IL NEGOZIO

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IL NEGOZIO
IL NEGOZIO
di
Alessandro Boldrini
Mi piace sentire, il vento carezzare con decisione le palpebre abbassate sugli occhi.
Non so spiegare.
Anche se non riesco a vedere dove sto andando, non solo non provo paura o disagio, ma
addirittura questa sensazione di sfida mi eccita. Rende tutto più vivido. Come se il vento che
mi viene incontro riuscisse ad entrare dentro di me, e nella mia immaginazione, che può
vedere ora cose che il vento portava con se. Ogni tanto riapro gli occhi, perché forse un po'
di paura c'è, e così la strada mi appare di nuovo. Guardo intorno, ispeziono, e vedo con
soddisfazione che in fondo sono riuscito a tenere tutto sotto controllo. Dopo un poco però
sento di nuovo il desiderio di sentire il vento dentro, e sulle palpebre. Così gli occhi tornano a
non vedere più, e per un poco mi sento leggero e cerco di godere più a lungo possibile di
questo momento. Fino a sentire crescere la tensione, e riaprire gli occhi il più tardi possibile
sulle mani che stringono il manubrio, e sulle auto intorno, e sugli alberi che costeggiano la
strada.
Mentre attendo che esca acqua calda dal rubinetto sposto lentamente lo guardo allo
specchio davanti a me aspettandomi di vedere la vecchia brutta solita faccia assonnata;
ma oggi è anche peggio. Questa mattina, come spesso ultimamente, non ho sentito la
sveglia e così farò tardi di nuovo. Cerco di fare presto e mi vesto in fretta senza fare caso a
cosa mi metto addosso, quasi non mi pettino. Apro la porta velocemente e me la tiro dietro.
La sento sbattere, chiudendosi, quando sono già al piano di sotto.
Entro in negozio con gli occhi bassi, senza guardare nessuno. Senza salutare nemmeno, per
non attirare attenzione, sul ritardo, su di me. Ma capisco che anche oggi dovrò sorbirmi quei
fastidiosi immancabili silenzi di rimprovero che le espressioni del principale lasciano
trasparire; e così non potrò reagire.
L’orologio sul muro in fondo segna le dieci, sono passate già due ore. Le solite facce, gli
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stessi discorsi di sempre, ed io non posso fare a meno di pensare, di sognare, di fuggire. Ma
anche i miei sogni, i pensieri, sono ormai diventati piccoli piccoli. Anche loro, stretti dalle
catene invisibili del tempo, ed io non faccio nulla, e farò sempre meno.
Fuori della porta, nella piazza antistante il negozio, sento delle urla, e un vociare inaspettato.
Il principale esce incuriosito, e dietro di lui Ignazio, il commesso. Vedo dalla piccola vetrina
che tutti guadano a sinistra, in alto; qualcuno indica. Decido di uscire per vedere anch’io
cos’è che li fa tanto vociare, così dopo poco mi ritrovo sulla soglia del negozio a guardare
su. All’angolo della piazza sul piccolo terrazzo sopra l’ultimo piano, con le mani aggrappate
all’esile ringhiera di ferro ed i piedi infilati tra le sbarre con il corpo fuori esposto al vuoto, c’è
un uomo magro, alto forse. Con giacca e pantaloni leggeri, probabilmente lisi dal tempo. Il
vento li schiaccia sul corpo dell’uomo che ogni tanto si volta indietro a guardare giù. Ha la
faccia magra e cotta dal sole, i lineamenti delicati di un tempo sono scomparsi nella rabbia
della disperazione. Il vestito è di un insolito rosso bordò, forse questa è l’unica cosa che stona
veramente in questa scena. Non riesco a capire perché, ma quel colore non avrebbe
dovuto essere lì. Lo guardo per un poco e cerco di capire, e quasi non faccio caso ai
commenti delle persone vicine. Indi rientro in negozio, anche se nessun cliente aspetta di
essere servito. Cerco di immaginarmi una storia e provo a creare un personaggio per
quell’ometto lassù. Quanti anni ha? Da dove viene? Forse è solo.
