettare il cambio di alimentazione. I tentativi si
trasformano presto in lotte vere e proprie, che vedono la
mamma sempre più impaziente e disarmata, e la piccola
sempre più decisa a non cedere. La signora non si
capacita del fatto che Irene, così adeguata per tutti gli
aspetti dello sviluppo, mostri tanta resistenza verso alcuni
tipi di cibo. Il giorno del compleanno di Irene, Cristina porta
una torta per festeggiare. Il taglio della torta diventa lo
spunto per tornare sull’argomento cibo e, mentre le
197
mamme chiedono alla signora come si svolge a casa il
momento dei pasti e lei offre un racconto pieno di regole e
divieti, Irene si avvicina ad una mamma seduta e preleva
dal suo piattino un pezzo di dolce, iniziando a mangiare
con gusto. L’educatrice si avvicina alla mamma di Irene,
già pronta ad intervenire per bloccare l’ingerenza della
figlia, e la invita ad osservare insieme cosa farà la piccola.
Irene, assai composta, mangia tutta la fetta di torta,
dimostrando che, se si allenta la tensione sulle sue scelte
alimentari, lei è disponibile ad aprirsi al cambiamento.
Grazie a questo episodio Cristina ha capito che, se voleva
aiutare Irene ad approcciare cibi diversi poteva anche
concedersi di abbandonare, per un tempo breve, le rigide
regole alimentari, e consentire alla piccola di avvicinarsi ad
un’esperienza nuova in maniera meno vincolata e
vincolante. Nel giro di poco, Irene ha cominciato a
mangiare di tutto, seduta al tavolino a sul seggiolone.
Provare ad attendere
198
Angela, la mamma di Giulia, di poco più di tre mesi, si dice
preoccupata perchè la figlia, per addormentarsi subito, ha
bisogno di essere cullata. Ne parla con l’educatrice e dice
che, a breve, potrebbero sorgere dei problemi: dovendo
abbandonare la carrozzina per cominciare a dormire nel
lettino, non potrà più cullarla e la piccola faticherà
certamente ad addormentarsi. L’educatrice chiede alla
signora se culla la piccola perchè piange, e lei risponde
negativamente. L’educatrice si interroga, a voce alta, sulle
ragioni che inducono le mamme a ritenere che un bambino
debba, una volta disteso, addormentarsi immediatamente.
Né Angela né le altre mamme sono in grado di rispondere
e l’educatrice, allora, propone di provare a vedere cosa
fanno i bambini durante il tempo che necessita loro per
prendere sonno. Quasi si fosse sentita chiamata in causa
Giulia, adagiata sul tappeto, prende a gorgheggiare
guardandosi intorno e muovendo gli arti in maniera un po'
scomposta, come fanno i bambini a quell’età. Dopo una
decina di minuti si assopisce, senza che si sia reso
necessario alcun intervento da parte dell’adulto.
199
Questi esempi testimoniano come spesso i genitori
imparino delle cose sui propri bambini in maniera fortuita,
grazie alle occasioni che il caso presenta e che l’educatrice
connota e trasforma in possibilità per grandi e piccini. Nelle
circostanze descritte, complici benevoli sono stati il
contesto e la condivisione di un’esperienza che hanno
permesso alle mamme di “distrarsi” da ciò che considerano
problematico ed ai bambini di agire autonomamente
comportamenti nuovi. La presenza degli educatori e degli
altri genitori, l’organizzazione degli spazi e dei tempi hanno
favorito lo svolgersi degli eventi.
