L`EDUCAZIONE SI INCONTRA
Transcript
L`EDUCAZIONE SI INCONTRA
E.S.A.E. Scuola Regionale per Operatori Sociali P.zza Castello, 3 20121 MILANO L’EDUCAZIONE SI INCONTRA sentieri professionali a sostegno della genitorialità Relatore: Paola EGINARDO Allieva: Emanuela VALENTI Anno formativo 1999/00 In realtà[...]non esiste sforzo più valido e meritevole di quello orientato a prevenire e a ridurre la sofferenza umana. Cambiamenti sociali ed economici a parte, il sistema migliore di conseguire l’obiettivo non è forse quello di offrire ai bambini un’infanzia serena? E come si può essere sicuri di realizzarlo se non dando loro comprensione e sicurezza, famiglie libere da tensioni, con possibilità di crescere e di dispiegare appieno le proprie capacità?[...] L’ambizione fondamentale dell’uomo contemporaneo è quella di essere ragionevolmente felice e di avere la capacità e la propensione a creare un clima favorevole per se stesso e per gli altri. In questo senso la famiglia svolge un ruolo preminente.1 1 Slavson (1958), in Paola Milani, “PROGETTO GENITORI - Itinerari educativi in piccolo e grande gruppo”, Trento, 1994 - pag. 9 2 INDICE INTRODUZIONE ............................................................................ pag. 1 PRESENTAZIONE.......................................................................... pag. 6 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. - 1.6. 1.7. 1.8. - CAPITOLO I CULTURA, SOCIETÀ ED EDUCAZIONE: BISOGNI EMERGENTI E RISPOSTE NECESSARIE ........ PAG. 9 CULTURA, SOCIETÀ ED EDUCAZIONE: ELEMENTI DI UN SISTEMA................................................ pag. 12 EDUCARE ALLA STABILITA’ E AL CAMBIAMENTO...... pag. 16 INCULTURAZIONE E SALTO GENERAZIONALE............. pag. 19 BISOGNO DI RITROVARE I SIGNIFICATI ......................... pag. 26 UNA LETTURA SOCIOCULTURALE DEL MONDO OCCIDENTALE MODERNO................................................ pag. 29 1.5.a - Spazio urbano e cultura ........................................... pag. 30 1.5.b - Comunicazione e cultura........................................... pag. 32 1.5.c - I mezzi di comunicazione di massa........................... pag. 36 1.5.d - Relazioni virtuali....................................................... pag. 38 1.5.e - Tornare ad agire ...................................................... pag. 41 1.5.f - Esperti e narcisi........................................................ pag. 42 CENTRALITÀ DELLE RELAZIONI...................................... pag. 46 1.6.a - La pubblica affettività................................................ pag. 47 LA FAMIGLIA NELLA SOCIETÀ DELLE DIFFERENZE...................................................................... pag. 50 PER CONTINUARE............................................................ pag. 52 CAPITOLO II LA FAMIGLIA IN ITALIA ........ 2.1. - CENNI STORICI.................................................................. 2.1.a - Famiglia e parentela ................................................. 2.2. - LA FAMIGLIA EDUCANTE ................................................. 2.2.a - La nascita della cultura della maternità .................... 2.2.b - “Sterili per scelta, genitori ad ogni costo” ................. 2.3. - GLI ESPERTI E LA DELEGA EDUCATIVA ....................... 2.4. - GENITORI E FIGLI.............................................................. 2.5. - PER CONTINUARE............................................................. I PAG. 54 pag. 56 pag. 60 pag. 63 pag. 65 pag. 67 pag. 70 pag. 74 pag. 80 CAPITOLO III IL QUADRO LEGISLATIVO DI RIFERIMENTO ........ PAG. 86 3.1. - Legge 28 agosto 1997, n.285 “ Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”................................................................... pag. 87 3.2. - Legge Regionale 6 dicembre 1999, n. 23 “Politiche regionali per la famiglia”....................................................... pag. 93 CAPITOLO IV I SERVIZI A MILANO E HINTERLAND ........ PAG. 95 4.1. - MADRI E PADRI ................................................................. pag. 97 4.2. - I TEMPI PER LE FAMIGLIE A MILANO E HINTERLAND...................................................................... pag. 101 4.2.a - Esperienze e possibilità diverse................................ pag. 103 4.2.b - Finalità ed obiettivi dei Tempi per le Famiglie............ pag. 106 4.3. - COCCOLE E GIOCHI ......................................................... pag. 108 4.4. - CORSI PER GENITORI....................................................... pag. 112 4.4.a - Progetto Genitori....................................................... pag. 113 4.4.b - P.E.T. Parent Effectiveness Training......................... pag. 117 4.5. - PER CONTINUARE............................................................. pag. 119 5.1. 5.2. 5.3. 5.4. 5.5. 5.6. 5.7. - 5.8. 5.9. - CAPITOLO V LA PEDAGOGIA DELLA RELAZIONE E DELL’ESPERIENZA APERTE AL POSSIBILE ........ PAG. 122 FONDARE LA PEDAGOGIA COME SCIENZA................... pag. 126 LA RAZIONALITÀ DELL’ESPERIENZA EDUCATIVA........ pag. 131 ATTENERSI ALLA RELAZIONE......................................... pag. 135 L’ESPANSIONE DELL’ESPERIENZA................................. pag. 136 L’OGGETTO INTENZIONALE............................................ pag. 137 IL CAMBIAMENTO............................................................. pag. 140 SISTEMA COMUNICATIVO E SISTEMA PSICHICO.......... pag. 143 5.7.a - La teoria dei sistemi e la sua applicazione pedagogica................................................................ pag. 145 IL LINGUAGGIO EDUCATIVO............................................. pag. 152 RISPETTO, RESPONSABILITÀ E LIBERTÀ: VALORI ETICI E DATI IMPRESCINDIBILI........................... pag. 160 II CAPITOLO VI DALLA TEORIA ALLA PRATICA ........ PAG. 164 6.1. - OCCUPIAMOCI DI EDUCAZIONE........................................ pag. 165 6.2. - ENTRARE IN RELAZIONE PER TRATTARE LA RELAZIONE................................................................... pag. 172 6.2.a - Trattiamo la relazione. Quanto e quando esplicitarlo? .............................................................. pag. 174 6.3. - CONDIVIDERE LE ESPERIENZE....................................... pag. 178 6.4. - IL GRUPPO......................................................................... pag. 180 6.5. - IN SINTESI.......................................................................... pag. 181 6.6 TRACCE DI ESPERIENZA ................................................. pag. 182 Non toccate il mio giocattolo ................................................ pag. 183 Un’occasione persa ............................................................. pag. 187 Una mamma “in gamba” ....................................................... pag. 191 Stabilità e movimento ........................................................... pag. 195 Il dolce sapore della vita ...................................................... pag. 198 Provare ad attendere............................................................ pag. 200 Trasformare ......................................................................... pag. 201 6.7. - LE CONSULENZE PEDAGOGICHE: UNA POSSIBILITÀ’ ULTERIORE........................................ pag. 204 6.7.a - Due esempi per tutti................................................... pag. 208 L’unione fa la forza .................................................... pag. 208 Cambio di scena ........................................................ pag. 210 CAPITOLO VII CONCLUSIONI 7.1. - Imparare ad imparare........................................................... pag. 213 7.2. - Andiamo oltre ...................................................................... pag. 214 7.3. - Per continuare ..................................................................... pag. 217 BIBLIOGRAFIA.............................................................................. pag. 219 III INTRODUZIONE Ricordo che durante una lezione del primo anno una docente ci disse con insistenza che uno degli obiettivi del suo corso era quello di stimolare in noi una riflessione circa quelli che avrebbero potuto essere il nostro interesse ed il nostro orientamento professionale; essi sarebbero stati il frutto di una ricerca lunga, pressoché senza fine, che iniziava in quel momento. Allora non capii che cosa intendesse, perchè mi sembrava che il solo fatto di aver scelto la scuola e di avere già una serie di idee intorno al tema dell’educazione e del lavoro dell’educatore professionale fossero elementi già dati ed immutabili. Pensavo che avrei imparato delle nozioni precise, che mi sarebbero stati forniti strumenti tecnici e metodologici grazie ai quali sarei stata in grado di lavorare sicuramente con i minori “disadattati” o con gli handicappati. Ora, a distanza di più di tre anni, capisco a quale cammino di ricerca si riferisse e quanto questo cammino abbia aperto per me strade nuove. 1 Infatti non avrei mai creduto di approdare, per il tirocinio di terzo anno, in un servizio fino ad allora a me sconosciuto denominato Tempo per le Famiglie né, tanto meno, avrei immaginato che l’esperienza in quel servizio sarebbe diventata lo stimolo per scrivere una tesi su un tema a me oggi molto caro: il ruolo e la specificità dell’educatore professionale nei servizi educativi per il sostegno alla genitorialità. L’esperienza di tirocinio non solo mi ha permesso di scoprire un ambito professionale che non conoscevo affatto e che oggi mi appassiona, ma anche di intuire l’esistenza di livelli di complessità nuovi nel lavoro educativo con i genitori di bambini da zero a tre anni; livelli di complessità che sono diventati proprio l’oggetto di ricerca di questo lavoro e rispetto ai quali sento il profondo bisogno, professionale ma anche personale, di fare maggiore chiarezza. Ma quali sono questi nuovi livelli di complessità ai quali mi riferisco ? 2 La complessità sociale e culturale del nostro tempo e delle nostre città; la complessità crescente dei bisogni, vecchi e nuovi, della famiglia “educante” che si nutre di questo sociale e di questa cultura; la complessità che deriva dalla diffusione della cultura dell’infanzia e di modelli pedagogici differenti, se non addirittura contraddittori; la complessità della relazione genitore-figlio ma, soprattutto, la complessità della relazione tra l’educatore e la coppia genitore-figlio nel contesto dei servizi di prevenzione e supporto alla genitorialità. Questo lavoro vuole quindi essere una riflessione epistemologica e, insieme, una proposta metodologica precisa che risponda alla domanda: quale pedagogia e, di conseguenza, quale specificità per l’educatore che opera in questi servizi? La nostra proposta consiste nell’adesione al principio pedagogico generale dell’attenersi alla relazione. Ed aggiungiamo un dato ulteriore: l’educatore che opera per il supporto della relazione genitore-figlio non può attenersi solo alla propria relazione con l’adulto e/o con il 3 bambino ma deve utilizzare la propria relazione con la coppia per trattare la relazione tra la coppia. Trattare la relazione tra la coppia significa trovare in essa l’oggetto intenzionale del proprio lavoro quotidiano e della propria progettualità; significa che la relazione tra la coppia diventa il tema principale ed unificante, la lente attraverso la quale guardare a ciò che adulti e bambini portano nei servizi e a partire dalla quale progettare spazi ed esperienze da offrire a genitori e figli per ricercare significati e possibilità di azione nuovi. E ancora di più: non basta che l’educatore sappia condurre in modo professionale la propria relazione con gli utenti e che ne sappia parlare con loro; occorre che egli aiuti i genitori a riflettere, tematizzare, condurre e parlare della propria relazione educativa con i figli al fine di coglierne i significati più profondi che essi stessi potranno e vorranno darle e per sapersi muovere verso la sperimentazione di modalità autonome di risoluzione dei problemi quotidiani. L’educatore nei servizi che prenderemo in esame ha a propria disposizione uno strumento potentissimo in quanto autentico moltiplicatore delle possibilità. Stiamo parlando del gruppo dei genitori. Tra i compiti dell’educatore vi sarà 4 anche quello di valorizzare il sapere educativo degli adulti e di metterli nelle condizioni di farlo circolare all’interno del gruppo. L’esperienza fatta nei mesi di tirocinio e il lavoro di ricerca svolto per questa tesi mi hanno messa di fronte a non poche difficoltà proprio rispetto alla coerenza tra i principi e il metodo sopra delineati e la prassi quotidiana così ricca di “tranelli” che rischiano di far perdere proprio quella specificità educativa che intendiamo proporre. Anche questi pericoli saranno oggetto di indagine, insieme alle diverse rappresentazioni ed interpretazioni del lavoro educativo in questo settore. 5 PRESENTAZIONE Il vecchio e il nuovo convivono, si toccano, si contaminano e, a volte, si scontrano. Così l’educazione naturale e l’educazione professionale: la prima che, imprescindibile, continua ad esistere pur trasformandosi; la seconda che appare sullo scenario socioculturale faticando a trovare un proprio spazio ed una propria specificità. Non possiamo pensare che l’una soccomba omologandosi all’altra o sperare con nostalgia di non avere bisogno delle agenzie educative alle quali le famiglie delegano alcuni dei loro compiti. Ciò che i professionisti dell’educazione devono impegnarsi a promuovere è un INCONTRO tra le due che è possibile solo se si rintracciano, riconoscono e mantengono vive le differenze e le specificità di ognuna. Per questo motivo ho sentito l’esigenza di percorrere i sentieri professionali a sostegno della genitorialità per comprendere, dapprima, se e come sta cambiando il compito educativo dei genitori e, di conseguenza, quali la specificità, il valore aggiunto e le possibilità che l’educatore professionale può offrire. 6 Il percorso si snoda lungo sette capitoli: il primo offre uno sguardo antropologico sul mondo occidentale moderno, attraverso il quale esploriamo alcune caratteristiche delle nostre città da un punto di vista culturale e sociale per comprendere quale rapporto esista tra cultura ed educazione e come esse influiscono sulle relazioni sociali e familiari. Nel secondo guardiamo la famiglia urbana in Italia come fenomeno sociale immerso in questo contesto per identificarne i bisogni rispetto al proprio compito educativo. Il terzo capitolo contiene una lettura ed interpretazione del quadro legislativo di riferimento con particolare attenzione alla L. n. 285/97 che, riconoscendo e legittimando questi bisogni, fornisce le linee guida perchè si attivino servizi socio-educativi che contribuiscano a rispondervi. Nel quarto percorriamo alcuni progetti ed iniziative che hanno preso avvio grazie alla legge - con particolare attenzione ai Tempi per le Famiglie - ed altre esperienze di supporto alla funzione genitoriale che rappresentano, appunto, i luoghi e le possibilità di questo incontro. Il quinto capitolo vuole essere l’esplicitazione del paradigma pedagogico al quale, secondo noi, deve fare riferimento l’educatore che lavora in questi servizi per trovare la propria specificità. Nel sesto 7 decliniamo la teoria nel contesto dei servizi per il supporto alla genitorialità, proponendo anche qualche esempio pratico di applicazione. Con il settimo concludiamo il lavoro facendo qualche breve riflessione sul significato e le possibilità che questi servizi e, più in generale, l’educatore professionale che intenda lavorare con le famiglie possono offrire. 8 CAPITOLO I CULTURA, SOCIETÀ ED EDUCAZIONE: BISOGNI EMERGENTI E RISPOSTE NECESSARIE Il bisogno di esplorare il tema di questa tesi nasce, come scritto nell’introduzione, dall’esperienza vissuta nel Tempo per le Famiglie e non può prescindere da uno sguardo al contesto socioculturale che si presenta complesso, ricco di contraddizioni e difficile da interpretare. L’educazione, infatti, è strettamente legata all’ambiente in cui si svolge e allo scenario socioculturale che ne definiscono alcuni vincoli di significato verso i quali ogni interazione educativa ed ogni soggetto tende a ricondursi. L’assunto dal quale partiamo è che la famiglia, in quanto sistema aperto, si nutre del contesto socioculturale che la accoglie e, contemporaneamente, contribuisce a modificarlo. Inoltre crediamo che cultura, società ed educazione siano fortemente legate tra di loro e che a creare questo legame contribuisca certamente la famiglia “educante”. 9 Riteniamo poi che nonostante la diffusione della “cultura degli esperti” e la moltiplicazione delle forme, più o meno esplicite, di delega del compito educativo da parte della famiglia verso i servizi, essa è e rimane il primo luogo dell’educazione dei piccoli. I compiti ai quali è chiamata sono sempre più delicati ed articolati ma sono e rimangono compiti che le appartengono. Qualcuno sostiene che oggi i bambini e gli adolescenti vengono educati “dalla società” e dalla televisione, non dalla famiglia, dalle esperienze e dalle persone in carne ed ossa. Forse con questa affermazione ci si vuole ribellare e se così fosse siamo d’accordo - al sentire comune secondo il quale la famiglia è causa di tutti i mali della società proprio perchè colpevole e inadeguata nel suo compito educativo. Ma se veramente il senso di questa affermazione è quello di trovare un “colpevole”, significherebbe scaricare le responsabilità su un’entità astratta e impersonale (la società appunto) per sentirci tutti vittime scagionate di un carnefice inattaccabile perchè non identificabile. Ma attribuire colpe a destra e a manca non serve a nessuno, non ci aiuta a comprendere i problemi e a pensare a come risolverli. Lungi da noi pensare che la 10 famiglia o la società abbiano delle colpe o stiano scaricando il barile, crediamo invece che la famiglia non voglia affatto rinunciare alle proprie responsabilità e che, nel volersene prendere carico, esprima dei bisogni. Il semplice fatto di intuire l’esistenza di tali bisogni ci “costringe” a farli oggetto di riflessione. L’obiettivo di questo capitolo è dunque quello di provare a tratteggiare alcune caratteristiche socioculturali del nostro tempo per capire come esse influiscono sulla famiglia contemporanea in Italia (specialmente quella delle città del Nord che rappresentano il mio contesto di vita e di lavoro) rispetto alle proprie relazioni interne ed esterne e, soprattutto, al proprio compito educativo. Faremo ricorso ad alcune riflessioni di carattere antropologico che ci possono aiutare ad individuare i processi di mutamento che investono la nostra società ed a interpretare le trasformazioni culturali che stiamo vivendo. Il quadro che tratteggeremo non è certamente univoco e non ha pretese di esaurire l’argomento ma crediamo di poter affermare che le famiglie di oggi stanno chiedendo aiuto anche se, non sempre, la domanda è chiara ed 11 esplicita. Basta pensare alla grande quantità di servizi che sono nati e continuano a sorgere, almeno in Lombardia, in seguito all’emanazione della L. n. 285/97; è sufficiente visitare una libreria ben fornita per notare la grande quantità di testi pubblicati ed esposti sul tema dell’educazione dei bambini; pensiamo inoltre alle forme di associazionismo delle famiglie che si aiutano reciprocamente nel loro compito di crescita dei figli. Questi sono, secondo noi, segnali dell’esistenza di un bisogno reale, che spetta anche a chi si occupa professionalmente di educazione contribuire a soddisfare. 1.1. - CULTURA, SOCIETÀ ED EDUCAZIONE: ELEMENTI DI UN SISTEMA In questo paragrafo cerchiamo di capire meglio cosa intendiamo per cultura, società ed educazione e se esiste una relazione sistemica tra questi elementi. 12 Matilde Callari Galli2 ci ricorda che già due secoli fa JeanJacques Rousseau aveva intuito che occorre porre una chiara distinzione tra i termini “società” e “cultura”. La prima è un autentico prodotto dell’uomo e riguarda il rapporto che gli individui stabiliscono tra di loro; la seconda, invece, è ciò che determina il passaggio da uomo “animale” a uomo “sociale” dal momento che sta alle origini di questo rapporto o legame tra persone. La cultura, dunque, rappresenta l’insieme dei significati che ogni uomo attribuisce al proprio stare nel mondo e al proprio relazionarsi ad esso mentre la società è qualche cosa che serve agli uomini per aggregarsi attorno a questo impianto di significati in qualche misura preesistente. L’educazione ha a che fare con un tipo particolare di rapporto sociale: quello che coinvolge una persona che voglia insegnare ed un’altra che voglia imparare da chi insegna. E questo rapporto “ha significato perchè c’è sempre una antropologia che agisce da significante.”3 Non esiste soluzione di continuità tra stato di natura e di cultura; non è detto che una potenzialità 2 Matilde Callari Galli, “Antropologia culturale e processi educativi”, La nuova Italia, Scandicci (FI), 1993 13 biologica (natura) diventi attuale (cultura): c’è di mezzo l’educazione. Abbiamo visto che cultura, società ed educazione non devono essere sovrapposte; ora dobbiamo andare oltre per capire come esse si intrecciano e si contaminano nel processo educativo. Piero Bertolini4 ci viene in aiuto scrivendo che una delle caratteristiche fondamentali dell’interazione educativa è quella di essere una relazione sistemica all’interno della quale entrano in gioco vari elementi in stretta correlazione tra di loro. Primo tra tutti è l’individuo inteso come singolo o come gruppo; secondo è la comunità sociale con le persone e le istituzioni che hanno, più o meno consapevolmente, una funzione educativa; terzo è il patrimonio culturale cui la comunità sociale fa costruendo. riferimento e, Quest’ultimo contemporaneamente, rappresenta il sapere, va le abitudini, le credenze, i valori ed un insieme di significati che, seppure inevitabilmente aperti ai cambiamenti, si pongono come materiale oggettivo (non vero e assoluto) e 3 Matilde Callari Galli, Ibidem, pag. 48 14 oggettivante con il quale l’educazione deve fare i conti. Per esempio nella famiglia i figli rappresentano l’individuo; i genitori la società educante; la cultura è l’insieme di contenuti educativi e di valori presenti nel nucleo famigliare. Complessivamente possiamo concludere questo paragrafo dicendo che, secondo il punto di vista che proponiamo, il “sociale”, se considerato in senso astratto e come elemento a sé stante, non educa perchè esso è il risultato di un intreccio di legami che le persone creano a partire dalla cultura, ovvero dall’orizzonte complessivo dei significati che questo sociale rappresenta, perpetua e, nello spesso tempo, reinterpreta. Nemmeno il “culturale” educa perchè gli occorre un sociale che lo incarni. L’educazione è un fenomeno sistemico che ha bisogno di contenuti culturali e strutture sociali dai quali è fortemente influenzata ma che, contemporaneamente, contribuisce a modificare. Essa infatti ha un compito particolare: non solo garantisce la trasmissione della cultura; non solo consolida 4 Piero Bertolini, “L’esistere pedagogico”, La Nuova Italia, Scandicci (FI), 1990. 15 le forme di aggregazione sociale ma anche, e soprattutto, contribuisce all’evoluzione di entrambe. Come scrive la Callari Galli la cultura “si afferma, si nega, muta, nel rapporto trasmissione educativo.” intergenerazionale, culturale, nella cioè nel processo 5 1.2. - EDUCARE ALLA STABILITA’ E AL CAMBIAMENTO Per comprendere i processi di trasmissione culturale sia nella direzione del cambiamento che della stabilità, occorre addentrarsi in quelli educativi. Infatti la Callari Galli scrive che uno dei principali motivi per i quali l’antropologia non è sempre riuscita a venire in aiuto all’educazione consiste nel fatto che spesso essa si è incentrata sulla comprensione del risultato che una certa educazione produce, cioè dei comportamenti emessi quando una cultura è già stata introiettata. L’attenzione è stata posta sul prodotto finito e non sui processi educativi che vi sottostanno e che sono necessari per produrlo. 5 M. Callari Galli, op. cit., pag. 169 16 Comprendere i processi educativi non significa solo capire cosa deve fare e cosa fa l’adulto educatore (processi di insegnamento): significa soprattutto capire cosa fa e di che cosa ha bisogno il soggetto che sta imparando (processi di apprendimento) e perchè un bambino impara certe cose e non altre, come elabora ciò che ha imparato e come lo modifica. Ci sembra importante, a questo proposito, citare Ruth Benedict, che già nel 1940 cercò di formulare una classificazione dei ruoli che l’educazione è chiamata a svolgere e che si riconducono all’azione di trasmettere, preparare ma anche trasformare. L’educazione non è quindi “merce prodotta” ma “produzione di cultura.”6 Igor Salomone7 ci dice che la trasmissione culturale, ovvero il bisogno di tramandare da una generazione all’altra ciò che si è imparato, è una delle caratteristiche fondamentali dell’esperienza umana ed uno dei compiti principali dell’educazione. Rispetto al passato remoto il contesto socioculturale moderno si è estremamente complessificato e, di conseguenza, si sono complessificati i 6 Matilde Callari Galli, Ibidem, pag. 97 17 bisogni ai quali l’educazione deve rispondere. La nostra società tecnologica è pedagogicamente superiore rispetto a quella di tremila anni fa per quel che riguarda la varietà degli strumenti e dei metodi educativi, la specializzazione dei contesti, la varietà dei compiti dovuta alla crescita dei saperi e del numero dei soggetti ai quali tali saperi devono essere trasmessi. Ma i problemi educativi di fondo che vanno affrontati sono sostanzialmente gli stessi del passato: aiutare le persone a crescere sane e a mantenersi tali, addestrarle ai compiti socialmente utili ma anche aiutarle a scegliere quali di questi compiti preferiscono svolgere, trasmettere i saperi acquisiti ma anche le domande aperte, ottenere il rispetto delle regole ma anche garantire un margine di flessibilità per affrontare gli imprevisti. Complessivamente l’educazione deve garantire una certa stabilità culturale che mantenga gli equilibri raggiunti e, contemporaneamente, stimolare la trasformazione. Ogni cultura deve cercare di rimanere uguale a se stessa ma anche di cambiare per non soccombere. L’educazione, 7 Igor Salomone, “Il setting pedagogico - Vincoli e possibilità per l’interazione educativa”, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997 18 quindi, non è un processo di semplice integrazione sociale, non è una “merce prodotta”; non è nemmeno un processo di emancipazione e di controcultura perchè essa ha a che fare sia con l’integrazione e lo sviluppo della dipendenza dell’individuo dalla società, sia con la crescita della sua autonomia. Ogni uomo deve appartenere alla propria cultura dalla quale dipende la sua identità e attraverso la quale contribuisce a creare quella collettiva; nello steso tempo deve prenderne le distanze. Se l’educazione integrasse e basta sarebbe inefficace. Se sovvertisse il mondo ne sarebbe espulsa perchè il mondo vuole sopravvivere. L’educazione insegna a mantenere la cultura ma anche a trasformarla e non può fare a meno di mantenere vivo questo paradosso: continuità che permetta il cambiamento senza pregiudicare l’identità. 1.3. - INCULTURAZIONE E SALTO GENERAZIONALE Per comprendere meglio come i processi educativi possono garantire sia la stabilità che il cambiamento culturale da un lato, e quale rapporto vi sia tra la 19 trasmissione della cultura e i vertiginosi mutamenti sociali dall’altro, facciamo ricorso ad alcune interpretazioni del concetto antropologico di “inculturazione”. Abbiamo detto che per comprendere i processi di trasformazione culturale occorre addentrarsi in quelli educativi per rendersi conto che un bambino impara solo alcune delle cose che gli adulti cercano di insegnargli e che le cose imparate assumono inevitabilmente forme diverse rispetto a quelle che avevano per il maestro. Questa trasformazione, queste differenze hanno a che fare sia con la sfera dei significati che chi impara attribuisce a ciò che gli viene insegnato (pur sempre all’interno di un orizzonte, più o meno condiviso, più o meno esplicito di sensi comuni in movimento) che, come cercheremo di dimostrare, con il cambiamento sociale, cioè con il cambiamento del modo con cui le persone si aggregano, si organizzano, producono e comunicano. Fenomeno, quest’ultimo, che caratterizza fortemente il mondo di oggi sia per la velocità con cui avviene che per le dimensioni che lo caratterizzano e che, pertanto, deve essere preso in considerazione nella nostra analisi. 