Postfazione di sebastiano triulzi

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Postfazione di sebastiano triulzi
Postfazione
di
Sebastiano Triulzi
In uno degli appunti diaristici che compongono Album dei sogni, Czesław Miłosz ci ricorda, sotto
forma poetica, che solo nella prassi quotidiana del
sonno diventiamo in uno stesso momento sia soggetto che oggetto, cioè possiamo guardare noi stessi
da fuori, staccandoci e cogliendoci da un’altra prospettiva pur essendo i protagonisti e insieme i creatori di ciò che stiamo sognando. Possiamo vederci
volare (questa è l’esperienza di Milosz), o anche
osservarci mentre facciamo mille altre attività più o
meno pericolose, più o meno soddisfacenti, abitando i nostri sogni come sdoppiati. Questa estraniazione, o scomparsa della differenza tra gli universi
del soggettivo e dell’oggettivo, così usale nella prassi notturna, è invece inusuale in un’autobiografia,
che è pur sempre un racconto di sé, dove però siamo
abituati a qualcuno che dice solo «io» e non importa che sia indulgente o severo verso se stesso (o
entrambe le cose). La terza persona dovrebbe essere
preclusa al genere e invece Per Olov Enquist, andando contro le regole, continua a parlare di sé in
questo modo, non solo nel lungo viaggio autobiografico Un’altra vita ma ora anche nell’ultima sua
prova, il Libro delle parabole, ascrivibile alla categoria del memoir. Giunto sulla soglie degli ot239
tant’anni, lo scrittore svedese rielabora in questo
caso eventi chiave della sua storia personale, a partire dall’iniziazione sessuale, riprendendo il filo che
si era interrotto nelle ultime pagine di Un’altra
vita e stabilendo così un legame diretto tra i due
libri. Per un certo verso, anzi, il Libro delle parabole recupera ciò che era stato lasciato fuori
dall’autobiografia, oppure solo in parte sviscerato,
ripercorrendo alcuni eventi considerati ora significativi, come a voler risistemare e rielaborare le tessere di un vecchio mosaico: ci sono l’angoscia del
peccato e la fatica di scrollarsi di dosso il fondamentalismo religioso; il risveglio dall’etilismo a un
passo dalla morte e la storia del violino comprato
dal padre ma mai suonato epitome per lungo tempo
del suo talento per la scrittura sprecato e buttato; la
figura del nonno che gli insegna, in assenza di quella paterna, la potenza dell’immaginazione e il monito dello zio Aron, «un doppio negativo», infilatosi per la vergogna, dopo aver violentato la cugina,
in una buca di ghiaccio; e infine la meticolosa conta dei pazzi di famiglia col tentativo più volte fallito di mettere in parole la vicenda di un giovane
parente, Siklund, che gli mandò 52 illeggibili lettere dal manicomio, ennesimo tentativo di descrivere
le fantasmagorie dell’amore come castrazione, urla,
impazzimento. A vent’anni dalla sua resurrezione,
come lui chiama l’essere riuscito a salvarsi dall’alcolismo che ne aveva annientato la creatività e lo
aveva spinto più volte al suicidio, Enquist continua
dunque nell’operazione di leggere tra le righe del
suo passato, rendendo però estraneo ciò che è indissolubilmente legato: come dice Rimbaud, io è un
altro. Per lui sembra dunque essere un’operazione
necessaria questa della terza persona, che serve anzi
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a rendere il più impietoso possibile, oculato e spietato l’occhio gettato su di sé: la tecnica dell’estraniarsi potrebbe oggettivamente mettere fuori strada
il lettore ma è stato lui stesso a spiegare a chi scrive
perché bisogna sempre leggere il pronome io dietro
la narrazione: si riferisce a Un’altra vita, ma il concetto può essere esteso anche al Libro delle parabole: «Le prime quaranta pagine le ho scritte partendo dalla parola ‘Io’. Poi mi sono accorto che era
molto scivolosa. Mi sentivo un codardo e non riuscivo ad arrivare alla verità. Allora ho ricominciato, frapponendo una distanza formale con cui riuscivo a guardare l’uomo Enquist con più acutezza,
a trasformarlo, quasi, nel personaggio di un romanzo. Se andavo contro di lui era più facile essere onesti». L’uso della terza persona permette allora l’inverarsi di un’implacabile sincerità, mitigata
talvolta da note autoironiche che suonano inaspettate; spesso i suoi romanzi si reggono sulle spalle di
un narratore onnisciente, che relaziona, scova, mette in risalto, illustra o collega i fatti, ma è come se
lo facesse dalle stanze vuote e ormai sgombre di un
avito palazzo decaduto, con quel senso di vuoto, di
rimbombo che amplifica l’enigmaticità e la tragicità degli eventi raccontati. Il protagonista del Libro
delle parabole si chiama E., talvolta viene usato il
nome di battesimo, Per Olov, il più delle volte
compare però il soprannome Perola, che è una sorta
di crasi: dunque, per quanto si possa dire, si sta parlando dell’autore stesso, cioè, è bene ricordarlo, di
un bambino che perde il padre quando ha sei mesi
e passa il resto del tempo in compagnia del suo fantasma: anche Un’altra vita, non per nulla, non era
