1 1 TECNICHE E TECNOLOGIE PER LA MEDIAZIONE DIDATTICA

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1 1 TECNICHE E TECNOLOGIE PER LA MEDIAZIONE DIDATTICA
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TECNICHE E TECNOLOGIE PER LA MEDIAZIONE DIDATTICA
Luigi Guerra
1. Tecnica e tecnologia
Ogni manuale di tecnologie dell’educazione inizia necessariamente con
un’analisi del concetto di “tecnologia”: anche noi, quindi, non ci sottrarremo a questo
compito, prima di tutto perché sul termine tecnologia si commettono vere e proprie
“ingiustizie” interpretative, non riconoscendogli i significati più qualificanti, ma più
che altro perché la piena comprensione del concetto di tecnologia è assai rilevante
per entrare nella nostra argomentazione. Ci limiteremo ovviamente soltanto ad
alcune riflessioni.
Il termine “tecnologia” viene riduttivamente ma comunemente utilizzato per
indicare in modo generico una macchina o più macchine fra loro collegate. Se si
aggiunge al termine l’aggettivo “nuove” si ottiene, sempre nel senso comune,
l’indicazione di macchine che hanno a che fare con l’informatica e con il mondo dei
computer. La sottolineatura interpretativa viene quindi posta sulla dimensione “dura”
delle tecnologie: dotarsi di nuove tecnologie significherebbe allora, in sostanza,
acquistare hardware. Se le tecnologie non funzionano vorrebbe dire che le
macchine di cui si dispone sono inadeguate (o, al massimo, che manca
l’elettricità…). L’esistenza del software, cioè dei programmi applicativi che rendono
operative le macchine e che ne consentono l’utilizzazione verso scopi specifici e
differenziati, appare normalmente essere percepita come di secondaria importanza:
forse perché la maggioranza degli utenti questi programmi non li paga, oppure
perché sono ormai in gran parte venduti insieme al computer, vengono
immediatamente installati da un tecnico e costituiscono alla fine una dimensione
invisibile della strumentazione.
Gli stessi studenti universitari, richiesti di un’opinione in merito nell’ambito
delle tradizionali lezioni introduttive ai corsi di Tecnologie dell’educazione,
dimostrano normalmente incertezza e confusione e, in molti casi, ritengono il
concetto di “tecnica” più ampio di quello di “tecnologia”: l’opinione prevalente è
spesso che quello di tecnica sia un concetto per così dire “fondativo” e che le
tecnologie ne siano un’applicazione operativa. Solo in un secondo tempo si fanno
indirizzare dal suffisso “logos” 1 e avviano una riflessione sul vero significato del
termine tecnologia che è, se si consulta un normale dizionario, “Studio della tecnica
e della sua applicazione” derivando da un vocabolo greco interpretabile come
“studio sistematico di un’arte” 2.
1
“La tecnologia, […] come lascia intendere il suffisso, deriva da logos, si propone per parte sua di
studiare i procedimenti tecnici nei loro aspetti generali e nei loro rapporti con lo sviluppo della civiltà”
in BERGER R., Il nuovo Golem, televisioni e media tra simulacri e simulazioni, Milano, Raffaello
Cortina, 1992, p. 16
2
Cfr. Il nuovo Zingarelli, undicesima edizione. Occorre comunque ammettere che si trovano
definizioni anche molto più “settoriali”. Lo Zingarelli stesso come secondo significato, ma anche
l’Enciclopedia generale De Agostini (1998) come unico significato riportat o, definiscono la tecnologia
come “scienza che si occupa dei processi e degli strumenti mediante i quali le materie prime
vengono trasformate in prodotti finiti”
1
Da parte sua la tecnica può essere definita come “L’insieme delle attività tese
a creare, su basi empiriche mediante l’applicazione delle cognizioni scientifiche,
macchine e procedimenti atti a soddisfare le esigenze della vita pratica” 3. Calvani
recentemente ne propone un’interpretazione che tiene in maggior conto le
componenti “sociali” che intervengono nella costruzione della conoscenza operativa:
“Con tecnica ci si riferisce generalmente ad un insieme di comportamenti finalizzati
che in virtù di prove ed esperienze socialmente convalidate è stato accreditato
come adeguato per il conseguimento di un risultato preposto”.4
Si può osservare come nella nostra cultura il concetto di tecnica abbia subito
una curvatura interpretativa che ci porta a collocarlo pienamente nell’area delle
attività scientifico-applicative, piuttosto che in quella della ricerca e delle attività
umanistiche. In altri termini, oggi l’idea di tecnica rimanda ad esperienze in cui
prevale la diligenza riproduttiva, il rigore meccanico del procedimento, l’oggettività
delle regole e dei comportamenti: molta ragione e poca passione. Di converso, sulla
base di un permanente pregiudizio idealistico, l’attività creativa dell’uomo viene per
lo più percepita come opposta alla sua componente tecnica; con una relazione
ipotizzata tra arte e tecnica che vede ancora la prima come romantica affermazione
di “genio e sregolatezza” e la seconda come mancanza di ispirazione. Anche se
tutto questo viene poi naturalmente negato in qualsiasi accademia o conservatorio
in cui si trascorrono quinquenni a ricopiare capitelli corinzi e tentare solfeggi.5 Come
dire che l’arte (qui assunta come ipostasi dell’attività creativa dell’uomo) ha una
irrinunciabile componente tecnica, ma anche che la tecnica ha una irrinunciabile
componente artistica. Come dire ancora, come diretta conseguenza, che la
valutazione tecnologica di una tecnica e dei suoi ambiti e modi di applicazione non
può essere condotta solo con criteri quantitativi e oggettivi, ma deve tenere anche
conto di variabili qualitative non meccanicamente determinabili.
Peraltro, gli stessi strumenti e i materiali che in diversa combinazione
costituiscono l’elemento operativo della tecnica (delle tecniche) stanno “dentro” alla
tecnica stessa, ma in qualche misura la precedono ed entrano in relazione diretta
con l’individuo (il tecnico) che li utilizza. E questo secondo modalità variabili che
riguardano:
- la capacità di utilizzarli, cioè, la padronanza della tecnica. L’apprendista
stregone di Walt Disney finisce con l’essere dominato dagli oggetti del suo
incantesimo non controllato;
3
Enciclopedia generale De Agostini (1998), p. 1397. Più sinteticamente, lo Zingarelli: “Serie di norme
che regolano il concreto svolgimento di un’attività manuale o intellettuale”
4
CALVANI A. , Manuale di tecnologie dell’educazione, Pisa, Edizioni ETS, 2000 (2°), p.14
Il rapporto tra arte e tecnica è veramente complesso. Si ricordi che la parola greca technè può
essere tradotta correttamente in italiano con il termine “arte”: Fidia, uno dei più grandi artisti
dell’antichità, autore delle sculture del Partenone, era sicuramente definito come un “tecnico”.
Osserva Calvani: “Ogni tecnica ha una doppia anima. Da una parte essa tende a presentarsi come
analizzabile, scomponibile in unità più semplici soddisfacendo l’esigenza di costituire un ambito
definito che può anche essere definito formalmente e comunicato astrattamente. D’altra parte, a ben
vedere, si presenta come un agglomerato di componenti concettuali, culturali, fisiche, che va oltre
una semplice logica assemblativa e sfugge alla possibilità di una pura rappresentatività formale. Ogni
tecnica ha alla fin fine dei contorni sfumati; padroneggiare la tecnica significa avventurarsi in un
reticolo dalle molte facce, che non si lascia facilmente delimitare”, CALVANI A., op cit. p.15.
5
2
la capacità di esserne utilizzati, cioè, di percepire e di farsi influenzare dalle
qualità primitive dei materiali (come nel caso dello scultore che mastica
schegge del legno che sta scolpendo) 6.