Trasformare
Diego è un bambino di dieci mesi, vivace, energico ed
evoluto dal punto di vista dello sviluppo motorio. E’ molto
interessato all’esplorazione dell’ambiente e a ciò che esso
contiene (cose e persone). La sua mamma, Nicoletta,
appare spesso preoccupata che egli possa disturbare la
situazione e, agli inizi della loro frequenza a Coccole, lo
invitava spesso, contenendolo anche fisicamente, a non
fuoriuscire dal tappeto, inibendolo nei movimenti. Le
200
operatrici hanno dovuto spesso rassicurarla, garantendole
che, in quello spazio, è possibile muoversi liberamente
poiché sono presenti gli adulti a tutela dei più piccoli. Una
mattina, in apertura dell’incontro, sono presenti solo Diego
e la sua mamma. Poco dopo arriva Simona, una mamma
nuova, con la sua bimba di tre mesi, Agata, dallo sguardo
e sorriso pronti. Non appena Simona si siede sul tappeto
con la piccola in braccio, Diego le raggiunge e comincia a
toccare la piccolina, in maniera piuttosto energica. Punta
deciso agli occhi di Agata, che per un po' non si scompone,
anzi, pare incuriosita dalle attenzioni del bambino; Simona
è tranquilla: protegge la sua bimba se Diego le sembra
troppo irruente, ma non si irrigidisce nei confronti del
bimbo. Nicoletta interviene decisa, molto preoccupata che
Diego possa far male ad Agata; ma la decisione della
mamma indispone parecchio Diego che, dal canto suo,
appare sempre più interessato alla piccina. Quanto più la
mamma cerca di fermarlo, tanto più lui si dimena e si
indispettisce. L’educatrice, vista la difficoltà di Nicoletta e la
determinazione di Diego, e la necessità, comunque, di
tutelare Agata, decide di intervenire mostrando a Diego,
ma in realtà alle mamme presenti, come poter aiutare il
201
suo gesto irruente a trasformarsi in contatto più tenue,
accompagnando le sue mani sul corpo della piccina.
L’interesse di Diego però continua ad amplificarsi e la
mamma di Agata, ora, pare proprio in difficoltà, anche
perchè la bambina comincia a piangere. Mentre la
psicologa spiega alle mamme che i bambini dell’età di
Diego non sono ancora in grado di modulare il contatto, e
che possiamo insegnargli, con il tempo, modalità di
approccio diverse, l’educatrice prende una bambola che,
tra l’altro, ha gli occhi che si aprono e si chiudono a
seconda di come la si posizioni, e la offre a Diego. Lui la
guarda assai perplesso, quasi intimorito. L’educatrice gliela
posa accanto ed attende che lui abbia voglia di tentare un
contatto. Giocherà con la bambola per un tempo
considerevole, abbandonandola e tornando a lei più volte
permettendo, tra l’altro, alla mamma di Agata di potersi
inserire nell’ambiente nuovo e alla sua di riprendere fiato.
Quanto abbiamo riportato è esemplificativo della funzione
propositiva dell’educatore; l’attenzione ai bisogni dei piccoli
e al contesto nel suo complesso richiedono l’individuazione
di
strategie
immediate
che
202
mantengano
l’ambiente
tranquillo e, al contempo, insegnino qualcosa. Nella
situazione specifica, l’intento era quello di presentare una
possibilità
di
contenimento
che
prevedesse
la
trasformazione del dato anziché l’imposizione del limite
che, in un’età così precoce, i bambini sono difficilmente in
grado di accogliere.
6.7. - LE CONSULENZE PEDAGOGICHE:
UNA POSSIBILITÀ ULTERIORE
Lungo il sentiero di ricerca ho incontrato, grazie alla
Dott.ssa Irene Auletta - pedagogista e formatrice dello
Studio Dedalo di Milano - una proposta ulteriore nel campo
del supporto al ruolo genitoriale. L’esperienza della
Dottoressa è estremamente importante per la nostra
riflessione per due ordini di motivi: testimonia che è
possibile esplorare nuove possibilità di aiuto ai genitori
mediante lo strumento della consulenza pedagogica, in un
setting completamente diverso da quello che abbiamo
preso in considerazione fino ad ora perchè, nello studio del
consulente, sono assenti il bambino e la condivisione
203
dell’esperienza.