20 L’inculturazione era definita dall’antropologia tradizionale come programma di insegnamento conscio ed inconscio attraverso il quale le generazioni più vecchie inducevano le più giovani ad interiorizzare valori, atteggiamenti e comportamenti appartenenti alla cultura del gruppo. L’inculturazione ricostruiva, ad opera dell’educatore, la stessa immagine della cultura nella personalità dell’individuo. Era intesa, inoltre, come processo educativo unidirezionale dell’anziano verso il giovane il quale, attraverso un sistema di punizioni e premi, esercitava un controllo su quest’ultimo. Questo modo di intendere l’inculturazione attribuiva all’educazione il compito sostanziale di garantire stabilità culturale; l’educazione, inoltre, era intesa come un processo sostanzialmente consapevole e programmabile, i cui esiti sarebbero prevedibili. Una seconda definizione interpretava il processo di inculturazione evidenziandone soprattutto gli aspetti inconsci, pur continuando a considerarla come fenomeno che garantisce la stabilità culturale. Essa partiva dal presupposto che le nuove generazioni sono “programmate” per replicare il comportamento delle generazioni anziane e 21 per “replicare le repliche”. Per chiarire questo concetto la Callari Galli8 spiega che l’inculturazione, secondo questa seconda definizione, non deve solo trasmettere i modelli di comportamento (cultura) ma anche i modelli di interazione di tali comportamenti a livello di stratificazione sociale mantenendo la reciproca dipendenza tra strati. La cultura trasferisce, quindi, anche società e, ancora di più, trasferisce ideologia che, secondo questa visione, è la variabile indipendente dalla cui trasformazione dipendono le trasformazioni di altre variabili o comportamenti. I comportamento esteriori nascondono modelli di stratificazione sociale, cioè ideologie e valori che vanno ben al di là dei comportamenti in sé e dell’insegnamento cosciente. Proseguiamo l’inculturazione, nel ragionamento intesa come per capire processo se conscio (assumendo la prima definizione) o inconscio (stando alla seconda) ma comunque proteso a mantenere la stabilità culturale, può esserci ancora di aiuto per comprendere come mai oggi esistano differenze culturali così marcate tra le generazioni e come il processo educativo di 8 M. Callari Galli, op. cit.. 22 inculturazione possa spiegarle. La Callari Galli scrive: “Gli scambi continui e imprevedibili, che avvengono nella società fondati su contatti contemporanea, reali e virtuali,[...]pongono su basi nuove il tema dell’inculturazione: oggi siamo sempre più convinti che il repertorio comportamentale di qualunque condizioni spiegato gruppo del tutto inculturazione”9. comportamentali umano, mondo, e solo Infatti vengono non in oggi, nelle possa attuali essere termini nuovi continuamente di modelli aggiunti al patrimonio della cultura e i modelli vecchi non vengono ripetuti fedelmente. Che cosa determina la ripetizione infedele dei vecchi modelli e l’adozione di nuovi? Sono le condizioni sociali? Sono i modelli educativi? L’educazione dovrà essere programmata perchè il giovane si muova verso il nuovo o verso la tradizione? E se l’educazione può essere programmata, l’inculturazione continuerà ad essere principalmente un processo inconscio o le scienze 9 Ibidem, pag. 188 23 dell’educazione lo hanno reso in gran parte conscio, in un certo senso, deformandolo? La Callari Galli riflette sul significato che l’interpretazione tradizionale del concetto di inculturazione può avere oggi rispetto all’attuale problema del conflitto generazionale che pare così vicino al vivere quotidiano che, in futuro, le differenze culturali si potranno esprimere proprio in termini di generazioni. Il problema, secondo l’antropologa, non consiste nel fatto che i genitori non sono più in grado di essere guide per i figli ma che la guida in sé è scomparsa. Se è vero che i vecchi non sanno ciò che sanno i giovani e non serve che ciò che sanno i vecchi venga insegnato ai giovani, il concetto tradizionale di inculturazione viene messo in crisi perchè, ammettendo che essa servisse a spiegare la continuità culturale tra le generazioni, non potrebbe spiegare il salto generazionale. Inoltre pare che i genitori non abbiano appreso come indurre i figli a replicare i loro modelli: il che equivale a dire che i nonni non sono stati a loro volta capaci di insegnare ai genitori di oggi a replicarli. Quindi l’inculturazione non spiegherebbe più nulla perchè non solo non sarebbe in grado di trasferire contenuti in modo consapevole, ma nemmeno di replicare 24 le repliche in modo inconscio. Ma qui l’antropologa trova un errore. Se ci chiediamo solo perchè e come le cose sono cambiate e non ci chiediamo perchè e come altre cose non sono cambiate non usciamo dal loop. Se continuiamo a pensare che l’inculturazione serve solo a conservare la cultura non impariamo nulla. Infatti vogliamo assumere che l’inculturazione è produttrice di inconscio e, facendolo, dobbiamo aspettarci che essa continui ad esistere e funzionare anche, se non soprattutto, per l’evoluzione e non solo per la stabilità culturale. Secondo l’ipotesi della Callari Galli “l’inculturazione[...]è incapace di spiegare alcunché se è vista solo come cultura[...] acquisizione e l’inculturazione se sono cosciente la della cultura staccate e dalla società.”10 Evoluzione e continuità non hanno a che fare tanto con la cultura quanto con il sociale che determina appunto evoluzione o continuità in funzione della presenza o meno del rapporto di integrazione. L’inculturazione ha a che fare con l’inconscio, con l’ideologia ma anche con il sociale 10 Ibidem, pag. 191 25 inteso come reciproca dipendenza che lega gli individui di un gruppo. Così, di fronte alla continuità di modelli e valori trasmessi dall’inculturazione, assistiamo anche all’evoluzione di comportamenti proprio di fronte ad una società che cambia e che richiede di comportarsi sempre in modo differente a seconda delle situazioni. 1.4. - BISOGNO DI RITROVARE I SIGNIFICATI Al di là del significato socio-politico che chi legge può dare a questo modo di intendere l’inculturazione, ciò che ci importa sottolineare è che l’educazione è un processo che contiene in sé sia elementi di consapevolezza che inconsci e che essa ha a che fare con la continuità e con la trasformazione socioculturale. L’educazione ha sempre un significato e l’agente educativo ne è insieme conscio e inconscio: conscia è l’intenzione di insegnare qualche cosa; inconscio, o meglio implicito, può essere il senso, il perchè si voglia insegnare quella tal cosa dal momento che l’educatore potrebbe a sua volta aver appreso quel comportamento in modo poco consapevole 26 quando era bambino. Il tutto è reso più complesso da un sistema sociale in continua e rapida evoluzione che mette in crisi contenuti culturali e modelli comportamentali dal momento che essi sono sempre più difficilmente spendibili in un futuro molto prossimo. Ma soprattutto ciò che viene messo in crisi è il sistema dei significati soggettivi e intersoggettivi. Non solo oggi siamo perplessi, e nello stesso tempo entusiasti, di fronte al fatto che non serve più imparare a compilare un bollettino postale perchè c’è Internet che ci permette di risparmiare tempo e denaro, togliendoci pure dall’imbarazzo di dover vedere in faccia quei signori dietro gli sportelli spesso così antipatici quanto tristi. Ma ancora di più siamo disorientati se ci domandiamo che senso ha che l’ufficio postale continui ad esistere con le sue lunghe code, gli impiegati dietro i vetri e le montagne di carta che si intravedono negli uffici. E noi che, qualche volta e senza sapere bene perchè, preferiamo continuare a far la coda pur di avere un contatto, seppure minimo, con quel signore dietro lo sportello che magari oggi ci concederà un sorriso. 27 Come scrive Igor Salomone11, il problema consiste nel domandarsi che senso hanno le mille opportunità che il mondo di oggi ci offre; domandarci se e come vogliamo utilizzarle e quali di queste possono aggiungere valore al nostro stare nel mondo e relazionarci con esso. Ognuno di noi è chiamato, oggi più che mai, ad interrogarsi in prima persona sul significato della propria esistenza e della propria relazione con eventi e persone che incontriamo in un mondo così fatto. Siamo chiamati ogni giorno a scegliere come muoverci, con chi camminare e condividere i momenti della vita, come comportarci, come confonderci o come distinguerci, perchè nessuno ci sa dire che cosa sia veramente buono o certamente cattivo per noi. E tutte queste scelte diventano sempre più soggettive, dipendono sempre di più dalla responsabilità individuale, dal significato che ognuno di noi attribuisce ad esse e dal valore che diamo loro, per noi stessi e per le persone che amiamo. E’ proprio la sensazione che questo universo di significati vada rivisitato, riletto e reinterpretato che ci mette nelle condizioni di ragionare attorno al senso dell’educazione e alle possibilità che un evento educativo 11 Igor Salomone, op. cit.. 28 pedagogicamente fondato può e deve offrire. Come scrive Bertolini “compito dell’educazione consiste nel saper[...]condurre l’uomo alla consapevole conquista renderlo della sua cosciente umanità, del suo ossia nel significato e quindi del suo valore, ma anche dei limiti e dei rischi di caduta che gli appartengono[...]”.12 1.5. - UNA LETTURA SOCIOCULTURALE DEL MONDO OCCIDENTALE MODERNO Abbiamo cercato di dimostrare, attraverso i contributi teorici sinora considerati, che esiste un rapporto molto stretto tra i cambiamenti sociali e quelli culturali e che l’educazione non può non misurarsi con essi. Ora, facendo ricorso ad alcuni studi antropologici, proviamo ad addentrarci nella cultura delle nostre città per evidenziarne gli aspetti che maggiormente le caratterizzano e che ci 12 Piero Bertolini, op. cit., pag. 12 29 aiutano a capire quale tipo di famiglia educante abbiamo di fronte oggi e di quali bisogni potrebbe essere portatrice. 1.5.a - Spazio urbano e cultura Uno dei concetti fondamentali dell’antropologia urbana è la centralità del rapporto tra spazio e cultura. Se parliamo di spazio urbano non possiamo non osservare come esso influenzi, per la sua vastità e configurazione, il comportamento dei suoi abitanti i cui rapporti interpersonali assumono dimensioni ridotte rispetto a quelli delle comunità tradizionali. Le nostre città sono sempre più grandi, sempre più articolate, sempre più popolose e ricche di differenze culturali e sociali che vivono l’una affianco all’altra. La Callari Galli13 descrive le nostre città come luoghi che raccolgono ed esibiscono tutta la complessità della nostra società: occasione di venire in contatto con mille informazioni ed opportunità ma anche di contattare il silenzio, la solitudine e la povertà; possibilità di incontro tra gruppi diversi ma anche luogo di inimicizie e 30 violenza. La città è una grande occasione educante ma anche dilapidazione di un patrimonio passato e di crescita caotica; occasione di diffusione di modelli culturali di uguaglianza ma, al contempo, luogo di esclusione e di separazione. La sicurezza viene cercata tra le mura di casa che si presenta però subito noiosa e gonfia di solitudine, priva di altri bambini o altri adulti con cui giocare o parlare. Nonostante la complessità, il movimento frettoloso della nostra società e della nostra cultura “cerchiamo stabilità di giudizi, fedeltà di rapporti, coerenza degli atteggiamenti, unicità nelle scelte[...]”.14 Possiamo pensare, secondo il nostro ragionamento, che i giudizi e le scelte di cui parla l’antropologa abbiano a che fare con il bisogno di unità di senso e di orientamento? Cosa ce ne facciamo delle informazioni e delle opportunità? E questo dilemma coinvolge ognuno di noi come individuo, come essere sociale e, ancora di più, come genitore. 13 14 M. Callari Galli, op. cit.. M. Callari Galli, Ibidem, pag. 220 31 1.5.b - Comunicazione e cultura Anche le forme di comunicazione dominanti di una società influenzano la cultura, lo stile generale di vita e i processi educativi. La nostra è una società tecnologica e i diversi linguaggi presenti possono essere considerati anche essi apparati tecnologici che hanno implicazioni educative. Gli storici della comunicazione e gli antropologi hanno analizzato gli apparati linguistici presenti nella società moderna occidentale, mettendo a confronto la cultura analfabeta e quella istruita, che vengono definite rispettivamente cultura orale e cultura scritta. La cultura orale ha le caratteristiche del rapporto diretto e del coinvolgimento dei gruppi. Insegnamento e apprendimento viaggiano sui binari della parola, della vicinanza fisica, del comportamento direttamente osservabile. Il rapporto tra le generazioni è improntato sull’autorità e sul rispetto degli adulti che sono depositari della conoscenza e della verità. La parola è preziosa perchè carica di sentimenti ed emozioni che animano il rapporto comunicativo; essa, in quanto ripetuta affinché rimanga nella memoria, porta a strutturare persone che 32 tendono all’omologazione e al conformismo. L’individuo e il gruppo sono coinvolti mente e corpo nei rapporti di integrazione sociale. La cultura scritta, la cui nascita all’invenzione della stampa, è viene ricondotta caratterizzata dalla distanza. Tramite la stampa si mette in moto il processo che isola la conoscenza dell’individuo da quella del suo gruppo di appartenenza: si apprende in solitudine, ci si distacca dagli altri e ci si collega, solo mentalmente, ad autori di giornali e libri distanti nel tempo e nello spazio. Il coinvolgimento fisico ed emotivo spariscono. Con la scrittura nasce il pensiero sequenziale, lineare. Nasce l’ideologia dei mezzi di comunicazione di massa che devono essere impersonali e neutrali. Se confrontiamo i due modelli emerge chiaramente che alla parola scritta manca un fattore importante: il tono, l’inflessione che, potenzialmente, le possono conferire significati opposti. Mentre imparando ad usare opportunamente la parola orale le persone raggiungono un alto grado di estrinsecazione emotiva e personale, al contrario, chi è educato alla parola scritta, 33 potenzia il pensiero intellettuale ma esprime conformismo del comportamento emotivo e nel temperamento. Anche le interpretazioni dello spazio e del tempo sono diverse nelle due culture: lo spazio dell’alfabetizzato è rettilineo, le case distinguono i luoghi di lavoro da quelli familiari e sociali; i tempi, di conseguenza, sono spesi in successione e non comunicano tra di loro. Il ghetto dell’analfabeta è uno spazio temporale completamente diverso: case e strada sono un tutt’uno, vita pubblica e privata non sono divise e tutto confluisce in una dimensione globale di spazi e tempi. Le strutture familiari dei non alfabetizzati sono allargate e coinvolgono finti parenti, amici, vicini e conoscenti. Agli alfabetizzati questo appare caotico, irrazionale e forse inutile. Ma al non alfabetizzato questi legami servono per sopravvivere, per tessere rapporti economici e significati esistenziali. Questa suddivisione tra codici della parola scritta ed orale può sembrare una forzatura, nel senso che gli alfabetizzati possono anche comunicare prima oralmente per poi scrivere ciò che hanno detto. L’istruito è come se possedesse entrambi i codici e il non istruito ne possiede 34 solo uno. Ma il codice della parola scritta non è quello della parola orale più una parte, così come il codice della parola orale non è un codice a cui manca qualche cosa (il segno grafico). Ai due codici corrispondono due mondi: il mondo essenzialmente visivo dell’istruito e quello essenzialmente sonoro del non istruito. Il mondo visivo separa pensiero da azione, è meccanico e causale; quello sonoro ritiene che il pensiero sia già azione, è simpatetico ed emotivo. La cultura istruita vive nel futuro mentre il presente è tempo indifferente. La cultura non istruita si focalizza sul presente che diventa immutabile. La cultura scritta vede nell’uomo colto colui che può decifrare e codificare il sapere, un sapere fatto di grandi concetti ordinati gerarchicamente e di importanti concetti-incrocio. E l’educazione deve insegnare questi grandi concetti per tappe successive dal più semplice al più complesso, legandoli secondo una sequenza logica e lineare. Il codice a cui siamo abituati da piccoli ci fa percepire il mondo tutto in un modo o tutto nell’altro e la realtà che costruiamo tenderà a ripetere la prospettiva a cui siamo stati abituati facendocela sembrare unica, vera, necessaria e naturale. 35 1.5.c - I mezzi di comunicazione di massa Abbiamo accennato sopra all’ideologia dei mezzi di comunicazione di massa come ad una delle caratteristiche della nostra cultura alfabetizzata. Il fenomeno va attentamente osservato perchè oggi è estremamente radicato e diffuso ma, dal punto di vista della storia dell’uomo, è un tema nuovo le cui implicazioni educative e culturali non sono ancora del tutto esplorabili. La moltiplicazione dei mezzi di informazione, l’accelerazione delle conoscenze, la specializzazione e la frammentazione del sapere, hanno rotto l’unitarietà del modello di apprendimento-insegnamento logico e gerarchicamente ordinato mettendo in discussione il rapporto tra insegnamento e apprendimento. Chi insegna cosa, e dove? Quante cose si imparano fuori dall’aula scolastica? Che cosa è importante sapere? La televisione, i giornali, i vicini, tutti ci bombardano di informazioni che non sono più legate ad un sistema di conoscenze organico ma piuttosto alla nostra storia, al nostro vissuto, ai nostri bisogni immediati ed occasionali. La nostra è una cultura aleatoria che giunge attraverso i mezzi di comunicazione di massa e 36 le informazioni ci colpiscono in modo frammentario e superficiale, escludendo ogni sforzo di analisi critica e censura selettiva. In noi è operante un paradosso: vogliamo raccogliere un numero sempre maggiore di informazioni, ma poi non troviamo più il senso che hanno per noi, perchè non riusciamo a trasformarle in comunicazione. L’invasione della TV ha modificato anche i modi della convivenza con i nostri familiari, con gli amici, con la lettura e con noi stessi. I nostri bambini hanno cambiato abitudini nella scansione dei tempi, nella motricità, nell’uso e nella conoscenza dello spazio e degli oggetti. I bambini che guardano la televisione vedono immagini di luoghi ed oggetti di cui non hanno esperienza reale alla quale dell’esperienza ricollegarle. diretta quale Senza livello la di mediazione conoscenza producono le immagini della televisione? Cosa avviene nel rapporto tra immaginario e reale quando potenziamo il primo e riduciamo il secondo? Guardare la televisione ci allena a ricevere stimoli in modo passivo, silenzioso, senza selezione mentre sappiamo quanto per la crescita di un bambino siano essenziali le dimensioni dell’esperienza 37 reale dello spazio e degli oggetti, del loro dominio e manipolazione. Secondo questa interpretazione diventa proprio un compito dei genitori e delle istituzioni con funzione educativa accompagnare i bambini nel difficile passaggio dall’informazione alla comunicazione, il che equivale a dire attribuire senso a ciò che vediamo e sentiamo dal momento che, di fatto, i mezzi di comunicazione di massa esistono e ci invadono sin dalla più tenera età. Occorre che qualcuno ci aiuti ad organizzare e rielaborare le informazioni in unità di senso che valgano per noi, a dare valore a ciò che sperimentiamo, viviamo ed immaginiamo. 1.5.d - Relazioni virtuali Da quanto abbiamo detto fino ad ora emerge che una delle caratteristiche del nostro mondo è quella di essere virtuale. Igor Salomone15 scrive che oggi il problema principale è quello di discernere tra ciò che è reale e ciò che è immaginario. Forse il problema più scottante consiste nel 38 fatto che virtuali non sono solo le immagini della televisione ma anche le relazioni che sono mediate sempre di più dai telefoni cellulari, da Internet, dalla Play Station. Sono strumenti, questi, potentissimi che ci permettono di metterci in contatto in tempo reale con persone lontanissime da noi. Quello che ci domandiamo è se veramente possiamo parlare di contatto e, quando anche decidessimo di chiamarlo così, non possiamo non accorgerci che esso da un lato ci permette, dall’altro ci costringe, a mettere in campo solo alcune parti di noi. Il punto è domandarsi se queste relazioni sono vere o false e che cosa mettiamo in esse: emozioni, affetti, pensieri? A questo proposito ricordo di aver ascoltato alla televisione l’intervista del Dott. Vittorino Andreoli, psichiatra che si pronunciava rispetto all’uso sempre più diffuso della Play Station tra i bambini e i giovani. Egli sosteneva che il gioco può procurare intense emozioni, mai relazioni affettive. Il mondo che propone è un mondo ordinato e colorato mentre quello vero è disordinato e sbiadito. Non potrebbe essere che il contatto con questo mondo virtuale ci renda poi inaccettabile il mondo reale al punto da volerlo fuggire? 15 Igor Salomone, op. cit.. 39 E allora su che cosa poggia l’educazione dal momento che non abbiamo più certezze di valori e verità scientifiche? Forse l’educazione oggi deve insegnare a convivere con l’incertezza e la precarietà delle spiegazioni e deve insegnare a significare ciò che, ad una velocità stratosferica, ci passa sotto gli occhi lasciando tracce non sempre identificabili. Dobbiamo saperlo usare questo mondo ma dobbiamo anche smettere di fantasticare e sincronizzarci sul nostro presente, qui, ora, nell’esperienza che viviamo e con le persone in carne ed ossa con le quali viviamo. La struttura profonda di ogni interazione educativa è infatti la sua concretezza, ciò che significa qui ed ora per me e te che la viviamo. Dobbiamo imparare a domandarci che senso hanno le cose per noi: questo è il bisogno profondo della nostra cultura, che è un universo ricchissimo di significati difficilmente riconducibile alla nostra esistenza e che rischia di non essere interpretabile. 1.5.e - Tornare ad agire 40 Forse la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e il dilagare delle “relazioni virtuali” hanno finito per atrofizzare la nostra capacità di agire. Dobbiamo sincronizzarci sul tempo presente e sulla concretezza del mondo reale per tornare ad essere protagonisti delle nostre azioni. La Callari Galli,16 a questo proposito, scrive che gli interventi educativi devono proprio stimolare la capacità di agire in quanto essa è il potere umano di generare il nuovo, di muovere nuovi processi attraverso la rete delle relazioni umane. Richiede coraggio perchè, una volta iniziato, il processo può avere sbocchi casuali ed imprevedibili, così come casuali ed imprevedibili sono le ramificazioni delle nostre relazioni; ma per noi che ne siamo i protagonisti hanno un senso ed una finalità. Essere attori di relazioni umane restituisce senso e significato al nostro agire; essere spettatori dei mezzi di comunicazione di massa ci rende passivi, omogenei e nega ogni senso, ci rende alienati perchè ci fa sentire strumenti di forze esterne alla rete delle nostre relazioni. Il 16 Matilde Callari Galli, op. cit.. 41 primo requisito di un progetto comunitario è che ogni persona sia responsabile delle proprie azioni e delle conseguenze di tali azioni. Ma se le persone non sono chiamate ad agire, se la società appare il risultato di forze impersonali e potenti quasi come quelle della natura, cercare un senso di ciò che succede non serve. I conflitti non si svolgono faccia a faccia e nessuno è più responsabile di nulla (che equivale a dire: è tutta colpa della società). 1.5.f - Esperti e narcisi Tra le conseguenze della progressiva perdita della capacità di agire vi è la sempre maggiore dipendenza dagli altri per molti aspetti della nostra vita lavorativa e privata. Questi “altri”, scrive la Callari Galli17, sono sempre di più gli esperti: ricorriamo a loro per risolvere problemi legati ai rapporti affettivi e di coppia, all’educazione dei figli e le nostre azioni non sono più motivate da scelte e riflessioni 17 Ibidem 42 personali ma risultano in gran parte eterodirette. Anche se molte madri e padri seguono i modelli educativi dei propri genitori replicando le repliche, la miriade di messaggi degli esperti della TV (per lo più ricchissimi di contraddizioni) mettono per lo meno in dubbio le scelte personali col rischio di mandarli in confusione. Così la vita familiare è imbevuta di insicurezze come quella lavorativa; c’è un continuo distacco tra ciò che si fa e ciò che gli altri dicono si dovrebbe fare. L’interesse per il sé si radica sempre di più nel dubbio, si perde fiducia nella propria autorità e nel proprio vissuto e si cerca la conferma di sé e la soddisfazione nei consumi più svariati. L’interesse narcisistico è anche alimentato dalla sfiducia nelle istituzioni che non sono in grado di soddisfare i bisogni dell’individuo. Siamo sospettosi nei confronti dell’intera società e la nostra insoddisfazione non si trasforma in un desiderio di trasformazione sociale ma in un ritirarsi in se stessi, in ambiti sempre più ristretti fino al ritiro nell’ambito familiare. Ma chiudere la porta di casa sperando che i problemi restino fuori è un’illusione: la famiglia e la vita privata riflettono la società di cui si nutrono. La società narcisistica detta che le nostre attività devono essere 43 piacevoli e divertenti, ma crescere un figlio non lo è sempre; al contrario, è un compito impegnativo e faticoso, incompatibile con il bisogno di gratificazione immediata. Anche Igor Salomone18 osserva il fenomeno della diffusione della cultura degli esperti e della conseguente specializzazione interpretandolo “come fosse un gatto che si morde la coda”. Infatti decidiamo di risolvere molti dei nostri problemi ricorrendo ai servizi specialistici e pagandoli per le loro prestazioni; siamo sempre più convinti che facciamo essi debbano esistere perchè le cose che da soli sono sempre di meno. Contemporaneamente, maggiori sono i servizi, minori sono le cose che impariamo a fare da soli. La progressiva specializzazione e professionalizzazione è un dato di fatto. Esistono dei profondi bisogni di relazione per la soluzione dei nostri problemi ed ora questi bisogni che non sono più soddisfatti da parenti e amici si soddisfano pagando degli specialisti. Crescono le professioni e i ruoli competenti sui problemi e cresce l’incompetenza generale su tali problemi. L’aiuto faccia a faccia sparisce e sembra che tutto si possa risolvere con gli specialisti. L’eccesso di 44 professionalizzazione non è augurabile in nessun campo e tanto meno nel sociale e nell’educativo. Mancano prossimità, contatti, relazioni che insegnano e tramandano: le mamme non sanno a chi chiedere come si crescono i piccoli, tanto meno se i loro piccoli hanno dei problemi particolari. Più crescono le conoscenze specialistiche più creiamo incompetenza intorno a noi. Compito delle agenzie educative è, come abbiamo già detto, anche quello di aiutare i genitori ed i loro bambini ad organizzare le informazioni, a trasformarle in comunicazione, a trovare orientamenti di senso che non possono più essere trovati in una cultura monolitica, certa e lineare. Non c’è più chiarezza rispetto a ciò che “si deve o non si deve”, ciò che “è giusto o sbagliato”. Il significato che andiamo cercando tocca il vissuto soggettivo di ognuno di noi, le esperienze ed i valori di ognuno maturati nelle relazioni con gli altri. 18 Igor Salomone, op. cit.. 45 1.6. - CENTRALITÀ DELLE RELAZIONI Abbiamo tratteggiato alcune delle caratteristiche culturali delle nostre città per renderci conto di quanto oggi, più che mai, abbiamo bisogno di curare le relazioni e di instaurare rapporti sociali, di pensare ad un mondo diverso basato sul rapporto con gli altri e tra gli altri. La complessità della nostra società è resa tale dalla sua dilatazione nel tempo e nello spazio, dalle differenze e dalle contraddizioni. L’uomo è esaltato nelle sue espressioni più narcisistiche, spinto al piacere, alla creatività, all’autonomia, all’autodeterminazione ma, nello stesso tempo, pare che “l’uomo sia stato perso”. La persona è libera ma la sua libertà si misura nella sua capacità di possedere beni e merci. Viviamo in un mondo ricco di opportunità e di energie positive ma nello stesso tempo pieno di solitudine, violenza, negativismo e conformismo, mentre da più parti avanza la necessità di ritrovare la certezza di una comune natura umana. La Callari Galli scrive che oggi “la verità non può più essere un valore assoluto; essa si forma 46 dinamicamente nelle interpersonali[...]”. 19 Per quanto deleghiamo ad esperti relazioni e servizi il soddisfacimento di molti dei nostri bisogni, ne esistono alcuni cui non possiamo rispondere che grazie all’attivazione delle nostre risorse, della nostra creatività ed energia e attraverso la creazione di legami concreti, nei quali mettiamo in gioco i pensieri, le emozioni, i sentimenti ma anche la nostra corporeità: sono il bisogno di sicurezza e di amore, di appartenenza e di integrazione, di espressione e di orientamento nelle scelte, di salute e di cura di sé. 1.6.a - La pubblica affettività Un’altra testimonianza che si sembra importante citare per evidenziare quanto sia vivo tra di noi il bisogno di costruire relazioni significative, è quella che ci offre il Dott. Vito Volte, psicosociologo e formatore dell’ISMO (Istituto Interventi e Studi Multidisciplinari nelle Organizzazioni). 19 Ibidem, pag. 262 47 Egli si occupa da molti anni di seminari di formazione sulle dinamiche di gruppo e sulle relazioni organizzative allo scopo di addestrare i partecipanti all’utilizzo della propria influenza in sistemi di relazione più o meno complessi. Nel suo articolo intitolato “La pubblica affettività” 20 egli parla di crisi della società moderna come crisi di legami. Per pubblica affettività intende la dimensione dei legami sociali da lui definiti, sempre e comunque, legami d’amore; per quanto deboli, per quanto “passioni leggere” rimangono “legami d’amore” compatibili con altre passioni e perciò non totalizzanti. L’evento sociale nasce da questi legami anche minimi; la partecipazione li alimenta e li materializza. I legami sono composti dalle due facce di una stessa medaglia: controllo ed interesse; sono da un lato matrice generatrice della vita, desiderio di comunanza e somiglianza, di fare gruppo ed appartenere; dall’altro sono fonte di controllo. Spesso per paura che legarsi possa significare anche soffrire, le persone preferiscono stare sole e chiudersi in se stesse. Ma chi non ha legami non è un uomo libero perchè chi è solo, spesso accetta anche le 20 in AA.VV., “L’IMPRESA AL PLURALE - Quaderni della partecipazione”, nr. 3/4, Franco Angeli Editore, Milano, 1999 48 “cattive compagnie”. Egli afferma di aver verificato nei diversi laboratori di formazione che esiste un ambiguo e contrastante bisogno di socialità e di appartenenza: assistiamo alla frenetica ed intensa ricerca di relazioni da una parte, e alle straordinarie resistenze, paure e difficoltà a comunicare dall’altra. I legami familiari sono diversi da quelli pubblici: non sono scelti, sono dati ed investono affetti, relazioni, sentimenti ed emozioni la cui intensità e dimensione è vastissima e fungono da matrice per altri legami sociali. La difficoltà che viviamo oggi è proprio quella di imparare a coniugare legami forti e legami deboli, a far convivere relazioni di natura e livello diversi. Anche la famiglia vive questo paradosso della doppia tensione tra chiudersi in se stessa perchè si sente minacciata da una società pericolosa e perchè si illude di bastare a se stessa, ed il bisogno di aprirsi all’esterno e di appartenere ad un sociale più ampio per sopravvivere e crescere. 