Il problema è sempre di tipo gerarchico, di chi viene prima tra tecnologia,
tecnica, strumenti, materiali. Tra queste variabili esistono, in realtà e più ancora nel
nostro immaginario consolidato, strani possibili intrecci. Per esempio, nella
letteratura per l’infanzia più recente Harry Potter scopre una relazione che
potremmo definire biunivoca fra se stesso e la bacchetta magica che vuole
comprare: secondo il venditore “non esistono due bacchette che siano uguali, così
come non esistono due unicorni, due draghi o due fenici del tutto identici. E
naturalmente, non si ottengono mai risultati altrettanto buoni con la bacchetta di un
altro mago”. 7 Ci basti osservare che, anche in questo caso, occorre competenza
tecnica (ci sono regole precise per l’uso della bacchetta magica…), occorre un
contesto tecnologico specifico (garantito dalla unicità ed irripetibilità della figura del
mago che utilizza la bacchetta), ma si ritorna alla fine alla superiorità dello
strumento: “…ma in realtà, è la bacchetta a scegliere il mago, naturalmente”.8
La definizione del concetto di tecnologia appare, in definitiva, essere molto
più complessa di quanto non emerga dall’uso diffuso del termine, che abbiamo visto
essere molto riduttivo e oggettivante. Contro il persistere di questa interpretazione,
probabilmente, non si può fare nulla, come emerge dalla stessa letteratura
scientifica citata in queste pagine che tende costantemente ad appiattire il
significato di tecnologia sugli oggetti strumentali e sui procedimenti che ne
costituiscono invece soltanto l’oggetto di studio. Assumiamo comunque, se non altro
in questa sede teorica, che l’area di significato della tecnologia coinvolga almeno tre
livelli di riflessione:
-
1. L’analisi descrittiva di tecniche: sia rilevate direttamente dalla prassi (attraverso
l’osservazione critica di procedimenti e di prodotti risultanti dalle tecniche
stesse…), sia progettate in sede teorica (attraverso la costruzione di ipotesi, la
sperimentazione in laboratorio, la validazione in situazioni controllate…) con
particolare attenzione all’uso specifico di materiali e strumenti che si ritrovano in
tecniche diverse, che preesistono alle tecniche o che nascono da o con
tecniche.
2. La comparazione di tecniche, isolate o collegate in “ambienti” tecnici complessi,
in funzione di criteri differenziati (efficacia, efficienza, ma anche impatto
ambientale, compatibilità con il contesto…). Quindi, non sulla base di un’idea
semplificata di produttività, ma di una prospettiva di attenzione sistemica alla
complessità capace di integrare dimensioni qualitative e quantitative.
3. L’identificazione e l’analisi dei modelli (culturali, politici, religiosi, pedagogici)
all’interno dei quali si collocano le tecniche e che ne giustificano e finalizzano
l’utilizzazione. Tali modelli possono essere dichiarati o nascosti: chi utilizza le
tecniche può averne un grado di consapevolezza (e di condivisione) differenziato
o addirittura nullo.
6
Sulle dimensioni dell’estetica nel suo rapporto con la percezione si veda BERTIN G.M., L’ideale
estetico, Firenze, La Nuova Italia 1974 e, in particolare, l’appendice: “Il momento dell’estetico
nell’esperienza del quotidiano”
7
ROWLING J.K., Harry Potter e la pietra filosofale, Milano, Salani, 1998, pp. 83-84
8
IVI, p. 82
3
Nel merito dell’ultimo punto si deve osservare, anticipando una riflessione che
verrà ripresa in seguito, che la continua accelerazione dell’innovazione tecnica sta
determinando una situazione del tutto nuova nella quale rischia di essere sovvertito
il rapporto strutturale tra fini e strumenti che vede i primi, almeno in teoria, sostenere
la ricerca e l’implementazione dei secondi. L’opinione di alcuni autori, ma il
problema è sotto gli occhi di tutti, è che l’esplosione della tecnica la stia rendendo
progressivamente più fine che strumento, o almeno fine e strumento insieme: in un
orizzonte in cui è la possibilità di farle che orienta alla scelta delle cose che si fanno.
In altre parole, starebbe per aprirsi non più il secolo della tecnica al servizio
dell’uomo, ma quello dell’uomo al servizio della tecnica. Su questa lunghezza
d’onda, Galimberti argomenta che “… finchè la strumentazione tecnica disponibile
era appena sufficiente per raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione
degli umani bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il cui significato era
interamente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta quantitativamente al
punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta
qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la
rappresentazione, la ricerca, l’acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà la cresciuta
disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per
loro tramite può essere raggiunto. Così la tecnica da mezzo diventa fine, non
perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli
uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione
tecnica.” 9
Si può concludere questo primo paragrafo con alcune ulteriori riflessioni sulla
natura della tecnologia nel suo rapporto con la tecnica:
a. La tecnologia studia le relazioni tra materiali, strumenti e tecniche (gli stessi
strumenti e materiali possono trovare collocazione in tecniche diverse), analizza
e compara le tecniche, la loro efficacia ed efficienza, in funzione del loro
contesto socioculturale di utilizzazione, degli obiettivi proposti, delle finalità
dichiarate o nascoste, consapevoli o inconsapevoli che le tecniche stesse
consentono di perseguire.
b. Le tecniche non sono mai perfettamente applicabili e riproducibili: il loro risultato
dipende da fattori oggettivi (tutte le variabili relative al contesto “storico” di
utilizzazione) e da fattori soggettivi, legati cioè alle qualità professionali (una
sintesi tra competenza oggettiva e originalità/creatività individuale) e alle
intenzioni dell’utilizzatore: in particolare se si sottolinea che, in definitiva, per
tecnologia si deve intendere “l’insieme delle procedure mentali che si
accompagnano all’uso di strumenti artificiali”. 10
c. Le tecniche non hanno un valore positivo oggettivo: la tecnologia studia e
chiarisce il modello culturale e politico complessivo che le sostiene, tenendo
presente che, riprendendo un vecchio paradosso, le tecniche non sono né di
destra né di sinistra, ma neppure neutrali. Sono interpretabili secondo intenzioni
soggettive, ma nascono comunque in un contesto che ha premiato certi oggetti
di ricerca rispetto ad altri. Possono essere poste al servizio di ipotesi diverse, ma
conservano probabilmente l’imprinting dell’ipotesi culturale che le ha prodotte.
Garantiscono libertà di scelta, ma possono nascondere derive di eterodirezione
non sempre facilmente svelabili…
9
GALIMBERTI U. Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 37
MARAGLIANO R., La tecnologia fa scuola. Didattica lettura massmedia, Roma, Anicia, 1992, p. 10
10
4
d. La tecnologia studia quindi il rapporto tra tecnica e civiltà, nella consapevolezza
che le tecniche e il loro uso sono insieme figli di una sociocultura e genitori della
sua sopravvivenza o del suo cambiamento: “All’interno di un certo sistema
culturale si presentano le condizioni per il realizzarsi di una determinata
tecnologia. Esse sono identificabili con la necessità di risolvere problemi
emergenti, con il bisogno di migliorare lo stato di vita, con la curiosità di
saggiare, mettendole alla prova, intuizioni e scoperte, con la possibilità di
usufruire di materiali fino allora indisponibili. In questo senso si può asserire che
la cultura genera la tecnologia. Ma […] si deve ammettere per vero anche il
contrario: la tecnologia, modificando il sistema sociale e culturale,
paradossalmente produce la cultura, una nuova cultura.” 11
2. Tecnologie in contesti educativi
Le tecnologie educative (anche se sarebbe meglio, dal nostro punto di vista,
parlare di tecnologia dell’educazione) rientrano pienamente nelle riflessioni
problematiche finora avanzate. Partiamo dal tentativo di una loro specifica
definizione. Galliani citando il rapporto al Congresso USA (1979) dell’AECT
(Association for Educational Communication and Technology), secondo cui la
tecnologia dell’istruzione sarebbe “il modo sistematico di progettare, realizzare e
valutare il processo globale dell’apprendimento umano e delle comunicazioni, con la
combinazione delle risorse umane e non, per la realizzazione di una istruzione più
efficace”, osserva che questo ambito scientifico coincide e addirittura travalica
quello tradizionalmente definito in ambito universitario come “metodologia e
didattica” e propone come epistemologicamente più corretto il termine/concetto di
“Tecnologie della Comunicazione Educativa” 12.
