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SOCIETA’ PARTECIPATE: INQUADRAMENTO GIURIDICO E FALLIMENTO
di
GERARDO GUZZO
SOMMARIO: Premessa. 1. Natura giuridica delle società partecipate e profili giurisdizionali.
2. Società partecipate e fallimento. 3. Riflessioni finali.
Premessa.
Il problema dell’inquadramento giuridico delle società partecipate da sempre rappresenta una sorta
di “nervo scoperto” che, direttamente o indirettamente, ha finito per condizionare la risoluzione di
connesse vicende collaterali la più rilevante delle quali è senza dubbio quella riguardante
l’applicazione della legge fallimentare alle ipotesi di in house providing. In questa ottica, purtroppo,
non aiutano né le innumerevoli pronunce giurisprudenziali, che pure si sono susseguite nel tempo,
né la stessa dottrina, che non sembra offrire una indicazione unitaria in grado di dirimere gli
innumerevoli dubbi che avvolgono la materia. La massa delle criticità coinvolte, l’apparentemente
insanabile antinomia tra esigenze di tutela pubblicistiche e finalità eminentemente lucrative,
rendono particolarmente arduo il compito di trovare un punto di sintesi e di equilibrio del fenomeno
soprattutto nel silenzio del legislatore incapace di dettare una disciplina minima dell’intero settore.
1. Natura giuridica delle società partecipate e profili giurisdizionali
L’inquadramento giuridico delle società partecipate rappresenta, ancora oggi, uno spinoso problema
di non facile soluzione ad onta dell’apparente linearità del tema. Si tratta di un aspetto
particolarmente rilevante in ragione della presenza di una miriade di moduli societari che
perseguono il fine pubblico del soddisfacimento dell’interesse generale della collettività.
Si tratta, dunque, di soggetti ibridi, a metà strada tra il diritto pubblico ed il diritto privato. Di
conseguenza, appare difficile collocarli, alternativamente, tra gli enti pubblici o tra le società
private; ciò determina l’emersione del problema dell’identificazione della natura giuridica degli atti
da loro posti in essere e, conseguentemente, dubbi in tema di riparto di giurisdizione.
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Se è pur vero che l’art. 1, comma 1 ter, legge 241/1990, stabilisce che “I soggetti privati preposti
all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei princípi di cui al comma 1, con un
livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle
disposizioni di cui alla presente legge”, e che la Pubblica Amministrazione può agire iure
privatorum, così come confermato dall’art. 1 comma, 1 bis,1 per converso, il problema che ci si
pone è se essa possa assumere la veste di una società per azioni, fermo restando il perseguimento
dell’interesse pubblico.
Allora la domanda da porsi è la seguente: è possibile distinguere il contenuto (pubblico) dalla forma
(privata)?
Il fenomeno sembra introdurre un ulteriore tema: quello della cd. crisi della soggettività pubblica
sulla quale si sono interrogate sia dottrina che giurisprudenza2. Il problema attiene alla possibilità di
far valere in questo settore il principio della neutralità delle forme giuridiche. Ci si chiede, in
particolar modo, se lo schema societario possa essere adottato come modulo organizzativo dalle
Pubbliche Amministrazioni nello svolgimento dell’attività amministrativa vera e propria.
Ciononostante, la disciplina sostanziale continua a sottoporre tali organismi alle regole ed ai
principi dell’agere publico.3
Il problema, quindi, resta quello della natura giuridica pubblica o privata di siffatti soggetti, fermo
restando la finalità pubblicistica perseguita.
Le implicazioni pratiche non sono certo di poco conto se solo si consideri che il riconoscimento
dell’una o dell’altra natura va ad incidere sulla disciplina sostanziale applicabile. Difatti, in tema di
accesso, l’art. 22 della legge n. 241/1990 assorbe nel paradigma P.A. “tutti i soggetti di diritto
pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale e comunitario”.
La quaestio iuris sorge perché alla disciplina codicistica di carattere generale vengono ad
affiancarsi una molteplicità di disposizioni speciali.
Nel libro V, Titolo V, Capo V, la sezione XIII è dedicata alle società con partecipazione dello Stato
e degli enti pubblici.
In realtà, uno soltanto è l’articolo che riguarda tali società, considerando che l’art. 2450 c.c. è stato
abrogato dall’art. 3, comma 1, del d.l. del 15 febbraio 2007, n.10, convertito nella legge del 6 aprile
2007, n. 46.
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La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa , agisce secondo le norme di diritto
privato salvo che la legge disponga diversamente”
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P. Cirillo, La società pubblica e la neutralità delle forme giuridiche.
