schede

Transcript

schede
SCHEDE
G ianfranco Faina, Lotte di classe in L i ­
guria dal 19 19 al 1922. Istituto Sto­
rico della Resistenza in Liguria, 1965,
pp. 10 1.
sione generale della storia della classe
operaia italiana dal ’ 17 al ’22.
Sergio Bologna.
Jacques F auvet, Histoire du Parti Com­
Di fronte a dei saggi come questo la
maggioranza degli storici rimane stupita.
Innanzitutto perchè la visione è coscien­
temente « parziale », in quanto esamina
il problema esclusivamente dal punto di
vista dei rapporti tra sviluppo capitali­
stico industriale e movimento di lotta
operaia. Il piano delle istituzioni orga­
nizzative di classe (governo e partito so­
cialista) è subalterno a quel rapporto.
E ’ questo uno dei primi motivi d’imba­
razzo della storiografia tradizionale, che
esamina soltanto lo sviluppo del movi­
mento operaio organizzato (partito e sin­
dacato) di fronte all’ atteggiamento go­
vernativo. In secondo luogo perchè con­
sidera come categoria storica quella del­
la « spontaneità » dei movimenti di clas­
se ed anzi assegna ad essa il valore di
verifica di tutti gli avvenimenti. In ter­
zo luogo, e nel caso specifico, perchè
modifica notevolmente la periodizzazione di quella fase della storia politica ita­
liana che riguarda l’ occupazione delle
fabbriche, la formazione del movimen­
to dei consigli operai e la costituzione
del partito comunista. In una recensio­
ne-articolo pubblicata recentemente sul­
la Rivista Storica del Socialismo un altro
giovane studioso, proveniente dallo stes­
so nucleo politico cui appartiene Faina,
Emilio Soave, contribuiva a modificare
la visione tradizionalmente accettata per
cui l ’occupazione effettiva delle fabbri­
che torinesi del settembre del 1920 avrebbe rappresentato il momento di mas­
sima ascesa ed espansione politica del­
l’ondata rivoluzionaria italiana del pri­
mo dopoguerra e la caratterizzava in­
vece come momento di già avanzato de­
clino e d ’incipiente sconfitta. In un al­
tro punto il Faina concorda con il Soa­
ve e cioè nell’assegnare al movimento
anarchico un’ importanza determinante
nell’organizzazione dell’ondata di lotte
del 1920. La discussione su questi punti
non si è ancora aperta pubblicamente
nell’ambito della storiografia contempo­
ranea italiana. Forse è giunto il mo­
mento di farlo, soprattutto estendendo
lavori come quelli del Faina ad una vi­
muniste Français. I De la guerre à
la guerre, 1917-1939. Fayard, 1964.
Una cronistoria diligente della storia
della nascita, della formazione e delle
principali lotte de) PCF che ignora i
problemi essenziali di questa storia stes­
sa. La scissione di Tours è un fatto for­
male, per il Fauvet. Forse Jo fu effetti­
vamente, ma bisognava dirlo. Infatti, se
si accetta questa ipotesi, si vede che la
debolezza fondamentale del PCF dalla
sua nascita fu quella di non mettersi
in rapporto diretto con un movimento
reale di classe contenente caratteristiche
nuove, come avvenne per esempio in
Italia tra movimento dei consigli-occu­
pazione delle fabbriche e scissione di
Livorno, o come avvenne in Germania
tra movimento spartachista-operaio e for­
mazione della K PD . Risulta da questa
partenza, a nostro avviso, la caratte­
ristica — registrata ma non analizzata
dal Fauvet — di scaricare la sua azione
sui problemi della solidarietà comunista
internazionale (lotta contro l’occupazio­
ne della Ruhr e campagna in favore di
Abd-el-Krim) e di far diventare la pre­
dicazione internazionalista e la pratica
solidaristica una componente tradiziona­
le della vita del partito, che darà i suoi
frutti migliori nella guerra di Spagna.