Questa definizione, che perimetra adeguatamente il terreno degli strumenti e
delle tecniche oggetto di analisi, lascia comunque impregiudicato il problema del
rapporto tra tecnica e tecnologia delineato nelle pagine precedenti. Sta di fatto che
comunemente anche a scuola, e in genere in ambito educativo, si usa il termine
tecnologia per intendere tecniche o ancor più strumenti elettronici: computer e
applicazioni connesse. Questo comporta e nello stesso tempo deriva dal fatto che il
dibattito rimane ancorato ad una valutazione, di natura tecnica, sull’oggettiva qualità
delle strumentazioni: una valutazione che vede ancora la presenza del duplice
schieramento ideologico degli “apocalittici” (le macchine come fonte di ogni
nefandezza pedagogica) e degli “integrati” (i nuovi strumenti e tecniche come
occasione salvifica).
In positivo, si può facilmente constatare che il computer e le sue applicazioni
generano ancora passioni. Si tratta, come abbiamo detto, di contrapposizioni per lo
più di principio tra assertori e detrattori del computer, non tra pro o contro un certo
uso del computer, secondo un’attitudine alla colpevolizzazione o alla beatificazione
dell’oggetto che viene da lontano: si pensi alle polemiche sull’uso della biro al posto
del pennino a inchiostro che hanno accompagnato il primo dopoguerra.
Da un lato, si assiste all’elogio della tecnica interpretata come in grado di
liberare l’insegnante dalle componenti più riproduttive dell’esperienza scolastica,
11
12
CERRI MUSSO R., Tecnologie educative, Genova, Sagep editrice, 1995, p.22
GALLIANI L et al., Le tecnologie didattiche, Lecce, Pensa Multimedia Editore, 2000, p.12
5
con un chiaro tentativo di delegare in pieno alcuni aspetti dell’istruzione alla
macchina: “L’impiego di elaboratori nella scuola può configurarsi come uno stimolo
alla riduzione di alcune caratteristiche della prestazione lavorativa che […] risultano
attualmente le meno gratificanti, qualificanti e utili dal punto di vista del “prodotto”
didattico offerto. L’impiego di elaboratori può infatti contribuire a ridurre i momenti di
serialità e ripetitività dell’insegnamento, facilmente sostituibili da sistemi informatici
didattici, anche di tipo non particolarmente interattivo”.13
D’altro lato, si denuncia l’impoverimento sostanziale di una situazione
educativa fondata sulle nuove forme di mediazione offerte dalle macchine:
“L’insegnamento a distanza è basato sulla tecnologia. Si entra in confidenza con email e collegamenti video, e con server di rete. Alla fine del semestre avrete
collaborato con altri due studenti di cui non avete mai visto la faccia. […]
L’insegnamento a distanza offre tutte le informazioni, tutti i fatti, tutta la noia di
un’aula scolastica normale, senza però il suo clima, senza l’impegno che la
presenza di un professore impone, senza alcun piacere. E’ ideale per studenti
secondo i quali informazione equivale a istruzione. Perfetto per la scuola che vuole
studenti più o meno preparati con il minimo di interazione umana”. 14
Paradossale come i due approcci citati utilizzino di fatto le stesse
argomentazioni per arrivare a due valutazioni contraddittorie: per il primo, la
macchina libera gli insegnanti dai coefficienti istruttivi, ampliando i margini di un
intervento educativo di qualità più elevata; per il secondo, le nuove tecniche
riducono ad istruzione l’intera esperienza educativa uccidendo i momenti
dell’interazione, individuati come i più preziosi dal punto di vista educativo. E’ vero
che il secondo autore si riferisce ad esperienze di introduzione integrale della
telematica nel percorso di formazione, ma le stesse riflessioni sono state e
potrebbero ancor oggi a torto o a ragione essere avanzate in presenza di un uso
delle strumentazioni elettroniche in classe.
In Italia, almeno per ora, sia a scuola sia nelle situazioni di formazione
extrascolastica la delega di parti della funzione dell’educatore alla macchina non è
ancora avvenuta, almeno in termini significativi. Caso mai, dentro la scuola (e non
solo in quella di base) si assiste al fenomeno della delega ad insegnanti specifici,
esperti in nuove tecnologie (come avviene peraltro con altre figure di esperto per
insegnare la lingua straniera, l’educazione fisica, la musica…), ai quali viene
demandata, in ore e spazi particolari, la conduzione dell’alfabetizzazione alle nuove
tecnologie della comunicazione. Questo anche perché il taglio eccessivamente
centrato sull’informatica (e non immediatamente sull’uso applicativo delle
apparecchiature), che ha caratterizzato la prima fase di introduzione del computer
nelle scuole 15, ha fortemente scoraggiato un buon numero di insegnanti.
E’ comunque diffusa (nel senso che gli integrati, o almeno i rassegnati, sono
oggi molto più numerosi degli apocalittici) la convinzione che l’utilizzazione del
computer sia se non altro positiva per la nuova motivazione che offre agli studenti.
13
ISRIL (Istituto di studi sulle relazioni industriali e di lavoro), Tecnologie informatiche ed implicazioni
sui processi educativi , in FORNACA R., Didattica e tecnologie educative, Torino, Principato Editore,
1985, p. 509
14
STOLL C., Confessioni di un eretico high-tech, Milano, Garzanti, 2001, p.80
15
Per molto tempo la convinzione diffusa nelle autorità scolastiche e anche presso i singoli
insegnanti era che “Informatica nella scuola, ancora per un lungo periodo, non sarà sinonimo di
“insegnamento assistito dall’elaboratore” (IAE) ma, accanto a sperimentazioni di diverse tecnologie
didattiche applicate alle materie tradizionali, molto più frequentemente significherà “insegnamento
all’uso dell’elaboratore”. In ISRIL, Op.cit., p 510
6
Secondo Clotilde Pontecorvo, per esempio, i ragazzi sono “notevolmente motivati
ad impegnarsi proprio nell’uso delle tecnologie, per ‘mettere le mani’ direttamente e
per impadronirsi di strumenti che sono propri del loro tempo”. 16
Sulla strada, come vedremo, di una totale accettazione delle nuove tecniche,
ma senza una sufficiente elaborazione di tecnologia dell’educazione, si colloca una
recente e articolatissima circolare ministeriale 17 che definisce le linee di un “Piano
nazionale di Formazione degli Insegnanti sulle Tecnologie dell’Informazione e della
Comunicazione”, riprendendo e rilanciando iniziative formative su questi temi già
condotte nel quinquennio precedente. La circolare presenta indubbi aspetti positivi
accompagnati da alcuni elementi sui quali non si possono non avanzare perplessità,
anche sostanziali. Tra gli aspetti positivi possono sicuramente essere fatti rientrare,
da un lato, la forte consapevolezza del ruolo dirompente che hanno assunto le
nuove tecnologie della comunicazione nella formazione di ogni individuo, d’altro
lato, lo sforzo di dettagliare in moduli di competenza (a loro volta suddivisi
analiticamente in contenuti, argomenti ed obiettivi) il percorso di formazione
proposto agli insegnanti. Gli aspetti di criticità riguardano invece: l’approccio
complessivamente “tecnico” (e non tecnologico, nel senso da noi assunto)
all’inserimento delle nuove tecnologie nell’educazione; la struttura dell’impianto
formativo proposta, a partire dalla stessa successione dei moduli e dalla
corrispondenza prevista tra moduli e tipologie di insegnante; la dimensione
sostanzialmente infrascolastica e riproduttiva della prospettiva didattica individuata.
Sull’eccesso di curvatura tecnica, in particolare, si può constatare fin dalle
premesse come il documento testimoni un entusiasmo incondizionato nei confronti
dei coefficienti di innovazione oggettiva che caratterizzano le cosiddette nuove
tecnologie: “La diffusione capillare dei computer e di Internet ha indotto, in questi
ultimi anni, profondi cambiamenti nei modi di apprendere e di operare delle nuove
generazioni. L’uso delle diverse applicazioni produce cambiamenti nei modi in cui
sono svolte varie attività cognitive, ad esempio nel modo di scrivere
(wordprocessor), di ricercare l’informazione (motori di ricerca, browser di rete), di
disegnare (editori grafici), di calcolare e organizzare dati (database e spreadsheet),
di comporre musica (editori musicali), di comunicare (posta elettronica e sistemi di
messaggistica e/o cooperazione), ecc. Si può dire che gli studenti che usano il
computer acquisiscono nuove capacità di apprendimento basate su una continua
pratica di interazione con ambienti virtuali di gioco, di espressione, di
comunicazione, ecc.”.