3
Cfr. art. 29 l. 241/1990 e art. 7 C.P.A.
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Residua, pertanto, l’art. 24494 c.c. il quale si limita a fornire indicazioni peculiari circa
amministratori, sindaci e componenti il consiglio di sorveglianza.
Tuttavia, lo schema societario adottato impone l’applicazione di tutte le disposizioni civilistiche di
riferimento.
Tale assunto è avvalorato dall’art. 4, comma 13, del d.l. n. 95/2012, convertito nella legge n.
135/2014, per effetto del quale “Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche
di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si
interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si
applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”.
La mancanza di una disciplina dettagliata a livello codicistico non è altro che manifestazione della
volontà del legislatore di assoggettare l’iniziativa economica pubblica, esercitata in forma
societaria, al diritto comune.
Anche la Relazione al Codice Civile del 1942 stabiliva: “In questi casi è lo Stato medesimo che si
assoggetta alla legge della società per azioni per assicurare alla propria gestione maggior
snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici. La disciplina comune della società per azioni
deve pertanto applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza
eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano diversamente5.”
Nonostante ciò, permane il problema delle regole in concreto applicabili.
Infatti, bisogna partire dal dato che il modulo societario, caratterizzato da snellezza di regole in
confronto alle procedure pubblicistiche, è uno strumento tipico del diritto comune. Ora, se il
legislatore sottopone alla disciplina di diritto comune siffatte società, resta comunque aperto il
problema della loro natura giuridica, dei relativi atti e, di conseguenza, della giurisdizione, ordinaria
o amministrativa, applicabile.
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“Se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni che non fa ricorso al mercato del
capitale di rischio, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci,
ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione del capitale sociale.
Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del primo comma possono
essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Essi hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati
dall’assemblea. Gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi e scadono alla
data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica.
I sindaci, ovvero i componenti del consiglio di sorveglianza, restano in carica per tre esercizi e scadono alla data
dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica.
Alle società che fanno ricorso al capitale di rischio si applicano le disposizioni del sesto comma dell’articolo 2346. Il
consiglio di amministrazione può altresì proporre all’assemblea, che delibera con le maggioranze previste per
l’assemblea ordinaria, che i diritti amministrativi previsti dallo statuto a favore dello Stato o degli enti pubblici siano
rappresentati da una particolare categoria di azioni. A tal fine è in ogni caso necessario il consenso dello Stato o
dell’ente pubblico a favore del quale i diritti amministrativi sono previsti”. Articolo così sostituito dall’art. 13 comma 1
della l. 25 febbraio 2008 n. 34 perché contrastante con il diritto comunitario. ( ex art. 56 Trattato CE).
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Anche la normativa Antitrust applica la disciplina delle società di capitali. (cfr. l’art. 8 legge 287/1990).
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Restringendo l’attenzione sull’espressione “società partecipate pubbliche”, è possibile notare
lucidamente l’antinomia: da un lato, si hanno le società (soggetti che tipicamente hanno una ragion
d’essere lucrativa, come si evince dall’art. 22476c.c.), dall’altro lato, esse vengono qualificate come
pubbliche per la finalità perseguita.
Ebbene, può la ratio lucrativa essere considerata compatibile con la finalità pubblica?
Si deve, dunque, riconoscere natura pubblica o privata alle suddette società?
Con riguardo alla (in-)compatibilità tra lo scopo lucrativo e l’interesse pubblico generale va detto
che non sempre la divisione degli utili è obiettivo della collettività: è, infatti, assodato che alcune
società a partecipazione pubblica devono qualificarsi come veri e propri enti pubblici.
La risoluzione del quesito dipende soprattutto dal grado di flessibilità che vuole riconoscersi al
modello societario e, in particolare, alla causa. Si dovrebbe, difatti, legittimare un uso diversificato
della stessa, ammettendo la possibilità di separarla dall’involucro societario.
Sembra, dunque, svilupparsi un percorso diametralmente opposto rispetto a quello promosso dalla
privatizzazione; invero, è la disciplina privatistica che si trova a fare i conti con aperture verso il
pubblico.
Varie sono state e sono tutt’oggi le posizioni dottrinarie e giurisprudenziali prospettate al riguardo.
In dottrina vi è chi propugna la tesi secondo cui tali società dovrebbero sottostare al diritto comune
siccome lo scopo lucrativo non sarebbe venuto mai meno;7 altri, invece, ritengono che la presenza
del socio pubblico nella struttura societaria trasformi la società per azioni in mero modulo
organizzativo8 adattabile in base al fine perseguito. Di qui la riconosciuta neutralità di forma.