Poiché la nascita del partito non coinci­
se con un salto nel livello della lotta
di classe, il problema dei rapporti tra
partito e classe fu posto quando il PCF,
sotto la guida di Thorez, aveva assunto
la fisionomia tipica del partito populista
proprio dell’epoca dei fronti popolari:
i conti con la classe il partito dovette
saldarli quando non era più partito di
opposizione ma partito di governo, nel
1936, quando cioè effettivamente, con
l’occupazione delle fabbriche, c’ era sta­
to un salto nello sviluppo del movimen­
to direttamente operaio. I conti si chiu­
sero con un largo passivo. A nostro av­
viso se c’è un « problema » nella storia
del PCF è questo, anche se schematica­
mente espresso. Fauvet non ha schemi
o problemi da proporre, più che di sto­
ria possiamo dunque parlare di croni­
storia e come tale è appena sufficiente.
Sergio Bologna.
ii
6
Schede
Scritti scelti di Camillo Berneri, Pietrogrado 19 17 - Barcellona 1937. A cura
di Pier Carlo Masini e Alberto Storti.
Sugar ed., 1964.
Lodigiano, allievo di Salvemini, Berneri fu assassinato dai comunisti a Bar­
cellona nel maggio del 1937. Finì così
per verificare con la vita le sue previ­
sioni sull’ involuzione bolscevica.
Berneri cominciò la critica al bolsce­
vismo nel 1920, dopo aver esaltato il
soviettismo. Ma tanto la critica quanto
l’ esaltazione non riuscirono a capire la
natura nè del soviet nè del partito bol­
scevico. Berneri previde il terrore con
l ’istinto, un .po’ paranoico, del liberta­
rio, ma non ebbe la capacità di con­
trapporre al modello leninista e bolsce­
vico alcun altro modello rivoluzionario
nè alcun altro modello di strumento ri­
voluzionario. Critico degli aspetti for­
mali più che sostanziali dell’ anarchia,
Berneri forse dà il meglio di sè — da
quanto risulta da questa raccolta di
scritti — nel felice accostamento tra
riformismo corporativista fascista e ri­
formismo sovietico e pianismo socialde­
mocratico. In nessuno di questi scritti
c’è un programma politico, anche gli
scritti politici più intensi, come quelli
sulPanarco-sindacalismo, restano privi di
proposte sia tattiche che strategiche. Ri­
sulta chiarissimo l ’insegnamento salveminiano, dove però la sensibilità cri­
tica verso i fenomeni della moralità, i
fenomeni giuridici e istituzionali del Sal­
vemini diventa sensibilità critica ispira­
ta all’umanesimo anarchico. Se lo sforzo
di Berneri fu quello di sottrarre l’anar­
chismo all’ipoteca ottocentesca, questo
sforzo non è riuscito. Egli dunque ap­
pare piuttosto un figura isolata che un
personaggio politico. Comprensibile, ma
altrettanto negativo sul giudizio che si
deve dare a proposito delle proposte po­
litiche anarchiche, è il suo rapporto con
l’umanesimo rosselliano.
Mancando le proposte politiche, ci si
aspetterebbe una capacità di analisi cri­
tica, ma anche questa, sia che riguardi
il bolscevismo, lo stalinismo, la socialdemocrazia o lo stesso fascismo, è de­
cisamente inferiore a quella — discuti­
bile fin che si vuole —• che Borghi die­
de del dopoguerra italiano e del mussolinismo.
Tolto il politico, resta l’eroe, il mar­
tire, cui va Ja nostra ammirazione.
Sergio Bologna.
F ranco Catalano, Storia dei Partiti -po­
litici italiani. Torino, Eri, 1965, pp.
378, L . 900.
Sono raccolte in questo volume le
sedici lezioni tenute dal Catalano nella
trasmissione di classe unica alla Radio.
L ’ autore parte dall’esame delle correnti
politiche, dalla fine del ’ 700 al i860
ed, attraverso le varie fasi della storia
italiana, giunge fino al 1926, l’ anno che
segnò la morte dei partiti, soppressi dal­
la legislazione fascista.
Alle esplicite e tracotanti dichiara­
zioni di Mussolini che ponevano le con­
dizioni per il ritorno a Montecitorio
dei deputati dall’Aventino, fanno eco le
amare, ma dignitose parole di Filippo
Turati a commento della vanità di ogni
tentativo di libera azione politica, ormai
resa impossibile dal regime trionfante.