L’esperto
deve
fare
uno
sforzo
di
astrazione proprio perchè non può osservare direttamente
la relazione di cui tratta, non condivide esperienze con
genitori
e
bambini,
lavora
prevalentemente
in una
condizione di carenza di informazioni e, spesso, vede
questi genitori una volta soltanto. Inoltre la Dott.ssa
definisce il suo approccio squisitamente pedagogico
perchè si fonda sulla ricerca dei significati che si giocano
nella relazione e fa riferimento al paradigma teorico che sta
a fondamento del nostro lavoro.
La sua avventura, racconta durante un illuminante
incontro, inizia dieci anni fa. I primi colloqui si svolgono
con i genitori dei bambini che frequentano i nidi dei quali
lei è coordinatrice e nei quali opera come supervisore degli
educatori. La sede delle consulenze è quindi quella del
nido e il suo ruolo è legittimato dalla stessa istituzione. Con
il passare del tempo inizia ad operare anche con genitori
di bambini che frequentano nidi con i quali non ha nulla a
che fare o genitori che si mettono in contatto con lei in
seguito al passa parola. Da almeno cinque anni la Dott.ssa
svolge le sue consulenze anche nello studio privato dove
204
lavora con genitori sia di bambini molto piccoli che adulti,
con patologie psicofisiche o senza alcun problema.
I genitori si presentano al colloquio portando il problema
del figlio, il problema che gli insegnanti dicono di avere a
scuola con il bambino, il loro problema nei confronti del
bambino. Il problema del bambino (o ragazzo che sia)
viene assunto dalla Dott.ssa come dato di fatto, così come
i genitori lo portano, senza dare giudizi e senza tentare
quelle che lei chiama “sovrainterpretazioni”. Il suo lavoro
consiste nel ragionare insieme ai genitori sul significato
che ha per loro questo problema che dicono appartenere
solamente al figlio e sul modo in cui lo affrontano. La
pedagogista non promette di risolvere il problema ma di
aiutare i genitori ad esplorare come può essere affrontato.
Si tratta di capire “quale è il loro problema nel trattare il
problema”, cosa fanno di fronte al comportamento del
figlio, che significato vi attribuiscono, cosa pensano che il
bambino stia chiedendo loro e cosa credono di rispondere
attraverso il loro comportamento. L’obiettivo è quello di
aiutare i genitori a comprendere che il “comportamento
problema” esiste e può essere affrontato nella relazione
grazie alla tematizzazione dello stesso, mediante il darvi
205
voce, per mezzo dell’esplorazione dei significati che
ruotano attorno ad esso e mettendo in atto azioni concrete
nella relazione. Il suo contributo consiste proprio nel
guidare i genitori a “tirare fuori” i significati che esistono
dentro di loro per esplicitarli e nell’esplorare con loro le
possibilità di azione e di interazione. Il suo, spiega, è uno
sguardo dall’esterno che può aiutare i genitori a “vederci
più chiaro” quando il loro enorme coinvolgimento affettivoemotivo, la loro voglia di fare il meglio per i loro figli, li
mette in difficoltà rendendoli momentaneamente ciechi.
L’ultima considerazione ha a che fare con il fatto che,
secondo la Dott.ssa, non serve che i genitori si rivolgano a
lei con una cadenza settimanale, mensile o comunque
prestabilita.
Il
lavoro
che
viene
svolto
durante
la
consulenza, l’esplorazione dei significati della relazione,
la riflessione e la sperimentazione che seguono da parte
dei genitori, richiedono un tempo di rielaborazione più o
meno lungo a seconda delle persone e, pertanto, il suo
intervento può anche consistere in un singolo colloquio
che, come dice, può semplicemente “fornire una chiave”
per sfondare una porta e permettere uno sguardo nuovo.
206
Una volta che si è imparato ad aprire la porta, l’esperto non
serve più.
6.7.a - Due esempi per tutti.