La positività sul piano educativo dell’avvento del computer e delle sue
applicazioni viene quindi data per scontata: come un enunciato di partenza sul
quale non vale la pena di avviare alcuna riflessione problematica. Per gli autori della
circolare, con un taglio che richiama il positivismo prima maniera, al progresso
tecnico si accompagna inevitabilmente e indiscutibilmente il progresso culturale: in
questo caso la qualificazione dei processi di acquisizione della conoscenza. L’unico
compito che rimane all’educatore è quello di garantire la periferizzazione
dell’innovazione su tutti gli utenti. In effetti, la circolare fonda su questa prospettiva
“democratica” la necessità del piano di formazione degli insegnanti: “Tale processo
non può essere ignorato dall’istituzione scuola che, da una parte, deve attrezzarsi
per fornire adeguato supporto di conoscenze e di abilità, dall’altra, deve offrire
16
PONTECORVO C., Apprendimento e nuove comunità di discorso, in TALAMO A. (a cura di),
Apprendere con le nuove tecnologie, Firenze, La Nuova Italia, 1998, p. 36
17
C.M. 21 maggio 2002, n. 55
7
queste possibilità a tutti, onde evitare che queste nuove conoscenze si configurino
come nuove forme di esclusione”.
Ancora più gravi, all’analisi pedagogica, risultano essere alcune affermazioni
successive. Dichiara la circolare: “Se, fino ad oggi, la professionalità degli
insegnanti si sviluppava lungo due assi principali: le conoscenze disciplinari e la
capacità di progettare, organizzare, gestire processi di apprendimento tesi a
garantire la crescita culturale dei propri allievi, oggi non può non prevedere un terzo
asse centrato sull’uso delle tecnologie”. L’affermazione ci pare inaccettabile per
almeno due motivi:
a. perché sembra circoscrivere il ruolo storico dell’insegnante e della scuola
(almeno se i due assi vengono letti come “conoscere le discipline” e “saperle
insegnare”) nel confine che racchiude le discipline e il loro insegnamento,
dimenticando di fatto quelle componenti più generalmente formative
(l’educazione dell’uomo e del cittadino, come recitavano per esempio i
programmi della scuola media) che caratterizzano ogni istituzione educativa
che non si proponga meri fini istruttivo/addestrativi;
b. perché presenta la formazione all’uso delle nuove tecniche come un “terzo
asse” che non è evidentemente né disciplinare, né didattico. E allora non si
capisce cosa sia.
E’ invece assolutamente evidente che le nuove tecnologie dell’informazione e
della comunicazione (TIC) devono essere fatte rientrare completamente negli assi
portanti e già esistenti della scuola: si presentano come un nuovo oggetto
disciplinare (modificano e integrano radicalmente il quadro dei saperi e degli
strumenti delle discipline della comunicazione), costituiscono un quadro complesso
di nuove strategie e metodologie didattiche (sono nuovi strumenti per qualificare i
percorsi di istruzione e di apprendimento). Prefigurano un nuovo scenario
socioculturale –se si vuole aggiungere quella valenza formativa generale che
abbiamo visto non essere ben sottolineata nel testo- verso il quale occorre una
preparazione specifica, ma non sono affatto questa “terza cosa”, non ben
rubricabile, citata dal testo ministeriale.
La circolare sembra aggiungere le TIC al curricolo senza un progetto culturale
preciso: non le vede come competenze disciplinari, non le interpreta in definitiva
come strumenti didattici. In effetti, anche se le pagine traboccano di inviti a
intrecciare le TIC con la didattica non emerge a sufficienza l’idea che le TIC siano
nuovi strumenti della didattica e come tali vadano proposte agli insegnanti. La
circolare dichiara che tutti gli insegnanti dovrebbero possedere “competenze di base
sull’uso del computer opportunamente coadiuvate da conoscenze tese a supportare
l’integrazione delle tecnologie nell’attività didattica ed extradidattica dei docenti”:
coadiuvare non basta. La tesi che sosteniamo è che le TIC vadano apprese ed
utilizzate strutturalmente all’interno di modelli tecnologici dell’educazione: cioè,
all’interno di una preventiva e consapevole scelta interpretativa, di natura
pedagogica e didattica, del significato dell’educazione.
Cerchiamo di riassumere il nostro punto di vista con un’esemplificazione: è
banale riscontrare che sul piano tecnico un’applicazione come, per esempio, Power
Point, è sicuramente più avanzata come strumento/strategia di presentazione di un
messaggio di quanto siano le strumentazioni che lo hanno preceduto: la lavagna
luminosa, quella a fogli di carta, a pannello di plastica, a lastre d’ardesia e via
retrocedendo fino alle superfici di pietra incise dai geroglifici egiziani. Sul piano
tecnologico l’esito del confronto non è altrettanto scontato: forse è più avanzato
invitare alla lavagna uno studente (o, meglio, un gruppo di studenti) a produrre
8
autonomamente con il gesso. In altre parole, restando dentro all’esempio,
l’innovazione tecnica, se non mette in discussione, bensì rinforza e rende
incontestabile la tradizionale modalità trasmissiva del fare educazione, presenta ben
poco in termini di novità pedagogica sostanziale. Il rischio, gattopardesco, è che la
rutilanza del “nuovo” copra e giustifichi il permanere di un “vecchio” che altrimenti
verrebbe giustamente spazzato via. E questa non può essere spacciata come
innovazione tecnologica.
Ancora, le stesse tecniche (e gli stessi strumenti, anche se inseriti in
procedure tecniche diverse) possono essere collocate in modelli di mediazione
didattica addirittura antitetici. E’ insufficiente sul piano didattico rivendicare la
padronanza di un’applicazione tecnica: devo indispensabilmente dichiararne il
modello d’uso didattico. Quindi, devo averne una padronanza “tecnologica”. La
stessa cosa ovviamente è sempre stata necessaria per qualsiasi tecnica: un
insegnante padrone delle tecniche della scrittura non è mai stato un buon
insegnante soltanto per il possesso di questa competenza. Se non per la
prospettiva idealista che ha sostenuto il modello (anch’esso, si badi,
paradossalmente tecnologico) della coincidenza automatica tra sapere e saper
insegnare.
Concordiamo pienamente, anche in questo, con Galliani quando afferma che
“occorre dissipare alcuni fraintendimenti purtroppo diffusi: … che l’uso dei media
causi automaticamente apprendimento, mentre in realtà sono i processi, cioè i modi
di utilizzare i media a determinare i risultati dell’apprendimento; … che un medium
sia superiore ad un altro (quasi sempre il nuovo tecnologicamente rispetto al
vecchio), mentre in realtà sono le modalità di strutturazione del programma e di
interazione con l’allievo a causare una diversa qualità dell’istruzione”. 18
Ancora più forte la denuncia formulata in proposito da Stoll: “Ciò che mi dà i
brividi è il clima culturale che circonda i computer. Mi preoccupa l’ingenua credulità
nelle vuote promesse dei sacerdoti dell’informativa. Mi intristisce la cieca fede in
una tecnologia che, promette, si trasformerà in una cornucopia di beni distribuiti
gratuitamente alle persone” 19
Alcune considerazioni a conclusione di questo paragrafo:
-
-
18
19
Tecnologia dell’educazione e nuove tecniche della comunicazione e
dell’informazione non sono la stessa cosa. Il progresso strumentale tecnico non
accompagnato da adeguate modalità di riflessione educativa e didattica è
assolutamente da rifiutarsi sul piano tecnologico-educativo.
La tecnologia dell’educazione deve guidare l’apprendimento delle nuove (e delle
vecchie) tecniche di informazione e comunicazione in quanto costituisce
l’ineliminabile livello di riflessione “dal punto di vista delle scienze
dell’educazione” sulle tecniche utilizzate/utilizzabili per la mediazione didattica.