Pochi furono allora gli spiriti chiaroveggenti che seppero guardare fino in
fondo la dura realtà, disposti ad ini­
ziare, senza speranza, quella lunga aspra
via di lotte e di sacrifici mortali, che
fu il prezzo che il popolo italiano do­
vette pagare per potersi riscattare un
giorno come popolo civile, in quella li­
bera competizione dei partiti politici,
che è la vita stessa della nazione.
Il libro è corredato, capitolo per ca­
pitolo, da una ricca bibliografia, che ne
fa un prezioso strumento di consulta­
zione e di guida.
B. C.
C esare R ossi , Il delitto Matteotti. Mi­
lano, Ceschina, 1965, pp. 59 1, L . 3000.
L'autore fa qui un’ ampia ricostruzio­
ne dell’assassinio di Giacomo Matteotti;
episodio nel quale, come è noto, il Ros­
si ebbe parte attiva.
Il libro comincia col testo dell’ultimo
discorso che Ton. Matteotti tenne alla
Camera dei Deputati, dieci giorni prima
della morte. Segue una serie di docu­
menti relativi alle vicende successive,
dalla ricostruzione del delitto secondo
la sentenza della sezione istruttoria del­
la Corte d ’Appello di Roma, al famoso
memoriale di Cesare Rossi pubblicato
sul Mondo.
Si tratta di materia già pubblicata
ed ampiamente nota, articoli, giudizi,
testimonianze, che il Rossi raccoglie qui
a documentare le diverse fasi di quella
vicenda che più di tutte determinò il
Schede
corso degli avvenimenti nel ventennale
fascista.
L ’appendice si chiude con l ’elenco
dei Democratici, Liberali, Popolari e In­
dipendenti inclusi nel cosiddetto « L i­
stone » nelle elezioni politiche del 1924.
117
menti che riguardano i provvedimenti
razziali, compreso il manifesto degli
scienziati razzisti del 14 luglio 1938,
del quale sarebbe stato bene anche ri­
portare i nomi dei sottoscrittori.
B. C.
B. C.
LU IG I P r e t i , I miti dell’ Impero e della
raZZfl nell’Italia degli anni ’30. Ro­
ma, Ed. Opere N uove, 1965, pp. 140,
L . 700.
Con questo titolo, che è il tema di
una conferenza tenuta dall’autore a Bo­
logna nel gennaio del 1965 e successi­
vamente in altre città, Luigi Preti trac­
cia un quadro dei motivi fondamentali
del fascismo e della politica del regime,
richiamandoli a due punti caratteristici,
il sogno imperialista ed i provvedimenti
razziali.
La vivacità della trattazione, che ha
naturalmente carattere discorsivo, pone
in evidenza alcuni punti interessanti co­
me nel capitolo intitolato: « Gli eccessi
verbali della stampa contro gli Ebrei »,
dove si ricorda ad alcuni scrittori e gior­
nalisti ancora oggi quotati, quello che
hanno scritto e detto allora : « A co­
minciare dal 1938, scrive l'autore a
pag. 84, diventa di moda per chi scri­
ve sui giornali gettare fango sopra gli
ebrei. Nessuno chiede per essi castighi
di tipo tedesco, nessuno, in definitiva,
negherebbe ad essi aiuto, se li trovasse
per la strada; ma quasi tutti, per se­
guire la moda o per ’ cupidigia di ser­
vilismo ’ , pronunciano con leggerezza pa­
role di dileggio e di disprezzo nei con­
fronti di questa minoranza derelitta ».
Dopo aver considerato il risultato di­
sastrosamente negativo di tutta la poli­
tica del ventennio, il breve scritto con­
clude affermando che Mussolini aveva
intrapreso fin dall’inizio una battaglia
contro il progresso e contro la storia,
quando « la strada dei popoli andava
nella direzione della giustizia, della li­
bertà e della pace » valori estranei « allo
spirito di lui e alla dottrina del fa­
scismo ».
U n ’interessante appendice documen­
taria contiene il testo di alcuni discorsi
di Mussolini, dal Discorso di Eboli del
giugno 1935 a quello tenuto al Consi­
glio Nazionale del P N F il 25 ottobre
1938. Sono citati, inoltre, alcuni docu­
P ercy E . S c h r a m m , Hitler capo mili­
tare. Firenze, Sansoni, 1965, pp. 281.