1.7. - LA FAMIGLIA NELLA SOCIETÀ DELLE DIFFERENZE 49 Abbiamo scritto che la nostra società è ricca di opportunità, dilatata nello spazio e nel tempo, che chiede ad ognuno di saper fronteggiare situazioni sempre differenti mettendo in campo tutte le abilità personali. Essa sembra dibattersi in una duplice tensione: da una parte la ricerca spasmodica di identità (personale, di gruppo e di comunità), dall’altra la spinta all’omologazione, al consumo, alla massificazione. Le nostre sono città dove incontriamo e ci scontriamo continuamente con la diversità: affermiamo il principio dell’uguaglianza ma, d’altro canto, fatichiamo a stare vicino a chi non è simile a noi. Anche la famiglia vive queste contraddizioni tra il bisogno di difendere la propria identità e quello di aprirsi verso il nuovo e il diverso. La Callari Galli scrive che la famiglia è il luogo dove i comportamenti, gli atteggiamenti e le articolazioni di ruolo si concretizzano e si tramandano più a livello implicito che esplicito, è lo spazio in cui il fenomeno dell’inculturazione raggiunge il massimo della sua espressione. In essa vivono emozioni, affetti e rappresentazioni che contribuiscono (se non a volte determinano) a costruire quella che Bertolini definisce “la visione del mondo” di ogni bambino. Le forme di 50 comunicazione famigliari strutturano diversamente le relazioni a seconda che il codice prevalente sia quello orale, alfabetico o multimediale. Il modo con il quale ogni bambino impara a strutturare le relazioni primarie ha una grande ricaduta sulla sua capacità di muoversi nel mondo e di creare relazioni di secondo livello. Inoltre è ormai provato quanto la cultura famigliare sia importante nella formazione della personalità dei bambini, nella trasmissione di valori e di modalità di apprendimento. Dunque insegnare che si può appartenere mantenendo vive le differenze è uno degli obiettivi educativi che la famiglia - proprio in quanto luogo di appartenenza e di unione delle differenze - si può porre: essa è lo spazio simbolico e concreto dove, attraverso le azioni quotidiane e sin dal primo giorno di vita dei bambini, è possibile costruire relazioni che si ispirino all’ascolto, alla comprensione e all’accoglienza, che rifiutino “la spinta a discriminare, a sopraffare[...]”, che escludano di “accettare la discriminazione e la sopraffazione.”21 1.8. - PER CONTINUARE 21 M. Callari Galli, Ibidem, pag. 289 51 Il quadro culturale che abbiamo delineato mette in luce alcuni che, a nostro parere, sono i bisogni vecchi e nuovi della famiglia educante oggi. Per chiarezza e semplicità di esposizione, ci sentiamo di sintetizzarli come segue: • bisogno dei genitori di orientarsi e di scegliere tra le mille opportunità che la società di oggi offre per se stessi e per i loro figli; • bisogno di trasformare le informazioni in comunicazione, ovvero attribuire senso; • bisogno di concretezza recuperare delle il valore esperienze e educativo delle della relazioni quotidiane; • bisogno di riappropriarsi delle proprie competenze educative per agirle in prima persona; • bisogno di discernere tra i modelli educativi proposti per giungere, consapevolmente, a fare propri quelli che hanno significato per loro; • bisogno di recuperare una autentica capacità di comunicare che sappia mettere in gioco emozioni, sentimenti, cognizioni, valori e fisicità; 52 • bisogno di intrecciare legami significativi all’interno e al di fuori del proprio nucleo; • bisogno di imparare a far vivere al proprio interno le differenze, le contraddizioni senza paura di perdere la propria identità. In sintesi ci piace dire che i genitori e più in generale gli educatori, devono essere aiutati a comprendere il significato e il potenziale educativo delle esperienze e delle relazioni che quotidianamente vivono con i loro figli; hanno bisogno di uscire dall’isolamento e dalla confusione che troppo spesso finisce per paralizzare le loro capacità educative e relazionali rendendoli a volte tiranni, a volte schiavi dei loro stessi figli. E’ a partire da questi bisogni che tenteremo di riconoscere il ruolo e la specificità dell’educatore professionale nei servizi di supporto al ruolo genitoriale. CAPITOLO II LA FAMIGLIA IN ITALIA 53 Abbiamo interpretato alcune delle caratteristiche culturali della nostra società per comprendere come esse, secondo la nostra riflessione, potrebbero influire sui bisogni della famiglia. Ora guardiamo la famiglia italiana come fenomeno sociale con particolare riguardo alla sua funzione educativa. La famiglia viene presa in considerazione oggi da molti studiosi e politici come origine del malessere sociale e soluzione di esso; è istituzione da difendere nella propria unità e nei propri confini, da stimolare all’apertura verso l’esterno; la famiglia è soggetto di iniziative politiche e sociali, oggetto di interventi istituzionali; è roccaforte dei valori che la nostra società rischia di perdere ma anche in crisi come luogo dei legami e degli affetti. Se, come abbiamo scritto precedentemente, la nostra società è ricca di contraddizioni e se è vero che la famiglia si nutre della società nella quale vive, ci sentiamo di dire che anche la famiglia è un luogo pieno di contraddizioni interne ed esterne. Per interne intendiamo la doppia tendenza ad essere da un lato nucleo chiuso, autosufficiente e privato 54 soprattutto per ciò che riguarda il proprio compito educativo, dall’altro il bisogno di aprirsi per sopravvivere. Per contraddizioni esterne potremmo intendere quelle che vengono dai diversi tentativi istituzionali di definire la famiglia e di assegnarle ruoli e compiti sociali. La famiglia è comunque un fenomeno complesso al di là delle strutture, delle definizioni che se ne possono dare, dei confini e delle appartenenze. Possiamo pensare ad essa come spazio fisico, simbolico e relazionale dove si verificano eventi naturali ai quali ogni individuo attribuisce un significato. Ma soprattutto è una costruzione sociale con una forza normativa entro specifiche codifiche. La famiglia è anche luogo di unione delle differenze: sessuali, generazionali, di ruolo, di gerarchie e responsabilità. E’ un sistema aperto, inserito in una società con la quale intrattiene rapporti di scambio; non è né passiva, né indipendente. La famiglia è un sistema con un equilibrio dinamico che cambia lungo il proprio ciclo di vita interno e rispetto ai rapporti con la società. Se accettiamo il presupposto secondo il quale la famiglia non è un terminale passivo del cambiamento sociale ma anche costruttrice di modi e sensi di mutamento, possiamo anche 55 pensare che comprendere come la nostra società intende, organizza e norma la famiglia ci permette di capire quale significato essa stessa attribuisca al proprio stare nel mondo e viceversa: capire quale significato la famiglia attribuisce al proprio stare nel mondo ci aiuta ad intuire perchè la società la organizza e la norma in un certo modo piuttosto che in un altro. 2.1. - CENNI STORICI Gli studi storici e sociologici sulla famiglia raccolti ed elaborati da Chiara Saraceno22 ci aiutano a rilevare come, contrariamente a quanto si pensa, non esistono solo elementi di rottura ma anche di continuità tra la famiglia di un tempo e quella di oggi. Per esempio, secondo l’analisi di molti antropologi, la famiglia nucleare pare non essere solo un prodotto dell’industrializzazione perchè essa si è sviluppata più velocemente e precocemente là dove la famiglia nucleare già esisteva. In particolare l’Italia ha visto in passato strutture e forme di famiglia molto variegate 56 (forse più di oggi) ed i processi di trasformazione non sono stati per nulla lineari anche se ha finito per prevalere la forma nucleare sotto la spinta dell’industrializzazione. Certamente questo fenomeno ha avuto delle conseguenze importanti sull’organizzazione famigliare, perchè l’uso e la formazione della forza lavoro sono state trasferite fuori dalla famiglia: lavorare fuori casa implica il bisogno di dividere spazio e tempo domestico da spazio e tempo del lavoro, richiede di dividere i compiti tra chi rimane a casa e chi va a lavorare. In particolare la cura dei figli deve essere affidata alla persona che rimane a casa. L’industrializzazione, quindi, rafforza la struttura familiare nucleare creando l’operaio e la casalinga, due figure complementari e speculari. Un altro dato interessante per noi è che il fenomeno dell’instabilità della famiglia non è per nulla nuovo, benché oggi si presenti in maniera diversa rispetto al passato. La famiglia di ieri era fortemente soggetta a disgregazione a causa delle morti precoci di adulti e bambini, dell’emigrazione e delle guerre. Molte erano le famiglie ricostituite a causa delle frequenti vedovanze o morti di 22 Chiara Saraceno, “Sociologia della famiglia”, il Mulino, Bologna, 1996. 57 entrambi i genitori. Ci importa evidenziare che mentre in passato la famiglia si scioglieva, perdeva alcuni dei suoi componenti e si ricostituiva per necessità o a causa di incidenti e decessi, oggi sciogliere e ricostituire la famiglia ha più a che fare con la scelta dei singoli individui che la compongono. Questo ci fa riflettere sul fatto che, probabilmente, non è così vero che una delle cause della crisi della famiglia contemporanea va ricercata nella sua instabilità. Forse è il caso di ragionare sul fatto che l’instabilità è di una natura diversa rispetto ad una volta: è una scelta le cui radici potrebbero essere ritrovate in un contesto socioculturale del quale abbiamo rilevato anche le componenti narcisistiche ed individualiste; oppure in una struttura sociale ed economica che permette alle persone di “cavarsela” anche se vivono da sole; oppure in una difficoltà a vivere le relazioni. V. Melchiorre, Presidente del comitato scientifico del C.I.S.F. (Centro Italiano Studi Famiglia), durante un convegno tenutosi a Milano nel dicembre 2000, presenta l’ultimo lavoro intitolato “Leggere la famiglia in Italia: dati, tendenze e interpretazioni”. Gli studi più recenti confermano ed evidenziano la resistenza del nucleo 58 famigliare in termini di valori, cultura a legami pur modificandosi le strutture famigliari. Queste ultime sono sempre più piccole, aumenta il numero complessivo delle famiglie in particolare di quelle unipersonali e monogenitoriali; diminuisce inoltre la natalità. La famiglia diventa “lunga” perchè i figli hanno sempre più difficoltà a decidere di diventare adulti e ad uscire di casa. Essa rimane infatti l’unico baluardo degli scambi, del dialogo e dei rapporti generazionali: è il luogo del rifugio dalla paura e dalla freddezza di ciò che sta “fuori”, è il luogo della cura e della protezione. Contemporaneamente emerge la fragilità della vita domestica come fragilità di relazioni in quanto ognuno è attento ai propri destini individuali e alla propria realizzazione. Pare che all’interno della famiglia ognuno cammini su binari paralleli che non si incontrano mai perchè comportamenti, valori, modi di divertirsi sono condivisi a livello intragenerazionale, non intergenerazionale. L’attenzione alla autorealizzazione e la fragilità delle relazioni si traducono sempre più spesso nella scelta, da parte dei coniugi, di sospendere o rompere la loro convivenza. Quello che a noi interessa, rispetto a questo fenomeno, è il fatto che divorzi e separazioni non 59 hanno solo conseguenze sul significato del matrimonio ma anche sulla continuità dei rapporti genitori-figli. 2.1.a - Famiglia e parentela Anche le strutture parentali e il loro significato vanno lette alla luce della continuità e della rottura rispetto al passato. La domanda che ci poniamo è la seguente: è così vero che oggi i legami di parentela sono meno forti di quelli coniugali e comunque meno forti di ieri? La parentela è un fatto sociale nella misura in cui delimita spazi e flussi di relazioni, confini, alleanze, appartenenze e separazioni tra persone e tra gruppi di persone. Essa esprime discendenza, appartenenza e controllo; vincola e collega le generazioni. Essa è anche, se non soprattutto, aiuto, collaborazione, sostegno materiale ed affettivo. Oggi, infatti, l’organizzazione del lavoro e quella sociale rendono disfunzionale la famiglia allargata e privilegiano quella nucleare alle origini della quale ci sono, e ci devono essere, soprattutto legami di affetto. Nel contempo, il valore sociale della parentela in termini di appartenenza, 60 controllo e mutuo aiuto continua ad esistere pur andando al di là della convivenza e resistendo come fitta rete di legami anche nella società moderna. Da quanto abbiamo scritto fino ad ora possiamo dedurre che l’ideologia della famiglia nucleare isolata e della perdita dell’importanza sociale della parentela, forse non corrisponde ad una esperienza effettiva ma legittima, in termini culturali e valoriali, la flessibilità dei rapporti di parentela consentendone un utilizzo più individualizzato, tagliato su misura del singolo o della singola famiglia, dei bisogni contingenti, delle preferenze ed affinità di coloro che si pongono in relazione. Non si tratta di una differenza di quantità di parenti con cui si intrattiene uno scambio, ma di una diversità qualitativa legata alle scelte relative a con chi, quanto e come legarsi. Certamente oggi chi è privo di questa rete o intrattiene legami di parentela caratterizzati non da scambio ma da obbligatorietà, è più solo ed indifeso, ha minori risorse e rischia maggiormente per la qualità della sua vita. Nei ceti meno abbienti il ricorso all’aiuto parentale può essere motivo di stress emotivo, psichico ed economico per chi questo aiuto lo deve dare perché mancano alternative provenienti sia da altri parenti 61 che dai servizi disponibili. Pare che più elevata sia la posizione sociale, più articolata risulti la rete di sostegno cui accedere mentre le famiglie meno abbienti hanno meno alternative e sono obbligate a rivolgersi ai parenti stretti. Per queste ultime la solidarietà familiare può presentarsi più esplicitamente con tratti di doverosità e obbligatorietà. Complessivamente possiamo constatare che l’affettività è l’elemento sottostante gli scambi parentali mentre i tratti di doverosità sociale e obbedienza vengono affievoliti: gli anziani dipendono dai giovani soprattutto da un punto di vista affettivo e spesso il prestare loro dei servizi è un modo per garantirsi l’affetto. Questo scambio affettivo e materiale non è esente da conflitti perchè vi sono implicate dimensioni relative all’identità familiare e personale: i genitori diventano nonni, i figli genitori e questo occupare posizioni e ruoli diversi ingenera conflitti che adombrano non solo l’appartenenza a riferimenti culturali diversi, ma anche le differenze individuali. A questo proposito uno dei motivi di maggior conflitto riguarda proprio l’educazione dei piccoli che sono contemporaneamente figli e nipoti: spesso i bambini vengono accuditi dai nonni e questo è motivo di 62 non poche divergenze tra genitori e figli a causa delle differenze tra generazioni. 2.2. - LA FAMIGLIA EDUCANTE Cerchiamo ora, sempre facendo ricorso ad alcuni riferimenti storici, di capire come nasce la famiglia moderna e come giunge a caratterizzarsi tipicamente come famiglia educante. Secondo gli studi di P. Ariés23 (1968) l’origine del processo di privatizzazione della famiglia moderna così come la intendiamo oggi, investe inizialmente la famiglia borghese ed aristocratica del diciannovesimo secolo ed ha a che fare con il suo ritiro dallo spazio ed agire pubblici conseguente alla nascita dello stato moderno. Le altre famiglie arrivano a “privatizzarsi” per contaminazione ed a causa delle condizioni socioeconomiche e lavorative. Infatti, siccome si lavora sempre di più fuori casa e si lavora meno, lo spazio di lavoro (pubblico) si divide da quello familiare (privato) e nasce la vita domestica vera e 63 propria. A questo fenomeno di privatizzazione si aggiunge un forte cambiamento culturale e sociale del modo di intendere i figli: essi non rappresentano più solo il proseguimento della generazione e la forza lavoro ma diventano il centro affettivo e simbolico della affettività familiare. Questo processo ha tra le sue conseguenze la progressiva diminuzione del numero dei figli a mano a mano che la loro importanza affettiva aumenta. “La stessa immagine moderna[...]come privati e privata[...]è famiglia di relazione costituenti nata famiglia di affetti una innanzitutto genitoriale educante, prima come coppia coniugale amorosa.”24 2.2.a - La nascita della cultura della maternità 23 24 sfera Chiara Saraceno, op. cit. C. Saraceno, Ibidem, p.134 64 come che E’ interessante per la nostra riflessione sapere che, in passato, l’esperienza di crescita dei figli in tutte le famiglia (tranne in quelle poverissime) era caratterizzata dalla presenza di tante figure differenti per posizione, competenza, responsabilità ed autorità: c’erano i genitori, gli istitutori, i servi, le balie, i fratelli, le sorelle, i nonni eccetera che vivevano in case piene di bambini ed adulti. Alcune di queste persone erano pagate per svolgere, a vario titolo, un compito educativo nei confronti dei figli dei “signori” garantendo, così, la presenza di una pluralità di figure adulte di riferimento. Questo fenomeno subisce delle modificazioni proprio grazie alla diffusione della cultura della maternità le cui origini risalgono all’Ottocento, quando l’attenzione per l’infanzia si manifesta, sul principio, attraverso atteggiamenti di controllo fisico e morale dei piccoli da parte degli adulti. Nascono spazi e figure apposite: la scuola con programmi di insegnamento graduati secondo l’età, insegnanti e medici che sensibilizzano i genitori rispetto alle norme igieniche ed alimentari. Al centro delle strategie familiari e del progetto educativo per i figli sta la madre: la famiglia moderna intesa come affettiva ed educante, nasce intorno alla coppia 65 madre-bambino, asimmetrici ed uniti. La madre non lo è solo in senso biologico ma anche e soprattutto educativo ed affettivo perchè è proprio lei ad esprimere per prima la dimensione affettiva verso i figli i quali da strumento per le strategie familiari diventano fini. Un altro elemento di rilievo consiste nel fatto che all’epoca, la madre è considerata educatrice ma è anche da educare al suo naturale e vocazionale compito. Ad educarla ci pensano moralisti, sacerdoti e medici, nonché i mariti. Questi soggetti, ritenendo immorale ed imprudente lasciare i figli alle balie e non allattarli in prima persona, convincono le madri dapprima a controllare sempre di più l’opera delle balie fino a occuparsi loro stesse dei figli in nome di una maggiore sicurezza igienico-sanitaria e di una più elevata responsabilità e moralità materna. Questa nuova responsabilità circoscrive sempre di più il ruolo sociale delle donne: la maternità diventa culturalmente e socialmente costruita. Aumentando l’interesse e l’investimento sui figli, prolungandosi il periodo di allattamento dei bambini da parte delle loro madri, si sviluppa una strategia naturale di diminuzione delle nascite. In Italia il fenomeno del controllo 66 delle nascite si sviluppa in maniera più massiccia verso la seconda metà del diciannovesimo, inizi ventesimo secolo, quando aumentando appunto l’investimento affettivo sui figli e l’espressione dei sentimenti tra generazioni, cambiando l’idea di famiglia. La madre è soggetto da educare ma anche educante e civilizzatore del cittadino moderno. Nascono, anche in Italia, le prime iniziative per la custodia e l’istruzione dei figli delle famiglie operaie. 2.2.b - “Sterili per scelta, genitori ad ogni costo.”25 Dopo il boom degli anni ‘60, tutta l’Europa assiste ad un calo della natalità che ha caratterizzato e caratterizza tutt’oggi, in modo particolare, l’Italia. Avviene una sorta di seconda svolta contraccettiva: non più solo controllo delle nascite nella direzione del contenimento ma anche della intenzionalità; avere un figlio diventa atto di volontà. I figli devono essere due, massimo tre e l’assenza di maternità è 25 C. Saraceno, Ibidem, pag. 160 67 uno stato normale. Mentre la prima rivoluzione vedeva ancora sesso e fecondità legati, la seconda rivoluzione, con l’introduzione della pillola anticoncezionale, slega del tutto sesso e procreazione. Ogni figlio deve essere desiderato e programmato ed ogni figlio desiderato deve nascere: “la sterilità non appare più accettabile non già[...]perchè non consente la piena realizzazione della identità sociale adulta femminile e maschile, o la realizzazione di un progetto di continuità familiare, ma perchè non consente di dar corso ad un desiderio, ad una scelta, che, proprio una perchè volta opzionale, non necessaria, compiuta chiede di essere realizzata”.26 I figli, dunque, rappresentano la realizzazione di una scelta che, come tale, è e deve essere fonte di piacere. Tra le conseguenze dell’investimento affettivo sui figli in quanto fonte di piacere e della scelta di averne pochi, vi è la ridotta differenziazione di articolazione per età all’interno della 26 famiglia: spesso i C. Saraceno, Ibidem, pag. 160 68 bambini crescono senza confrontarsi con chi è un po' più grande o un po' più piccolo di loro e, per i genitori, questo significa che ogni età del figlio rappresenta un’esperienza nuova dal momento che manca loro un bagaglio esperienziale che faciliterebbe il compito educativo. Ancora una volta la principale protagonista è la madre e per lei si apre un nuovo problema: il periodo della vita durante il quale si deve occupare dei figli è molto più breve rispetto ad una volta perchè il numero dei bambini è inferiore e perchè nascono in un arco di tempo molto ravvicinato. Contemporaneamente la vita media, soprattutto delle donne, aumenta. Cosa faranno quando i piccoli saranno grandi e non ci saranno nuovi piccoli di cui occuparsi? Si pone, quindi, la questione della donna e il mondo del lavoro fuori casa: quelle che già hanno un’occupazione tenteranno di mantenerla ricorrendo all’aiuto dei parenti o dei servizi per la cura dei bambini durante la loro assenza da casa. 2.3. - GLI ESPERTI E LA DELEGA EDUCATIVA 69 Tra i fenomeni recenti che maggiormente ci interessano per la nostra riflessione e la cui nascita può essere ricondotta a quella della famiglia moderna educante, vi è quello dello sviluppo enorme di istituzioni e professioni di sostegno ai genitori nel loro compito di cura e crescita dei bambini. Accanto alla scuola, alle strutture del tempo libero e ai mass media vi sono gli esperti: medici, pediatri, psicologi e pedagogisti. In particolare l’istituzione medica, come quella scolastica, è diventata un interlocutore obbligatorio delle famiglie. Il pediatra è ormai un riferimento privilegiato dei genitori soprattutto nelle prime fasi della crescita dei bambini: a lui le neo mamme e i neo papà si rivolgono per far fronte alle incertezze e alle ansie rispetto al loro compito perchè, spesso, non hanno esperienze precedenti e difficilmente possono confrontarsi con altri genitori. Ecco che il pediatra diventa anche psicologo e pedagogista e fornisce indicazioni non solo di carattere medico, nutrizionale ed igienico ma anche comportamentale, relazionale se non, addirittura, morale. Le interpretazioni della diffusione della cultura degli esperti e della sua ricaduta sulle competenze educative dei genitori sono varie. Alcuni la leggono come “intrusione” 70 dello stato nella famiglia ma crediamo che questa interpretazione sia riduttiva perchè non tiene conto del fatto che anche in passato non erano solo i genitori ad occuparsi dei loro figli. Inoltre bisogna considerare un dato di fatto importante: le famiglie sembrano molto disponibili a farsi influenzare dagli esperti, non solo per motivi di delega e passività ma soprattutto perchè la moltiplicazione e la diffusione dei saperi attorno alla prima infanzia, il proliferare dei modelli educativi che alternano i decaloghi del permissivismo e dell’autoritarismo, le modificazioni culturali e sociali, il salto generazionale aggiungono incertezza ai rapporti familiari, soprattutto a quelli genitori-figli. Salomone27 affronta il tema del passaggio da educazione come fatto naturale e parentale a fatto specialistico e differenziato domandandosi quali sono i tratti fondamentali dell’educazione specialistica e che rapporto esiste tra educazione familiare e professionale o di secondo livello. La prima considerazione è quella che rileva quanto la famiglia non possa essere considerata “agenzia educativa” al pari della scuola e del gruppo dei pari. La famiglia è 71 soggetto delegante, la scuola è agenzia che opera per conto della delega della famiglia. Inoltre, da un punto di vista antropologico e sociale, il processo di delega delle funzioni educative alle agenzie è piuttosto recente. Esse nascono come conseguenza della scelta di una parte della società di occuparsi di un problema lasciato scoperto da un’altra parte e dalla autocomprensione di sé come portatrice di prestazioni educative. Per esempio gli asili nido e le scuole materne nascono per rispondere ai problemi aperti dalla trasformazione sociale che vede sempre più donne occupate nel lavoro a tempo pieno fuori casa. I Centri Socio Educativi servono per accogliere gli espulsi dal mondo della scuola e del lavoro e per pensare ad una loro integrazione sociale. Complessificandosi il dato sociale e culturale, aumentano i bisogni educativi e le risposte agli stessi. Il risultato di questo processo è la parcellizzazione, per cui tanti attori socio-educativi si occupano di un pezzo della crescita del bambino, se non, addirittura, di un pezzo del bambino stesso: qualcuno si occupa della sua mente, qualcuno dei suoi affetti, qualcun altro del suo corpo e così via. I processi di delega e 27 Igor Salomone, op. cit.. 72 professionalizzazione stanno alla base di questo movimento verso la parcellizzazione e, nello stesso tempo, producono o alimentano la progressiva incompetenza sociale ed educativa di chi, quotidianamente, è chiamato a svolgere il compito di genitore. In sintesi la tecnologia, il mondo del lavoro, della scuola e del tempo libero, il proliferare di agenzie educative specializzate hanno modificato il contesto dei rapporti e della trasmissione culturale tra le generazioni al punto che i saperi tradizionali sembrano sempre più difficilmente spendibili ed efficaci. Tradizione e saperi di ieri non sono più sufficienti e non possono essere trasmessi in modo lineare; essi richiedono di essere sempre più rielaborati, selezionati ed adattati. Questo i genitori lo percepiscono e può diventare per loro motivo di ansia, incertezza, senso di solitudine e disorientamento rispetto al loro compito educativo, piuttosto che di chiusura in modelli stereotipati ed atteggiamenti oggettivanti che poco si confanno alle caratteristiche di flessibilità e pluralità della nostra società che sempre di più ci chiede di saperci modo creativo e selettivo. 73 comportare in 2.4. - GENITORI E FIGLI Ora, con l’aiuto di alcuni dati e riflessioni emerse durante il convegno C.I.S.F. già citato, ci addentriamo maggiormente nel rapporto genitori-figli così come è stato rilevato dalle ricerche più recenti. In particolare ci interessano le informazioni relative alla percezione che i genitori hanno del proprio ruolo e della capacità di interpretarlo autonomamente. La Dott.ssa Sabatini, ricercatrice I.S.T.A.T., documenta che stiamo assistendo allo spostamento in avanti per età del ruolo di genitori e che il fenomeno del figlio unico è in aumento. Per questo motivo le famiglie spesso scelgono di utilizzare spazi e servizi esterni per favorire la socializzazione dei piccoli proprio perchè, in casa, manca la possibilità di convivere con bambini della stessa età. La madre rimane protagonista della relazione educativa ma i padri si stanno avvicinando sempre di più. I rapporti genitori-figli sono sempre meno gerarchici e le reti di aiuto informali/solidali sono fortemente basate sulla parentela 74 stretta dove sono soprattutto le donne a svolgere servizi di aiuto. Il Dott. Castagnaro, sociologo che ha collaborato alla stesura dell’ultimo lavoro del C.I.S.F., interviene portando un punto di vista che ci pare molto interessante per comprendere come in Italia i fenomeni di cambiamento che investono la famiglia siano più lenti e comunque diversi rispetto al resto d’Europa e come sopravvivano forti resistenze da parte delle famiglie ad avvalersi dell’aiuto professionale in campo strettamente educativo. Rispetto ai fenomeni di cambiamento delle strutture famigliari egli sostiene che le “nuove famiglie” non sono così numerose come pare e dipendono più dall’invecchiamento della popolazione che da un fenomeno di innovazione. Inoltre la famiglia è e rimane importante come punto di riferimento per vecchi e giovani e continua a svolgere funzioni essenziali. Il sociologo sostiene che stiamo ponendo troppa attenzione a ciò che ci pare cambi e nessuna a ciò che rimane invariato. E’ veramente corretto attribuire alla politica ed al Welfare State la responsabilità del fatto che la famiglia italiana non viene sufficientemente aiutata a svolgere i suoi compiti educativi? Non è piuttosto che la 75 cultura italiana è una cultura familista che antepone le esigenze del nucleo a quelle del sociale e dell’individuo nella famiglia? La famiglia è privatizzata e questo non è un dato nuovo ma, secondo il sociologo, l’Italia è un paese familista, non individualista. Le scarse forme di aiuto extraparentale non hanno solo radici di politica sociale ma trovano la loro origine soprattutto nel familismo. Culturalmente la famiglia si deve arrangiare, le relazioni di aiuto extraparentali sono scarse perchè i disagi della famiglia e dei suoi componenti rimangono attributo della famiglia stessa. Gli amici e la comunità si attivano solo per il tempo libero, mossi da ideali o da forme di volontariato. La comunità si sente tenuta ad intervenire solo se ci sono problemi e secondo il “sentire comune” se una famiglia ha semplicemente dei figli se la deve cavare da sola a meno che non vi siano dei problemi e, in questo caso, gli interlocutori privilegiati sono il medico e lo psicologo. Piero Bertolini, a proposito delle resistenze della famiglia a rivolgersi agli esperti di educazione per chiedere aiuto quando la situazione rientra nella sfera della “normalità”, 76 nel 1984 scrive un articolo28 che ci pare ancora attuale. Tra le cause di tale resistenza egli registra prima tra tutte la difficoltà di alcuni professionisti (medici in testa) a cedere una fetta del potere da loro stessi accumulato e dunque una resistenza alla demedicalizzazione. Inoltre egli sostiene che il versante pedagogico rappresenta oggi un terreno di conquista particolarmente ambìto perché si va diffondendo la consapevolezza della necessità di un interesse educativo che vada ben al di là delle quattro mura della casa e della scuola. Poiché è ancora assai diffusa l’opinione secondo cui la competenza educativa è in larga misura coincidente con un certo “ buon senso “, è piuttosto frequente che tanto i genitori quanto gli insegnanti si credano gli unici depositari di quella competenza, con la conseguenza che se per qualche motivo sentono di dover ricorrere a degli aiuti, lo fanno rivolgendosi a competenze considerate più specialistiche e quindi più “serie” (psicologi primi tra tutti). Complessivamente, dunque, la Community Care cura poco, la famiglia cura ancora molto e si vergogna a chiedere aiuto per l’educazione dei figli se si 28 Piero Bertolini, rivista E.D.A. (Bimestrale per lo sviluppo dell’educazione degli adulti), 1984 77 trova in una condizione di normalità, perchè la vita di tutti i giorni con i bambini deve essere gestita tra le quattro mura domestiche mediante il buon senso educativo che tutti dobbiamo avere. Troppo spesso ci si rivolge agli esperti quando si crede di avere problemi che non vengono certo considerati risolvibili per mezzo del rapporto educativo. Infatti questi esperti sono soprattutto i medici e gli psicologi ai quali ci si sente maggiormente autorizzati a rivolgersi proprio in nome della loro competenza a risolvere i problemi seri. Difficilmente ci si rivolge ad altri per confrontarsi sui temi educativi. Pertanto, i servizi a sostegno alla genitorialità, per essere adeguati, non possono fare a meno di prendere in considerazione questo aspetto culturale rispettando da un lato il pudore dei genitori e riconoscendo la loro difficoltà a chiedere aiuto, dall’altro aiutandoli a spostare l’attenzione dall’elemento “problema” alla possibilità di investire sulla quotidianità senza sentirsi per questo stigmatizzati o inadeguati. La quotidianità, infatti, può essere anche essa fonte di disagio senza per forza sfociare in condizione patologica. Inoltre gli operatori dei VERO servizi devono contribuire a realizzare UN INCONTRO TRA EDUCAZIONE 78 NATURALE E PROFESSIONALE COMINCIANDO DAL CONSIDERARE IL SOGGETTO FAMIGLIA COME PARTNER COMPETENTE, NON OGGETTO PASSIVO DI UN INTERVENTO DI AIUTO. Infine ci sembrano interessanti alcune riflessioni presentate dalla Dott.ssa Calvi Parisetti dell’Eurisko sul tema “La vita quotidiana nella famiglia”. I dati raccolti fanno pensare che esista una grande idea di famiglia come valore e fonte di benessere, nonostante le sue diverse forme. L’Italia è un paese di famiglie (il 90% delle persone vive a vario titolo in famiglia) e chi non vive in una famiglia lo fa più per necessità che per scelta. La Dott.ssa interpreta alcuni dati raccolti sui modelli educativi della famiglia con bambini piccoli (fino a 10 anni) evidenziando la massiccia presenza della madre nei rapporti con i figli e il basso livello di stile educativo che punti all’autonomia dei piccoli; quasi la metà dei genitori dichiara di avere difficoltà nell’educare i figli. La restante metà dice di fare riferimento ai nonni per essere aiutati in questo compito. L’educazione tende a diventare sempre più importante e consapevole ma sempre più complessa da indagare e ricca di difficoltà applicative. 