Esiste, in altri termini, la necessità in questo campo di un “imparare declinato”
verso modelli avanzati di mediazione didattica: molti progetti di aggiornamento
dei docenti e degli educatori sembrano ispirati all’idea di un’alfabetizzazione
tecnica oggettiva del tipo “prima impari l’alfabeto poi lo utilizzerai come ti pare”.
Questo non è vero: le nuove tecniche devono essere apprese con modalità
flessibili e che richiedano la consapevolezza immediata della loro possibile
collocazione in progetti educativi e didattici dai contorni chiari e definiti. In caso
GALLIANI L. op. cit., p. 13
STOLL C., op. cit. p.5
9
-
contrario, si rischierebbe di formare educatori e docenti come idioti specializzati,
facili prede di qualsivoglia padrone del vapore.
Occorre, pertanto, imparare i nuovi strumenti e le loro procedure d’uso
progettando contemporaneamente il nuovo: anticipando i fini e non solo gli
strumenti. Perché “… non deve estinguersi la capacità di anticipare, quella
capacità che i Greci avevano attribuito a Prometeo, l’inventore delle tecniche, il
cui nome significa letteralmente ‘colui che vede in anticipo (Pro-metheus)’. E’
questa la capacità venuta meno all’uomo d’oggi, che non è più in grado di
’anticipare’ e nemmeno di ‘immaginare’ gli effetti ultimi del suo ‘fare‘.” 20
3. Nuove tecnologie dell’educazione: tra promesse e tradimenti
Un’ipotesi molto facile da controllare è che i nuovi modelli della tecnologia
educativa (le nuove tecnologie dell’educazione, nell’uso comune) presentino con
chiarezza oggi un duplice volto: quello delle promesse, delle nuove potenzialità
messe a disposizione e quello della realtà di fatto, dell’effettivamente realizzato al di
là delle dichiarazioni. Le promesse “viaggiano” molto forte: il loro livello di credibilità
rimane costantemente molto elevato perché alludono a scenari potenzialmente veri
e perché l’innovazione tecnica consente di renderli ogni giorno più accattivanti. La
realtà di fatto tradisce le aspettative in modo non trascurabile, non per colpa delle
strumentazioni, bensì perché sono fortemente in ritardo, da un lato, i modelli
pedagogici e didattici in cui inserirle, d’altro lato, conseguentemente, le
professionalità educative di chi le utilizza. Esiste quindi un forte gap tra promesse e
realtà coperto, almeno parzialmente, dal luccichio delle nuove strumentazioni che
impedisce a molti di accorgersene.
Di fatto, usando una metafora, siamo spesso nella stessa situazione in cui ci
troveremmo se affidassimo una Ferrari da corsa ad un autista dotato di una normale
patente B. Questo produrrebbe un duplice rischio: quello, se l’autista affrontasse il
problema a partire dalla sua patente (cioè, dalle sue competenze) di un uso banale,
riduttivo e fuorviante del mezzo, oppure quello, se l’autista si facesse trascinare
dalle prestazioni del mezzo, di trovarci di fronte ad un bolide impazzito, pilotato
senza rispetto di regole e privo di un controllo di regia.
Esaminiamo più approfonditamente il problema dell’inserimento delle TIC in
progetti/percorsi educativi attraverso due esempi tratti dalla quotidianità
contemporanea: il primo legato all’esperienza di corsi di Formazione a Distanza
(FAD) cosiddetti di “terza generazione” e il secondo riferito all’utilizzazione delle TIC
per rispondere al problema di bambini impossibilitati a frequentare la scuola per
motivi di salute.
La FAD di terza generazione 21 utilizza per definizione in modo inte nsivo le
opportunità offerte dalla telematica. Quello che la distingue dalla FAD di prima
generazione (giocata sostanzialmente per vie postali) e dalla FAD di seconda
generazione (già in grado di utilizzare strumenti multimediali e strategie di
telecomunicazione, queste ultime non ancora informatizzate) non è soltanto la
20
GALIMBERTI U., op. cit. p. 715
Per un’analisi più approfondita dei modelli di FAD, con particolare riferimento alla FAD di terza
generazione, si veda: TRENTIN G., Insegnare e apprendere in rete, Bologna, Zanichelli, 1998;
CALVANI A., Educazione, comunicazione e nuovi media: sfide pedagogiche e cyberspazio, Torino,
UTET, 2001
21
10
qualificazione delle relazioni (velocizzazione, intensificazione) e la quantità/qualità
dei materiali informativi messi in rete, bensì la possibilità di adottare modalità di
apprendimento di tipo costruttivista e di consentire la costruzione sociale delle
conoscenze attraverso forme telematiche di lavoro collaborativo tra gli studenti.
La FAD di terza generazione, nelle sue ipotesi teoriche più avanzate,
definisce in particolare il proprio progetto secondo i nuovi scenari offerti dagli
“ambienti di apprendimento”. “Il soggetto che apprende secondo la logica degli
ambienti di apprendimento si trova nelle condizioni di essere egli stesso il
‘costruttore’ della propria conoscenza. Il modello costruttivista, che rappresenta un
riferimento importante e forse addirittura essenziale nell’applicazione delle
infotecnologie alla didattica, vede, infatti, il soggetto impegnato in prima persona nel
difficile compito di costruire il proprio edificio del sapere e per fare questo egli si
avvale di supporti di vario tipo: degli strumenti (le tecnologie nella loro natura
hardware), dei metodi –che scaturiscono dall’incontro tra tecnologie e didattica- e
delle interazioni attraverso i circuiti infotelematici –tra i soggetti- e con le
infotecnologie (rapporto uomo/macchina)”.22
In definitiva, le “promesse” di questo tipo di Fad riguardano sinteticamente:
- la qualificazione dei materiali informativi proposti dal corso in direzione sia di
individualizzazione (con la possibilità di tener conto del livello d’accesso del
singolo studente, del suo stile di apprendimento e dei suoi tempi di studio
attraverso la fornitura di materiali di complessità differenziata) sia di
personalizzazione (con la possibilità di scegliere percorsi e indirizzi paralleli e di
approfondire interessi individuali);
- il potenziamento dell’interazione verticale fra docenti e responsabili del corso e
studenti, attraverso l’uso della telematica che consente il depannage in tempo
reale, la presenza costante (seppur virtuale) di tutor, il feed-back continuo;
- la valorizzazione delle dimensioni dell’apprendimento legate ad attività di diretta
costruzione di competenza “dal basso”, operate sia dal singolo studente sia dal
gruppo;
- la conduzione di forme adeguate di cooperative learning (studio in
collaborazione, sperimentazione di ruoli differenziati nel gruppo degli studenti,
conduzione condivisa di ricerche…).
A fronte di queste promesse, l’analisi delle principali proposte di FAD di terza
generazione avviate oggi in Italia consente di rilevare:
- un forte aumento quantitativo della dimensione informativa (numerosità dei
documenti posti a disposizione) non sempre accompagnato da elementi
sostanziali di qualità (trattamento adeguato dei documenti e non semplice
digitalizzazione di testi, differenziazione dei materiali e dei percorsi, effettiva
presenza di feedback di valutazione formativa…);
- una discreta qualificazione delle funzioni di assistenza degli studenti, attraverso
risposte puntuali e personalizzate, presenza di FAQ (risposte predefinite alle
richieste più frequenti: Frequently Asked Questions), definizione di figure
articolate di sostegno dell’apprendimento: tutor, mentor, esperto…;
- una deludente utilizzazione delle nuove possibilità di relazione orizzontale fra
partecipanti che si riduce, nella maggior parte dei casi, ad aggiungere al sito una
bacheca elettronica (per interscambi personalizzati tra studenti: onomastici,
inviti, informazioni amicali…) e a predisporre (quasi sempre con la stessa
tecnologia della bacheca) uno o più forum dedicati all’approfondimento di
22
BRUSCHI B., Tecnologie dell’istruzione e nuove didattiche, Torino, Tirrenia stampatori, 2001, p.12
11
qualche tema. I forum risultano essere non troppo praticati dagli studenti perché
evidenziano una valenza per lo più accessoria e marginale rispetto alle linee
fondamentali del corso.