Dopo pochi minuti rientrano Ignazio ed il principale, ed insieme a loro qualche cliente e
questa volta c’è un argomento nuovo di cui parlare. Ma nessuno sembra far caso
veramente a quel poveretto che essendo ispiratore dei loro discorsi avrebbe in ogni caso
meritato un poco di considerazione, se non di rispetto. E invece lì a parlar male di tutto,
specie di “quello là”, fuori, aggrappato che sta subendo ogni genere di speculazione
verbale; c’è addirittura chi gli trova delle responsabilità per i propri guai e con tal enfasi che
inizio a pensare che ci creda veramente. Ecco la signora Marisa, una simpatica donnetta,
buona e gentile, che dopo essere stata con il naso all’insù entra in negozio con fare sornione
ed io per trovare un poco di conforto mi accingo a servirla. Che cosa desidera Signora
Marisa? E lei senza far caso a me e dimentica del reale motivo per cui è entrata nel negozio,
inizia a dire: Voglio proprio vedere se si butta. Voglio vedere se ha il coraggio. . . deve
essere un extracomunitario. Andrei su io, a dargli una spinta. Per non parlare dei commenti
degli altri clienti che annuiscono con soddisfazione e qualcuno addirittura rincara la dose.
Che siano tutti impazziti, o il pazzo sono io?
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Dopo un po’ la piazza incomincia a riempirsi, sono arrivati anche i pompieri che comunque
sembra non abbiano preso troppo sul serio la cosa. Qualcuno gli grida qualcosa. Il negozio si
svuota di nuovo ed io rimango solo; non ho voglia di uscire. C’è un atmosfera tesa la fuori,
qualcuno impaziente incita il poveretto a buttarsi giù e allora anche gli altri iniziano a trovare
il “coraggio” per esprimere il proprio dissenso per l’inutile attesa che il signore aggrappato a
quella sottile ringhiera gli sta facendo subire. E allora nasce un coro di voci, prima confuse,
discordanti, ma che poi si uniscono in un comune grido d’incoraggiamento, o di scherno. I
pochi bambini che hanno avuto la fortuna di assistere a questa scena, non capiscono, forse
perché non riescono a vedere. E chiedono al genitore di essere sollevato per poter
osservare. Ora non guardo più nemmeno attraverso la vetrina, e cammino su e giù dietro il
banco immaginando, credo con perspicacia, ciò che sta succedendo fuori. Ormai le grida
sono così normali che non le sento più. Improvvisamente cresce un silenzio, assordante;
lentamente esco dal vortice dei miei pensieri. È successo qualcosa; interrompo il mio
passeggiare irrequieto. Aspetto un poco, e subito riprende un brusio leggero, questa volta di
delusione e le gente lentamente si allontana per la proprio strada. Tutto riprende
normalmente, non è accaduto nulla, sembra.
Sistemo le merce sugli scaffali, svogliatamente. Ciò è inevitabile dato che sono concentrato
altrove. Entra dalla porta piccola del negozio la ragazza straniera con i corti capelli rossi. È
alta, e ha un bel corpo. Interrompo immediatamente quello che stavo facendo, cercando
di non farmene accorgere, ma è difficile visto che sento il cuore battere cosi forte che credo
si possa sentire, e anche se c’è un po’ di paura non posso fare a meno di avvicinarmi a lei
per chiederle: di cosa hai bisogno? Accidenti, è bellissima eppure non faccio fatica a
dissimulare il mio interesse e non guardarla. Mi chiede un infuso alla menta. Mi precipito
verso lo scaffale dietro il banco, e cerco la scatola freneticamente, e per fare più in fretta
faccio cadere alcune confezioni. Finalmente la vedo, in fondo alla pila di infusi di ogni sorta;
è l’ultima. La prendo, mi giro e con un sorriso la poggio sul piano del banco. Anche lei mi
sorride simpaticamente. Ma io abbasso subito gli occhi, e mi chino per prendere una busta
di carta. Quando torno su, lei ancora sorride e mi dice qualcosa con il suo accento delicato;
ma mi pare di non capire e faccio finta di nulla, e non rispondo. Lei prende dalla mia mano
la confezione e dopo esserci salutati si dirige verso la cassa. Io la osservo camminare e dalla
lunga gonna viola vedo le caviglie sottili e ben tornite, ha scarpe nere senza tacco. Nel
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frattempo entra Davide il giovane idraulico che come ogni giorno viene a prendere il
pranzo. Lei dalla cassa torna verso il centro del negozio, invece di uscire, per fermarsi
davanti allo scaffale dei biscotti. Ogni tanto pare girare un fuggevole sguardo verso di me,
ma forse mi sbaglio. Così chiedo al giovane idraulico cosa desidera. Sul banco c’è un grosso
cesto di vimini con dentro tante buste di biscotti artigianali. Sto pesando sulla bilancia e
anche se ora non posso vederla so che è lì vicino, e penso alle altre volte che è venuta a
fare la spesa in negozio; due o tre?