Anche in questo caso abbiamo ritenuto importante fare
riferimento ad alcune esperienze concrete che ci possono
aiutare
a
comprendere
come
queste
consulenze
avvengono e qual è il contributo della pedagogista.
L’unione fa la forza.
Mamma e papà riferiscono, durante un colloquio, che il
loro bambino di dieci anni, con una grave distrofia
muscolare che lo costringe su una sedia, vive due
difficoltà: la prima è che ogni giorno, quando la mamma lo
va a prendere a scuola, il bambino le chiede di portarlo in
bagno con urgenza perchè non lo ha fatto durante tutto
l’arco della mattinata. L’altra si esprime come segue:
durante il tragitto in macchina per andare a fare la
fisioterapia, il bambino è terrorizzato dalla possibilità di
incontrare un lavavetri al punto che, quando ne vede uno,
viene preso dall’angoscia e prega che non si avvicini alla
macchina dove lui sta viaggiando. La mamma, a sua volta
207
angosciata, collude con la paura del bambino studiando
percorsi alternativi, passando con il rosso ai semafori dove
ci sono i lavavetri, andando alla fisioterapia negli orari
meno trafficati. Ella dichiara che questa situazione non è
più sostenibile.
La Dott.ssa non si concentra affatto sulla patologia del
bambino ma sul significato che i suoi comportamenti hanno
in termini di comunicazione. Insieme alla consulente, i
genitori arrivano a comprendere che
il
fatto che il
bambino si vergogni a chiedere alle maestre di portarlo in
bagno e che aspetti
la mamma con la quale ha una
confidenza che gli consente di chiederle aiuto, fa emergere
il bisogno del bambino, data l’età e il contesto, di essere
più autonomo e di non dipendere dalle maestre. Non solo,
le uniche persone alle quali sta cercando di manifestare
questo bisogno sono i suoi genitori. Compresa la
domanda, mamma e papà ne parlano con il ragazzino e
trovano la strategia concreta che risponda al suo bisogno
di crescita e di autonomia.
Per quanto riguarda il terrore dei lavavetri, la Dott.ssa
suggerisce che non serve “evitare il problema” o cercare
interpretazioni
profonde
dell’angoscia
208
del
bambino.
Occorre fare qualche cosa nella relazione tra mamma e
bambino durante il tragitto. I genitori e la pedagogista
capiscono insieme che il significato del comportamento del
bambino in termini di comunicazione è quello di chiedere
aiuto e protezione. La mamma mette quindi a tema questa
sua domanda, ne parla con il bambino dicendogli che lei sa
che il problema non è del bambino ma è di entrambi. Gli
offre un patto, un’alleanza dove dichiara che lei è presente,
lo aiuta e non gli potrà succedere nulla di male. Mamma e
bambino decidono di fermarsi al semaforo dove c’è un
lavavetri, di lasciare che lui faccia il suo lavoro e il
bambino, con l’aiuto della mamma, paga questa persona
per la sua prestazione sperimentando, in una situazione in
cui si sente protetto che, infondo, questo lavavetri così
cattivo e spaventoso non è. La mamma, inoltre, dichiara al
lavavetri che il bambino ha paura di lui: egli si rivolge al
piccolo dicendogli che non ha motivo di essere spaventato.
Lo ringrazia per il denaro e si allontana.
Cambio di scena
209
I
genitori di un bambino di cinque anni portano questo
problema: il bambino ha conosciuto il papà solo pochi mesi
fa perchè quest’ultimo, per una serie di motivi, fino ad
allora non aveva voluto vivere con la madre e il bambino.
Attualmente il padre non abita con il bambino e la mamma,
ma li incontra tutti i fine settimana, quando i due si
trasferiscono a casa sua. Nei primi due mesi di
conoscenza, il bambino è entusiasta del “nuovo papà”, lo
accoglie e vuole stare sempre con lui. Ultimamente,
invece, non lo vuole assolutamente vedere, urla e strilla
ogni volta che, il venerdì sera, deve andare a casa del
papà: questo, per i genitori, è il “comportamento problema”
del bambino.