79 2.5. - PER CONTINUARE Come abbiamo visto, la famiglia italiana vive tra continuità e cambiamento: muta le sue forme ma non si trasforma nella sostanza; delega parte dei propri compiti educativi ma si riconosce ancora come prima responsabile. Molti genitori si sentono smarriti, insicuri e soli rispetto al proprio impegno educativo ma sentono di non voler rinunciare ad esso. La conseguenza della privatizzazione della famiglia, del suo sentirsi in dovere di svolgere da sola - o al massimo con l’aiuto dei parenti stretti - il proprio compito educativo, è il suo isolamento, soprattutto nelle grandi città. Un isolamento controproducente perchè non consente a genitori e bambini di stare insieme, di confrontarsi, di riflettere ed elaborare insieme le difficoltà quotidiane che investono la crescita dei bambini; un isolamento controproducente per la salute dei singoli individui che la compongono ed inconciliabile con una società che ci chiede di avere “abilità sociali e relazionali” sempre più articolate e complesse. La conseguenza della specializzazione e parcellizzazione dei saperi, unita 80 all’isolamento, è la progressiva perdita di sicurezza nelle proprie capacità educative al punto che i genitori finiscono per pensare di non avere più nulla da insegnare ai loro bambini, piuttosto che decidere di chiudere gli occhi sul mondo e continuare ad insegnare cose che probabilmente non servono più. LA QUESTIONE E’ CAPIRE CHE IL COMPITO DEI GENITORI STA CAMBIANDO MA NON STA SPARENDO. La scuola, infatti, si occupa di alcune cose, il medico, il pediatra, lo psicologo, le associazioni del tempo libero di altre. Ai genitori rimane tutto il resto. Rispetto al passato le forme di aiuto alle famiglie con bambini piccoli sono cambiate e devono continuare a farlo: non servono balie, preti o istruttori di morale. Non servono nemmeno esperti di educazione che prescrivano, sotto forma di buoni e dotti consigli, come mamma e papà devono comportarsi nella tal situazione; non serve che snocciolino il decalogo del “buon genitore” senza rendersi conto che quel genitore non ha nessuna intenzione di metterlo in pratica perchè non ne capisce il significato per sé e per il proprio bambino. 81 Giorgio Macario29 scrive che ai genitori è richiesta una competenza che sempre più difficilmente si può tramandare di padre in figlio a causa della complessità della società e della velocità dei cambiamenti, così che essi finiscono per avere sempre più difficoltà a considerarsi adeguati. Basta essere informati su come gira il mondo e su cosa dicono gli esperti? Forse no. Probabilmente occorre che gli educatori naturali e professionali si incontrino per percorrere insieme un cammino di “autoriflessione” intesa come sviluppo della capacità di ascolto di sé e dell’altro per avviare una comunicazione autentica; capacità di esplicitare emozioni, sentimenti ed obiettivi; di progettare razionalmente pur accettando la caratteristica incertezza del nostro contesto socioculturale. Genitori ed educatori possono imparare insieme che è possibile “pensare mentre agiscono e ad agire pensando” nella concretezza della quotidianità che non può più essere considerata solo la ripetizione di gesti insignificanti ma il “rinnovarsi giornaliero di un incontro con l’altro ricco di significati[...]” e perchè una 29 quotidianità qualificata è l’“imprescindibile Giorgio Macario, “L’arte di educarsi”, Meltemi, Roma, 1999 82 indicatore vita.” di una migliore qualità della 30 E’ da tutto quanto abbiamo scritto che nasce l’esigenza di ragionare attorno al ruolo dell’educatore professionale nei servizi per bambini piccoli con i loro genitori. Di che cosa si deve occupare? Cosa può fare per aiutare veramente adulti e piccini che frequentano i servizi dove egli è presente? Di che cosa deve essere esperto? Come tenteremo di argomentare successivamente, l’educatore professionale che lavori per il sostegno al ruolo genitoriale è un operatore che si occupa della relazione tra adulto e bambino cercando di coglierne il senso profondo per renderlo più facilmente accessibile ai protagonisti della relazione stessa; è un operatore che si sforza di proporre ai genitori nuove possibilità di attribuzione di significato alla loro relazione con i piccoli; è colui che condivide con grandi e piccini parte delle esperienze quotidiane, delle ansie e delle difficoltà che comportano la cura e la crescita dei bambini. Egli è esperto nella conduzione della propria relazione con le coppie adulto-bambino finalizzata alla 30 G. Macario, Ibidem, pag. 105 83 crescita della relazione tra la coppia adulto-bambino; è un operatore che sa pensare e riflettere sul significato educativo della concretezza delle esperienze che egli stesso propone ma che sa anche trasformare in occasioni di crescita e apprendimento ciò che bambini e genitori sperimentano spontaneamente nei servizi, nonché ciò che di imprevedibile e spiacevole potrebbe accadere. Infine è un operatore che lavora per scomparire: la sua finalità è quella di trasferire le sue competenze ai genitori che le vorranno accogliere e trasformare a propria immagine a vantaggio di se stessi e dei loro bambini. Egli deve aiutare i genitori a rielaborare i propri valori, ad esplicitare i propri obiettivi, a riflettere sul significato dei propri atteggiamenti per attivare strategie proprie di azione. La riflessione sul ruolo dell’educatore si rende necessaria, inoltre, per un motivo fondamentale: esiste una normativa istituzionale che legittima i bisogni delle famiglie con 84 bambini piccoli e che prevede la presenza di servizi con operatori in grado di aiutarle a rispondere a tali bisogni. CAPITOLO III IL QUADRO LEGISLATIVO DI RIFERIMENTO 85 Il valore di una legge consiste nel fatto che essa giunge a sancire e ufficializzare ciò che culturalmente e socialmente già esiste e, contemporaneamente, attraverso la legittimazione, getta uno sguardo in avanti sui problemi potenziali esplicitando bisogni non evidenti. A noi importa che lo Stato prima, la Regione Lombardia successivamente, si sono attivati e continuano a farlo, dimostrando una sensibilità rinnovata nei confronti della “cellula della nostra società”, del valore sociale e culturale della maternità e della paternità e riconoscendo l’esigenza di pensare e realizzare servizi innovativi che rispondano ai bisogni della famiglia educante che, come abbiamo ampiamente argomentato, stanno profondamente cambiando. Questa tensione innovativa si traduce in una legge dello Stato che prevede interventi di prevenzione e di aiuto alla funzione genitoriale attraverso l’implementazione di servizi e progetti innovativi all’interno dei quali operino persone qualificate. 86 3.1. - Legge 28 agosto 1997, n.285 “Disposizione per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” La legge n. 285/97 rappresenta, per la nostra esplorazione, il quadro di riferimento obbligato, poiché si presenta come la sintesi di quel movimento socioculturale di cui abbiamo ricercato ed individuato le tracce. Gli assunti e le disposizioni contenuti nella legge documentano il radicamento di una rinnovata attenzione per l’infanzia e, soprattutto, per la relazione genitori-figli. La legge, come è logico per la prospettiva che si è data, non si limita ad una dichiarazione di intenti, ma promuove, anche attraverso cospicui finanziamenti, l’attivazione e la diffusione di servizi di sostegno alla genitorialità, ad alcuni dei quali riserveremo attenzione più avanti. Rispetto all’impianto generale della legge, ci sembra importante evidenziare che essa prevede sì interventi sul disagio ma, soprattutto, si orienta verso la promozione dell’agio. In realtà essa sceglie gli itinerari di crescita, educazione, formazione e socializzazione delle persone come luogo di prevenzione primaria del disagio, di 87 rafforzamento della personalità, di investimento per migliorare le condizioni di vita. Secondo questa prospettiva, la riduzione degli effetti negativi del disagio passa attraverso la riduzione del degrado ambientale, sociale ma soprattutto relazionale. L’educazione è un investimento che deve essere fatto per tutta la società al fine di migliorare la qualità delle relazioni e questo significa prospettare nuovi spazi e nuove opportunità per l’educatore professionale. L’azione preventiva non può che partire dalla prima cellula della nostra società, preoccupandosi di prevedere interventi di sostegno al ruolo genitoriale e alla famiglia, di creare luoghi di incontro e socializzazione tra adulti e bambini. La sua finalità è quella di promuovere i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza scostandosi dalla logica tradizionale di sanzionare comportamenti scorretti o abusanti nei confronti dei soggetti più deboli per assicurare ai minori opportunità indispensabili per un adeguato processo di sviluppo. Non è sufficiente proclamare dei diritti, occorre preoccuparsi di predisporre strumenti attraverso i effettivamente quali questi goduti da diritti persone 88 possono che, essere essendo in formazione, non sono sempre in grado di esigerne il pieno rispetto. Un altro elemento di rilievo consiste nel fatto che la legge porta in sé l’idea di fondo secondo la quale, affinché gli interventi siano efficaci, essi devono partire dal bisogno reale della popolazione locale. Questa idea ha tra le sue prime conseguenze quella di individuare nel Comune il soggetto istituzionale responsabile delle politiche per l’infanzia. Infatti il livello “centrale” definisce le finalità e la filosofia generale degli interventi ma è consapevole che solo quello “locale” può governare le politiche per l’infanzia dal momento che è l’unico in grado di mettere a confronto il bisogno della popolazione, le risorse esistenti e la possibilità di potenziare i servizi. L’Ente Locale, fermo restando il perseguimento delle finalità della legge, ha una grande autonomia di scelta rispetto al tipo di servizi e progetti che intende realizzare, rispetto ai luoghi dove insediarli, alla popolazione alla quale rivolgerli e alla possibilità di avvalersi della collaborazione del privatosociale per la gestione dei servizi stessi. Stato, Regioni, Comuni ma anche associazioni di cittadini, sono soggetti coinvolti per pensare e realizzare una rete di 89 interventi e di servizi in una direzione comune: quella di tentare di realizzare la cultura della comunità che cura i suoi piccoli e che si cura di coloro che hanno il compito di occuparsi di loro. La legge riconosce che occorre valorizzare e promuovere il ruolo dei genitori nel loro compito educativo attraverso il miglioramento delle loro condizioni di vita. Essi infatti non sono solo invitati ad usufruire dei servizi esistenti ma anche ad associarsi per ideare, organizzare e realizzare opportunità di incontro e confronto sui temi dell’educazione. Paolo Onelli dichiara in un’intervista che l’autorganizzazione dei servizi da parte dei genitori è un aspetto innovativo che la legge promuove “così come un nuovo atteggiamento del servizio verso l’utente più dinamico.” imprenditivo, promozionale e 31 Grazie alle iniziative dei genitori e degli Enti Locali, grazie alla presenza di operatori qualificati nei servizi è possibile promuovere la cultura dell’infanzia ma, soprattutto, è possibile sviluppare e diffondere competenze relazionali ed 90 educative che risultano essenziali per la prevenzione del disagio dei bambini e dei loro stessi genitori. Riportiamo di seguito gli articoli della legge che maggiormente ci interessano perchè sono quelli che hanno consentito la nascita dei servizi che esploreremo, ovvero quelli rivolti ai genitori (o adulti che a vario titolo si occupano dei bambini anche per solo una parte della giornata) e ai loro bambini in età compresa tra gli zero e i tre anni e che hanno le finalità di favorire la socializzazione tra adulti e bambini e promuovere la relazione genitorefiglio. Art. 1. E’ istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza finalizzato alla realizzazione di interventi a livello nazionale, regionale e locale per favorire la promozione dei diritti, la qualità della vita, lo sviluppo, la realizzazione individuale e la socializzazione dell’infanzia e dell’adolescenza, privilegiando 31 Paolo Onelli, vice capo di gabinetto del Dipartimento Affari Sociali . Intervista di Matteo Lo Schiavo, in “Prospettive sociali e sanitarie”, nr. 13, Luglio 2000. 91 l’ambiente ad esse più confacente ovvero la famiglia naturale, adottiva o affidataria. Art. 3. Sono ammessi al finanziamento di cui all’articolo 1 i progetti che perseguono le seguenti finalità : a) realizzazione di servizi di preparazione e sostegno alla relazione genitore - figli [...]; b) innovazione e sperimentazione di servizi socio-educativi per la prima infanzia; [...] Art. 5. Le finalità dei progetti di cui all’articolo 3, comma 1, punto b) possono essere perseguiti in particolare, attraverso: a) servizi con caratteristiche educative, ludiche, culturali e di aggregazione sociale per i bambini da 0 a 3 anni, che prevedano la presenza dei genitori, familiari o adulti che quotidianamente si occupano della loro cura, organizzati secondo criteri di flessibilità. [...] 92 I servizi [...] non sono sostitutivi degli asili nido [...] e possono essere anche autorganizzati dalle famiglie, dalle associazioni e dai gruppi. 3.2. - Legge Regionale 6 Dicembre 1999 n. 23 “Politiche regionali per la famiglia”. Anche la Regione Lombardia si sta muovendo nella direzione dell’attenzione alla famiglia identificando in essa un soggetto politicamente rilevante e promuovendo una rete integrata di servizi di sostegno al nucleo familiare che favorisca soprattutto la libera iniziativa delle famiglie stesse. Una volta associatesi, esse sono riconosciute come soggetti politici a tutti gli effetti e, per questo, aiutate dalle istituzioni nello svolgimento delle finalità che si propongono. Per realizzare un efficace impianto di aiuti alla famiglia occorre che i servizi tradizionali vengano potenziati, rinnovati e resi maggiormente flessibili sulla base delle nuove esigenze della famiglia con bambini 93 piccoli. In particolare, all’art. 2, punto e) troviamo tra gli obiettivi quello di promuovere e sostenere l’armonioso sviluppo delle relazioni familiari; al punto I) si intendono sostenere le iniziative di reti sociali che tendano a sviluppare le capacità delle famiglie ad assumere efficacemente le proprie funzioni educative e sociali; al punto n) la legge prevede la formazione e l’aggiornamento degli operatori dei servizi alla famiglia. CAPITOLO IV I SERVIZI A MILANO E HINTERLAND 94 In Lombardia, e soprattutto a Milano e provincia, la L. n. 285/97 ha avuto un grande riscontro e ha promosso lo sviluppo di molte esperienze innovative nel campo dei servizi per adulti con bambini da zero a tre anni finalizzate a favorire l’aggregazione e a supportare il ruolo genitoriale. Durante il lavoro di ricerca per questa tesi, ci siamo concentrati su Milano e hinterland non solo perchè è l’area nella quale viviamo e lavoriamo, ma anche perchè è una grande città dove i cambiamenti socioculturali dei quali abbiamo parlato sono particolarmente evidenti, così come lo sono i bisogni delle famiglie e, di conseguenza, ha potuto diventare un territorio ricco di servizi e progetti. Infatti, secondo una riflessione di Susanna Mantovani32, la realtà sociale di Milano e hinterland si presenta come particolarmente frammentata e ricca di pluralità, dove gli spazi di discrezionalità di ogni individuo sono estremamente ampi. Se da un lato l’autodeterminazione rappresenta un’importante conquista, dall’altro l’esaltazione dell’individualità e dell’autonomia - valori di 32 Anna Bondioli e Susanna Mantovani (a cura di), “Manuale Critico dell’Asilo Nido”, Franco Angeli, Milano, 1997 95 per sé inviolabili - possono trasformarsi in indifferenza ed anonimato che trovano, tra l’altro, terreno estremamente fertile nella configurazione urbanistica della città. Il passo verso l’allentamento dei legami sociali e l’isolamento è breve. L’isolamento può esprimersi in uno smarrimento ideologico, incertezza emotiva e cognitiva che hanno ricadute importanti: l’enfatizzazione e la monopolizzazione dei rapporti affettivi famigliari che assumono caratteri di difesa rispetto ad una società con la quale si ha poco in comune sul piano relazionale; gli interessi dei genitori sono focalizzati quasi esclusivamente sui figli; al bambino manca la possibilità di fare riferimento a modelli di adulti molteplici come avveniva, invece, nella famiglia allargata. L’isolamento comporta confusione ed incertezza anche in campo educativo: i genitori si sentono sempre più insicuri, cercano risposte preconfezionate sotto forma di ricette miracolose, si fanno confondere dalle “mode pedagogiche”. Perdono progressivamente fiducia nelle proprie capacità educative e finiscono per cercare soluzioni specialistiche ai loro problemi quotidiani rinunciando così a trovare, nella dimensione della relazione educativa con i 96 figli, una possibilità di crescita e superamento delle difficoltà. 4.1. - MADRI E PADRI Prima di continuare nella nostra riflessione per addentrarci nei servizi che abbiamo incontrato, ci sembra importante sottolineare che fino ad ora abbiamo parlato di “famiglie” ma forse abbiamo usato questo termine in modo improprio perchè, pur essendo vero che il contributo dei padri alla crescita ed educazione dei bambini sta cambiando, è anche vero che oltre il 60% degli utenti adulti di questi servizi sono le mamme (il 36% è composto dalle nonne e dalle baby-sitter) principalmente si che rimangono occupano della le persone crescita e che della educazione dei bambini diventando, se così possiamo dire, catalizzatrici delle responsabilità e, di conseguenza, portavoce delle difficoltà. La percentuale delle mamme 97 aumenta di molto se consideriamo i bambini entro il primo anno di età. I padri sono, al massimo, il 4%.33 I padri non sono immuni alle conseguenze della complessità socioculturale di cui abbiamo ampiamente parlato; in questo senso parlare di “bisogni della famiglia” ha senso ed è coerente; non sono immuni nemmeno alle incertezze rispetto al modo in cui interpretare il loro ruolo educativo (tanto è vero che si parla dei “nuovi mammi” cioè di femminilizzazione del ruolo paterno) ma rimangono piuttosto ai margini quando si tratta di attivarsi al di fuori delle mura domestiche per farsi promotori della crescita della loro relazione con i figli. Le mamme rimangono coloro che più facilmente si occupano e si “devono occupare” dei bambini rinunciando, in alcuni casi, alla propria vita professionale e alla cura di sé. Nonostante Milano sia una delle aree dove i servizi per l’infanzia sono maggiormente sviluppati e dove la percentuale di mamme lavoratrici è tra le più alte, la maggior parte delle famiglie non usufruisce dell’asilo nido perchè non risponde ai loro bisogni, non rispetta le loro 33 Dati tratti da AA.VV., “Bambini a Milano”, Francesco Caggio e Mimma Noziglia, Comune di Milano, Settore Servizi Sociali, edizioni Junior , 98 scelte o non incontra le loro esigenze (per esempio la rigidità degli orari). Il 90% dei bambini cresce quindi in famiglia, specialmente con le mamme, fino ai tre anni senza utilizzare servizi pubblici. Molte donne conducono la prima esperienza di crescita dei figli in condizioni ambientali precarie, senza confrontarsi con gli altri, in grande isolamento e solitudine, prive di riferimenti amicali o di parentela (pensiamo soprattutto agli immigrati) che le aiutino a ridimensionare, sdrammatizzare ed affrontare i problemi che la crescita di un bambino comporta. Non stiamo parlando di soggetti disagiati nel senso classico della parola ma di persone che, come abbiamo già scritto, hanno semplicemente dei figli, sono “normali” e stanno bene, ma questo non giustifica il fatto che debbano essere lasciate sole e che non abbiano diritto a trovare occasioni di scambio e confronto. A questo proposito ci sembra interessante la testimonianza di una mamma di 35 anni, medico anestesista di Milano, pubblicata sul “Corriere della Sera” del 9 dicembre 2000. La donna frequenta ora un servizio del progetto Tempi per le Famiglie di Milano e dice: “poppate e cambi Bergamo, 1999 99 di pannolini: non facevo altro dopo la nascita di mia figlia. Di colpo niente lavoro, niente uscite con le amiche, niente palestra. Soltanto rapide uscite con il passeggino, tempo permettendo. E anche al parco scarse possibilità di incontrarmi con altre mamme con cui confrontarmi. Il vuoto, insomma.” Proseguendo lungo il ragionamento, soprattutto le mamme (a questo punto possiamo dirlo) che vivono a Milano e hinterland hanno urgente bisogno di avere un tempo e uno spazio di aggregazione dove potersi confrontare, condividere esperienze e scambiarsi domande rispetto alla crescita dei bambini; recuperare fiducia nelle proprie competenze educative e nelle proprie capacità di trovare soluzioni creative, a partire dalla valorizzazione di sé come persone e come genitori. La richiesta è quella di poter usufruire di servizi flessibili che rispettino le loro scelte di vita, che si pongano come integrativi alla famiglia e che, contemporaneamente, possano diventare riferimenti stabili. Le pagine che seguiranno gettano uno sguardo su alcuni progetti che ci pare esemplifichino, nel versante operativo 100 e sull’onda delle riflessioni sin qui proposte, i contenuti che andiamo tematizzando. Il panorama complessivo dell’offerta educativa è assai più ampio ed articolato di quanto risulti dalla nostra selezione, ma un’esplorazione esaustiva avrebbe travalicato le finalità del presente lavoro ed il nostro obiettivo conoscitivo. 4.2. - I TEMPI PER LE FAMIGLIE A MILANO E HINTERLAND Il mio sentiero di ricerca sui servizi a sostegno della genitorialità inizia nel Tempo per le Famiglie di San Donato Milanese dove ho svolto il tirocinio e non può che proseguire verso altri progetti e servizi che ho scelto di conoscere (attraverso la lettura di documenti e alcune visite) per estendere la lettura dei bisogni degli utenti, per addentrarmi nella realtà cittadina e per raccogliere ulteriori elementi per la riflessione sul ruolo dell’educatore professionale. 101 Rispetto alla nascita dei servizi, Susanna Mantovani34 scrive che già verso la metà degli anni ottanta, per la prima volta a Milano, in seguito alle ricerche commissionate dal Comune che evidenziavano la fiducia delle famiglie nei servizi per l’infanzia, le richieste di consulenza educativa (ed il conseguente bisogno di formazione adeguata per gli educatori), la necessità di trovare nuove forme e spazi di aggregazione per genitori e bambini, si sperimentarono nella città nuovi progetti tra i quali i “Tempi per le Famiglie”. Il primo fu aperto nel 1986 proprio su iniziativa della Mantovani ed utilizzò, per la prima volta, la formula della collaborazione tra pubblico e privato anticipando i nuovi servizi che oggi sono previsti e promossi dalla L. n.285/97 e che sono riconosciuti come parte integrante del sistema delle offerte per l’infanzia. Si tratta di servizi innovativi che hanno permesso ai concetti di socializzazione degli adulti, di attenzione ai bisogni emotivi ed affettivi del genitore, di supporto alla relazione madre-bambino di diventare obiettivo esplicito, itinerario di approfondimento occasione di formazione per molti educatori. 34 AA.VV., “Bambini a Milano”, ibidem. 102 ed Tra i temi e le possibilità che questi servizi hanno permesso di mettere a fuoco vi sono soprattutto la mediazione tra gli aspetti relazionali e le proposte educative che coinvolgono sia i bisogni di crescita del bambino (il gioco, la manipolazione, l’uso del corpo, la socialità, l’espressione della propria volontà ed autonomia) che le emozioni ed i bisogni degli adulti; l’attenzione alla dimensione dell’accoglienza e dell’ascolto delle mamme e dei bambini da parte degli educatori; l’attenzione alla quotidianità come occasione di crescita, fonte di benessere e di piacere per mamme e bambini. 4.2.a - Esperienze e possibilità diverse Una ricerca del Giugno 199935 documenta che esistono a Milano 11 centri che fanno parte del progetto “Tempi per le Famiglie” ed accolgono adulti che accompagnano bambini in età compresa tra gli zero e i tre anni. Altri servizi analoghi si chiamano in modo diverso pur facendo parte 35 AA.VV., “Bambini a Milano”, ibidem 103 della stesso progetto e riferendosi alla medesima filosofia di base. Ciascuno di essi ha le proprie peculiarità rispetto alle possibilità che offre e alle esperienze sulle quali di focalizza, rispetto agli orari di apertura e al funzionamento generale, al tipo di famiglie che accoglie (alcuni dedicano degli spazi alle mamme straniere), agli adulti che maggiormente accompagnano i bambini, all’età dei bambini e alla professionalità degli operatori che vi lavorano, oltre naturalmente agli educatori. Originariamente l’accesso ai servizi, nel rispetto degli orari di apertura, era completamente libero ma oggi, in seguito alla grande risposta di mamme e bambini, alcuni centri scelgono di creare gruppi omogenei di utenti per età dei bambini dedicando loro giorni fissi della settimana. In ogni caso mamme e bambini che si iscrivono al servizio sono liberi di frequentare se e quando vogliono e all’ora che desiderano, compatibilmente con le scelte organizzative. A seconda del tipo di utenza e delle proposte del servizio, in alcuni centri vengono allestiti locali - o parti di essi appositamente studiati per lo svolgimento di attività particolari: dal massaggio dei piccolissimi da parte delle mamme sotto la guida di tecnici per favorire l’intimità della 104 relazione dove non è possibile utilizzare altri mediatori; ai laboratori gestiti interamente dagli adulti, al gioco libero, a quello simbolico, all’uso dei colori e alla manipolazione dei materiali, alla stanza del “caffè” per le sole mamme, eccetera. Anche nell’hinterland queste esperienze si stanno moltiplicando: una ricerca promossa a novembre del 2000 da Confcooperative - Unione Provinciale di Milano e UnionGest S.r.l., "Sviluppo delle cooperative e servizi diurni per la prima infanzia a Milano", ha preso in esame, oltre agli asili nido, i numerosi Tempi per le Famiglie che sono stati aperti in molti Comuni attorno a Milano grazie alla collaborazione tra ben dieci cooperative del privato sociale e gli Enti Locali competenti. Complessivamente questi luoghi consentono a mamme e bambini di stare vicini ma in un contesto sociale allargato, di fare esperienze diverse da quelle che l’ambiente famigliare permette, di imparare che è possibile stabilire un rapporto di distanza-vicinanza ottimale a seconda del contesto e dell’età del bambino, di creare legami extrafamiliari significativi e di essere aiutati dagli educatori 105 a trovare significati e possibilità nuove per la loro relazione. Oltre alle attività che si svolgono in compresenza di mamme, bambini ed educatori, alcuni Tempi per le Famiglie di Milano ed altri dell’hinterland gestiti dalle dieci cooperative del privato sociale di cui abbiamo parlato, stanno sperimentando attività formative per genitori, gruppi di autoaiuto, orientamento momenti per le informali mamme di informazione straniere, incontri e di discussione e confronto su alcuni temi con educatori, pedagogisti e psicologi, colloqui individuali con i genitori. Il tutto cercando di favorire la libera aggregazione tra adulti e puntando l’attenzione sulla qualità del clima relazionale che si viene a creare tra genitori, e tra genitori e professionisti. 4.2.b - Finalità ed obiettivi dei Tempi per le Famiglie Si tratta prima di tutto luoghi di aggregazione sociale che rispondono al bisogno dei bambini e dei loro genitori di non 106 stare soli. La loro finalità è quella di fornire un sostegno per prevenire ed affrontare insieme ai genitori i processi e le difficoltà nella cura e nella crescita dei figli durante la prima infanzia. Rappresentano un osservatorio privilegiato della realtà infantile che consente di prevenire il disagio relazionale tra bambino e adulto di riferimento. La finalità viene raggiunta attraverso il perseguimento dei seguenti obiettivi dei quali l’educatore deve farsi promotore e garante: • coinvolgere i genitori nella scoperta e conduzione di attività ed esperienze che, consentendo loro di cimentarsi in nuove strategie educative, favoriscono la crescita della relazione tra la coppia adulto-bambino e la soluzione dei problemi quotidiani; • favorire l’aggregazione spontanea tra le famiglie; • permettere la valorizzazione e la circolazione dei saperi educativi all’interno del gruppo di genitori; • offrire al bambino uno spazio ed un tempo educativo integrativo alla famiglia nel quale poter trovare altri coetanei e nuove figure adulte di riferimento con cui 107 sviluppare processi di attaccamento ed identificazione complementari a quelli familiari; • fornire agli adulti un sostegno al loro compito educativo flessibile ed informale, non patologizzante e clinico; • dare ai genitori l’opportunità di confrontarsi su temi educativi aiutandoli a maturare un modello educativo proprio, in cui si incontrino la professionalità dell’educatore e l’iniziativa autonoma dei genitori. 