Si avvicina al bancone ed inizia a rovistare nel cesto dei biscotti e dal vetro del banco posso
vedere le gambe snelle e abbronzate attraverso il lungo spacco della gonna, per un attimo
mi fermo ad osservarle. Davide con una battuta mi richiama al dovere. Faccio uscire lo
scontrino dalla bilancia elettronica e lo consegno insieme alla busta.
Mi sorride ancora, la guardo bene, è proprio bella. Mi piace il suo sorriso. L’idraulico esce.
Rimaniamo soli, lei ed io. Mi chiede qualcosa, che io non riesco a capire, indicandomi una
bottiglia in alto sullo scaffale. Esco così da dietro il bancone e rapido mi dirigo a quello stesso
scaffale, vicino a lei. Ripete, indicando la bottiglia di tequila, che io, volgendole le spalle,
prontamente afferro. Lei la guarda attentamente, dalle mie mani, per un attimo. Poi
apprestandosi ad uscire dal negozio attraverso la porta più vicina, dice: un momento. Poco
dopo rientra insieme ad un ragazzo. Alto, capelli castani, robusto, ben vestito. Lei
avvicinandosi a me, con fare aggraziato, tipico di alcuni feroci felini, facendo uscire l’artiglio
affilato dalla graziosa zampa felpata, gli indica la bottiglia. Lui annuisce, facendo trasparire
dagli azzurri occhi gravida soddisfazione. L’ennesimo ferino sorriso di lei, mostra i denti
bianchissimi e affilati, prima di chiedermi il prezzo della bottiglia. Ormai talmente calda che
aprirne il tappo ora sarebbe pericoloso. Li guardo entrambi, bella coppia; addirittura lui e
più bello. Torno ad osservare la bottiglia per cercare l’etichetta del prezzo, che non ricordo,
e puntualmente non trovo. Invento allora una cifra che immagino probabile: cinque pezzi di
rossa carne. Sì, proprio una bella coppia, ma lei è più bella, felina. Aspettano dalle mie
labbra. Sono pronto a dirne il costo che ormai la lunga attesa ha reso improrogabile.
Involontariamente deglutisco prima di appestarmi a parlare, ma mi va di traverso, cerco di
tossire. Non ci riesco. Non riesco a parlare. Dalla mia bocca escono strani suoni, brandelli di
parole accennati a fatica. E stranamente con fare testardo mi trovo a riprovare, e come un
disco rotto; ho l’impressione di essere caduto in un gioco senza fine. E mentre mi sento
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riprovare cercando di comunicare il prezzo della bottiglia. Come se mi fossi sdoppiato, mi
ritrovo ad osservarmi da pochi centimetri. E vedo me, e vedo loro. Vedo il mio viso investito
di quell’orribile, patetica espressione di autocommiserazione, con le spalle basse a tal punto
che devo abbassare lo sguardo per continuare ad osservarmi. Il bello è che, sia io, sia l’altro
me stesso, ci rendiamo conto di quello che sta accadendo e della tremenda figuraccia che
ci sta facendo subire.
I due davanti a noi lo guardano imbarazzati, dubbiosi, in attesa che tutto finisca, magari in
un sorriso. No! Non è così invece. Lui continua a sputare malamente mozziconi della stessa
parola, che non vuole uscire, e allora tenta strane strategie per superare l’intoppo facendo
precedere ad essa ed a volte seguire, altre parole le quali anch’esse a volte non trovano la
strada per uscire. E così un indecifrabile groviglio di suoni gutturali, strisciati, misti a significati
perduti in espressioni sofferte ed inutili. I due davanti a noi, dopo un primo momentaneo
imbarazzo, ora sembrano impazienti, di aspettare, di ascoltare pseudo frasi senza senso, e
dimentichi ormai del motivo per cui sono lì, incrociano ancora una volta i loro sguardi e poi
escono in eleganti balzi. Senza nessun imbarazzo, senza voltarsi indietro.
Lui rimane, fermo, intento nel tentativo di liberarsi da quella fantomatica parola,
probabilmente un numero, che testardamente lei, testardamente io, in un insensato gioco di
forza sembriamo opporci.
È buio ormai, ogni tanto interrompo per riprendere fiato. Poi all’improvviso mi rendo conto
che non ha più senso ora che io riesca a dire. . . giacché non c’è nessuno ad ascoltare e
proprio per questo sono sicuro, adesso, di poter “parlare” senza difficoltà; ma poi cosa
n’avrei fatto con grossi rossi cinque pezzi di carne?
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