Alla Dott.ssa non interessa capire quali sono le carenze
affettive del bambino che non ha avuto un papà nel
passato; né quali le fantasie del bambino che fino ad allora
non aveva mai chiesto perchè il papà non c’era ed ora è
arrivato. Quello che le interessa è capire insieme ai genitori
cosa il bambino chiede a questo papà oggi. La Dott.ssa
suggerisce un “cambio di scena”: chiede ai genitori di
mettersi nei panni del bambino per provare ad immaginare
quali sono le sue domande, i suoi sentimenti e le sue
210
angosce
nel
momento
presente,
nella
situazione
contingente. Da questo suggerimento i genitori, in modo
autonomo, comprendono che il bambino ha bisogno di
essere rassicurato, con le parole e con i fatti, che il papà
non se ne andrà di nuovo, ha bisogno di parlare con i
genitori del senso di questa situazione nuova che gli ha
sconvolto la vita. Grazie a queste “aperture di significato” i
genitori elaborano e mettono in atto comportamenti
educativi più efficaci.
211
CAPITOLO VII
CONCLUSIONI
7.1. - Imparare ad imparare
Le esperienze e le relazioni che genitori e bambini vivono
nei servizi non sono le medesime di quelle che vivono a
casa, con gli amici o in altri contesti sociali. E non devono
esserlo proprio perchè ogni situazione che fronteggiamo
ed ogni persona che incontriamo ci richiedono di mettere in
campo saperi e comportamenti diversi. Ciò che un
educatore in una offerta di sostegno alla genitorialità può
sperare di insegnare agli adulti, mediante l’elaborazione
comune dell’oggetto intenzionale, è imparare ad imparare
dall’esperienza e dalla relazione con i loro figli, dare il via
ad un processo di apprendimento nuovo esportabile fuori
dal servizio non come ripetizione di comportamenti
212
ma
come rinnovata capacità di rileggerne i significati che via
via emergono per attivare nuove strategie di azione di
fronte alle situazioni che si troveranno a fronteggiare.
Come dice la Dott.ssa Auletta, ciò che conta è fornire ai
genitori una “chiave per aprire una porta”; poi saranno loro
a deciderle come sia meglio varcarla.
7.2. - Andiamo oltre
Igor Salomone scrive che le agenzie educative sono dei
“laboratori
pedagogici” dotati di una struttura
“metaforico-analogica”60: sono luoghi di transizione
che ne rappresentano altri e proprio grazie alla loro
dimensione del “rimandare a qualcosa d’altro”, permettono
la trasformazione degli apprendimenti. Questo significa,
secondo noi, che se gli educatori e i genitori sono
seriamente impegnati ad INCONTRARSI per imparare dalle
esperienze che vivono insieme, se credono fermamente
che si possa migliorare la qualità della propria relazione
60
Igor Salomone, op. cit., pag. 122
213
rispettivamente con gli utenti e con i figli, allora possono
anche imparare delle cose sul significato di altre
esperienze e di altre relazioni,
per viverle in modo più
consapevole, attivo e soddisfacente. L’atteggiamento con
il quale operatori ed utenti stanno nei servizi, lo sforzo da
parte degli educatori professionali di aiutare veramente
quelli naturali a svolgere un compito educativo che è e
rimane di questi ultimi, di astenersi dal valutarli e giudicarli,
potrebbe diventare un’occasione per riflettere sul rapporto
tra
servizi
socio-educativi
e
famiglie
in
generale,
prefigurare un modo nuovo di confrontarsi sul piano delle
differenze, di pensare che è possibile partecipare mettendo
in campo ognuno la propria competenza e la propria
specificità, rifuggendo l’eterno conflitto che vede gli uni
contro
gli
altri
impegnati
in
reciproche
accuse
di
inadeguatezza e di “appropriazione indebita” .