Non mancano, se si condivide la nostra analisi dello stato di fatto, i motivi di
disillusione. Per rispondere adeguatamente alle promesse occorrerebbe sostenere
l’indubbia innovazione tecnica con un modello tecnologico che consenta di
trasformare il sito d’appoggio del corso FAD in un vero e proprio portale, in una
bottega artigiana virtuale nella quale:
- presentare materiali trattati secondo le logiche della digitalizzazione che
consentono l’effettiva predisposizione ipertestuale ed ipermediale dei documenti
(altrimenti, tanto vale comprare un libro…);
- progettare una interazione significativa tra le fasi e i momenti di informazione
(garantite dalle diverse figure di docente) e i compiti di costruzione (che vedono
il discente come diretto produttore di competenza);
- predisporre sequenze strutturali di cooperative learning non affidate al
volontarismo dei partecipanti e non legate all’approfondimento di competenze
settoriali, bensì chiaramente identificate come strategie fondamentali di
apprendimento;
- costruire collegamenti con altri siti dedicati ad argomenti vicini e fornire
informazioni sistemiche riferite a tutto ciò che ruota intorno all’argomento del
corso, consentendone un’utilizzazione permanente (anche dopo il termine
dell’attività corsuale) e valorizzandone le potenzialità di strumento di
aggiornamento costante se non addirittura di formazione ricorrente.
Osservazioni analoghe possono essere avanzate per le situazioni nelle quali
viene affrontato con uso di strumentazioni tecniche avanzate il problema del
bambino ammalato o comunque impossibilitato alla frequenza scolastica. Si tratta in
Italia, ovviamente, di situazioni sperimentali, in quanto ancora non esistono in
proposito una cultura ed una sensibilità specifica diffuse: proprio per questo motivo,
per evitare fallimenti sperimentali che giustifichino il permanere per lungo tempo
nell’attuale situazione di sostanziale inazione, è necessario mettere a punto
immediatamente un modello tecnologico di respiro adeguato. Nella normalità dei
casi, le sperimentazioni si limitano purtroppo a prevedere il collegamento video (e
audio) degli studenti con la classe di riferimento: determinando una realtà tanto
costosa quanto inefficace e difficile da praticare da parte di tutti gli attori
dell’esperienza educativa.
In sintesi, si può facilmente rilevare (ma non sarebbe difficile immaginarlo
anche solo sul piano teorico) che il collegamento televisivo permanente tra studente
e classe produce in pochissimo tempo, trascorsa un’innegabile fase iniziale di
euforia partecipativa, una situazione del tutto insostenibile, con incremento della
difficoltà di seguire e quindi della noia negli studenti (in classe e a casa o nel luogo
di cura) e con l’insorgere parallelo di difficoltà strutturali nei docenti.
I primi, gli studenti in difficoltà, si trovano a partecipare da fuori classe ad
eventi già normalmente poco entusiasmanti quando vissuti in presenza, oppure, per
quelli che frequentano normalmente, a far parte di una scenografia virtuale nella
quale ben presto non ci si riconosce, si perdono le battute, non si formano relazioni
significative né con i compagni assenti, né coi presenti. Ai secondi, ai docenti,
vengono di fatto richieste prestazioni comunicative troppo elevate e comunque
difformi (da presentatore/attore televisivo?) da quelle normalmente previste per la
professionalità docente: laddove poi queste richieste trovassero risposta,
12
comporterebbero drammaticamente, con l’enfatizzazione del ruolo di erogatore di
cultura del docente, un inevitabile ulteriore innalzamento del tasso di riproduzione
culturale.
Anche in questo caso, pertanto, l’introduzione della telematica postula, per
sostenere la qualità dell’intervento educativo, la preventiva e parallela modificazione
complessiva del modello didattico precedente. In particolare, adottando un sistema
di scelte didattico/tecnologiche che sarebbe comunque utilissimo effettuare al di là
delle situazioni di disagio che si stanno affrontando in questa sede, è assolutamente
necessario:
- aprire un sito di classe23 dedicato ad ospitare le dimensioni informative e quelle
costruttive dell’esperienza scolastica. In grado, cioè, di contenere: da una parte,
le programmazioni curricolari, i principali materiali delle singole lezioni, le
indicazioni di studio per i tempi a casa; d’altra parte, i lavori e le ricerche di
gruppo, i materiali individuali, un sistema di proposte di relazione telematica fra
studenti;
- dosare i momenti informativi gestiti dal docente prevedendone di asincroni
(affidati ai materiali presentati nel sito) e di sincroni (prodotti “in presenza”
dall’insegnante e fruibili in questo caso da fuori scuola attraverso il collegamento
telematico in videoconferenza);
- rendere nevralgici i momenti collaborativi degli studenti progettando diverse
tipologie di lavoro di gruppo: modalità asincrone (che prevedano la confluenza in
prodotti collettivi dell’attività individuale) e sincrone (collegando, verso compiti
limitati e ben definiti, piccoli gruppi di presenti in classe e di assenti);
- costruire progetti di ricerca e di studio che prevedano responsabilità suddivise e
differenziate e che valorizzino il lavoro sia dei presenti, sia degli assenti.
4. Per un modello tecnologico problematico
La tesi sostenuta in queste pagine ci pare molto chiara: le nuove
strumentazioni tecniche e in particolare il computer con tutte le sue applicazioni
possono effettivamente costituire una frontiera esplosiva di qualificazione
dell’esperienza educativa solo se sono poste al servizio di modelli critici di
mediazione didattica. Solo, quindi, se collocate all’interno di un’analisi complessa di
tecnologia educativa.
L’idea di complessità dei modelli tecnologici dell’educazione riprende i temi
del problematicismo pedagogico24 e si impegna a implementare le tecniche e i loro
strumenti valorizzando la possibile positiva compresenza di ipotesi pedagogiche
diverse (finanche antitetiche) ma componibili in una logica polivalente appunto di
matrice problematicista. Assumeremo come centrali, ai fini del nostro discorso, la
sfera dell’educazione intellettuale (il piano che definiremo del “cognitivo”) e la sfera
dell’educazione etico-sociale (il piano che chiameremo della “socializzazione”).
23
La sperimentazione di “siti di classe “ è ormai molto diffusa. Si veda in particolare, per riferirsi solo
a progetti a cui ha collaborato il gruppo di ricerca di cui fanno parte gli autori del volume, l’ipotesi di
sito in via di costruzione per una classe del liceo Sabin di Bologna (http://liceosabin.scuole.bo.it) e il
sito, più complesso, elaborato per il progetto “Poli remoti” della Provincia di Modena per due istituti
professionali di Sassuolo e di Pavullo (www.scuole.provincia.modena.it/ecos/)
24
Riteniamo importante, anche se il riferimento può apparire datato, rimandare ad uno dei testi più
significativi del problematicismo pedagogico: BERTIN G.M., Educazione alla ragione, Roma,
Armando, 1968
13
Su ciascuno dei piani indicati, e con attenzione alla loro interna polivalenza,
si tratta: da un lato, di analizzare le potenzialità delle tecniche esistenti che, prima di
essere adottate, devono essere selezionate ed eventualmente integrate/modificate
in funzione delle diverse situazioni educative; d’altro lato, se necessario, di
progettare/inventare nuove tecniche e modi d’uso di tecniche, invertendo il processo
che oggi sembra inesorabilmente andare dalla tecnica al fine.
Sul piano del cognitivo, un approccio aderente alle ragioni del
problematicismo pedagogico fa valere la possibile compresenza integrata di tre
prospettive dell’educazione
intellettuale:
rispettivamente,
la
prospettiva
monocognitiva , metacognitiva e fantacognitiva.