4.3. - COCCOLE E GIOCHI Tra i progetti che si collocano nell’area della prevenzione primaria, per alcuni aspetti vicini alla filosofia dei Tempi per le Famiglie, troviamo, sempre a Milano, “Coccole e giochi” dedicato ai bambini entro il primo anno di età. Il bisogno di prendere in esame questo servizio nasce dalla constatazione che i Tempi per le Famiglie sono servizi comunali che, pur essendo aperti ai bambini tra gli zero e i tre anni, vengono frequentati sostanzialmente da quelli che hanno compiuto il primo anno di età. L’organizzazione del setting e la varietà dei materiali disponibili, l’ampiezza degli 108 spazi e la conseguente dispersione fanno sì che le mamme preferiscano aspettare che il bambino sia almeno in grado di camminare da solo prima di portarlo al Tempo per le Famiglie. Infatti circa l’80% dei piccoli ha più di un anno36. L’età dei bambini è un fatto rilevante perchè ha conseguenze importanti sulle possibilità di azione e di interazione del genitore e dell’educatore con i piccoli: mentre nei Tempi per le Famiglie il ricorso al gioco, alle attività e alla “parola” come mediatori della relazione è molto frequente, a Coccole e Giochi questo non è possibile data proprio la tenerissima età dei bambini. Ecco perchè serviva andare ad esplorare anche questo progetto. Coccole e Giochi è un progetto finanziato dalla L. n. 285/97 ma è gestito dalla A.S.L. anziché dall’Ente Locale. La prima esperienza pilota è nata nel 1986 (come il primo Tempo per le Famiglie) ed oggi i poli sono 13, distribuiti sul territorio cittadino. La particolarità che dobbiamo rilevare è la gestione da parte dell’A.S.L. le cui finalità di individuare precocemente le disfunzioni dello sviluppo dei bambini per la promozione della salute, bene si conciliano con quelle di prevenzione 36 Da AA.VV., “Bambini a Milano”, op. cit.. 109 primaria a partire dalle difficoltà relazionali genitore-figlio della L. n.285/97. Inoltre, accanto allo psicologo e al tecnico della riabilitazione, l’A.S.L. ha scelto di avvalersi proprio dell’educatore professionale, riconoscendogli la competenza per quanto concerne gli aspetti educativorelazionali. A lui è anche richiesto di instaurare relazioni privilegiate con le mamme che lo desiderassero attraverso lo strumento delle visite domiciliari e di accompagnarle, laddove opportuno, alla conoscenza e all’utilizzo dei servizi per l’infanzia presenti sul territorio. Gli operatori dell’équipe lavorano in compresenza e sono specializzati nell’utilizzo di un metodo di osservazione che ha come riferimento teorico il modello Tavistock, che punta l’attenzione sulla capacità del professionista di osservare la relazione tra mamma e bambino. L’accesso al servizio è settimanale, libero e non necessita di iscrizione; gli incontri si svolgono nell’arco di due ore, durante la mattinata. Il gruppo delle mamme risulta sostanzialmente “mobile”, e la garanzia di continuità è rappresentata dalla presenza degli operatori e dall’organizzazione del setting. Questo è particolarmente significativo: è costituito da una stanza di dimensioni ridotte 110 al centro della quale si trova un tappeto dove i bambini vengono adagiati e dove possono giocare, quando le abilità manuali e motorie glielo consentono, con piccoli oggetti; tutti intorno a cerchio, gli adulti (accompagnatori ed operatori) interagiscono con i piccoli e tra di loro stando seduti a terra o su cuscini. Il significato di questo “cerchio” è quello di creare una sorta di “abbraccio simbolico” tra gli adulti e tra loro e i bambini, in un clima di incontro disteso e rilassante, ma anche di contenimento fisico per i piccolissimi. Il tappeto permette ai bambini di essere comodamente adagiati, di muoversi senza incontrare pericoli e sperimentarsi in piccole esplorazioni dello spazio e degli oggetti avendo la mamma come riferimento affettivo rassicurante. Gli adulti verificano che è possibile avere una relazione visiva a distanza, ma pur sempre una relazione e che non è necessario tenere sempre i bambini in braccio o nella carrozzina. L’obiettivo principale è quello di aiutare le mamme ad osservare i loro bambini e di mettere in luce le prime dinamiche relazionali per fare emergere la coppia. La Dott.ssa Mioli -psicologa e referente tecnico cittadino del progetto - mi racconta durante un colloquio che le mamme 111 vengono aiutate a “vedere i loro bambini” anche grazie al fatto che gli operatori tentano di “dare voce” ai piccoli; questo può accadere in un ambiente accogliente, non giudicante e protetto dove esse stesse sono supportate e contenute rispetto alle loro ansie; in un tempo in cui è possibile dedicarsi solo ai bambini perchè non vi sono altre distrazioni. Al valore del gruppo come risorsa per l’intervento educativo abbiamo fatto accenno in un paragrafo precedente, e verrà ripreso in uno dei capitoli a venire. 4.4. - CORSI PER GENITORI A testimoniare la crescente sensibilità delle istituzioni e l’emergere del bisogno dei genitori di essere aiutati nello svolgimento del loro compito, esistono in Italia, oltre ai servizi pubblici finanziati dalla L.. n.285/97, esperienze di corsi per genitori che abbiamo scelto di indagare perchè, seppure attualmente non vedono impegnati gli educatori professionali, potrebbero rappresentare un’interessante possibilità di espansione per il nostro lavoro. 112 Inoltre la filosofia che sta alla base di questi corsi e le loro finalità rappresentano una risposta opportuna ai bisogni della famiglia educante di cui abbiamo parlato. Vogliamo citare due esperienze che ci sembrano significative in quanto sono promosse principalmente dall’istituzione scolastica e si configurano come veri e propri corsi per genitori che si svolgono in piccoli gruppi durante i quali i genitori sono invitati a ragionare tra di loro e con il conduttore/formatore sulla loro relazione con i figli in un tempo e in uno spazio dove tale relazione è fisicamente assente. 4.4.a - Progetto Genitori 37 In Italia i segni più evidenti dell’interesse per il problema della relazione educativa genitore-figlio vengono dal mondo della scuola. Il Ministero della Pubblica Istruzione nel 1992 emanò due circolari che prevedevano, a partire dall’anno scolastico successivo, l’organizzazione di corsi 37 Paola Milani, “PROGETTO GENITORI. Itinerari educativi in piccolo e grande gruppo”, Edizioni Erickson, Trento, 1994. 113 per i genitori dei bambini delle scuole elementari e dei ragazzi delle scuole medie. Il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Padova avviò una riflessione e una ricerca-azione per capire dapprima quale tipo di corsi si sarebbero potuti realizzare, fino a giungere a formulare un preciso “Itinerario educativo per piccoli e grandi gruppi di genitori”. Il lavoro si sviluppa in 18 incontri di gruppo e parte da due ordini di presupposti : • occorre rafforzare la famiglia come base relazionale della comunità la cui salute è principio, strumento e fine ultimo della Community care; • agire in senso pedagogico significa riflettere per agire. La finalità è quella di fare leva sulle risorse dei genitori per potenziarle e fare in modo che giungano a riconoscere che è possibile trovare soluzioni efficaci e creative ai propri problemi non in modo immediato ed automatico, ma dopo una riflessione personale che tenga conto del punto di vista dei figli. I gruppi di lavoro vengono formati a seconda delle fasce d’età dei figli e possono essere rivolti sia a genitori di bambini o ragazzi che non hanno particolari 114 problemi che ad altri con figli handicappati, tossicodipendenti, ospedalizzati o affidati. Gli obiettivi del lavoro con i genitori sono di fornire loro informazioni scientificamente corrette, uno spazio di riflessione e contatto con se stessi, di accoglienza, accettazione e condivisione dei loro vissuti, di confronto con le pratiche educative degli altri in modo che le loro risorse possano essere moltiplicate e non offese da ricette preconfezionate. Il concetto che sta alla base del lavoro è quello dell’empowerment: il genitore è la persona più adeguata a comprendere i propri bisogni e quelli del proprio figlio se aiutato ad ascoltarsi e ad ascoltare, a riflettere e sperimentare soluzioni creative in prima persona. Vengono utilizzati vari strumenti per la riflessione e la discussione: letture, film, esercitazioni su casi portati dai conduttori e dagli stessi genitori, contributi teorici, schede di autocomprensione e autovalutazione dei propri modelli educativi. Per concludere questa breve esplorazione, ci sembra interessante recuperare alcune indicazioni circa il ruolo del professionista conduttore dei gruppi in quanto possono essere utili per la nostra riflessione sul ruolo dell’educatore: 115 egli deve essere cosciente delle proprie convinzioni ma deve saper utilizzare strumenti e principi che si ispirino ai differenti modelli educativi, indipendentemente dalle proprie credenze; deve aiutare il genitore ad esplicitare i propri obiettivi facendo attenzione a non proporre cambiamenti che siano in disaccordo con le sue credenze ed aspirazioni o che, in ogni caso, non possono essere accettati; deve credere fermamente nella capacità del genitore di attivarsi, modificare il proprio comportamento per raggiungere gli obiettivi che lui stesso si è proposto; deve agire sempre mantenendo coerenza tra ciò che dichiara e il modo in cui si comporta; egli è partner del genitore il quale è considerato per definizione competente in quanto è in grado di modificare il proprio comportamento in seguito ad una attenta riflessione. 4.4.b - P.E.T. Parent Effectiveness Training38 38 Thomas Gordon, “GENITORI EFFICACI - Educare figli responsabili”, edizioni la meridiana, Molfetta (BA), 1997 116 I corsi per “Genitori efficaci” nascono nel 1975 negli Stati Uniti. In venti anni hanno avuto uno sviluppo enorme (il primo gruppo era composto da 17 genitori; nel 1994 sono stati contati 250.000 partecipanti e 7000 formatori). In Italia fanno capo allo I.A.C.P. (Istituto dell’Approccio Centrato sulla Persona) - Dipartimento di Psicologia dell’Educazione di Roma. La filosofia di base fa riferimento a Carl Rogers, Thomas Gordon ed altri educatori di orientamento umanistico-esistenziale secondo i quali compito dei genitori è soprattutto quello di creare un clima di rispetto e di accettazione che escluda l’uso coercitivo del potere senza per questo sfociare nel permissivismo e nel disinteresse che sarebbero ancora più dannosi per i bambini. Secondo questo approccio è possibile coniugare libertà e disciplina senza rinunciare ad influenzare positivamente i figli. I genitori imparano a riconoscere ed esplicitare i propri bisogni come persone ed i propri sentimenti nei confronti dei figli; imparano a comprendere i bisogni di crescita dei figli e i loro sentimenti attraverso un ascolto attento. La risoluzione dei conflitti familiari viene affidata alla possibilità di riconoscere come degni di attenzione i bisogni di grandi 117 e piccoli e alla fiducia di poter trovare soluzioni soddisfacenti per tutti. Anche questi corsi si svolgono in piccoli gruppi; sono condotti da formatori ed hanno come principali committenti le scuole materne ed elementari. Negli ultimi anni si è assistito, grazie al passaparola, alla crescita delle richieste di formazione da parte di gruppi di genitori che, privatamente, si rivolgono alla scuola di Rogers. Questo dato ci sembra interessante perchè significa che ci sono persone disposte a pagare cifre anche consistenti per essere aiutate a svolgere il proprio compito educativo. A differenza del “Progetto Genitori”, questi corsi si configurano principalmente come luoghi di “addestramento” dei genitori all’utilizzo di un metodo preciso: essi sono invitati a portare nel gruppo le situazioni che vivono con i figli per provare a riguardarle da un altro punto di vista e per tentare di risolverle - attraverso l’aiuto del formatore e degli altri genitori - utilizzando il metodo. Lo strumento che viene principalmente usato è quello della simulazione. 118 4.5. - PER CONTINUARE Igor Salomone39 sostiene che dalla moltiplicazione delle risposte ai bisogni socio-educativi nasce il bisogno di specificazione: in generale ogni singola agenzia educativa non può riassumere in sé tutte le istanze pedagogiche ma deve domandarsi che cosa sa offrire, in che cosa è esperta per sapersi confrontare con le altre agenzie e con le famiglie sul piano delle differenze, non su quello delle sovrapposizioni e delle omologazioni. Deve rintracciare nella parzialità della delega di cui è portatrice il proprio oggetto intenzionale, pena la perdita della propria specificità e della possibilità di sopravvivere. I servizi educativi non possono percepirsi come coloro che risolvono i problemi degli altri sostituendovisi, ma come esperti di quei problemi e quindi in grado di aiutare chi ne è portatore a risolverli. Questo significa delimitare la propria prestazione nei confronti dei deleganti e non farsi chiedere tutto e il contrario di tutto. A maggior ragione i servizi di supporto alla genitorialità devono promuovere questa riflessione circa la loro 119 specificità perchè hanno una storia recentissima e non possono contare sulla tradizione culturale o riferirsi ad esperienze sociali precedenti. E’ vero che essi sono luoghi di socializzazione tra adulti ma non insegnano agli adulti a socializzare; è vero che sono spazi dove i bambini possono giocare tra di loro ma potrebbero farlo anche al parco giochi sotto casa o in una ludoteca; è vero che sono servizi che stimolano la crescita dei bambini ma, al loro interno, non operano “tecnici” specialisti nell’allestimento e nella conduzione di laboratori espressivi e didattici; è vero che gli educatori sono bravi a stare con i bambini ma non devono solo intrattenerli mentre le mamme chiacchierano tra di loro; è vero che sono luoghi dove i saperi scientifici attorno ai bisogni di crescita del bambino sono diffusi ma è anche vero che non ci si aspetta che gli educatori tengano delle conferenza a tema. Secondo la nostra ipotesi, la specificazione di questi servizi passa attraverso l’identificazione del proprio oggetto intenzionale (cioè del tema che viene trattato in quei servizi e non in altri) nella relazione educativa tra la mamma e il bambino e la scelta da parte degli educatori di lavorare 39 Igor Salomone, op. cit.. 120 secondo un paradigma pedagogicamente fondato cioè quello della relazione e della esperienza aperta al possibile. L’educatore nei servizi considerati condivide con mamme e bambini esperienze e relazioni il cui valore educativo sta proprio nella loro dimensione di apertura al possibile. CAPITOLO V LA PEDAGOGIA DELLA RELAZIONE E DELL’ESPERIENZA APERTE AL POSSIBILE 121 In questo capitolo tenteremo di argomentare i principi pedagogici che stanno a fondamento della nostra ipotesi di fondo. Faremo riferimento, sostanzialmente, al pensiero di due autori che ho incontrato lungo il mio sentiero: Piero Bertolini ed Igor Salomone. In particolare ci interessa capire PERCHÉ relazione ed esperienza sono campi di indagine propri della pedagogia e COME relazione ed esperienza possono diventare educative. Per provare a rispondere a questi quesiti prenderemo in esame due definizioni di educazione che, mettendone in luce aspetti differenti ed estremamente importanti, ci possono aiutare nella nostra esplorazione. Secondo Bertolini l’educazione è l’insieme dei fenomeni “dello sviluppo o della crescita bio- psicologica-spirituale che la comunicazione 122 interpersonale e la trasmissione culturale consentono o talvolta determinano [...]”. 40 L’insieme dei fenomeni che consentono sviluppo e crescita potrebbe essere definito come l’insieme delle ESPERIENZE che la persona vive; queste esperienze sono sempre e comunque esperienze di RELAZIONE tra la persona e il mondo, tra la persona e gli eventi, tra la persona e le altre persone. Relazionarsi al mondo e alle persone significa contattare un universo di contenuti, comportamenti, significati e valori soggettivi ed intersoggettivi che, in una parola, potremmo definire CULTURA. Se assumiamo che ognuno di noi si nutre e cresce grazie alle relazioni, riconosciamo che imparare a viverle in modo consapevole e produttivo diventa un obiettivo che l’educazione si deve porre. Esperienze e relazioni non sono sempre e necessariamente educative. Igor Salomone ci ricorda infatti che “non tutto educa e non si educa dappertutto”41. Sostenere il contrario equivarrebbe a 40 41 Piero Bertolini, op. cit., pag. 155 Igor Salomone, op. cit., pag. 57 123 negare l’utilità di qualsiasi riflessione sul tema dell’educazione. Non basta che un soggetto che si definisca educatore incontri un altro soggetto da educare. Inoltre, pur essendo un luogo comune che l’esperienza insegni, è anche vero che non sappiamo che cosa insegni perchè questo dipende solo ed esclusivamente dal SIGNIFICATO che ogni individuo può e vuole dare a tale esperienza. L’esperienza è azione, prodotta qui ed ora, per definizione non riproducibile. Lo stesso possiamo dire per quanto riguarda i contenuti e i saperi: anche essi insegnano per il significato che chi impara attribuisce loro. Comprendiamo, dunque, che esperienza e contenuti non possono essere trasmessi così come appaiono all’educatore e che, di conseguenza, pretendere o credere di farlo non significa affatto educare. Ciò che conta per la crescita e lo sviluppo delle persone non è la conoscenza della “verità” quanto il significato che ogni individuo attribuisce a ciò che conosce. L’esperienza diventa educativa quando agìta insieme da educatore ed educando, all’interno di un “progetto di un incontro appositamente finalizzato a far 124 imparare”42 e che richiede necessariamente l’adesione di entrambi i soggetti a tale progetto. “E l’educazione, intesa nel senso di un’interazione educativa tra un soggetto che insegna e uno che impara da chi insegna, non è altro che questo: l’elaborazione un’esperienza finalizzata giocata ad comune qui ed orientare le di ora e scelte successive per entrambi”43. Non è sufficiente che un soggetto sia sottoposto ad una serie di esperienze dalle quali può o meno scegliere di imparare ma, soprattutto, può scegliere che cosa imparare. Non basta nemmeno cercare di rendere accessibili una serie di contenuti perchè essi vengano imparati. Occorre una interazione, una relazione tra educatore ed educando che sia intenzionalmente orientata a rendere tali esperienze e tali contenuti educativi, ovvero che ne esplori i possibili significati prodotti qui, ora, tra i protagonisti e che si sforzi di ricondurli ad unità di senso che possano orientare la propria esistenza, le proprie scelte. 42 43 Igor Salomone, Ibidem, pag. 18 Igor Salomone, Ibidem, pag. 20 125 5.1. - FONDARE LA PEDAGOGIA COME SCIENZA Dopo aver esposto le nostre premesse fondamentali, cerchiamo di ripercorrerle ed argomentarle più approfonditamente dal punto di vista teorico. Torniamo alla prima domanda: perchè relazione ed esperienza sono campi di indagine della pedagogia? Come possiamo affermare che è proprio ponendo in essi il fondamento della propria ricerca e della propria azione che la pedagogia è scientificamente fondata? Cerchiamo di trovare una possibile risposta facendo ricorso alla riflessione di P. Bertolini44 sul possibile significato pedagogico della fenomenologia di Husserl che, appunto, può contribuire a fondare la pedagogia come scienza. Il bisogno di interrogarsi sui fondamenti epistemologici della pedagogia per tornare a fondarla come scienza rigorosa, viene, secondo Husserl, da una profonda crisi che investe le discipline umane tra cui la pedagogia e la 126 psicologia moderne. Questa crisi è dovuta, secondo il filosofo, ad una sostanziale ricerca di oggettività ed esattezza che hanno estromesso dal campo di indagine scientifica l’ambito della soggettività: “fino a costruire[...]delle scienze dello spirito a somiglianza cioè di quelle riducendo la naturalistiche, soggettività a e mera oggettività.”45 Anche la psicologia moderna (quella sperimentale e la psicanalisi) ha fatto lo stesso errore pretendendo di possedere una esattezza analoga a quella delle scienze della natura. Ha tentato di spiegare le cause dei fenomeni psichici, di produrre schematiche interpretazioni degli stessi basandosi su leggi di causaeffetto, rinunciando così a cogliere il significato soggettivo ed intersoggettivo dei fenomeni psichici. Complessivamente, dunque, la crisi del mondo contemporaneo viene attribuita a quella del senso dell’esistenza umana che non è solo crisi di valori ma anche di razionalità; alla crisi della soggettività intesa come rifiuto 44 45 della responsabilità Piero Bertolini, op. cit.. P. Bertolini, Ibidem, pag. 21 127 di ognuno nei rapporti interpersonali e con le cose; a quella di autenticità come perdita delle “essenze”. Anche, se non soprattutto, alla crisi della pedagogia che non assolve più la sua originaria funzione di orientare l’uomo alla consapevole conquista della propria umanità. Alla pedagogia, in quanto scienza dello spirito, spetterebbe il compito di contribuire ad uscire dalla crisi del mondo moderno e delle scienze “oggettive” attraverso un ritorno alla ricerca delle essenze dell’uomo, del senso della sua vita personale e relazionale. Il primo passo verso la ricostruzione della pedagogia come scienza rigorosa consiste (secondo la “traduzione” di Bertolini del pensiero di Husserl) nel proporre un concetto di razionalità nuova in quanto non legata alla ricerca di oggettività e verità assolute che stanno fuori dalla persona, ma come movimento del soggetto verso la ricerca del senso della relazione tra se stesso e l’oggetto, tra se stesso e gli altri soggetti. Questo movimento è possibile grazie alla coscienza presente in ogni individuo la quale si muove intenzionalmente verso oggetti, esperienze e persone e, per questo, è definita coscienza razionale. La 128 coscienza si dirige intenzionalmente verso il mondo realizzando un processo di costruzione di senso propria per il soggetto. Ogni processo di conoscenza è, quindi, un processo di movimento intenzionale della coscienza del soggetto verso qualche cosa che definiamo “essenze”. Queste essenze sono autonome rispetto al soggetto perchè stanno fuori di esso; pertanto la razionalità è relazionistica: “l’autentica dell’esperienza umana[...]si concretezza realizza sempre nell’effettiva relazione tra l’io e il dato.”46 Il processo di conoscenza non si esaurisce nello sforzo dell’intelletto di cogliere la realtà esterna oggettiva e vera, ma consiste nella ricerca e nella attribuzione del senso che ogni soggetto dà alla relazione tra sé e il dato, tra sé e le esperienze, tra sé e gli altri verso i quali la sua coscienza intenzionalmente (quindi razionalmente) si dirige. Se conoscere significa dare senso, se per conoscere dobbiamo metterci in relazione con qualche cosa o qualcuno, risulta evidente che le “scienze dello spirito” non possono avere a che fare con il mondo dell’oggettivismo 46 P. Bertolini, Ibidem, pag. 56 129 ma costringono ad un ritorno alla soggettività e all’intersoggettività. Sostenere la razionalità della relazione significa interrogarsi sul rapporto con l’altro: ecco che il secondo passo della ricostruzione della pedagogia come scienza rigorosa consiste nel porsi il problema della comunicazione. Entrare in relazione e comunicare consiste nell’accedere alla comprensione dell’altro, penetrare l’altrui esperienza non inserendovisi in modo intellettuale ma provando a sentire con l’altro, vedere nell’altro “ciò che io sarei se fossi al suo posto”. Il senso che l’altro dà alla sua relazione con noi e con il mondo ci è suggerito dal suo comportamento esteriore e ci è comprensibile a partire dalle “differenze” del nostro comportamento in circostanze simili. L’ “entropatia” - così Husserl definisce questo tipo di comprensione - non consente una conoscenza oggettiva e vera dell’altro (cioè una conoscenza di qualche cosa che, in modo verificabile e stabilmente ripetibile, sta fuori da me e dall’altro) perchè la comprensione empatica avviene solo ed esclusivamente nella reciprocità, ovvero nella dimensione che coinvolge ciò che di me e di te mettiamo in comune nella nostra relazione, in questo momento, 130 condividendo un’esperienza. Ogni comprensione dell’altro apre per i protagonisti reciprocamente coinvolti nuove associazioni, nuove possibilità e nuovi significati per il rapporto con l’altro, con se stessi e con il mondo nella misura in cui tali significati vengono condivisi. 5.2 - LA RAZIONALITÀ DELL’ESPERIENZA EDUCATIVA Cerchiamo ora di capire come razionalità e comunicazione si ritrovano nell’esperienza educativa diventando, così, campi di indagine propri di una pedagogia che possa dirsi scientificamente fondata. La concezione relazionistica della razionalità di Husserl si presenta come uno degli elementi strutturalmente fondanti dell’esperienza educativa “che è sempre e comunque una relazione, un rapporto.”47 Questo rapporto è presente nella vita dell’uomo come legame tra soggetto ed oggetto, tra coscienza e realtà, e come legame tra soggetti. Affinché questo rapporto sia scientificamente 47 P. Bertolini, Ibidem, pag. 112 131 fondato deve rinunciare a qualsiasi atteggiamento oggettivante e assolutizzante che pretenda di porsi come vero e incontrovertibile. Abbiamo detto che la relazione apre ai protagonisti nuove possibilità e nuovi significati ed è proprio l’ambito delle possibilità e dei significati che esclude quello delle verità precostituite. L’esperienza è relazionale, contingente, non automatizzabile. Questo significa che ogni evento educativo è costituito dal rapporto tra educatore, educando e contesto all’interno del quale si svolge. Inoltre, ogni evento educativo “parte dalla convinzione che ogni situazione data è [...] modificabile in una situazione nuova, che nasce e si costituisce proprio mediante la relazione.”48. La relazione e la comunicazione autentiche che si fondino sulla comprensione empatica, mettono in contatto due soggetti nella concretezza di una situazione o esperienza data. E’ questo contatto che apre ai protagonisti nuovi mondi, nuove prospettive, nuove possibilità. Le situazioni date sono modificabili proprio perchè possono assumere significati diversi per i soggetti coinvolti che si comprendano reciprocamente. 48 P. Bertolini, Ibidem, pag. 114 132 Ogni evento educativo deve caratterizzarsi come uno sforzo di produzione e costruzione di senso per educando ed educatore. In caso contrario non si potrebbe parlare di rapporto educativo ma di riproduzione, se non addirittura imposizione, di un senso già dato dall’educatore all’educando. Come non si può parlare di evento educativo scientificamente fondato quando questo si accontenti di “elargire” significati già dati, ugualmente non possiamo pensare che un evento educativo si configuri come passaggio di contenuti precostituiti da trasmettere per forza in modo autoritario. L’esperienza educativa in situazione non è mai un’esperienza sicura e priva di rischi ma può essere legata al negativo. Il negativo viene soprattutto da tutti quegli atteggiamenti educativi irrelazionistici che rifiutano di riconoscere l’altro da sé e che conducono alla chiusura, al settarismo, all’egoismo, all’incomprensione e alla mancanza di amore. Siamo quindi arrivati ad affermare che l’esperienza educativa scientificamente fondata è esperienza relazionale aperta al possibile, che rifiuti posizioni oggettivanti e assolutizzanti ma che aiuti le persone a 133 crescere attraverso la progressiva costruzione e revisione del significato della propria esistenza, del proprio rapporto con le cose e con le persone; che aiuti gli uomini ad essere consapevoli di potersi autodeterminare in modo responsabile pur riconoscendo che la propria libertà è condizionata in quanto contestualizzata. A questo punto è importante mettere in evidenza due concetti fondamentali che approfondiremo di seguito: • L’estensione della categoria della relazione è il principio operativo dell’ATTENERSI ALLA RELAZIONE; • l’estensione della categoria dell’apertura al possibile è il principio operativo della ESPANSIONE dell’ESPERIENZA DELL’EDUCANDO. 5.3 - ATTENERSI ALLA RELAZIONE La funzione prassico-metodologica del principio della relazione è proprio quello dell’attenersi alla relazione. Cosa significa questo per noi? Prima di tutto significa domandarsi se il nostro rapporto con l’educando è veramente ispirato alla reciprocità, alla comunicazione e 134 alla comprensione empatica perchè è solo questo lo spazio dentro il quale e grazie al quale possono avvenire dei cambiamenti. In sintesi significa domandarsi: siamo in relazione? Ma dobbiamo fare ancora un passo in avanti. Se siamo in relazione, stiamo trattando la relazione? Siamo in grado di parlare “sulla relazione”? Stiamo ragionando attorno al senso che la nostra relazione assume dentro l’esperienza che condividiamo? Quali significati nuovi apre il nostro rapporto rispetto a ciò che viviamo insieme? 5.4. - L’ESPANSIONE DELL’ESPERIENZA P. Bertolini sottolinea che quando anche fossimo in grado di comprendere il mondo dell’educando grazie alla comprensione empatica ma ci fermassimo ad esso, rinunceremmo a qualsiasi azione educativa. Questo significa che l’educatore deve essere in grado di progettare e condurre insieme all’educando una serie di esperienze che possano arricchire il 135 mondo dei significati dell’educando. Ma proporre tante esperienze, per quanto significative in potenza, e farle vivere in modo attivo e consapevole all’educando non significa di per sé fare educazione. Non si tratta dunque di organizzare un numero vasto di “occasioni di apprendimento” - Salomone ci ricorda che per apprendere non c’è bisogno di alcun incontro tra educatore ed educando dal momento che l’azione di apprendere inizia e finisce in chi decide di compierla - ma di indagare ed ampliare il più possibile i significati che le esperienze vissute insieme, qui ed ora, anche se negative e poco numerose, possono suggerire ai protagonisti delle stesse. Secondo il principio dell’espansione dell’esperienza dobbiamo domandarci: stiamo condividendo e rielaborando il significato delle esperienze che viviamo insieme? Stiamo progettando e conducendo esperienze che, almeno potenzialmente, possono aiutare le persone a crescere, cioè ad ampliare la propria possibilità di azione e di significazione? 5.5. - L’OGGETTO INTENZIONALE 136 Parlare di relazioni ed esperienze che fanno crescere, quindi educative, richiede l’introduzione, a supporto del nostro ragionamento, di altri concetti fondamentali. Primo tra questi l’oggetto intenzionale. Ci siamo riferiti in precedenza all’intenzionalità della coscienza di ogni uomo come “direzione verso qualche cosa e qualcuno”. Spesso, soprattutto quando ci siamo riferiti alla dimensione progettuale dell’evento educativo, abbiamo attribuito al termine “intenzionale” il significato di volontario, prevedibile, predefinito e determinante un cambiamento in una direzione prestabilita. In sintesi abbiamo pensato che costruendo intenzionalmente certe esperienze o progettando taluni interventi “sulle persone” avremmo prodotto in loro determinati cambiamenti. L’esperienza educativa è, secondo il nostro approccio, anche essa un’esperienza intenzionale prima di tutto perchè non è casuale, estemporanea e non può esaurirsi in un rapporto caloroso ed affettivo. Essa deve certamente essere caratterizzata dalla dimensione della progettualità nella prospettiva dello sviluppo e della crescita cognitiva, valoriale, comportamentale e relazionale dell’educando e, aggiungerei, dell’educatore, perchè queste sono le finalità 137 di qualsiasi progetto educativo. Ma l’evento educativo concretizza la sua intenzionalità nella misura in cui si dirige verso un oggetto che diventa il tema sul quale ragionare e attorno al quale produrre significati. Secondo l’accezione che complessivamente i due autori propongono, l’evento educativo diventa intenzionale nella misura in cui si orienta verso qualche cosa che sta fuori di noi - esperienza o persona che sia - ma che è presente tra noi, qui ed ora. Non possiamo pensare di rendere educative esperienze che non viviamo o relazioni dalle quali ci sforziamo di stare fuori. Per tornare al principio dell’attenersi alla relazione, possiamo a questo punto sostenere che la relazione diventa il nostro oggetto intenzionale, il tema attorno al quale vogliamo e possiamo costruire e condividere i significati. Riprendendo il principio dell’espansione dell’esperienza possiamo sostenere che le esperienze diventano il nostro oggetto intenzionale nella misura in cui educatori ed educandi tematizzano concretamente, tali esperienze trattano. 