Anche in giurisprudenza sembrano contrapporsi due orientamenti differenti, l’uno a favore della
qualificazione in termini privatistici, l’altro sostenitore della natura pubblica.
Un primo orientamento adotta un criterio formale-strutturale;9esso guarda alla forma privatistica per
stabilire la disciplina sostanziale e processuale da applicare a prescindere dall’attività svolta,
dall’interesse perseguito e dalla tipologia dei membri della compagine sociale. Ne consegue che la
società a partecipazione pubblica non modifica la qualificazione in termini di società privata per il
solo fatto di essere legata allo Stato o all’ente pubblico.
In particolare le S.U. della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26806 del 29 dicembre 2009,
hanno stabilito che il rapporto di servizio che lega la società partecipata alla P.A. è altro rispetto alla
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“Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività
economica allo scopo di dividerne gli utili”.
7
Cfr. F. Goisis, Contributo allo studio delle società in mano pubblica come persone giuridice, Milano, 2004.
8
M. Renna, Le società per azioni in mano pubblica. Il caso delle S.p.a. derivanti dalla trasformazione
di enti pubblici economici ed aziende autonome dello Stato , Torino, 1997.
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Cfr. Cass. sez. I, 6 dicembre 2012 n. 21991 e Cass. sez. I, 16 dicembre 2013 n. 28015.
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posizione personale degli organi sociali. Pertanto, l’atto di mala gestio del singolo componente non
cagiona alcun danno erariale salvo che dalla condotta sia scaturito anche un danno per il socio
pubblico.10
Altro orientamento, invece, utilizza un criterio c.d. funzionale11considerando non sufficiente la
forma ai fini della qualificazione in termini privatistici ma ritenendo necessaria una valutazione da
compiersi in concreto caso per caso.
La giurisprudenza contabile, invece, guarda alla natura pubblica o privata delle risorse utilizzate.12
La giurisprudenza amministrativa, dal canto suo, sembra, in particolare, avvicinarsi alla più recente
posizione della Suprema Corte. I giudici di Palazzo Spada sembra prediligano un criterio atto ad
analizzare singolarmente le varie società partecipate mercé la valutazione delle caratteristiche
strutturali ed organizzative soggettive (come avvenuto nel caso di Poste Italiane S.p.A.).
Sul punto va inoltre considerata la recente riforma della P.A. (legge n. 124/2015) che all’art. 18,
rubricato “Riordino della disciplina delle partecipazioni societarie delle amministrazioni
pubbliche”, prevedendo una completa organizzazione del sistema delle partecipazioni pubbliche,
indica alla lettera a), quale criterio direttivo, “la distinzione tra tipi di società in relazione alle
attività svolte, agli interessi pubblici di riferimento, alla misura e qualità della partecipazione e
alla sua natura diretta o indiretta, alla modalità diretta o mediante procedura di evidenza pubblica
dell’affidamento, nonché alla quotazione in borsa o all’emissione di strumenti finanziari quotati nei
mercati regolamentati, e individuazione della relativa disciplina, anche in base al principio di
proporzionalità delle deroghe rispetto alla disciplina privatistica, ivi compresa quella in materia di
organizzazione e crisi d’impresa”.
2. Società partecipate e fallimento
Aspetto di indubbia rilevanza è quello relativo all’assoggettabilità delle partecipate pubbliche alla
disciplina del fallimento. Il problema si pone in ragione della controversa natura giuridica che
connota tali moduli societari. La legge fallimentare, all’art. 1, indicando il requisito soggettivo per
sottoporre un imprenditore a fallimento, stabilisce che “sono soggetti al fallimento e alle
disposizioni sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale,
esclusi gli enti pubblici”. Del medesimo tenore l’art. 2221 c.c.
Il problema, dunque, risiede nel qualificare la società partecipata o come soggetto privato che
esercita attività commerciale oppure come ente pubblico a tutti gli effetti. In tale ultimo caso la
10
Artt. 28 e 103 Cost.
Cfr. Sezioni Unite 8 febbraio 2006, n. 2637.
12
Corte Conti sez. giurisdizionale per la Regione Abruzzo, 14 gennaio 2005 n. 67.
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società sarà immune dal fallimento sul presupposto della tutela dell’interesse generale sotteso
all’attività espletata. Per converso, qualora si prediligesse la qualifica in termini di soggetto privato
ne deriverebbe l’applicazione in toto della disciplina privatistica di cui è parte la legge fallimentare.
Difatti, la scelta dello strumento societario ha come logico corollario quello di far applicare tutte le
conseguenze derivanti dalla sua adozione, compreso il rischio di essere sottoposto a procedura
fallimentare in caso d’insolvenza.