nata come autobiografia ma come possibilità di
scrivere sul rapporto fra lui e suo padre. Coloro che
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amano Enquist sanno che una delle sue ossessioni,
una delle sue indagini più profonde riguarda proprio l’idea dell’amore fantasma, esplicitata perfettamente dall’endiadi Blanche Whitman e Marie
Curie («lo chiamo amore fantasma», scrive), e ripetuto poi nel legame post-mortem tra la stessa
Blanche e la madre, al cui funerale la bara viene
letteralmente inghiottita dal fiume. Questo spettacolo incancellabile, recita suprema e a futura memoria, contiene in sé qualcosa di mitologicamente
tragico: il momento della rappresentazione della
sua discesa nelle viscere della terra si cristallizza
perpetuandosi costantemente negli occhi di Blanche, moltiplicando l’idea dell’ingiustizia della vita,
facendone l’exemplum di una faccia dell’amore,
quella della rabbia contro i vivi, del desiderio negato, dell’impotenza, dell’isteria; ed è a partire dal
quel momento di seconda morte che diviene appunto un amore fantasma, qualcosa che appare vicino e insieme dentro di lei, un supporto, una parabola morale. Ancora uno sdoppiamento dunque,
ma in generale si può dire che questo amore fantasma come esperienza dell’irraggiungibile, dell’insondabile, come presenza solo immaginata, è il
vero tema ricorrente della sua narrativa: il Libro di
Blanche e Marie è una storia che parla della natura dell’amore e dell’impossibilità di capirlo, così
come, prima di quello, si erano cimentati in questo
raccontare l’amore tra gli esseri umani in fondo anche Il medico di corte, e il Processo a Hamsun,
e perfino la biografia su Strindberg (August
Strindberg: una vita), il misogino ossessionato
dalle donne: tutti fortemente diretti a svelare la
grammatica dell’amore e in particolare delle relazioni e delle passioni di coppia. Il dramma d’amore
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– questa «danza di morte» che è «in qualche modo
anche una lotta per la vita», come dice Enquist
parlando della vicenda matrimoniale di Hamsun,
amato per il suo anarchismo disperato, nevrotico,
così irresoluto nel non voler trovare una pacificazione con la società – riemerge nel Libro delle parabole sotto le sembianze di un romanzo d’amore,
formula che compare, significativamente, nel sottotitolo (anche se il narratore sostiene di non aver
mai saputo scriverne uno, escluso quello che stiamo
leggendo, si presume). L’episodio centrale del Libro delle parabole è l’esperienza erotica con una
donna molto più grande, di nome Ellen (cinquantun anni lei, poco più di quindici lui), percepita
anche a posteriori come un’ancora di salvezza per
un ragazzo cresciuto con la bibbia in mano (l’Antico Testamento, non il Nuovo, forse troppo peccaminoso per la madre), in un ambiente fortemente
religioso, dominato dal sentimento ineluttabile del
peccato e del corpo come peccato, quasi un modello bergmaniano; un ragazzo che ha vissuto in simbiosi totale con la madre, vedova e devotissima, la
maestra di scuola che aveva immagino per il figlio
Per Olov un futuro da prete e che proprio per le
prediche gli aveva comprato una macchina da scrivere. La scoperta della beatitudine del sesso possiede nel memoir la valenza della parabola iniziatica,
e come tale l’episodio o l’aneddoto celano una sorta di epifania, per cui paradossalmente Enquist è
diventato sacerdote ma di un’altra religione e di
un’altra chiesa, che è appunto la scrittura. Col piacere della provocazione, ritiene che quell’incontro
con la donna-infermiera (ancora una sacerdotessa)
in un cottage nel natio Västerbotten sia stata «l’esperienza religiosa più intensa della sua vita», me243
scolando così il sesso con il sacro, cosa impensabile
ormai tra gli adolescenti della generazione youporn, ma non nella sua dove la pornografia è elemento, come dire, liturgico: il peccato, cioè il corpo, diventa corpo mistico, l’atto sessuale un
deliquio religioso, e la scena dell’iniziazione è impreziosita letterariamente dalla poeticissima blasfemia di ripensare a Maria che unge di profumo i
piedi di Gesù, quasi una mistica dell’osceno. L’aver
visto questa donna solo tre volte nella sua vita, di
cui l’ultima al suo funerale per altro, è di per sé irrilevante, conta solo l’angelicazione dell’incontro,
l’essere stata «un’autoredenzione fallita», dunque
ancora ossessione, fantasmagoria, ancora amore
fantasma. Il principio strutturale del Libro delle
parabole è sempre quello documentaristico, secondo l’idea di infilarsi nelle «crepe della storia», tra
le aporie e le omissioni, che è un po’ il suo motto
poetico: con lui il lettore si trova di fronte a un
complesso reticolo di materiali, estratti, manoscritti, carte sommerse e riemerse dell’oblio che sovvertono l’ordine gnoseologico e morale fin lì costituito. Enquist riesuma qui alcune sue annotazioni e
riflessioni – non ha mai scritto veri e propri diari
ma solo frammenti, per sua stessa ammissione – iniziate a metà degli Ottanta, quando ancora viveva a