138 ciò che, molto A questo proposito vorrei citare un esempio di Igor Salomone49: una vacanza estiva per preadolescenti ha come oggetto intenzionale non certo la socializzazione - i ragazzi potrebbero viversi tale vacanza in completo isolamento e scegliere altri luoghi e altri tempi per socializzare - ma la vacanza stessa in quanto essa rappresenta un certo modello di vacanza comunitaria che apre attorno a sé significati e vincoli propri. L’esperienza della vacanza diventa educativa se essa stessa diventa il tema, il filo conduttore rispetto al quale chi la vive viene aiutato a comprendere il proprio rapporto con essa nel bene e nel male, se riesce ad intuire che cosa gli è piaciuto e cosa non gli è piaciuto, se riesce a decidere se quel particolare modo di fare vacanza, così diverso dagli altri, vale la pena di essere vissuto e per quali motivi. 5.6. - IL CAMBIAMENTO Se l’intenzionalità educativa si realizza nell’ampliamento dei significati della relazione tra noi e le esperienze che 49 Igor Salomone, op. cit.. 139 viviamo, tra noi e le persone con le quali le viviamo, non possiamo più pensare che una buona interazione educativa è solo quella che produce un cambiamento visibile e ripetibile del comportamento dell’educando. “La misura del successo”50 non consiste nella obbedienza, quindi nella ripetizione di atteggiamenti o comportamenti che l’educatore definisce “corretti” a priori. E non consiste nemmeno nella continuità dell’emissione di comportamenti simili in contesti differenti. Il cambiamento di cui parliamo non è il cambiamento della persona dal punto di vista intrapsichico e comportamentale ma è ampliamento degli orizzonti dei significati che tale persona può attribuire al proprio modo di vivere gli eventi, di rapportarsi con il mondo e con le persone. In questo senso cambiamento non è modificazione della persona nel suo modo di vivere e di essere - in tal caso l’educando diventerebbe oggetto della nostra azione educativa - ma è movimento del soggetto verso la complessificazione del modo di interpretare e significare il proprio modo di essere nel mondo. Progettando esperienze educative pensiamo 50 I. Salomone, Ibidem, pag. 172 140 spesso di poter cambiare la testa delle persone mentre possiamo sperare di modificare, educatori ed educandi insieme, solo il modo in cui stiamo nelle esperienze e ci relazioniamo ad esse ampliandone i significati. P. Bertolini, a proposito dell’importanza delle esperienze, scrive che esse trovano il loro potenziale educativo nella misura in cui possono suggerire all’educando una revisione autonoma del proprio vissuto dalla quale potrà spontaneamente ma non automaticamente discendere una revisione delle proprie esperienze passate ed una modificazione del comportamento attuale e futuro. Ugualmente ci illudiamo che i nostri interventi educativi possano migliorare la personalità dell’educando rafforzandola; invece, secondo la nostra prospettiva, possono ridefinire la nostra relazione con l’educando esplicitandone il senso. Il cambiamento del comportamento può essere una conseguenza delle esperienze e delle relazioni educative, ma non c’è certamente un legame di causa-effetto tra intenzionalità educativa e risultato comportamentale se partiamo dal presupposto che la sfera dei significati ha a che fare con la soggettività (altrimenti non ci spiegheremmo come mai persone che vivono 141 esperienze simili reagiscono in modi completamente diversi e perchè noi siamo sempre gli stessi ma le relazioni che abbiamo sono così differenti) e se accettiamo che decidere di farsi educare ed eventualmente di cambiare, sono faccende che riguardano l’educando più che l’educatore e che solo il soggetto che cambia possiede la misura e la direzione del proprio cambiamento. Certo auspichiamo che questo modo di vivere le esperienze e di stare nelle relazioni si orienti nella direzione di una sempre maggiore consapevolezza, significatività e reciprocità: è solo quest’ultima che, nella misura in cui mette in comune significati e punti di vista diversi e li fa sopravvivere in modo dialettico, può arricchire la nostra visione del mondo e farci crescere. 5.7. - SISTEMA COMUNICATIVO E SISTEMA PSICHICO Nel paragrafo precedente abbiamo usato espressioni quali “personalità”, “intrapsichico”, “modo di essere”. Essi si riferiscono chiaramente ad un campo di indagine propri della psicologia anche se, forse troppo spesso, entrano nel linguaggio educativo. Lo stesso Bertolini riconosce che la 142 psicologia è giustamente considerata come scienza molto vicina alla pedagogia; così vicina da averla non solo fortemente influenzata ma addirittura invasa con il proprio linguaggio e i propri significati contribuendo a farle perdere una propria specificità. Matilde Callari Galli51 critica aspramente ogni tentativo di qualsiasi disciplina di porsi come “la” disciplina in grado di spiegare tutto lo scibile umano. A suo parere, l’antropologia, la pedagogia, la psicologia a turno si illudono di poter comprendere in se stesse tutte le risposte ai perchè dell’uomo per poi ritrovarsi nello sconforto più totale quando si rendono conto che ognuna di loro può essere portatrice di “un” punto di vista, non della totalità e che pretendere di occuparsi di tutto significa finire per occuparsi di niente. In questo senso non vogliamo fare il processo alla psicologia “invasore” del campo della pedagogia perchè qualcuno potrebbe giustamente obiettare che la pedagogia si è lasciata invadere. Il nostro obiettivo è quello di chiarire che se la pedagogia trovasse il proprio specifico ambito di interesse potrebbe smettere di temere i saperi forti e di difendersi da essi 51 Matilde Callari Galli, op. cit.. 143 perchè la psicologia ha già un proprio campo di indagine e non ha bisogno di appropriarsi di quello della pedagogia nella misura in cui quest’ultimo risulti chiaro prima di tutto a chi di educazione si occupa. Riconoscere e riconoscersi in un campo di studio conferisce specificità, consapevolezza della propria parzialità ed elimina il bisogno di copiare altri professionisti - peraltro senza riuscirci - o di professarsi “tuttologi” che equivale spesso, nella prassi quotidiana del lavoro educativo, a presentarsi e ad essere percepiti come coloro che “tutto fanno” grazie ad un sano buon senso, ma che poco hanno a che fare con scienza e professionalità. 5.7.a - La teoria dei sistemi e la sua applicazione pedagogica Dopo questa lunga premessa vogliamo tornare al paradigma pedagogico che stiamo esplorando facendoci aiutare dalle argomentazioni, per noi estremamente convincenti, di Igor Salomone che spiega come sia 144 possibile sgombrare il campo dell’educazione da ogni interferenza psicologica facendo riferimento alla teoria dei sistemi che cercheremo di esporre di seguito. La sua riflessione parte dall’assunto teorico secondo il quale il sistema, inteso come insieme di elementi interagenti tra di loro all’interno di uno spazio delimitato da confini, è un’entità concreta e viva che, come tale, ha bisogno di alimentarsi per sopravvivere. Ogni essere vivente è un sistema ed ognuno di noi è immerso in una moltitudine di sistemi in relazione non gerarchica tra di loro. Ogni sistema ha un proprio ambiente di riferimento il quale vive secondo regole differenti dalle regole interne al sistema. Elementi definitori del sistema Il confine del sistema è ciò che definisce ciò che sta dentro il sistema e ciò che sta nell’ambiente; di conseguenza definisce l’ambito di applicabilità delle regole che valgono dentro il sistema ma non nel suo ambiente. Pertanto non tutto dipende da tutto: esiste una forte interdipendenza tra gli elementi del sistema; esiste una influenza non 145 deterministica tra ambiente e sistema. Il sistema è autonomo perchè interpreta appunto autonomamente i dati provenienti dall’ambiente. Non è indipendente dall’ambiente perchè ne subisce le influenze seppure in modo non deterministico. Le regole di interdipendenza tra elementi del sistema sono diverse dalle regole di influenzamento dell’ambiente verso il sistema. Ogni sistema è ambiente di altri sistemi . L’ambiente è tutto ciò che sta fuori dal confine del sistema e lo influenza attraverso un rapporto di inputs e outputs. Gli inputs forniti dall’ambiente al sistema non possono essere scelti da quest’ultimo ma, contemporaneamente, l’ambiente non può definire come gli inputs saranno interpretati e trattati dal sistema. I vincoli sono regole necessarie e inviolabili provenienti dall’ambiente che ogni sistema può e deve autonomamente interpretare. Se da un lato i vincoli definiscono ciò che è impossibile o necessario, dall’altro aprono una vasta serie di possibilità di azione. Infatti ogni sistema vivente si rapporta allo stesso vincolo in modo diverso nella misura in cui diversamente lo interpreta. Il 146 vincolo è necessario, inviolabile ma relativo nella sua dimensione spazio temporale. Ogni persona è un insieme di sistemi i quali si riferiscono ad ambienti diversi: il sistema organico, quello cognitivo/psichico, quello comunicativo. Ogni sistema è a sua volta ambiente per gli altri: il sistema organico è ambiente per quello cognitivo e ne definisce i vincoli, tanto che, per esempio, se non si nutre di cibo ed acqua interferisce sulla capacità di pensiero. Ma le interferenze od influenze non sono determinanti: un corpo che non si nutre può assopire la capacità di pensiero o, al contrario, stimolarla affinché si trovino le strategie per trovare del cibo. Questo significa interpretare in modi differenti i vincoli provenienti dall’ambiente. Ciò che ci interessa ora sottolineare è che il sistema di riferimento in campo educativo è quello COMUNICATIVO. Esso definisce il campo di azione proprio della pedagogia perchè è in esso che educatore ed educando possono praticare e lavorare e perchè ognuno di noi ha accesso al sistema comunicativo dell’altro, meno ne ha al sistema psichico. E’ ciò che educatore ed educando si dicono (non 147 solo con le parole), ciò che essi mettono a disposizione l’uno dell’altro nell’atto comunicativo che può essere trattato da un punto di vista educativo, non ciò che passa nella testa dei due, le loro più remote e recondite intenzioni. Un’intenzione o un pensiero non comunicati ripeto non solo con le parole ma anche con il comportamento - rimangono fuori dal sistema comunicativo e, per definizione, fuori dal campo di azione educativo. Inoltre il principio di “indeterminazione psicologica” dice che noi non conosciamo mai gli altri, ma solo il nostro rapporto con loro. Un rapporto che si concretizza nella comunicazione la quale produce influenzamento reciproco: noi non riusciamo a conoscere gli altri per quello che sono ma solo gli aspetti che con la comunicazione emergono e che la comunicazione influenza. Due persone che comunicano appartengono a due sistemi psichici differenti; la psiche è ambiente del sistema comunicativo, appartiene al complesso dei vincoli ma non determina la relazione, mentre il sistema comunicativo è e rimane l’unico al quale entrambe appartengono. Il sistema comunicativo seleziona infatti una parte del sistema psichico e quest’ultimo 148 continua a funzionare indipendentemente da ciò che avviene nella comunicazione: sappiamo tutti che comunichiamo parti di noi differenti a seconda del contesto in cui ci troviamo e delle persone con le quali ci relazioniamo, ma questo non significa che smettiamo di essere noi stessi. Vale anche il ragionamento contrario: dentro di noi abbiamo molti pensieri, emozioni e intenzioni ma non sempre vogliamo e possiamo metterli a disposizione dei nostri interlocutori senza però pensare che non dire tutto di noi significhi non comunicare affatto. Se vogliamo ricondurre questa affermazione ai principi teorici esposti sopra, possiamo ricordare che l’ambiente psiche influenza il sistema comunicativo ma non lo determina perchè ogni sistema interpreta autonomamente gli inputs provenienti dall’ambiente. Infatti il sistema comunicativo/relazionale apre possibilità nuove di espressione di parti di sé e di interpretazione dei vincoli provenienti dal proprio sistema psichico. E’ anche vero che il processo di influenzamento reciproco degli elementi all’interno dello stesso sistema (in questo caso quello comunicativo) è più potente di quello che interessa l’ambiente verso il sistema ed è all’interno del sistema 149 relazionale che avvengono le contaminazioni reciproche che a noi piace definire come produzione di significati nuovi. Tutto quanto abbiamo detto finora implica che ciò che conta in educazione è ciò che ci si trasmette e i significati che emergono nella comunicazione; meno importante è ciò che pensiamo e quelle che potrebbero essere le cause remote del nostro comportamento attuale. Normalmente gli educatori lavorano in situazioni nelle quali le informazioni e le conoscenze dei soggetti riguardo il loro passato non sono esaurienti. Ma questo non è un ostacolo se pensiamo che la storia, i vissuti e i sentimenti esistono come “ambiente” di ciò che le persone ci dicono e fanno oggi e, fortunatamente, ciò che esprimono oggi è largamente autonomo rispetto a ciò che hanno vissuto. Spesso abbiamo pensato che sapere tutto del passato dei soggetti significa conoscerli e che per poter agire con loro occorre raccogliere tutte le informazioni possibili che li riguardano. Ancora ci siamo illusi che le spiegazioni e le letture psicologiche ci autorizzassero a penetrare la testa altrui per manipolarla. Ma una volta che avessimo una conoscenza analitica di fatti, eventi e vissuti che non sono 150 presenti oggi nell’esperienza che condividiamo, cosa ce ne facciamo? Se anche comportamenti di potessimo oggi trovano ipotizzare la loro che “causa” i in esperienze passate, come potremmo trattare quelle cause? Le spiegazioni psicologiche, le diagnosi dettagliate non rispondono al bisogno di azione propri dell’educazione proprio perchè i contesti educativi e quelli terapeutici sono completamente diversi. Dal punto di vista educativo ciò che è stato è stato e non possiamo né cancellarlo né modificarlo. Ciò che possiamo fare è trattare ciò che del passato emerge ora e sperare di produrre significati nuovi spendibili nel futuro. Il lavoro educativo consiste, infatti, nel saper agire sulla base delle informazioni prodotte nel momento presente; informazioni che trovano il loro ambiente anche nel passato e nella visione del mondo che ogni individuo è andato costruendosi ma che hanno come obiettivo quello di orientare le scelte future. In sintesi elaborazione condivisione abbiamo dei di sostenuto significati un’esperienza che che che l’educazione emergono possono è dalla essere ricondotti ad unità di senso permanenti e che potrebbero orientare scelte future. 151 Cosa elaboriamo? Come elaboriamo? Elaboriamo con la comunicazione ciò che riusciamo a comunicarci vivendo insieme un’esperienza, qui ed ora; un’esperienza che produce un sapere nuovo e condiviso. 5.8. - IL LINGUAGGIO EDUCATIVO Dopo aver risposto alle due domande iniziali, dopo aver sgombrato il campo dalle interferenze epistemologiche di altre discipline, ci domandiamo ora di che cosa parlano educatore ed educando, come parlano, con quali strumenti ed atteggiamenti. Per tentare di rispondere a questi quesiti ricorriamo ancora ad alcuni fondamenti pedagogici elaborati dai due autori considerati, primo tra tutti quello della sospensione del giudizio come condizione per accedere alla comprensione dell’altro. Nei paragrafi precedenti abbiamo parlato di entropatia come capacità di comprendere l’altro nei suoi più originari orientamenti di senso. Tale tipo di comprensione ha l’obiettivo di mettere in contatto due soggetti e perchè questo avvenga occorre che l’educatore sospenda il 152 giudizio nei confronti dell’educando e di se stesso. Sospendere il giudizio sull’altro e su se stessi significa rinunciare all’oggettivismo e alle verità precostituite da offrire in pillole a se stessi, prima di tutto, e agli altri; significa soprattutto tenere spalancate le porte della comunicazione, consentire ai significati di affiorare e tenerli vivi anche quando fossero in contraddizione tra di loro. “Non ci è possibile biasimare le cose che comprendiamo”52, non ci è possibile comprendere le cose e le persone che biasimiamo. Se partiamo dal presupposto, peraltro argomentato sopra, che l’educatore non è colui che prescrive, impone, valuta e decide per conto dell’educando ma crediamo che la relazione è lo spazio all’interno del quale una situazione data può modificarsi mediante l’ampliamento degli orizzonti del possibile che essa stessa consente, non dobbiamo cadere nell’insidiante tranello del sentirci in dovere, come educatori, di dare delle risposte sagge e dotte, di pronunciare sentenze e schierarci nel mondo dei “giusti” 52 Bruno Bettelheim, “Un genitore quasi perfetto”, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1987, pag. 71 153 portando con noi coloro che, secondo il nostro giudizio, sbagliano. Tutto questo non significa ovviamente che l’educatore non debba essere portatore in sé di giudizi e valori, che non possa e non debba mai dire la sua; non significa nemmeno che tutto va bene, che tutto è consentito. La libertà di ognuno non è mai assoluta ma è sempre contestualizzata rispetto alla cultura e ai valori di riferimento, rispetto al luogo e al tempo nei quali si svolgono esperienze e relazioni. Se proviamo a leggere il concetto di libertà secondo la visione sistemica di cui abbiamo parlato sopra, comprendiamo che essa è condizionata dall’ambiente che pone vincoli e regole che ognuno di noi può, ma forse ancora di più non può fare a meno di trattare in modo originale. Aggiungiamo che la libertà è condizionata, o meglio, caratterizzata dal ruolo che ognuno di noi ricopre. Se intendiamo il ruolo come filtro che seleziona le parti di noi che vogliamo e possiamo esprimere in un determinato contesto, comprendiamo che l’educatore può certamente dire la sua, ma tutto quello che dice e fa avrà un impatto sull’educando caratterizzato dal fatto che uno è educatore e l’altro è educando. Il ruolo , in questo senso, diventa 154 vincolo che ha a che fare con la necessità (l’educatore è educatore e non può essere amico, fratello, compagno o terapeuta) e con la possibilità (i significati del rapporto che l’educando ha con l’autorità sono molteplici e possono essere trattati, arricchiti, modificati grazie all’elaborazione comune). Sospendiamo il giudizio non per annullare ciò che pensiamo e ciò in cui crediamo ma per accedere alla comprensione dell’altro; successivamente, quando la relazione lo consente, possiamo riappropriarci del nostro giudizio per renderlo accessibile all’educando come proposta di significato, non come verità assoluta. P. Bertolini53 scrive che comprendere l’educando non significa adeguarvisi passivamente ma significa metterlo nelle condizioni di essere disponibile, proprio perchè si sente compreso, a prendere contatto con altri pensieri, altre esperienze, altri significati dall’educatore. 53 Piero Bertolini, op. cit.. 155 proposti proprio Addentriamoci ora nel linguaggio educativo vero e proprio che è, secondo noi, quello dei significati, dell’esperienza e della relazione aperte al possibile. Wittghenstein sosteneva che il linguaggio è portatore di una visione del mondo, di una chiave di lettura e di interpretazione della realtà e che i limiti del linguaggio sono i limiti del nostro mondo. Ogni professione ed ogni disciplina possiedono un linguaggio specifico che determina la specificità del ruolo di chi quella professione svolge. Ma il linguaggio educativo incappa in due ordini di problemi: la contaminazione di altri linguaggi scientificamente “forti” e la sua origine naturale, in quanto nasce dalla pratica famigliare. Per quanto riguarda la prima annotazione ci rendiamo conto di quanto, nel tentativo di conferire carattere di scientificità al linguaggio pedagogico, spesso prendiamo a prestito i linguaggi forti della psicologia (in particolare della psicanalisi), della psicosociologia e della sociologia. Per ciò che concerne invece la seconda, non possiamo non riflettere sul fatto che l’educazione professionale nasce come emanazione di quella naturale e, forse, questo ne spiega la debolezza sul piano scientifico. 156 Forse possiamo uscire da questo circolo vizioso facendo un doppio sforzo: da una parte ritagliandoci un ambito di specificità del linguaggio; dall’altro scostandoci dallo stereotipo secondo il quale scientifico è quel linguaggio complesso, spesso poco comprensibile e, in ogni caso, accessibile a pochi. Proviamo a domandarci se già esiste un linguaggio specificatamente educativo e, in caso di risposta affermativa, come deve essere perchè sia scientificamente fondato. Salomone risponde che il linguaggio educativo esiste già, che esso è un discorso che ha a che fare con il mondo delle esperienze, delle relazioni e dei significati; un mondo non certo di pochi eletti ma di tutti noi ed è proprio questo che lo rende forte. E’ il linguaggio delle cose concrete di tutti i giorni. Educatore ed educando devono far parlare le esperienze, ciò che fanno insieme e il significato che danno agli eventi. Per esempio, in una comunità per minori educatori e ragazzi vivono, seppure in misura diversa, la dimensione della convivenza che si pone come vincolo di necessità (non si può avere la propria stanza, la propria cucina, non si può nemmeno andare a vivere da soli) ma anche di possibilità. Un educatore che 157 voglia aiutare il giovane a rielaborare il significato di “dover” vivere con altre persone, che tra l’altro non sono famigliari ma perfetti estranei, deve essersi posto la domanda su come egli stesso vive, sente e gestisce la convivenza in quella stessa comunità. Una volta che l’educatore ha elaborato il proprio sistema di significati attorno alla convivenza la può offrire all’educando come “pietra di paragone” che lo aiuti a costruirsi il proprio significato attorno allo stesso tema. Inoltre educatore ed educando devono far parlare la loro relazione, parlare “sulla” loro relazione. Tornando all’esempio di cui sopra, occorre tematizzare il significato che l’educando dà al proprio rapporto con l’educatore il quale, nel momento presente, rappresenta l’autorità, rappresenta un padre ma padre non è; prima di tutto perchè quello di genitore non è specificatamente il suo ruolo e, se anche volessimo trovarvi delle somiglianze, l’educatore lo interpreta in modo molto differente rispetto a quello in cui lo interpreta il vero padre. E tutta l’interazione avviene in un contesto particolare, dove esistono regole e vincoli differenti da quelli esistenti nel proprio nucleo famigliare. 158 P. Bertolini condanna come non scientificamente fondati tutti quei linguaggi che escludono la reciprocità. Pedagogico è quel linguaggio che non si presenta come un discorso di verità oggettivante che assolutizzi pensieri, esperienze e possibilità perchè finirebbe per non rispettare la libertà di ogni individuo; pedagogico è il linguaggio che si presenta come “discorso progettante”54, aperto al possibile (come lo è l’esperienza educativa scientificamente fondata), dinamico ed intenzionalmente diretto verso la costruzione del significato del proprio vivere nel mondo. Il linguaggio educativo per eccellenza è il linguaggio dell’esempio, completo e convincente perchè rimanda alla corporeità dell’educatore e dell’educando. Esso diventa forte nella misura in cui rappresenta la continuità e l’identità tra il contenuto e la forma ed è orientato ad indicare orizzonti possibili, valori autenticamente incarnati e, per questo, degni di essere presi in considerazione ed, eventualmente, condivisi. Tornando all’esempio della convivenza in comunità: un educatore che professi che è bello vivere tutti insieme, che è arricchente e poi, appena ha cinque minuti, si isola in un 54 P. Bertolini, Ibidem, pag. 213 159 angolo per leggersi il suo libro non sta utilizzando un linguaggio pedagogico coerente e scientificamente fondato. 5.9 - RISPETTO, RESPONSABILITÀ E LIBERTÀ: VALORI ETICI E DATI IMPRESCINDIBILI “Si può educazione affermare consiste in che[...]la una vera educazione al senso di responsabilità, nel rispetto di sé e degli altri:[...]solo in tal modo l’individuo è in grado di dare alla propria esistenza un valore morale e[...]di sviluppare in sé le caratteristiche proprie del cittadino.”.55 Ognuno di noi incontra nella vita persone che pretendono di esserci maestre. Ma un maestro diventa tale solo se l’allievo lo sceglie. Se ripensiamo alla nostra vita e cerchiamo di ricordare persone ed esperienze che “ci 55 P. Bertolini, Ibidem, pag. 142 160 hanno insegnato qualche cosa” ci ritroviamo a contarle sulla punta delle dita di una mano, non perchè siamo stati sfortunati e pochi ci hanno aiutato a crescere, ma perchè abbiamo selezionato solo persone ed esperienze che sono state per noi particolarmente significative. Questa premessa serve per riflettere sul fatto che rispetto, libertà e responsabilità sono valori universalmente (o quasi) riconosciuti ma sono anche dati di fatto imprescindibili per chi si accinge a fare educazione. Chiunque pretendesse di intendere l’educazione come prescrizione, giudizio di valore e ripetizione di contenuti e significati già dati, non solo rinuncerebbe ad una prassi pedagogicamente fondata ed al perseguimento degli obiettivi autentici dell’educazione; la sua opera risulterebbe fallimentare perchè, come dice Salomone, decidere di farsi educare e di ampliare la propria visione del mondo sono fatti che riguardano più l’educando che l’educatore e per imparare occorre la volontà di “lasciarsi insegnare”. Come abbiamo più volte ribadito, il processo di attribuzione di significato ha a che fare con la soggettività. Ben inteso che stiamo parlando di educazione, non di manipolazione e condizionamento. 161 Questi valori assumono un significato ancora più forte in riferimento all’ipotesi di fondo del movimento di educazione umanistico-esistenziale: se si è in grado di arrivare al nucleo centrale della persona si troverà una tendenza positiva verso l’autorealizzazione e non una bestia selvaggia da domare. Quando si crea un clima di autentico ascolto, fiducia e libertà, la persona può seguire qualsiasi direzione ma di fatto sceglie spesso strade positive e costruttive. “Non tutto educa”56; non tutti educhiamo e se ripensiamo ancora a quelle persone che ci hanno insegnato qualche cosa forse scopriamo che sono state quelle che ci hanno insegnato a rispettarle perchè per prime ci hanno rispettati; sono quelle che si sono proposte a noi come esempi di “possibilità” e non come “modelli da riprodurre”; sono quelle che ci hanno accettato come “altro” da sé senza giudicarci; sono quelle che ci hanno aiutati a prenderci le nostre responsabilità assumendosi per primi le loro e consentendoci di percepire noi stessi all’origine delle nostre scelte e comportamenti. Sono stati i nostri genitori, 56 I. Salomone, Ibidem, pag. 57 162 se e quando hanno potuto “regalarci soltanto due cose: le radici e le ali.”57 CAPITOLO VI DALLA TEORIA ALLA PRATICA L’obiettivo di questo capitolo è quello di declinare il paradigma pedagogico che abbiamo assunto all’interno dell’esperienza dei progetti Tempi per le Famiglie e Coccole e Giochi. Cercheremo dapprima di “tradurlo” per 57 Proverbio del Quebec su G. Macario, op. cit.. 163 il significato che può assumere per l’Educatore in questi servizi; successivamente ricostruiremo delle situazioni concrete che ho vissuto in prima persona durante il tirocinio e che mi sono state raccontate da educatori esperti che lavorano da molti anni in questo campo. Le situazioni verranno descritte per come gli operatori le hanno colte, e commentate alla luce dei concetti teorici per evidenziare i nodi problematici e le incoerenze rispetto al modello al quale ci riferiamo. Vorrei precisare che nelle prossime pagine useremo spesso l’espressione “mamma-bambino” per indicare la madre, il padre, la nonna, la baby-sitter o comunque l’adulto che accompagna il bambino al servizio. Ovviamente preferiamo riferirci alla madre perchè nella stragrande maggioranza dei casi è con lei che l’educatore ha a che fare, soprattutto a Coccole e Giochi dove, data l’età dei bambini, sono solo le accompagnano. 