Il tema è stato affrontato nell’ambito della giurisprudenza di merito nella quale non mancano certo
pareri discordanti a favore dell’una o dell’altra tesi. Essa si è interessata il più delle volte di società
in house, cioè interamente partecipate da un ente pubblico.
In particolare, il Tribunale di Reggio Emilia, Sez. fall. con la sentenza del 18 dicembre 2014 n. 150,
ha ritenuto assoggettabile a fallimento una società in house in quanto società e come tale chiarito
che l’utilizzo dello schermo societario ne determina l’applicazione di tutte le conseguenze tra cui la
sottoposizione, in caso di insolvenza, a procedura fallimentare. Tutto ciò a prescindere dalla
presenza di alcuni elementi peculiari quali la competenza giurisdizionale della Corte dei Conti sulla
responsabilità degli amministratori, la specificità della governance e la finalità pubblicistica
perseguita dai soci.
L’assunto è stato confermato anche da altri giudici di merito i quali hanno precisato che la
costituzione della società partecipata nelle forme previste dal codice civile implica di per sé la
sottoposizione a fallimento perché la presenza della partecipazione pubblica non fa certo venir
meno la causa lucrativa di cui all’art. 2247 c.c.13 escludendone, così, la qualificazione in termini di
enti pubblici14. Ne discende ulteriormente che le partecipate vanno considerate alla stessa stregua di
comuni imprenditori commerciali sotto tutti i profili.15 In questo senso, l’insegnamento delle S.U.
della Suprema Corte di Cassazione contenuto nella sentenza n. 26283/2013 avrebbe valenza
meramente settoriale atteso che si applica il principio della prevalenza della sostanza sulla forma.
Sulla scorta dei menzionati principi, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto sussistere la
natura di soggetto privato ad un organismo posseduto da ente pubblico arrivando a negare
l’esistenza di un tertium genus qualificabile come società-ente, al quale non sarebbe applicabile la
disciplina comune.
In particolare, i giudici di legittimità, con la sentenza della sezione 1 del 29/9/2013 n. 2220916,
hanno stabilito che “Tuttavia, è proprio dall'esistenza di specifiche normative di settore che, negli
13
Trib. Palermo, sez. fall. 20/10/2014; cfr. nota critica S. Alecci, Assoggettabilità delle “società pubbliche” alle
procedure concorsuali: le mobili frontiere tra socialità e profitto in Dir.civ.cont. 5 gennaio 2015.
14
Trib. Napoli sez. VII, 29/5/2914.
15
Trib. Nocera Inferiore 21/11/2013.
16
Cfr. W. G. Caturano, Società partecipate: è legittima la dichiarazione di fallimento in Ex parte creditoriswww.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, 2013.
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ambiti da esse delimitati, attraggono nella sfera del diritto pubblico anche soggetti di diritto
privato, che può ricavarsi a contrario, che, ad ogni altro effetto, tali soggetti continuano a
soggiacere alla disciplina privatistica.(….) Ma, non potendosi al contempo disconoscere che il
modello societario è andato negli anni assumendo connotati sempre più elastici, sostanzialmente
svincolandosi dalla tradizionale alternativa fra causa di lucro e causa mutualistica, sino a divenire
un contenitore adattabile a diverse finalità (si pensi, ad es., alle società sportive di cui alla L. n. 91
del 1981), l'eventuale divergenza causale rispetto allo scopo lucrativo non appare sufficiente ad
escludere che, laddove sia stato adottato il modello societario, la natura giuridica e le regole di
organizzazione della partecipata restino quelle proprie di una società di capitali disciplinata in via
generale dal codice civile.” Pertanto, viene affermata l’autonomia tra l’ente e lo strumento
societario così da permettere l’applicazione della disciplina privatistica a tutela dell’affidamento dei
terzi contraenti (tra cui vi rientra anche la legge fallimentare).
Quindi, non è rilevante il tipo di attività esercitata ma la natura del soggetto che la esercita.
A favore dell’assoggettabilità al fallimento va ricordato che sempre la Suprema Corte di
Cassazione, con l’arresto delle S.U. del 20 febbraio 2013 n. 4217, pur riconoscendo la giurisdizione
del giudice ordinario anche in presenza di un rapporto di dipendenza con l’ente pubblico, ha
considerato che “Laddove la successiva attività della società partecipata che non muta la sua
natura di soggetto di diritto privato solo per il rapporto di dipendenza con l'ente pubblico, e tutti i
rapporti che ne derivano, restano di assoluta autonomia; ed all'ente locale non è consentito
incidere unilateralmente sullo svolgimento di questi e sull'attività della società mediante l'esercizio
di poteri autoritativi o discrezionali, non prevedendo la legge alcuna apprezzabile deviazione,
rispetto alla comune disciplina privatistica delle società, per quelle miste incaricate della gestione
di servizi pubblici istituiti dall'ente locale. Il quale, conclusivamente soltanto in qualità di socio,e
senza alcun collegamento con l'ente pubblico, può influire sul funzionamento della società
avvalendosi dei comuni strumenti per esse previsti dal diritto privato, da esercitare a mezzo dei
membri di nomina comunale presenti negli organi della società”.