Le leggi proclamano che la famiglia è un soggetto sociale e
politico, non oggetto di interventi dello Stato; da più parti si
sente dire che i servizi devono essere orientati al soggetto
famiglia come nucleo relazionale, devono imparare a
lavorare CON la famiglia, non “su” o “per” la famiglia, non
“su” o “per” i singoli individui che la compongono. Una delle
214
critiche che oggi si fa rispetto al rapporto tra servizi e
famiglie è quella di pensare ai primi in termini di
“pubblicizzazione” delle funzioni familiari, ovvero come
tentativo di portare le funzioni familiari fuori dalla famiglia.
A
questa
tendenza
si
accompagna
la
progressiva
privatizzazione della famiglia. Quello che si deve realizzare
è, invece, il principio di sussidiarietà tra servizi e famiglia,
sussidiarietà tra Stato e famiglia. Crediamo che questo sia
un dibattito importante e che occorra fermarsi seriamente a
pensare a come e dove realizzare questa cultura della
integrazione tra servizi e famiglie: forse, perchè no, la
riflessione sul ruolo dell’educatore professionale nei servizi
per il supporto alla genitorialità potrebbe offrire uno spunto
significativo.
Infine possiamo dire che l’educatore professionale che
abbiamo
tratteggiato
è
un
operatore
squisitamente
pedagogico perchè esperto nell’esplorazione (e nell’azione)
dei significati soggettivi ed intersoggettivi delle esperienze
e delle relazioni educative. Ma egli può diventare anche un
operatore culturale, perchè di rinnovare il processo di
attribuzione di senso e di impegnarsi nella costruzione di
215
relazioni sane la nostra società e la nostra cultura hanno
bisogno.
7.3. - Per continuare
La docente che ho ricordata nell’introduzione ci disse
anche che per costruire la nostra professionalità avremmo
dovuto percorrere una strada lunga “cento chilometri” e
che, lungo il cammino, ci saremmo trovati ad andare un po'
avanti, poi a tornare indietro, poi di nuovo avanti. Le sue
lezioni
rappresentavano
per
il
nostro
viaggio
“un
chilometro” soltanto. Supponendo che nei tre anni di
formazione io abbia percorso “dieci chilometri”, potrei
azzardare che questo lavoro di ricerca mi ha permesso di
andare avanti di altri “due chilometri”. Certo si è trattato di
esplorare
un’ipotesi
dalla
quale
esco
con
qualche
sicurezza in più ma anche e soprattutto, con la
consapevolezza di quanto sia difficile essere sempre
coerenti con il paradigma che abbiamo esplorato. Come
dire che dalla teoria alla pratica ci passano le resistenze
culturali che intendono ancora il contributo professionale in
216
supporto ai genitori come prescrizione; la confusione dei
paradigmi e la conseguente incertezza degli stessi
educatori rispetto al proprio ruolo e alla propria specificità;
le nostre debolezze e fragilità come uomini e come
professionisti ma soprattutto la voglia di approfondire la
ricerca per REALIZZARE L’INCONTRO TRA EDUCAZIONE
NATURALE E PROFESSIONALE CHE, DOPO QUESTA
RIFLESSIONE, CREDO SIA NON SOLO AUSPICABILE MA
ANCHE POSSIBILE.
Non escludo che forse, domani, potrei trovarmi nella
condizione di dover ripensare e di dover tornare indietro di
qualche centinaio di metri rispetto a ciò che con questa tesi
è stato elaborato così come, analogamente, spesso la
stessa esperienza educativa ci richiede di dover tornare sui
nostri passi.
Ma oggi da qui voglio partire.
Grazie a tutti i bambini e genitori che “si sono lasciati
incontrare” perchè hanno attribuito un significato nuovo alla
mia professione.
217
Grazie a tutte le persone che mi hanno accompagnata
lungo il sentiero, standomi davanti per indicarmi le vie,
dietro per incoraggiarmi a seguirle. Grazie perchè mi
hanno offerto nuove possibilità.
218
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