6.1. - OCCUPIAMOCI DI EDUCAZIONE 164 mamme che li Bruno Bettelheim58 scrive che il suo obiettivo principale nei lunghi anni di lavoro con i genitori è stato quello di aiutarli ad imparare a fare fronte da soli ai problemi riguardo la crescita e l’educazione dei figli, incoraggiandoli a pensare con la propria testa per potenziare il loro intuito educativo, per imparare a riflettere a fondo circa ciò che sta accadendo tra loro e i loro figli e per trasformare tale intuito e tale riflessione in atteggiamenti e comportamenti che sarebbero diventati efficaci per il raggiungimento dei loro obiettivi nel rispetto di se stessi e dei bisogni di crescita dei loro figli. Anche l’Educatore nei servizi presi in esame si pone, in estrema sintesi, lo stesso obiettivo: trattare insieme ai genitori i temi e i problemi educativi che essi portano per aiutarli a trovare soluzioni proprie. Coerentemente con l’impianto teorico che abbiamo esplicitato, educativo è tutto ciò che ha a che fare con il processo di crescita del bambino che avviene per mezzo delle esperienze di relazione che egli vive con il mondo e con le persone che intendono aiutarlo in questo percorso, prime tra tutte i 58 Bruno Bettelheim, op. cit.. 165 genitori, e che prende direzioni diverse a seconda del significato che egli attribuisce loro. Ciò che ci interessa è capire cosa deve fare l’educatore in questi servizi per realizzare un INCONTRO significativo tra i SAPERI NATURALI E PROFESSIONALI allo scopo di aiutare i genitori nel LORO COMPITO PROPRIAMENTE EDUCATIVO. Mi rendo conto di quanto sia complesso dare una risposta a questo quesito perchè io stessa, nell’esperienza che ho vissuto, mi sono scontrata con alcune difficoltà: prima tra tutte quella di non riuscire, a volte, a riferirmi al paradigma pedagogico in quanto esso non è sempre chiaro agli stessi operatori dei servizi educativi; in secondo luogo mi sono ritrovata a cedere alla tentazione di evitare l’incontro con i genitori dando loro consigli e prescrizioni in nome di un sapere professionale che, però, poco si concilia con i bisogni degli utenti; in terzo luogo mi sono sovente improvvisata, con gli altri operatori, “il piccolo psicologo” perchè questa è la richiesta che più spesso viene dalle mamme e perchè quella dello “psicologismo” - secondo la quale per educare occorre risalire alle remote cause 166 intrapsichiche dei comportamenti - è una cultura fortemente radicata anche nei contesti educativi. Fortunatamente il sentiero di ricerca teorico-pratico che ho percorso per elaborare questa tesi mi ha consentito di guardare e riguardare la mia e l’altrui esperienza con un occhio più critico per rendermi conto, per esempio, di quanto troppo spesso il supporto alla funzione genitoriale venga intesa, anche dagli educatori, come l’indicazione, che spesso sfocia in prescrizione, di un comportamento da tenere con i figli. Ma che l’educatore dica al genitore esattamente cosa fare o cosa non fare in certe situazioni non serve e soprattutto, non funziona perchè difficilmente il genitore sarà pronto ad applicare il consiglio se esso non è conforme ai suoi pensieri, alle proprie credenze e convinzioni, alla conoscenza che lui, e solo lui, ha del proprio figlio e all’idea che egli si è già fatta sulla situazione; “chiediamo consiglio, ma intendiamo approvazione”59, Inoltre scrive C.C. Colton nel Lacone. la probabilità che il consiglio non funzioni è altissima e il fallimento potrebbe scoraggiare ulteriormente 59 Da Bruno Bettelheim, Ibidem, pag. 37 167 il genitore che finirebbe, nella migliore delle ipotesi, per non fidarsi più dell’educatore e nell’avere la conferma di non essere stato capito; nella peggiore per pensare che “non esistono vie di uscita” perchè nemmeno gli esperti sono riusciti a risolvere la questione. Dare prescrizioni non è coerente con l’obiettivo di aiutare i genitori a sviluppare un pensiero autonomo, aumenta il loro senso di inadeguatezza e la loro dipendenza dall’esperto; la “ricetta” preconfezionata è simile ad un rituale sempre uguale a se stesso che nulla ha a che fare con l’esplorazione delle possibilità che, per definizione, sono tante e sempre diverse. Principalmente crediamo che non funzioni perchè la prescrizione prescinde e sta fuori dall’unicità della relazione tra quello specifico genitore e quello specifico bambino e dal significato di ciò che accade tra di loro, per loro stessi. La relazione si costruisce e cambia attraverso la sperimentazione, anche per tentativi ed errori, di tante possibilità. Ogni parola che mamma e piccolo si dicono, ogni gesto e comportamento diventa atto comunicativo che assume un valore unico ed irripetibile perchè unici ed irripetibili sono gli attori che comunicano, il mondo di significati di cui sono portatori ed il processo di ri- 168 attribuzione di senso che la loro comunicazione può evocare. Un ragionamento simile può essere fatto circa l’efficacia delle spiegazioni e delle interpretazioni psicologiche delle situazioni. La lettura delle situazioni, l’intuizione delle possibili “origini” dei comportamenti serve, è importante, ma non basta perchè non risponde direttamente al bisogno di azione proprio del contesto educativo. L’educatore e il genitore, a diverso titolo e con ruoli differenti, hanno bisogno di osservare ciò che accade per comprendere; di riflettere su ciò che hanno compreso per scegliere cosa fare! Sappiamo inoltre ormai per certo che aggiungere informazioni non assicura che le persone decidano, sulla base delle nuove conoscenze, di orientare in modo differente il proprio comportamento. Infatti esplicitare che il bambino si comporta in un determinato modo perchè sta esprimendo un bisogno tipico di una determinata fase della sua crescita psicologica, oppure capire che il genitore risponde in un altro perchè porta dentro di sé un determinato vissuto profondo, pensa certe cose e crede 169 che sia giusto fare così, serve ma non basta perchè da queste consapevolezze non discendono, sempre ed automaticamente, i significati che stati psicologici e intenzioni recondite assumono dentro la relazione tra quei protagonisti e non ci suggeriscono cosa fare. Quante volte facciamo o diciamo delle cose mossi da determinate intenzioni pensando che l’altro reagisca in un certo modo e, inaspettatamente, verifichiamo che la sua risposta è opposta rispetto alle nostre previsioni. Questo accade perchè, in termini di comunicazione, il significato dei comportamenti può essere diverso per chi li emette e per chi li riceve. L’educazione ha a che fare con la riflessione a cui segue l’azione nell’esperienza e nella relazione ed è a questo bisogno di azione che dobbiamo rispondere. Per un genitore fare una cosa piuttosto che un’altra non è giusto o sbagliato per definizione, ma funziona o non funziona per aiutare il bambino a crescere o per uscire da una situazione insostenibile per entrambi. Per quanto abbiamo detto l’educatore ha certamente il dovere e la responsabilità di trasmettere contenuti scientificamente corretti ai 170 genitori che non li conoscessero; deve mettere a disposizione delle mamme le sue conoscenze rispetto ai bisogni di crescita dei bambini - in questo senso è importante avere una competenza nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva ma deve farlo sempre tenendo presente che le informazioni, di per se stesse, non hanno alcun valore se non sono tradotte per il loro significato educativo, cioè se non sono ricondotte a ciò che quella mamma e quel bambino si stanno comunicando in quella situazione e a ciò che la mamma può fare per rispondere alle richieste del proprio figlio. L’educatore deve aiutare il genitore ad interrogarsi sulla sfera dei significati che si giocano nella relazione con il bambino, cioè su ciò che i due si dicono e si chiedono vicendevolmente attraverso le parole e i comportamenti. Questa è secondo la nostra ipotesi, la strada per pervenire ad una comunicazione più efficace e ad una reale comprensione reciproca che può incoraggiare il genitore a rileggere la propria relazione con il bambino, ad accedere a nuove chiavi di interpretazione e a sperimentare diverse 171 possibilità di azione e di interazione che egli stesso è riuscito ad individuare come opportune per aiutare il suo bambino a crescere e per raggiungere i suoi obiettivi. 6.2. - ENTRARE IN RELAZIONE PER TRATTARE LA RELAZIONE L’oggetto intenzionale dell’educatore che opera nei servizi per il supporto alla genitorialità, ciò verso cui il suo lavoro si dirige è la relazione educativa tra mamma e bambino. Per giungere a tematizzarla egli può fare riferimento, secondo la nostra ipotesi, solo al sistema comunicativo comune che si viene a creare tra mamma e bambino, all’interno adulti, del gruppo degli tra i genitori (singolarmente o in gruppo) e se stesso. Le occasioni e gli strumenti per mettere a tema l’oggetto intenzionale sono le esperienze che spontaneamente si vivono nel servizio o quelle che l’educatore intenzionalmente propone; i temi e le domande che i genitori, singolarmente o in gruppo, portano e discutono tra di loro o con l’educatore durante i colloqui informali. Ma per poter utilizzare in modo 172 intenzionale uno qualsiasi degli strumenti egli deve prima entrare in relazione con il genitore. In questo senso possiamo dire che all’educatore “serve” entrare in relazione con la mamma perchè questa è la pre-condizione affinché quest’ultima sia disponibile a considerare la possibilità di trattare, per mezzo delle esperienze che si condividono con gli altri genitori e con l’educatore, la propria relazione con il figlio. Il principio dell’attenersi alla relazione per l’educatore si concretizza ai due livelli che mettiamo in evidenza: • l’essere in relazione con l’adulto che rimanda alla capacità di stare in una dimensione di reciprocità, di ascolto, di rifiuto di posizioni oggettivanti, di comprensione empatica, di accoglienza delle fatiche dei genitori come espressione di bisogni, di sospensione del giudizio sull’altro; • dirigere la propria intenzionalità verso la relazione tra adulto e bambino senza attribuirvi giudizi di valore, senza valutarla secondo criteri propri di altre discipline, 173 ma ricercandone i significati che si giocano nel qui ed ora e le possibilità di espansione. 6.2.a -Trattiamo la relazione. Quanto e quando esplicitarlo? Questa domanda nasce perchè i servizi che stiamo prendendo in considerazione si presentano al pubblico attraverso i volantini informativi, il passaparola, nonché gli annunci sui giornali locali e nazionali - principalmente come luoghi di incontro e socializzazione tra adulti e bambini. I grandi, si scrive e si dice, possono scambiarsi esperienze ed opinioni, parlare dei temi relativi alla crescita dei bambini tra di loro o con gli educatori mentre i bambini possono giocare ed incontrare altri adulti ed altri bambini, fare delle piccole attività condotte dagli educatori. A volte si dice che i bambini sono “accuditi” dalle educatrici che propongono piccoli laboratori e giochi mentre le mamme, finalmente, possono bersi un caffè e chiacchierare tra di loro. Tutto questo è vero ed assume connotazioni più o meno spiccate a seconda delle scelte specifiche di ogni 174 singolo servizio. Esistono esperienze nelle quali alcuni educatori si occupano principalmente di intrattenere i bambini nel gioco più o meno strutturato, mentre altri stanno con gli adulti a parlare dei loro problemi. I genitori vengono al servizio perchè si aspettano di poter trovare risposte alle loro domande, di ricevere informazioni sui temi più ricorrenti; vengono per rilassarsi un po' ma soprattutto - come afferma durante un’intervista un’educatrice esperta di un Tempo per le Famiglie di Milano - per trovare uno spazio protetto nel quale i loro bambini possano giocare e crescere. Tutto questo è sacrosanto perchè risponde ai bisogni delle famiglie di cui abbiamo molto parlato e alla filosofia della L. n. 285/97. Ma offrire solo questo tipo di risposte alle domande più o meno esplicite dei genitori non è sufficiente, secondo noi, a qualificare questi servizi come spazi propriamente educativi e, soprattutto, a giustificare la presenza dell’educatore professionale e a specificarne il ruolo perchè egli non ha esclusivamente il compito di “accudire i bambini” e di proporre loro attività pseudo-didattiche; non deve solo parlare dei temi della crescita ed educazione dei bambini divulgando le sue competenze tecniche attraverso 175 delle mini-conferenze più o meno informali. Spesso l’educatore cade nei “tranelli” proprio perchè collude con la domanda dei genitori di avere delle risposte precise ai loro problemi o di trovare un luogo dove i loro bambini possono fare delle attività particolari sotto la guida degli educatori che li aiutino a sviluppare la loro creatività, intelligenza e socialità. Il dubbio che ci sorge è questo: il contratto (ciò che si scrive sui volantini e ciò che ne consegue a livello di rappresentazione generale circa i servizi) è poco chiaro e incompleto, quindi ingannevole, o se dichiarassimo che i genitori possono venire al servizio anche per ragionare sulla loro relazione con i figli non verrebbe nessuno perchè non si capirebbe che cosa significa e, in fondo, metterebbe tutti in allarme? Non disponiamo di una risposta sufficientemente fondata perchè, nonostante tutte le fonti contattate (personalmente o attraverso la lettura di documenti) dichiarino che l’educatore si occupa della relazione madre-bambino, non conosciamo servizi che abbiano scelto di esplicitare la loro offerta anche in questo senso. Ciò che si sentiamo di dire per il momento è che forse è proprio il modo con cui 176 l’educatore avvia e conduce la propria relazione con il genitore che permette, poco per volta e solo quando la relazione lo consente, di mettere a tema la relazione educativa con il bambino, ed è attraverso il graduale mettere a tema la relazione madre-bambino che si specifica e si chiarisce anche agli occhi del genitore l’oggetto intenzionale sul quale si lavora. 6.3. - CONDIVIDERE LE ESPERIENZE L’educatore lavora in una situazione di compresenza di mamme e bambini. Questo gli consente di conoscerli, di osservare relazioni, comportamenti, bisogni, difficoltà e particolarità; in sintesi, di raccogliere una serie di elementi che possano meglio orientare il suo intervento. Soprattutto, la compresenza gli permette di essere dentro e di comprendere la relazione tra mamma e bambino; gli consente, mediante la condivisione, di fare egli stesso delle cose per ampliare le possibilità in termini di esperienze e di relazione. Ciò che l’educatore fa e propone 177 in termini di esperienza dovranno sempre dirigersi verso l’oggetto intenzionale, ovvero verso la crescita della relazione tra la mamma e il bambino. L’educatore, dunque, si troverà a partecipare al gioco delle mamme con i loro bambini quando l’età di questi ultimi lo consente; a condividere i momenti di cura e di accudimento dei più piccoli; a stare con loro nei momenti nei quali si organizzano piccole attività e festicciole; semplicemente a chiacchierare. Il tutto con due attenzioni importanti: la prima è che gli obiettivi dell’educatore saranno quelli di favorire, con la sua presenza, l’evidenziarsi dei significati che la relazione tra la coppia fa emergere proprio mediante la condivisione dell’esperienza qui ed ora; di aiutare la mamma a prenderne coscienza per assumere un atteggiamento educativo più consapevole; la seconda che l’educatore non deve instaurare una relazione privilegiata con il bambino per quanto bella, ricca e gratificante possa essere, perchè questo significherebbe perdere l’oggetto intenzionale e dare vita a “fughe” degli utenti che potrebbero non gradire la situazione, piuttosto che a situazioni conflittuali con conseguenti processi di delega da parte del genitore nei confronti dell’educatore. 178 Ovviamente non intendiamo dire che l’educatore non debba mai interagire con il bambino e non debba mai fare delle cose con lui ma, quando lo facesse, dovrebbe avere sempre in mente che ciò che gli importa è proporre e proporsi come una possibilità di interazione che potrebbe suggerire alla mamma spunti di riflessione, NON la possibilità migliore, MAI un mero modello da imitare. E’ importante che l’educatore abbia ben presente che le esperienze che propone e condivide, le sue parole e i suoi comportamenti nella relazione con l’adulto e con il bambino dovranno rappresentare esempi di apertura delle possibilità con le quali il genitore potrà confrontarsi in termini di differenza e opportunità, mai in termini di giudizio, omologazione o ripetizione. In questo senso crediamo che si realizzi il principio dell’espansione dell’esperienza. 6.4. - IL GRUPPO Abbiamo accennato nell’introduzione al valore del gruppo di genitori che frequentano il servizio come “moltiplicatore delle possibilità”. Con questa espressione intendiamo 179 mettere in evidenza quanto sia importante che l’educatore valorizzi e faccia circolare nel gruppo i saperi educativi e le strategie di azione dei genitori che si sono già trovati ad affrontare e risolvere alcuni passaggi evolutivi. Può essere utile, a tale proposito, che alcune delle domande che le mamme pongono all’educatore vengano “rilanciate” nel gruppo dei genitori ed affrontate proprio mediante la discussione e la condivisione di ciò che ognuno ha potuto sperimentare o può giungere ad ipotizzare. Oltre a rappresentare una risorsa efficace da un punto di vista educativo, questo approccio ha altre ricadute: i genitori diventano protagonisti nel servizio; essi sentono di essere “presenti” nella mente degli educatori che ricordano la loro storia al punto da richiamarla all’occorrenza; i genitori che preferiscono non rivolgersi direttamente agli educatori hanno comunque la possibilità di condividere la loro esperienza con altri adulti competenti e verificare, proprio grazie al racconto di altre mamme, quanto le strategie educative siano differenti ed efficaci a seconda della singolarità della coppia genitore-figlio che le mette in atto. 180 6.5. - IN SINTESI Quando educatore e genitore sono in relazione, quando quest’ultimo si sente accolto e non giudicato, quando ha compreso quali possibilità può offrire il servizio, quando è disponibile a parlare del suo bambino e a trattare la sua relazione con il piccolo, solo allora l’educatore potrà guidarlo verso l’esplorazione del significato di ciò che accade, del senso che egli attribuisce al comportamento del figlio e al proprio in termini di comunicazione, delle sue ansie e preoccupazioni, dei sentimenti ed emozioni coinvolti, degli obiettivi e bisogni di entrambi. L’educatore dovrà tenere vivo e aperto questo canale di comunicazione, favorire la piena espressione del genitore e, solo allora, aiutarlo verso l’esplorazione di altre possibilità che questi potrà trovare ascoltando se stesso e il suo bambino, confrontandosi con gli altri genitori e con l’educatore, buttandosi fiducioso nella condivisione delle esperienze. 6.6. - TRACCE DI ESPERIENZA 181 A questo punto della nostra riflessione, ci è parso imprescindibile riferirci ad alcune esperienze sul campo che cercheremo di ricostruire e commentare. Alcune di esse provengono dalla mia esperienza nel Tempo per le Famiglie di San Donato Milanese, dove ho svolto il tirocinio; altre mi sono state raccontate da un’educatrice esperta che lavora in due poli di Coccole e Giochi di Milano. Nel rispetto del segreto professionale, sono stati utilizzati nomi di fantasia. Non toccate il mio giocattolo La signora Gianna arriva al centro per la prima volta con suo figlio Bruno di due anni e mezzo. Quando entra l’educatrice la accoglie, si presenta e le fa vedere i locali. La donna inizia a raccontarsi: è irlandese, sposata con un italiano, vive in Italia da pochi mesi. Ha due figli tra cui Bruno, il più piccolo. Dice di non conoscere nessuno nella località dove vive e che è molto felice di essere arrivata al centro dove potrà conoscere qualcuno, anche se non nasconde di avere molte difficoltà a raggiungerlo con i mezzi pubblici. 182 Mentre parla con l’educatrice, il bambino le sta accanto e si guarda intorno. La signora cerca numerose volte di togliere dalle mani di Bruno un giocattolo che egli tiene stretto e non vuole lasciare. Si accorge che l’educatrice nota che il bambino non demorde e si innervosisce. Improvvisamente smette di raccontare e dice all’educatrice “vede, mio figlio tiene sempre questo oggetto tra le mani e non lo molla mai. Non fa nulla senza il suo giocattolo, se lo porta anche a letto. Non va bene per niente”. Cerca ancora di togliere il giocattolo al bambino con maggiore energia senza riuscirvi. Guarda l’educatrice, come per chiederle aiuto per raggiungere il suo obiettivo. L’educatrice dice: “Signora, lei continua a volerlo togliere e forse è per questo che il bambino non lo lascia nemmeno quando va a dormire. Ha paura di non ritrovarlo più”. La donna si innervosisce ulteriormente e comincia a giustificarsi: “Non che io non voglia che lui abbia i suoi giochi ma mi sembra eccessivo questo attaccamento. Lei da cosa pensa che dipenda?”. L’educatrice improvvisa un’interpretazione psicologica poco convincente sull’attaccamento dei bambini agli oggetti. 183 La settimana successiva la signora Gianna e suo figlio Bruno ritornano al centro. La mamma raggiunge subito l’educatrice e le dice: “Vede, gli ho lasciato il gioco che aveva la scorsa settimana come mi ha detto lei. Poi un giorno lui lo ha dimenticato e io l’ho fatto sparire. Ma lui ne ha voluto subito un altro e non lo lascia più”. L’educatrice questa volta non dice nulla ma invita i due ad andare a giocare con lei nell’altra stanza. Dopo quella volta mamma Gianna e il piccolo Bruno non sono più venuti al servizio. Che cosa non ha funzionato? L’errore dell’educatrice è stato quello di chiudere la comunicazione che la mamma stava cercando di aprire rispetto ad un problema che per lei era importante. Invece di accogliere il fatto così come lo portava la signora, invece di assumere che quello per la mamma era un problema, invece di chiederle di spiegare che cosa la preoccupasse di quel giocattolo tra le mani del piccolo, invece di lasciare che raccontasse di più e che facesse emergere il significato che lei attribuiva al comportamento del bambino, le ipotesi che aveva in mente, invece di farle raccontare come affrontava la 184 faccenda a casa, l’educatrice ha dato immediatamente la sua interpretazione sotto forma di prescrizione perchè era essa stessa, come il bambino, infastidita da questa mamma che insisteva per togliere di mano il gioco; ha fornito una risposta secca accusando in buona sostanza la mamma e mettendola nella condizione di sentirsi in colpa per il suo comportamento e di doversi giustificare. La relazione tra mamma ed educatrice non era tale da consentire a quest’ultima quel tipo di intervento non solo perchè la mamma non poteva essere disposta ad accettarlo, ma anche perchè la conoscenza che l’educatrice aveva della coppia era praticamente nulla e il suo intervento si è rivelato fuori luogo: non aveva idea del significato che questo oggetto aveva per il bambino e non aveva potuto osservare alcunché sulla relazione tra i due. Quando la mamma ha chiesto spiegazioni circa il perchè del comportamento del bambino, l’educatrice invece di ammettere che, per il momento, non poteva avanzare nessuna ipotesi, si è sentita in dovere di dare una risposta. Non solo: il messaggio dell’educatrice non è stato, comprensibilmente, preso in considerazione dalla mamma che non si è sentita ascoltata e compresa in questa sua 185 difficoltà, si è sentita giudicata e, la volta successiva, si è riproposta aggiungendo nella un stessa identica pizzico di sfida maniera, nei forse confronti dell’educatrice. Il gioco insieme non è servito a recuperare la situazione e la signora con il suo bambino non si sono visti più. Un’occasione persa La signora Anita frequenta il centro, praticamente tutti i giorni, da due anni con suo figlio Marco che ora ne ha quasi tre. La conoscenza tra l’educatrice e la coppia inizia un giorno quasi per caso quando il bambino la invita a giocare con lui. Passano le settimane e la relazione si intensifica: Marco vuole giocare solo con l’educatrice, la cerca insistentemente, le butta le braccia al collo quando arriva al centro, si rivolge sempre meno alla mamma e non si relaziona con gli altri bambini; la signora Anita non perde occasione per “attaccare bottone” con l’educatrice e si congratula con lei per avere questo rapporto così “bello” con suo figlio che, a suo giudizio, è un bambino un po' noioso. Progressivamente la signora Anita delega sempre di più all’educatrice il compito di giocare con Marco e di 186 rispondere alle sue richieste di cibo, acqua e via dicendo, così che lei può intrattenersi con le altre mamme. La valutazione complessiva che l’équipe dà alla relazione tra questa coppia mette in evidenza che non esiste un buon legame di attaccamento tra i due e che la madre, in questo momento, non è in grado di ascoltare il suo bambino, il quale si difende da questa delusione prendendola sempre meno in considerazione ed affezionandosi a chi gli dà più ascolto. Occorre che l’educatrice che ha una relazione privilegiata con loro metta in atto delle strategie affinché mamma e bambino facciano delle cose insieme ed aumentino l’efficacia della loro comunicazione. Alla fine dell’anno non è cambiato quasi nulla: Marco continua a prediligere l’educatrice nonostante inizi a giocare con gli altri bambini. Non è più remissivo e spaventato come all’inizio ma agisce, a volte, comportamenti aggressivi nei confronti della mamma e degli altri bambini. La signora Anita si intrattiene sempre più a lungo con l’educatrice confidandole problemi molto seri riguardo la sua vita matrimoniale, la grave malattia della nonna di Marco, la sua solitudine e il suo senso di isolamento, il suo sentirsi emarginata dal resto del gruppo 187 dei genitori. Quando l’educatrice propone attività e giochi alla coppia, la mamma si cimenta malvolentieri. L’educatrice, dal canto suo, si sente sollevata per il fatto di non dover stare sempre con Marco e, durante i lunghi colloqui con la mamma, si limita ad accogliere ed ascoltare ciò che le dice dimostrandole comprensione. La relazione tra la mamma e il bambino non è cambiata rispetto a otto mesi prima, nessun significato è stato esplorato, nessuna possibilità nuova sperimentata. Cosa è successo in questi mesi? La relazione tra mamma e bambino non è mai stata esplicitamente tematizzata. Durante i colloqui con la mamma, l’educatrice non è stata in grado di spostare l’attenzione dai problemi personali della mamma a come essi potevano incidere sul suo rapporto con il bambino. E’ vero che l’educatore ha anche il compito di accogliere ed ascoltare le persone ma, nel caso specifico, non poteva fare nulla per aiutare la signora a risolvere i suoi problemi con il marito, a fare guarire la nonna o quant’altro. L’educatrice si è fatta coinvolgere troppo dalle difficoltà che la mamma portava, ha colluso al punto di non volerla deludere ammettendo che non 188 sarebbe stata in grado di aiutarla. Forse, dichiarandolo, avrebbe perso la fiducia della mamma ma, non facendolo, ha perso un’occasione importante per lavorare sull’oggetto intenzionale che era, tra l’altro, l’unico sul quale avrebbe potuto fare qualche cosa e che, nella situazione specifica, aveva urgente bisogno di essere trattato. L’altro errore dell’educatrice è stato quello di farsi ingaggiare dalle pressanti richieste di attenzione del bambino; ha instaurato una relazione privilegiata con lui finendo per entrare in conflitto con la mamma la quale “le ha lasciato fare” quasi per vedere fino a che punto l’educatrice sarebbe arrivata. In quel momento la signora viveva il suo bambino come “pesante” e, se da un alto voleva trovare un luogo dove potersi distrarre da lui, dall’altro è come se avesse detto all’educatrice “visto che tu sei così brava a stare con lui, fai pure. Vedrai che poi ti stancherai”. E così è stato: se inizialmente l’educatrice era appagata e gratificata da queste manifestazioni di affetto da parte del bambino, con il tempo se ne è sentita soffocata e ha desiderato liberarsene. 189 Una mamma “in gamba” La signora Rosi, una giovane mamma di 26 anni, arriva al centro per il terzo giorno consecutivo con Erika, la sua bambina di due anni e mezzo. L’educatrice la accoglie, la saluta e la accompagna vicino ad altre mamme dove Rosi si ferma a chiacchierare, mentre la bambina si precipita nell’angolo cucina a giocare. Dopo circa un’ora, al termine dell’attività strutturata, Rosi e l’educatrice si ritrovano sedute allo stesso tavolo e la signora comincia a parlare. Racconta di avere delle difficoltà a relazionarsi con la sua piccola la quale è una bambina che lei definisce molto testarda, autonoma e con una volontà di ferro. E’ sempre stata particolarmente vispa, ma ultimamente Rosi ed Erika si ritrovano a dover “lottare” per ogni minima cosa: dal lavarsi, al salire in macchina, all’andare a letto. Tutto sommato questo “carattere” della sua bimba non le dispiace, è contenta che sia una bambina che sa quello che vuole e si diverte a stare con lei ma, negli ultimi giorni, comincia a temere che in futuro le cose potrebbero peggiorare. La settimana precedente mamma e bambina sono andate dal pediatra. Anche in quella occasione è stata una lotta per svestirsi, per farsi 190 visitare e la signora Rosi non è stata in grado di tenere la bambina tranquilla. Il pediatra le ha restituito che la bambina è troppo disubbidiente e che le sta mettendo i piedi in testa. Forse, le dice il medico, è il caso che “lei si riprenda il suo ruolo”. Questo mette in allarme la mamma la quale mette in discussione tutto il rapporto con la figlia. Si rivolge all’educatrice e le domanda cosa ne pensi. Quest’ultima le risponde che probabilmente il pediatra ha reagito in questo modo perchè quella è stata la sua lettura di ciò che ha visto durante la visita. La bambina era scalmanata e non ascoltava la mamma. Questo gli ha fatto pensare che, forse, potevano esserci dei problemi più seri e si è sentito in dovere di allertarla. Poi prosegue chiedendo alla mamma quale idea lei stessa si era fatta del comportamento della bambina dal medico. La signora risponde che Erika aveva paura ed è per questo che era incontenibile; lei non si era sentita di aggredirla e bloccarla proprio perchè conosce la sua bambina; semplicemente aveva ritenuto di doverla rassicurare e contenere come poteva. L’educatrice le chiede di raccontare altri episodi nei quali ha dovuto, per così dire, “lottare” con la bambina. La signora racconta come, in molte occasioni, ci siano stati 191 degli scontri che però si sono conclusi nel migliore dei modi sia per la mamma, che per il papà, che per la bambina. Durante il racconto, l’educatrice commenta insieme alla mamma i comportamenti proprio in termini di significati e di comunicazione. Rosi sembra più tranquilla e continua a raccontare di lei e di Erika. Nei giorni seguenti, quando torna al centro, ha voglia di confrontarsi ancora con l’educatrice rispetto a come è andata la giornata precedente. E’ contenta di avere una figlia così forte, si diverte perchè la mette nelle condizioni di “studiarle proprie tutte” per riuscire a fare delle cose con lei anche quando la bambina non sembra molto contenta di farle. Un giorno arriva al centro molto fiera dicendo alle mamme: “avete visto che sono riuscita a tagliare i capelli ad Erika?”