Ciononostante, tale posizione, per quanto persuasiva, non viene condivisa da altra giurisprudenza,
sia di merito sia di legittimità, che nega l’assoggettabilità a fallimento facendo proprie le
considerazioni addotte dalla pronuncia delle Sezioni Unite del 25 novembre 2013 n. 26283 in tema
di giurisdizione contabile per l’azione di responsabilità verso gli organi sociali che abbiano
cagionato un danno al patrimonio di una società in house considerata mera articolazione dell’ente
pubblico.
In particolare, i giudici di merito esonerano le società in house dall’applicazione dell’art. 1 legge
fallimentare sul presupposto che si tratti di società che svolgono attività a favore dei soli soci o
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degli enti aderenti ai soci17 e che, pur possedendo un patrimonio separato, non possiedono una
soggettività giuridica distinta dall’ente pubblico partecipante18.
3. Riflessioni finali
Le brevi argomentazioni svolte dimostrano, ancora una volta, la complessità di inquadramento del
fenomeno delle “partecipate”. La stessa natura di tali moduli societari appare, per certi versi,
controversa, attesa la difficile coesistenza di finalità eminentemente pubbliche, quali quelle sociali e
di promozione dello sviluppo economico e civile delle popolazioni locali, secondo la nota
definizione del Consiglio di Stato19, e l’esigenza di fare cassa, tipica dei moduli societari privati.
Non vi è dubbio che la presenza di uno stringente controllo pubblico sulle partecipate costituisca un
chiaro sintomo di una natura evidentemente pubblica delle stesse, in specie in quei casi in cui sia
possibile cogliere un controllo assoluto sull’organo di governace, unito alla nomina del collegio
sindacale ed al conferimento al socio pubblico di poteri ben più ampi di quelli riconosciuti ai soci di
maggioranza dal codice civile. Ciononostante, da un canto, resta irrisolto il problema
dell’inquadramento delle società interamente partecipate, chiamate a gestire servizi pubblici di
rilevanza economica, nella misura in cui esse si collocano sul mercato, seppur limitatamente a
quella porzione minima di attività non svolta a beneficio dell’ente costituente, e, da un altro, quello
delle società miste, la cui selezione del partner privato, per il tramite di una procedura ad evidenza
pubblica a doppio oggetto, equiparerebbe tali modelli, in tutto e per tutto, ai comuni soggetti di
diritto privato, seppur con rischio d’impresa “attenuato”, soprattutto in quei casi in cui il controllo
della componente pubblica sulle scelte di governance non appaia sufficientemente penetrante ed
incisivo. In questa ottica, si spiega il perché la giurisprudenza sembra sempre più orientata a
riconoscere l’assoggettabilità delle società pubbliche al regime fallimentare utilizzando l’argomento
che la citata pronuncia delle Sezioni Unite n. 26283 del 25 novembre 2013 non abbia compiuto
alcun espresso riferimento alla non assoggettabilità delle società in house al regime fallimentare,
essendosi limitata a delineare solo i requisiti richiesti per la configurazione del “controllo
analogo”20. Allora, se questa è la cornice di riferimento, appare fin troppo scontato concludere che
l’incertezza che caratterizza l’inquadramento “genetico” delle partecipate inevitabilmente finisce
17
Così Tribunale di Verona; Decreto del 17/12/2013 Pres. Platania in W.G. Caturano, Società in house: esclusa la
fallibilità in Ex parte creditoris- www.expartecreditoris.it ISSN:2385-1376,2014.
18
In termini: Tribunale Napoli, sentenza del 9 gennaio 2014, Pres. Di Nosse, Rel. Grimaldi in www.unijuris.it .
19
Consiglio di Stato, Sezione V, sentenza n. 5532/2013.
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Tribunale di Modena, decreto del 10 gennaio 2014. In senso contrario: Corte d’Appello dell’Aquila, procvvedimento
del 2 marzo 2015.
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per riverberarsi anche sulla disciplina patologica della vicenda fallimentare alimentandone dubbi ed
incertezze destinati a perpetuarsi nel tempo.
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