La prospettiva monocognitiva interpreta l’educazione intellettuale come
alfabetizzazione culturale: intende cioè assicurare a ognuno il possesso delle
informazioni indispensabili a livello di organizzazione dei contenuti, di lessico, di
conoscenza degli strumenti di indagine delle diverse discipline che compongono il
sapere. La prospettiva metacognitiva persegue l’attivazione significativa presso gli
studenti dei modi del cosiddetto "pensiero scientifico": di modalità, cioè, di
assunzione, formalizzazione e risoluzione dei problemi che passino attraverso le
fasi canoniche della osserva zione, ipotesi, sperimentazione, verifica. In altre parole,
si ripromette di stimolare in modo sistematico l'utilizzazione di strumenti di indagine
diretta (atteggiamenti, metodi, tecniche) che aprano alla possibilità della
concettualizzazione, della generalizzazione, della trasferibilità dei saperi prodotti. La
prospettiva fantacognitiva, da parte sua, vuole stimolare lo studente alla costruzione
di percorsi originali di comprensione/rivisitazione del sapere: all'elaborazione di "altri
volti" -interpretati soggettivamente- della cultura. Si propone di garantire la scoperta
non soltanto di oggetti culturali nuovi o diversi, ma anche di approcci nuovi/diversi
(originali) agli stessi oggetti messi a punto attraverso la valorizzazione della propria
soggettività.
La riflessione operata in chiave di tecnologia dell’educazione può sostenere
un’adozione delle nuove tecniche capace di contribuire al potenziamento di tutte e
tre le prospettive indicate.
L’esperienza educativa di tipo monocognitivo pone l’accento, come abbiamo
visto, sull’esigenza della riproduzione culturale, nel senso, non necessariamente
negativo, anzi indispensabile, del fare i conti con i saperi esistenti. La sua
attenzione è centrata sul prodotto, rappresentato dalle nozioni indispensabili
all’individuo per partecipare da protagonisti alla propria vita e a quella della società
contemporanea. I suoi problemi principali sono:
- la qualità dell’informazione che propone, che non può essere nozionistica e deve
essere continuamente aggiornata rispetto all’evoluzione della ricerca scientifica;
- la qualità della mediazione didattica, che deve garantire a tutti la possibilità di
accedere al sapere e deve quindi utilizzare strategie di individualizzazione
dell’insegnamento capaci di motivare, di rispettare tempi e stili del singolo, di
differenziarsi nelle diverse situazioni.
La tecnologia dell’educazione consente di analizzare come gli strumenti
dell’età digitale possano contribuire a qualificare l’esigenza monocognitiva. Possono
farlo mettendo a disposizione del soggetto risorse informative finora inimmaginabili
per quantità e per varietà metodologica. Internet è senza dubbio la “biblioteca” più
grande e più internamente articolata che sia mai stata realizzata: il problema rimane
quello di insegnare a frequentarla. Il singolo ipertesto on o offline permette
all’individuo percorsi individualizzati di conoscenza: il problema rimane quello della
sedimentazione di quanto appreso nella propria personale biblioteca cognitiva,
14
affinché, integrandosi con i saperi già posseduti, possa diventare base di partenza
per nuovi saperi. Le applicazioni del computer permettono al docente di strutturare
le proprie lezioni e di mettere le proprie competenze a disposizione degli studenti
con un’efficacia comunicativa e una possibilità di interna differenziazione (sempre a
fini di individualizzazione) finora sconosciute: il problema rimane quello di non
perdersi nella retorica, di approfondire le competenze, di non limitarsi a sintesi tanto
brillanti quanto superficiali.
La prospettiva educativa della metacognizione, come si è visto, interpreta
sostanzialmente l’educazione come costruzione di cultura da parte dello studente e
del gruppo, con particolare attenzione al processo: cioè, all’imparare ad imparare. In
altre parole, all’acquisizione da parte del singolo di strumenti di elaborazione
culturale riutilizzabili direttamente in contesti diversi. Le nuove strategie elettroniche
possono oggi far rischiare, con l’aumento delle possibilità di informazione, una
caduta di tensione nei confronti delle competenze metacognitive, sostituite e sepolte
sotto la valanga delle nuove nozioni. Come denuncia Frabboni, “Il rifornimento
‘personalizzato’ presso gigantesche ‘banche dati’ dei bisogni/domande individuali di
informazioni e conoscenze rischia di sommergere l’umanità sotto i flutti di ‘saperi’
sbriciolati, frammentati, molecolari. Bombardati da questa torrentizia pioggia
cognitiva, l’uomo e la donna di questa contrada storica difficilmente saranno in
grado di cogliere e allacciare i fili di una colossale matassa cognitiva. Quindi, di
capire i nessi che legano insieme i tanti anelli sparsi delle conoscenze. Se presi
singolarmente e isolati da un quadro logico-formale di insieme, i nuovi alfabeti
potrebbero concedere via libera a un’erudizione dai contorni magici, irrazionali,
superstiziosi”. 25
D’altra parte, senza sottovalutare il rischio denunciato, un modello
tecnologico consapevole può introdurre il computer a scuola sottolineandone al
massimo le valenze metacognitive. Valenze che possiede in grande misura in
quanto strumento di mediazione fra individuo e sapere che funziona sulla base di
regole e che “rende” tanto più quanto più si dominano le regole stesse: “… sembra
importante mettere in evidenza il legame esistente fra l’uso del computer e lo
sviluppo metacognitivo. [Secondo molti autori, infatti, il computer sostiene] un
approccio didattico metacognitivo che ha la funzione di condurre gli alunni ad
imparare ad imparare attraverso l’acquisizione delle capacità di interpretare,
organizzare, strutturare le informazioni, diventando sempre più consapevoli dei
processi che sottostanno a queste operazioni, per poterle così gestire in modo via
via più autonomo”.26 Il problema tecnologico è appunto quello di progettare e
condurre una didattica di questo tipo evitando le derive, immediatamente solo
riproduttive, di un uso facile, irriflesso, trainato dalle crescenti dimensioni “user
friendly” della macchina che portano quest’ultima, se non la si guida, a funzionare
da sola.
Lo scenario della fantacognizione, infine, caratterizza una situazione
educativa centrata sul soggetto, sulla valorizzazione dei suoi vissuti utilizzati come
angolo visuale e strumento per reimpostare originalmente i saperi e i modi di
utilizzarli nella vita quotidiana. Il vissuto individuale costituisce in questa prospettiva
il punto di partenza e nello stesso tempo di arrivo dell’esperienza educativa: il
problema è quello di arricchirlo, strutturarlo, aprirlo al nuovo attraverso un’azione di
25
FRABBONI F., CERINI G., Sui sentieri della riforma, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 8
VARISCO B.M., GRION V., Apprendimento e tecnologie nella scuola di base, Torino, UTET, 2000,
p. 56
26
15
consapevolizzazione rivolta al soggetto che lo renda cosciente dei suoi limiti e delle
sue risorse. Un’azione di scaffolding dell’esperienza individuale che non isoli il
soggetto nel mondo, autoreferenziale, del proprio sentimento, ma si proponga di
stimolare il soggetto stesso verso una capacità di vedere e sentire nello stesso
tempo più originale e creativa e più capace di comprendere il sentire degli altri.