. In fondo, dice, sulle cose importanti a cui tiene molto, riesce a trovare un’intesa soddisfacente e la bambina si affida a lei. La mamma dice che probabilmente la piccola è “testarda come lei”, è una persona che ha bisogno di essere conquistata prima di fidarsi e, forse, le sta chiedendo proprio il massimo in questo senso. Un giorno un’altra mamma arriva al centro con le occhiaie e lamenta che non ha dormito tutta la notte, 192 che suo figlio (che ha la stessa età di Erika) è una peste e non ne può più. “Non mi ascolta, non mi rispetta”, dice. L’educatrice chiama la signora Rosi e la invita a confrontarsi con questa mamma. In questo caso l’educatrice ha accolto le preoccupazioni della mamma così come erano, senza esprimere giudizi o accertarsi che fossero più o meno fondate. Chiedendo alla mamma di riflettere sull’accaduto e sul modo con cui lei affronta le situazioni le ha permesso di ridimensionare il problema, di capire che esistono tante possibilità concrete per fronteggiare le difficoltà, di far emergere i significati della sua relazione con la bambina: significati che, tra l’altro, erano già ben presenti nella mente della mamma ma che, forse, avevano solo bisogno di essere esplicitati. Dai racconti emerge che la mamma conosce molto bene la sua piccola, e che è molto presente ed attenta. Le strategie che la signora utilizza, la sua sensibilità nel cogliere i bisogni della bambina sono risorse importantissime che l’educatrice ha ritenuto di dover valorizzare mettendole a disposizione del gruppo di genitori. Stabilità e cambiamento 193 Cecilia, figlia unica, con la sua mamma Anna partecipa al gruppo da quando aveva sei mesi, con assiduità. Anna è una signora sulla trentina, tranquilla, che intrattiene con la sua bambina una relazione molto intensa, da cui emerge sensibilità ed attenzione per i bisogni affettivi della piccola. Sin dall’inizio della frequenza, arrivano al servizio quasi sempre per prime, la signora entra nella stanza con la figlia in braccio e si accomodano sempre allo stesso posto, l’una accanto all’altra. La signora è visibilmente contenta di tenere vicino a sé Cecilia, con la quale può comunicare ed operare un’azione di rinforzo verso l’attività manipolativa della bambina. In realtà, è la mamma a porgere gli oggetti a Cecilia, la quale non si muove per raggiungerli, benché visibilmente interessata. La signora, per quello che è dato vedere a Coccole, porge il mondo alla figlia, proteggendola parecchio dalle fatiche che sono richieste a chi desidera occupare uno spazio partecipe nel mondo. Di fatto, Cecilia non appare attratta dal movimento autonomo nello spazio: con il passare del tempo, non gattona, né cammina. Le operatrici hanno presto rilevato nella bimba uno slancio evolutivo rallentato, ed un certo timore ad affrontare con fiducia l’uscita dal contenimento tutelante della mamma; 194 consapevoli però che restituire alla signora il suo involontario contributo a tenere la piccola ancorata a sé non avrebbe fatto altro che farla sentire in colpa e inadeguata, hanno lasciato che, grazie all’osservazione degli altri bambini presenti, si confrontasse con le altre mamme sulle caratteristiche dello sviluppo dei rispettivi figli e sui differenti modi e stili di relazione con loro. Da sola, la signora ha cominciato a chiedersi se, forse, la sua bambina non necessitasse di uno stimolo verso l’esplorazione e, a partire da questa consapevolezza, le operatrici hanno cominciato ad affrontare con lei, attraverso anche il contributo delle mamme presenti, il senso, le possibilità e le fatiche dell’accompagnamento dei figli verso un progressivo distanziamento dalla figura materna. La relazione instaurata con la signora nei mesi di frequenza ha rappresentato la base per poter trattare il suo bisogno di tenere Cecilia fisicamente e simbolicamente vicina a sé, ma i suggerimenti degli adulti presenti, madri o professionisti che fossero, non aprivano ancora lo spazio per un’azione direzionata. Accade che un giorno, entrando, la signora posa Cecilia sul tappeto e si allontana di un paio di metri per prelevare qualcosa dalla borsa lasciata 195 all’ingresso; la piccola, dalla sua posizione seduta, non perde d’occhio la mamma. L’educatrice chiama la signora accanto a sé per darle un’informazione, e questa le si siede al fianco e le parla con piacere. Poco dopo, Cecilia fa cenni di richiamo alla mamma, che fa per alzarsi per andarla a prendere; l’educatrice invita la signora a provare a rimanere seduta mentre invita la piccola a tentare di raggiungerla. Cecilia, dopo un breve lamento di malcontento, prende a muoversi spingendosi con il bacino, in direzione della mamma, arrivando a lei. Quel giorno Cecilia si sposta per l’ambiente in questo modo originale, in direzione della mamma; a sedici mesi non cammina ancora, ma sperimenta con piacere il movimento e la scoperta e l’autonomia ad esso legati. La sua mamma ha cominciato da allora a riconoscere le possibilità della figlia, i suoi bisogni non solo affettivi e a considerare che la solidità di un rapporto non si misura soltanto dalla vicinanza fisica tra chi lo vive. Il dolce sapore della vita 196 Irene comincia a partecipare al gruppo di Coccole e Giochi a dieci mesi; è una bambina vivace e socievole, interagisce con piacere con le figure presenti, è attratta dagli oggetti a disposizione. Raggiunge ciò che le interessa gattonando. La sua mamma Cristina la descrive come una bambina di facile gestione, impegnativa perchè interessata a tutto ma anche fonte di enormi gratificazioni. Dopo poco più di un mese di frequenza, la signora confida di essere preoccupata per l’alimentazione della figlia: Irene rifiuta i cibi solidi, anche se sminuzzati e morbidi, e non mangia altro che non siano i soliti papponi. La signora, intelligente ed informata, sa che attorno all’anno di età i bambini dovrebbero assumere alimenti solidi e tenta di persuadere la figlia ad accettare il cambio di alimentazione. I tentativi si trasformano presto in lotte vere e proprie, che vedono la mamma sempre più impaziente e disarmata, e la piccola sempre più decisa a non cedere. La signora non si capacita del fatto che Irene, così adeguata per tutti gli aspetti dello sviluppo, mostri tanta resistenza verso alcuni tipi di cibo. Il giorno del compleanno di Irene, Cristina porta una torta per festeggiare. Il taglio della torta diventa lo spunto per tornare sull’argomento cibo e, mentre le 197 mamme chiedono alla signora come si svolge a casa il momento dei pasti e lei offre un racconto pieno di regole e divieti, Irene si avvicina ad una mamma seduta e preleva dal suo piattino un pezzo di dolce, iniziando a mangiare con gusto. L’educatrice si avvicina alla mamma di Irene, già pronta ad intervenire per bloccare l’ingerenza della figlia, e la invita ad osservare insieme cosa farà la piccola. Irene, assai composta, mangia tutta la fetta di torta, dimostrando che, se si allenta la tensione sulle sue scelte alimentari, lei è disponibile ad aprirsi al cambiamento. Grazie a questo episodio Cristina ha capito che, se voleva aiutare Irene ad approcciare cibi diversi poteva anche concedersi di abbandonare, per un tempo breve, le rigide regole alimentari, e consentire alla piccola di avvicinarsi ad un’esperienza nuova in maniera meno vincolata e vincolante. Nel giro di poco, Irene ha cominciato a mangiare di tutto, seduta al tavolino a sul seggiolone. Provare ad attendere 198 Angela, la mamma di Giulia, di poco più di tre mesi, si dice preoccupata perchè la figlia, per addormentarsi subito, ha bisogno di essere cullata. Ne parla con l’educatrice e dice che, a breve, potrebbero sorgere dei problemi: dovendo abbandonare la carrozzina per cominciare a dormire nel lettino, non potrà più cullarla e la piccola faticherà certamente ad addormentarsi. L’educatrice chiede alla signora se culla la piccola perchè piange, e lei risponde negativamente. L’educatrice si interroga, a voce alta, sulle ragioni che inducono le mamme a ritenere che un bambino debba, una volta disteso, addormentarsi immediatamente. Né Angela né le altre mamme sono in grado di rispondere e l’educatrice, allora, propone di provare a vedere cosa fanno i bambini durante il tempo che necessita loro per prendere sonno. Quasi si fosse sentita chiamata in causa Giulia, adagiata sul tappeto, prende a gorgheggiare guardandosi intorno e muovendo gli arti in maniera un po' scomposta, come fanno i bambini a quell’età. Dopo una decina di minuti si assopisce, senza che si sia reso necessario alcun intervento da parte dell’adulto. 199 Questi esempi testimoniano come spesso i genitori imparino delle cose sui propri bambini in maniera fortuita, grazie alle occasioni che il caso presenta e che l’educatrice connota e trasforma in possibilità per grandi e piccini. Nelle circostanze descritte, complici benevoli sono stati il contesto e la condivisione di un’esperienza che hanno permesso alle mamme di “distrarsi” da ciò che considerano problematico ed ai bambini di agire autonomamente comportamenti nuovi. La presenza degli educatori e degli altri genitori, l’organizzazione degli spazi e dei tempi hanno favorito lo svolgersi degli eventi. Trasformare Diego è un bambino di dieci mesi, vivace, energico ed evoluto dal punto di vista dello sviluppo motorio. E’ molto interessato all’esplorazione dell’ambiente e a ciò che esso contiene (cose e persone). La sua mamma, Nicoletta, appare spesso preoccupata che egli possa disturbare la situazione e, agli inizi della loro frequenza a Coccole, lo invitava spesso, contenendolo anche fisicamente, a non fuoriuscire dal tappeto, inibendolo nei movimenti. Le 200 operatrici hanno dovuto spesso rassicurarla, garantendole che, in quello spazio, è possibile muoversi liberamente poiché sono presenti gli adulti a tutela dei più piccoli. Una mattina, in apertura dell’incontro, sono presenti solo Diego e la sua mamma. Poco dopo arriva Simona, una mamma nuova, con la sua bimba di tre mesi, Agata, dallo sguardo e sorriso pronti. Non appena Simona si siede sul tappeto con la piccola in braccio, Diego le raggiunge e comincia a toccare la piccolina, in maniera piuttosto energica. Punta deciso agli occhi di Agata, che per un po' non si scompone, anzi, pare incuriosita dalle attenzioni del bambino; Simona è tranquilla: protegge la sua bimba se Diego le sembra troppo irruente, ma non si irrigidisce nei confronti del bimbo. Nicoletta interviene decisa, molto preoccupata che Diego possa far male ad Agata; ma la decisione della mamma indispone parecchio Diego che, dal canto suo, appare sempre più interessato alla piccina. Quanto più la mamma cerca di fermarlo, tanto più lui si dimena e si indispettisce. L’educatrice, vista la difficoltà di Nicoletta e la determinazione di Diego, e la necessità, comunque, di tutelare Agata, decide di intervenire mostrando a Diego, ma in realtà alle mamme presenti, come poter aiutare il 201 suo gesto irruente a trasformarsi in contatto più tenue, accompagnando le sue mani sul corpo della piccina. L’interesse di Diego però continua ad amplificarsi e la mamma di Agata, ora, pare proprio in difficoltà, anche perchè la bambina comincia a piangere. Mentre la psicologa spiega alle mamme che i bambini dell’età di Diego non sono ancora in grado di modulare il contatto, e che possiamo insegnargli, con il tempo, modalità di approccio diverse, l’educatrice prende una bambola che, tra l’altro, ha gli occhi che si aprono e si chiudono a seconda di come la si posizioni, e la offre a Diego. Lui la guarda assai perplesso, quasi intimorito. L’educatrice gliela posa accanto ed attende che lui abbia voglia di tentare un contatto. Giocherà con la bambola per un tempo considerevole, abbandonandola e tornando a lei più volte permettendo, tra l’altro, alla mamma di Agata di potersi inserire nell’ambiente nuovo e alla sua di riprendere fiato. Quanto abbiamo riportato è esemplificativo della funzione propositiva dell’educatore; l’attenzione ai bisogni dei piccoli e al contesto nel suo complesso richiedono l’individuazione di strategie immediate che 202 mantengano l’ambiente tranquillo e, al contempo, insegnino qualcosa. Nella situazione specifica, l’intento era quello di presentare una possibilità di contenimento che prevedesse la trasformazione del dato anziché l’imposizione del limite che, in un’età così precoce, i bambini sono difficilmente in grado di accogliere. 6.7. - LE CONSULENZE PEDAGOGICHE: UNA POSSIBILITÀ ULTERIORE Lungo il sentiero di ricerca ho incontrato, grazie alla Dott.ssa Irene Auletta - pedagogista e formatrice dello Studio Dedalo di Milano - una proposta ulteriore nel campo del supporto al ruolo genitoriale. L’esperienza della Dottoressa è estremamente importante per la nostra riflessione per due ordini di motivi: testimonia che è possibile esplorare nuove possibilità di aiuto ai genitori mediante lo strumento della consulenza pedagogica, in un setting completamente diverso da quello che abbiamo preso in considerazione fino ad ora perchè, nello studio del consulente, sono assenti il bambino e la condivisione 203 dell’esperienza. L’esperto deve fare uno sforzo di astrazione proprio perchè non può osservare direttamente la relazione di cui tratta, non condivide esperienze con genitori e bambini, lavora prevalentemente in una condizione di carenza di informazioni e, spesso, vede questi genitori una volta soltanto. Inoltre la Dott.ssa definisce il suo approccio squisitamente pedagogico perchè si fonda sulla ricerca dei significati che si giocano nella relazione e fa riferimento al paradigma teorico che sta a fondamento del nostro lavoro. La sua avventura, racconta durante un illuminante incontro, inizia dieci anni fa. I primi colloqui si svolgono con i genitori dei bambini che frequentano i nidi dei quali lei è coordinatrice e nei quali opera come supervisore degli educatori. La sede delle consulenze è quindi quella del nido e il suo ruolo è legittimato dalla stessa istituzione. Con il passare del tempo inizia ad operare anche con genitori di bambini che frequentano nidi con i quali non ha nulla a che fare o genitori che si mettono in contatto con lei in seguito al passa parola. Da almeno cinque anni la Dott.ssa svolge le sue consulenze anche nello studio privato dove 204 lavora con genitori sia di bambini molto piccoli che adulti, con patologie psicofisiche o senza alcun problema. I genitori si presentano al colloquio portando il problema del figlio, il problema che gli insegnanti dicono di avere a scuola con il bambino, il loro problema nei confronti del bambino. Il problema del bambino (o ragazzo che sia) viene assunto dalla Dott.ssa come dato di fatto, così come i genitori lo portano, senza dare giudizi e senza tentare quelle che lei chiama “sovrainterpretazioni”. Il suo lavoro consiste nel ragionare insieme ai genitori sul significato che ha per loro questo problema che dicono appartenere solamente al figlio e sul modo in cui lo affrontano. La pedagogista non promette di risolvere il problema ma di aiutare i genitori ad esplorare come può essere affrontato. Si tratta di capire “quale è il loro problema nel trattare il problema”, cosa fanno di fronte al comportamento del figlio, che significato vi attribuiscono, cosa pensano che il bambino stia chiedendo loro e cosa credono di rispondere attraverso il loro comportamento. L’obiettivo è quello di aiutare i genitori a comprendere che il “comportamento problema” esiste e può essere affrontato nella relazione grazie alla tematizzazione dello stesso, mediante il darvi 205 voce, per mezzo dell’esplorazione dei significati che ruotano attorno ad esso e mettendo in atto azioni concrete nella relazione. Il suo contributo consiste proprio nel guidare i genitori a “tirare fuori” i significati che esistono dentro di loro per esplicitarli e nell’esplorare con loro le possibilità di azione e di interazione. Il suo, spiega, è uno sguardo dall’esterno che può aiutare i genitori a “vederci più chiaro” quando il loro enorme coinvolgimento affettivoemotivo, la loro voglia di fare il meglio per i loro figli, li mette in difficoltà rendendoli momentaneamente ciechi. L’ultima considerazione ha a che fare con il fatto che, secondo la Dott.ssa, non serve che i genitori si rivolgano a lei con una cadenza settimanale, mensile o comunque prestabilita. Il lavoro che viene svolto durante la consulenza, l’esplorazione dei significati della relazione, la riflessione e la sperimentazione che seguono da parte dei genitori, richiedono un tempo di rielaborazione più o meno lungo a seconda delle persone e, pertanto, il suo intervento può anche consistere in un singolo colloquio che, come dice, può semplicemente “fornire una chiave” per sfondare una porta e permettere uno sguardo nuovo. 206 Una volta che si è imparato ad aprire la porta, l’esperto non serve più. 6.7.a - Due esempi per tutti. Anche in questo caso abbiamo ritenuto importante fare riferimento ad alcune esperienze concrete che ci possono aiutare a comprendere come queste consulenze avvengono e qual è il contributo della pedagogista. L’unione fa la forza. Mamma e papà riferiscono, durante un colloquio, che il loro bambino di dieci anni, con una grave distrofia muscolare che lo costringe su una sedia, vive due difficoltà: la prima è che ogni giorno, quando la mamma lo va a prendere a scuola, il bambino le chiede di portarlo in bagno con urgenza perchè non lo ha fatto durante tutto l’arco della mattinata. L’altra si esprime come segue: durante il tragitto in macchina per andare a fare la fisioterapia, il bambino è terrorizzato dalla possibilità di incontrare un lavavetri al punto che, quando ne vede uno, viene preso dall’angoscia e prega che non si avvicini alla macchina dove lui sta viaggiando. La mamma, a sua volta 207 angosciata, collude con la paura del bambino studiando percorsi alternativi, passando con il rosso ai semafori dove ci sono i lavavetri, andando alla fisioterapia negli orari meno trafficati. Ella dichiara che questa situazione non è più sostenibile. La Dott.ssa non si concentra affatto sulla patologia del bambino ma sul significato che i suoi comportamenti hanno in termini di comunicazione. Insieme alla consulente, i genitori arrivano a comprendere che il fatto che il bambino si vergogni a chiedere alle maestre di portarlo in bagno e che aspetti la mamma con la quale ha una confidenza che gli consente di chiederle aiuto, fa emergere il bisogno del bambino, data l’età e il contesto, di essere più autonomo e di non dipendere dalle maestre. Non solo, le uniche persone alle quali sta cercando di manifestare questo bisogno sono i suoi genitori. Compresa la domanda, mamma e papà ne parlano con il ragazzino e trovano la strategia concreta che risponda al suo bisogno di crescita e di autonomia. Per quanto riguarda il terrore dei lavavetri, la Dott.ssa suggerisce che non serve “evitare il problema” o cercare interpretazioni profonde dell’angoscia 208 del bambino. Occorre fare qualche cosa nella relazione tra mamma e bambino durante il tragitto. I genitori e la pedagogista capiscono insieme che il significato del comportamento del bambino in termini di comunicazione è quello di chiedere aiuto e protezione. La mamma mette quindi a tema questa sua domanda, ne parla con il bambino dicendogli che lei sa che il problema non è del bambino ma è di entrambi. Gli offre un patto, un’alleanza dove dichiara che lei è presente, lo aiuta e non gli potrà succedere nulla di male. Mamma e bambino decidono di fermarsi al semaforo dove c’è un lavavetri, di lasciare che lui faccia il suo lavoro e il bambino, con l’aiuto della mamma, paga questa persona per la sua prestazione sperimentando, in una situazione in cui si sente protetto che, infondo, questo lavavetri così cattivo e spaventoso non è. La mamma, inoltre, dichiara al lavavetri che il bambino ha paura di lui: egli si rivolge al piccolo dicendogli che non ha motivo di essere spaventato. Lo ringrazia per il denaro e si allontana. Cambio di scena 209 I genitori di un bambino di cinque anni portano questo problema: il bambino ha conosciuto il papà solo pochi mesi fa perchè quest’ultimo, per una serie di motivi, fino ad allora non aveva voluto vivere con la madre e il bambino. Attualmente il padre non abita con il bambino e la mamma, ma li incontra tutti i fine settimana, quando i due si trasferiscono a casa sua. Nei primi due mesi di conoscenza, il bambino è entusiasta del “nuovo papà”, lo accoglie e vuole stare sempre con lui. Ultimamente, invece, non lo vuole assolutamente vedere, urla e strilla ogni volta che, il venerdì sera, deve andare a casa del papà: questo, per i genitori, è il “comportamento problema” del bambino. Alla Dott.ssa non interessa capire quali sono le carenze affettive del bambino che non ha avuto un papà nel passato; né quali le fantasie del bambino che fino ad allora non aveva mai chiesto perchè il papà non c’era ed ora è arrivato. Quello che le interessa è capire insieme ai genitori cosa il bambino chiede a questo papà oggi. La Dott.ssa suggerisce un “cambio di scena”: chiede ai genitori di mettersi nei panni del bambino per provare ad immaginare quali sono le sue domande, i suoi sentimenti e le sue 210 angosce nel momento presente, nella situazione contingente. Da questo suggerimento i genitori, in modo autonomo, comprendono che il bambino ha bisogno di essere rassicurato, con le parole e con i fatti, che il papà non se ne andrà di nuovo, ha bisogno di parlare con i genitori del senso di questa situazione nuova che gli ha sconvolto la vita. Grazie a queste “aperture di significato” i genitori elaborano e mettono in atto comportamenti educativi più efficaci. 211 CAPITOLO VII CONCLUSIONI 7.1. - Imparare ad imparare Le esperienze e le relazioni che genitori e bambini vivono nei servizi non sono le medesime di quelle che vivono a casa, con gli amici o in altri contesti sociali. E non devono esserlo proprio perchè ogni situazione che fronteggiamo ed ogni persona che incontriamo ci richiedono di mettere in campo saperi e comportamenti diversi. Ciò che un educatore in una offerta di sostegno alla genitorialità può sperare di insegnare agli adulti, mediante l’elaborazione comune dell’oggetto intenzionale, è imparare ad imparare dall’esperienza e dalla relazione con i loro figli, dare il via ad un processo di apprendimento nuovo esportabile fuori dal servizio non come ripetizione di comportamenti 212 ma come rinnovata capacità di rileggerne i significati che via via emergono per attivare nuove strategie di azione di fronte alle situazioni che si troveranno a fronteggiare. Come dice la Dott.ssa Auletta, ciò che conta è fornire ai genitori una “chiave per aprire una porta”; poi saranno loro a deciderle come sia meglio varcarla. 7.2. - Andiamo oltre Igor Salomone scrive che le agenzie educative sono dei “laboratori pedagogici” dotati di una struttura “metaforico-analogica”60: sono luoghi di transizione che ne rappresentano altri e proprio grazie alla loro dimensione del “rimandare a qualcosa d’altro”, permettono la trasformazione degli apprendimenti. Questo significa, secondo noi, che se gli educatori e i genitori sono seriamente impegnati ad INCONTRARSI per imparare dalle esperienze che vivono insieme, se credono fermamente che si possa migliorare la qualità della propria relazione 60 Igor Salomone, op. cit., pag. 122 213 rispettivamente con gli utenti e con i figli, allora possono anche imparare delle cose sul significato di altre esperienze e di altre relazioni, per viverle in modo più consapevole, attivo e soddisfacente. L’atteggiamento con il quale operatori ed utenti stanno nei servizi, lo sforzo da parte degli educatori professionali di aiutare veramente quelli naturali a svolgere un compito educativo che è e rimane di questi ultimi, di astenersi dal valutarli e giudicarli, potrebbe diventare un’occasione per riflettere sul rapporto tra servizi socio-educativi e famiglie in generale, prefigurare un modo nuovo di confrontarsi sul piano delle differenze, di pensare che è possibile partecipare mettendo in campo ognuno la propria competenza e la propria specificità, rifuggendo l’eterno conflitto che vede gli uni contro gli altri impegnati in reciproche accuse di inadeguatezza e di “appropriazione indebita” . Le leggi proclamano che la famiglia è un soggetto sociale e politico, non oggetto di interventi dello Stato; da più parti si sente dire che i servizi devono essere orientati al soggetto famiglia come nucleo relazionale, devono imparare a lavorare CON la famiglia, non “su” o “per” la famiglia, non “su” o “per” i singoli individui che la compongono. Una delle 214 critiche che oggi si fa rispetto al rapporto tra servizi e famiglie è quella di pensare ai primi in termini di “pubblicizzazione” delle funzioni familiari, ovvero come tentativo di portare le funzioni familiari fuori dalla famiglia. A questa tendenza si accompagna la progressiva privatizzazione della famiglia. Quello che si deve realizzare è, invece, il principio di sussidiarietà tra servizi e famiglia, sussidiarietà tra Stato e famiglia. Crediamo che questo sia un dibattito importante e che occorra fermarsi seriamente a pensare a come e dove realizzare questa cultura della integrazione tra servizi e famiglie: forse, perchè no, la riflessione sul ruolo dell’educatore professionale nei servizi per il supporto alla genitorialità potrebbe offrire uno spunto significativo. Infine possiamo dire che l’educatore professionale che abbiamo tratteggiato è un operatore squisitamente pedagogico perchè esperto nell’esplorazione (e nell’azione) dei significati soggettivi ed intersoggettivi delle esperienze e delle relazioni educative. Ma egli può diventare anche un operatore culturale, perchè di rinnovare il processo di attribuzione di senso e di impegnarsi nella costruzione di 215 relazioni sane la nostra società e la nostra cultura hanno bisogno. 7.3. - Per continuare La docente che ho ricordata nell’introduzione ci disse anche che per costruire la nostra professionalità avremmo dovuto percorrere una strada lunga “cento chilometri” e che, lungo il cammino, ci saremmo trovati ad andare un po' avanti, poi a tornare indietro, poi di nuovo avanti. Le sue lezioni rappresentavano per il nostro viaggio “un chilometro” soltanto. Supponendo che nei tre anni di formazione io abbia percorso “dieci chilometri”, potrei azzardare che questo lavoro di ricerca mi ha permesso di andare avanti di altri “due chilometri”. Certo si è trattato di esplorare un’ipotesi dalla quale esco con qualche sicurezza in più ma anche e soprattutto, con la consapevolezza di quanto sia difficile essere sempre coerenti con il paradigma che abbiamo esplorato. Come dire che dalla teoria alla pratica ci passano le resistenze culturali che intendono ancora il contributo professionale in 216 supporto ai genitori come prescrizione; la confusione dei paradigmi e la conseguente incertezza degli stessi educatori rispetto al proprio ruolo e alla propria specificità; le nostre debolezze e fragilità come uomini e come professionisti ma soprattutto la voglia di approfondire la ricerca per REALIZZARE L’INCONTRO TRA EDUCAZIONE NATURALE E PROFESSIONALE CHE, DOPO QUESTA RIFLESSIONE, CREDO SIA NON SOLO AUSPICABILE MA ANCHE POSSIBILE. Non escludo che forse, domani, potrei trovarmi nella condizione di dover ripensare e di dover tornare indietro di qualche centinaio di metri rispetto a ciò che con questa tesi è stato elaborato così come, analogamente, spesso la stessa esperienza educativa ci richiede di dover tornare sui nostri passi. Ma oggi da qui voglio partire. Grazie a tutti i bambini e genitori che “si sono lasciati incontrare” perchè hanno attribuito un significato nuovo alla mia professione. 217 Grazie a tutte le persone che mi hanno accompagnata lungo il sentiero, standomi davanti per indicarmi le vie, dietro per incoraggiarmi a seguirle. Grazie perchè mi hanno offerto nuove possibilità. 218 BIBLIOGRAFIA Testi A.A.V.V., a cura di Anna Bondioli e Susanna Mantovani, “Manuale critico dell’Asilo Nido”, Franco Angeli, Milano, 1997. A.A.V.V., a cura di Francesco Caggio e Mimma Noziglia, “Bambini a Milano”, Edizioni Junior, Bergamo, 1999. Piero Bertolini, “L’esistere pedagogico - Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata”, La Nuova Italia editrice, Scandicci (FI), 1990. Bruno Bettelheim, “Un genitore quasi perfetto”, Feltrinelli, Milano, 1987. Matilde Callari Galli, “Antropologia culturale e processi educativi”, La Nuova Italia editrice, Scandicci (FI), 1993. 219 Luciano Cian, “La relazione d’aiuto - Elementi teorico-pratici per la formazione a una corretta comunicazione interpersonale”, Editrice Elle Di Ci, Torino, 1992. Guido Contessa, “La prevenzione - Teoria e modelli di psicosociologia e psicologia di comunità”, Città Studi Edizioni, Milano, 1994. Remo Fornaca, “INTRODUZIONE ALLA PEDAGOGIA - Genesi, componenti, ruoli”, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997. Herbert Franta, “Atteggiamenti dell’educatore - Teoria e training per la prassi educativa”, LAS, Roma, 1988. Patrizia Gaspari, “L’EDUCATORE PROFESSIONALE - Una provocazione per la pedagogia contemporanea”, Edizioni Anicia, Roma, 1995. Thomas Gordon, “GENITORI EFFICACI - Educare figli responsabili”, Edizioni la meridiana, Molfetta (BA), 1997. Giorgio Macario, “L’arte di educarsi”, Meltemi editore, Roma, 1999. 220 Paola Milani, “PROGETTO GENITORI - Itinerari educativi in piccolo e grande gruppo”, Centro Studi Erickson, Trento, 1994. Stefania Miodini, Maria Teresa Zini, “L’EDUCATORE PROFESSIONALE - Formazione, ruolo, competenze”, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1992. Maria Montessori, “Il bambino in famiglia”, Garzanti Editore, Milano, 1956. Michele Pellerey, “L’AGIRE EDUCATIVO - La pratica pedagogica tra modernità e postmodernità”, LAS, Roma, 1998. M. Postic, J.-M. De Ketele, “OSSERVARE LE SITUAZIONI EDUCATIVE - I metodi osservativi nella ricerca e nella valutazione”, Società Editrice Internazionale, Torino, 1993. Jacques Salomè, “La relazione di aiuto e la formazione al colloquio”, Liguori Editore, Napoli, 1996. 221 Igor Salomone, “Il setting pedagogico - Vincoli e possibilità per l’interazione educativa”, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997. Chiara Saraceno, “Sociologia della famiglia”, il Mulino, Bologna, 1996. Guido Petter, “IL MESTIERE DI GENITORE - I rapporti con i figli dall’infanzia all’adolescenza”, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1992. Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, “PRAGMATICA della COMUNICAZIONE UMANA - Studio dei modelli interattivi delle patologie e dei paradossi”, Casa Editrice Astrolabio Roma, 1971, cap. 1-3. Piero Zaghi, “L’EDUCATORE PROFESSIONALE - Dalla programmazione al progetto”, Armando Editore, Roma, 1995. Documenti e ricerche 222 Centro Nazionale di Documentazione ed Analisi sull’Infanzia e l’Adolescenza, “INFANZIA E ADOLESCENZA, DIRITTI E OPPORTUNITÀ - Orientamenti alla progettazione degli interventi previsti nella legge n. 285/97”, Istituto degli Innocenti di Firenze in attuazione della convenzione stipulata con la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento Affari Sociali, 1998. Parte I, parte II (II. 9 -II. 11). Confcooperative - Unione Provinciale di Milano e UnionGest S.r.l., “Sviluppo delle cooperative e servizi diurni per la prima infanzia a Milano”, Milano, 2000. Articoli Piero Bertolini, in rivista “E.D.A. - Bimestrale per lo sviluppo dell’educazione degli adulti”, 1984. Gustavo Pietropolli Charmet, “La competenza parentale”, intervento alla giornata di formazione e studio “Nuove forme di intervento nei casi di abuso sessuale e maltrattamento”, Milano, Istituto Gonzaga, giugno 1998. 223 Pierpaolo Donati, intervento alla Conferenza interregionale Milano, febbraio 2000 . Paolo Onelli, intervista di Matteo lo Schiavo (Irs. Milano), in “Prospettive sociali e sanitarie”, nr. 13, luglio 2000. Vito Volpe, “La pubblica affettività”, in “L’IMPRESA AL PLURALE Quaderni della partecipazione”, nr. 3/4, Franco Angeli Editore, Milano, 1999. Legislazione Legge 28 agosto 1997, n.285 “Disposizione per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” , pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale N.207 del 5 settembre 1997. Legge Regionale 6 dicembre 1999, n. 23 “Politiche regionali per la famiglia”, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia del 10 dicembre 1999. 224