Parigi dove per la metà del tempo «in realtà era
ubriaco fradicio», e rendendo alcuni pezzi importanti della sua vita o dell’educazione alla vita alla
stregua di parabole. Fin dal titolo, in realtà, questo
memoir esplora il concetto di parabola, è strutturalmente scandito attorno a parabole che non sono
certo quelle di Gesù ma che perseguono l’idea d’essere racconti edificanti, ammaestramenti di vita: in
realtà tutte le parabole di Enquist sono unite da un
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altro elemento, dal fatto di averlo condotto verso
l’apostasia, che lui definisce la scoperta del segreto
dell’amore, come se la sua educazione tra fanatici e
moralisti l’avesse allontanato da questa porta, da
questa religione proibita, come se anche la morte
del padre fosse stata una congiura per negargli la
rivelazione del piacere del sesso. In tutto le parabole sono nove, come i capitoli di cui è composto il
libro e nove sono anche i fogli strappati dal taccuino di poesie, presumibilmente d’amore, che il padre di Enquist aveva scritto per la madre (in realtà
il suo contenuto non ci viene mai rivelato). Alla
morte del coniuge la madre l’aveva buttato nel fuoco salvo poi pentirsene e trarlo fuori: il mistero
dell’assenza, della scomparsa di quei fogli è un vuoto che va riempito, come quello del padre in fondo,
e tale è la funzione, probabilmente, delle sue parabole. Il taccuino con le pagine strappate è sempre
materia, sostanza dell’amore fantasma, della ricostruzione che fa del proprio padre, simbolo di una
scrittura con un messaggio che però non arriva perché manomessa dalla madre che ancora una volta
si è interposta tra loro, ha creato la frattura. Non a
caso molte di queste parabole laiche nascono come
storie famigliari e hanno a che fare con i territori
del delirio e della pazzia, spesso entrano nelle mura
dei manicomi, nelle sottili pieghe dell’autopunizione e del peccato, e celebrano un altro dei miti di
Enquist, la ferocia della donna, il calore del suo
ventre in tutta la sua estensione, che la società punisce e mutila in quanto turba il quieto sonno, la
sanità pubblica. Lo scrittore svedese cerca anche
una spiegazione della caduta nell’«inferno dell’alcolismo durato tredici anni» (periodo in cui scrisse
un solo romanzo, L’angelo caduto) e della sua re245
surrezione, certo, legandola all’assenza del padre –
«Finii per inventarmelo, portandolo con me e parlandogli continuamente, una sorta di benefattore
presente ma invisibile», dunque linguaggio muto,
fantasticheria di una presenza invisibile e rassicurante come lo è il capitano Nemo dell’eponimo
romanzo, che nascosto all’interno di un vulcano
spento interviene senza farsi riconoscere. Ma in realtà ogni parabola, e si può aggiungere anche ogni
suo romanzo, racconta il disagio della civiltà e il
disagio dell’educazione e il disagio della repressione e il disagio del potere, che con tutte le loro regole ci dominano e avviliscono, rendendoci appunto
isterici, folli. L’amputazione di Blanche è l’amputazione del corpo proibito delle donne, del loro continente al tempo sommerso; e le schiene e i ventri
delle seimila anime dell’ospedale Salpétrière o
quelli della cugina impazzita nella sua parabola
d’amore, anche lei marchiata come ferro rovente, sono fosforescenti, luminescenti proprio come lo
era il radio scoperto da Marie Curie, «una luce azzurra che ha il sapore di morte», che è portatrice di
morte. L’isteria è una malattia moderna, e la modernità si riconosce appunto dalle nevrosi che innesca: questo il tarlo che rode la sua narrativa, cercare
il momento in cui il moderno ha avuto inizio, illuminarne la sua marcia spedita verso il futuro mentre per l’appunto «si lasciava indietro gli uomini»:
La partenza dei musicanti, Il medico di corte e
Il viaggio di Lewi, è stato giustamente detto, rappresentano una sorta di trilogia sulla nascita della
modernità nell’Europa del Nord, una controstoria
svedese, ovvero il tentativo di rintracciare uno
strappo nel cielo di carta del teatrino del mondo,
prendendo a prestito le parole di Pirandello. La
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modernità è la scoperta dell’infelicità dell’essere
umano determinata dalla struttura, dal sistema che
amputa una parte della nostra esistenza, così come
la madre di Enquist ha amputato il figlio delle parole del padre. Il libro delle parabole ha origine
dal tentativo di riempire i vuoti del discorso tenuto
al funerale della madre e finisce per diventare una
lettera sull’amore che Ellen gli suggerisce di scrivere dopo la sua morte: il racconto che stiamo leggendo, da ogni angolazione possibile, ripercorre dunque l’apostasia di Enquist, l’intera sua crescita anzi
assurge a parabola di una apostasia, in cui il primo
atto d’amore, l’iniziazione erotica che sa di esperienza mistico-religiosa, diviene la sua personale
salvezza, la sua «redenzione con la libertà».
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