In questa prospettiva si colloca un uso tecnologico delle nuove
strumentazioni che ne valorizzi le capacità di fornire strumenti per l’ampliamento
della dimensione estetica dell’individuo (le applicazioni del computer utilizzabili
come protesi percettiva, i programmi per costruire suoni e immagini, le infinite
possibilità della realtà virtuale, i terreni della simulazione…) e ne limiti i coefficienti di
standardizzazione su immaginari da consumo. Su questo piano , ci limitiamo a
sottolineare come anche solo il mondo dei videogiochi (demonizzato
tradizionalmente dalla pedagogia ufficiale ) se correttamente cavalcato sulla base di
un adeguato modello didattico può alimentare quelli che sono gli ingredienti
fondamentali della fantacognizione: gli ingredienti della sfida, della fantasia, della
competizione e della cooperazione, della curiosità. Nel videogioco, come afferma
Varisco: “La curiosità percettiva e cognitiva è determinata dalla novità, dalla
complessità e dal conflitto cognitivo insiti nelle situazioni da affrontare. Normalmente
novità e un ottimo livello di complessità e discrepanza o ‘conflitto cognitivo’ presenti
nelle situazioni sono aspetti che suscitano curiosità e interesse”.27
Ma si può andare ben oltre i videogiochi e la conseguente, banalizzante,
interpretazione solo ludica della creatività: “Il problema della creatività si pone come
quello del pensiero stesso e del suo sviluppo, problema che può trovare una sua
soluzione qualora si faccia leva sull’affettività e sull’emotività dell’individuo come
momenti non solo catartici ma, soprattutto, operativi e conoscitivi”28 Gli aspetti della
creatività ricordati dallo stesso autore (fluidità ideativa, originalità e inventiva,
elaborazione, flessibilità, ristrutturazione, libertà di associazione, mancanza di
rigidità, curiosità, senso dell’umorismo, rimando della chiusura delle situazioni)
potrebbero essere un elenco delle competenze richieste e nello stesso tempo
valorizzate dall’esperienza della videoscrittura, o da quella di un buon percorso di
simulazione “giocato” al computer. Sempre che ci sia consapevolezza didattica:
cioè, scelta dei programmi, dosaggio dei tempi, raccordo con un progetto formativo
articolato…
Sul piano della socializzazione, l’impostazione problematicista che abbiamo
assunto in queste pagine rende necessario progettare un’educazione etico-sociale
in grado di formare un individuo all’intera gamma delle situazioni sociali: da quelle
che richiedono all’individuo un’elevata capacità di auto nomia (di resistenza al
gruppo, di difesa delle proprie valorialità e conoscenze), a quelle che domandano la
partecipazione consapevole all’esperienza sociale (attraverso la conoscenza e la
pratica critica delle regole della coesistenza), a quelle, infine, che postulano
l’esigenza della condivisione (culturale ed esistenziale, di saperi, di progetti, di
valori…) con altri singoli e gruppi.
Anche sul piano di questa sfera dell’educazione, la pratica tecnologicamente
critica delle nuove TIC può portare un contributo di grande rilevanza nelle tre
direzioni indicate. La vera autonomia nasce dalla capacità di costruire e difendere la
propria identità culturale: il computer può essere uno strumento di ineguagliabile
27
IVI, p.176
GENOVESI G., Lessico per la scuola. Dizionario delle idee e delle attività scolastiche, Torino,
UTET, 2001, pp. 16-17
28
16
efficacia per l’elaborazione e la conservazione di una documentazione del proprio
itinerario culturale (ed esistenziale). Occorre solo saperlo usare in questa direzione
e rendere questo uso significativo agli occhi del singolo. La rete è un’enorme
occasione di partecipazione 29: su tutti gli argomenti, a tutti i livelli, se si conoscono e
si praticano le regole dei suoi tanti tavoli di discussione, di scambio economico e
culturale, di confronto tra impostazioni politiche, fedi, interessi. Infine, gli strumenti
della telematica rendono oggi possibile come occasione rivolta a tutti la forma più
elevata di condivisione: quella della costruzione sociale delle conoscenze. La
telematica può diventare, sempre se supportata da adeguati modelli didattici, uno
dei campi più interessanti di sperimentazione del cooperative learning: una
condivisione culturale nell’elaborazione di messaggi che può travalicare le frontiere,
le lingue, le appartenenze di qualsivoglia genere.
Tutto questo non dimenticando l’altra faccia delle nuove tecniche di
informazione e di comunicazione: quella, più volte denunciata, che può portare
all’isolamento davanti allo schermo, a nascondere la propria identità dentro a chat in
cui ci si incontra sul nulla, a banalizzare le proprie potenzialità di relazione in storie
solo virtuali, a mettersi alla prova solo nel mondo della simulazione. Una faccia in
agguato dietro alle nuove strumentazioni e strategie di comunicazione laddove esse
vengano lasciate a se stesse e al mercato che se ne serve per produrre
standardizzazione e consenso.
La conclusione del capitolo non può che conservare il sapore problematico di
queste ultime pagine. Ci sembra interessante, in questa logica, affiancare e
contrapporre due riflessioni: la prima, di segno assolutamente positivo, avanzata da
Laeng, uno dei padri della ricerca italiana sulle applicazioni della tecnologia in
campo educativo; la seconda, di segno diametralmente opposto, proposta ancora
una volta da Galimberti, osservatore preoccupato degli attuali sviluppi della
sociocultura tecnologica.
Afferma Laeng, rispondendo a quanti, da Leopardi a Butler, a Orwell, a
Huxley, hanno sollevato critiche (se non addirittura alimentato atteggiamenti
luddistici) nei confronti dell’innovazione tecnica/tecnologica: “In verità, non è
occorso molto agli abitanti del pianeta per accorgersi che le temute minacce erano
sì reali, ma non inerenti alla strumentalità delle macchine, piuttosto al loro uso tutto
umano; e per accorgersi in pari tempo che alla congettura soltanto probabile del loro
abuso facevano contrappeso tali e tanti sicuri vantaggi da poter correre a riguardo,
con tranquilla coscienza, non uno ma cento rischi calcolati”30
A trent’anni di distanza, in presenza di un’accelerazione estrema e
imprevedibile nei suoi sviluppi dei processi di trasformazione tecnologica, Galimberti
è probabilmente autorizzato ad avanzare una preoccupazione che è pessimistica,
ma nello stesso tempo comunque aperta ad un intervento positivo dell’uomo:
“Occorre evitare che l’età della tecnica segni quel punto assolutamente nuovo nella
storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più: ‘Che cosa possiamo fare noi
con la tecnica?’, ma ‘Che cosa la tecnica può fare di noi?’”.31
Lo spazio che rimane aperto è sicuramente quello dell’educazione e per
l’educazione: di una educazione che sappia costruire e insegnare modelli
29
Internet è sicuramente anche un’occasione di partecipazione al dibattito culturale e politico da
parte delle minoranze. Si veda in proposito ZANETTI F., Telematica e intercultura. Le differenze
culturali nelle contraddizioni del villaggio globale, Bergamo, Junior, 2002
30
LAENG M., L’educazione nella civiltà tecnologica, Roma, Armando Editore, 1970, p. 302
31
GALIMBERTI U., Psiche e techne. Op. cit., p. 715
17
tecnologici dalla parte dell’uomo e della donna (della loro dignità, integralità,
diversità) e sappia farlo testimoniando essa stessa un uso critico e consapevole di
modelli tecnologici avanzati. Adottando, cioè, modelli tecnologici in cui rimanga
sempre presente, irrisolta, la dialettica tra tecnica e pedagogia. Come ricorda
Genovesi “Tra i due aspetti, tecnica e pedagogia, c’è tensione, interazione
dialettica, ma mai sovrapposizione. Della pedagogia c’è bisogno perché allontana il
semplicismo lineare del processo della crescita umana e, quindi, della stessa
educazione, come vorrebbe la linearità della tecnica […]. C’è bisogno della
pedagogia perché costruisce un oggetto educazione complesso, imprevedibile e
avventuroso, perché, paradossalmente, non risolve i problemi, ma li complica come
fa ogni vera scienza”. 32
Bibliografia
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Raffaello Cortina, 1992,
BERTIN G.M., Educazione alla ragione, Roma, Armando, 1968
BERTIN G.M., L’ideale estetico, Firenze, La Nuova Italia 1974
BRUSCHI B., Tecnologie dell’istruzione e nuove didattiche, Torino, Tirrenia
stampatori, 2001
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CALVANI A., Educazione, comunicazione e nuovi media: sfide pedagogiche e
cyberspazio, Torino, UTET, 2001
CERRI MUSSO R., Tecnologie educative, Genova, Sagep editrice, 1995
FORNACA R., Didattica e tecnologie educative, Torino, Principato Editore, 1985
FRABBONI F., CERINI G., Sui sentieri della riforma, Firenze, La Nuova Italia, 1993
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1999
GALLIANI L et al., Le tecnologie didattiche, Lecce, Pensa Multimedia Editore, 2000
GENOVESI G., Lessico per la scuola. Dizionario delle idee e delle attività
scolastiche , Torino, UTET, 2001
LAENG M., L’educazione nella civiltà tecnologica, Roma, Armando Editore, 1970
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