Raccolta di scritti di diversa origine,
di diverso argomento e diverso interes­
se, con risultato assai dispersivo. Lo
Schramm fu compilatore del giornale di
guerra dell’OKW dai 1943 al 1945 ed
ebbe la fortuna di salvare la massa delle
sue annotazioni, pubblicate in un’opera
documentaria del più alto interesse; il
libro in esame non ha però nulla a che
fare con queste annotazioni, ma vi gira
attorno, presentando diversi scritti mar­
ginali rispetto alla maggiore opera. Una
quarantina scarsa di pagine sono dedi­
cate ad estratti di stenogrammi di con­
ferenze e colloqui del Führer, distribuiti
nell’arco di un anno ed estremamente
lacunosi e riassunti; da livello docu­
mentario si passa così a livello di curio­
sità. Seguono pagine sulle peripezie del­
le carte dell’autore, sulla sua vita all’ O KW , sull’ atmosfera di quel coman­
do: tutti dettagli di scarsissimo interes­
se se presi a sè, indipendentemente
dall’opera maggiore. Poi l’autore allinea
una serie di brevi giudizi sulle doti mi­
litari di Hitler, traendole da volumi
già pubblicati in Germania ed in Italia:
nulla di nuovo, quindi, ma un appe­
santimento della lettura.
In questa disordinata miscellanea di
scritti gli unici che molto imperfetta­
mente non tradiscono le promesse della
copertina sono due memoriali dello
Schramm del 1945 (sulle divergenze di
pensiero tra Hitler ed i suoi generali)
e de) i960 circa (sulla figura di Hitler
come capo militare, un centinaio di pa­
gine già edite) ed uno del gen. Jodl
del 1946 sull’influsso di Hitler sulla
condotta della guerra. Quest’ ultimo è
assai interessante come testimonianza
dell’ atteggiamento di uno tra i mag­
giori esponenti delle gerarchie militari
tedesche verso il Führer e come tenta­
tivo autorevole di scindere le grandi de­
cisioni strategiche, riservate naturalmen­
te al capo politico, dalla condotta delle
operazioni, in cui i militari non pote­
vano che ubbidire e di cui quindi non
i8
Schede
possono essere considerati responsabili.
Argomentazioni che non salvarono lo
Jodl dalla condanna del tribunale di N o­
rimberga. Anche gli scritti dello Schramm
sono tesi all’assoluzione dei comandi mi­
litari da ogni responsabilità nella cata­
strofe. Naturalmente quello del i960 è
assai più esplicito nel suo filonazismo :
ad Hitler si rimprovera solo di non es­
sersi sparato nel 1944, quando la guerra
apparve irrimediabilmente perduta, ma
non gli si nega la qualifica di genio ed
eroe, pur lasciando l’ultimo giudizio al­
la storia, che se lo sarebbe preso co­
munque. La discussione delle capacità
militari di Hitler ci sembra comunque
assai più confusa delle brevi pagine del­
lo Jodl: in particolare lo Schramm non
distingue tra sfera politica e sfera mili­
tare e ciò ben si capisce, perchè com­
porterebbe un giudizio più esplicito sul
nazismo, che si preferisce invece sfu­
mare nella mistica della guerra da vin­
cere a tutti i costi.
In conclusione, un’opera infelice co­
me impostazione, confusa e dispersiva
per il lettore, concepita come comple­
mento della serie di volumi del giornale
di guerra non apparsi in italiano, ed
intrisa di filonazismo nelle poche pagine
in cui il discorso si allarga. Alcune lievi
imprecisioni di traduzione.
Giorgio Rochat.
C onstantine F itz G ibbon, Il blitz sul­
l’Inghilterra. Firenze, Sansoni, 1965,
pp. 313.
Traduzione non esente da impreci­
sioni di un volume del 1957 sui bom­
bardamenti tedeschi deU’inverno 1940-41
su Londra. Pur dando un quadro ge­
nerale della battaglia d ’Inghilterra nel
suo complesso, il libro mira a ricostrui­
re gli avvenimenti come li vide il co­
mune cittadino di Londra: è quindi con­
cesso largo spazio a testimonianze trat­
te dalla memorialistica o più sovente re­
gistrate per la radio. N e risulta un re­
portage giornalistico molto ampio, assai
vivo (pur con qualche lungaggine) e di
un certo interesse per Ja conoscenza del­
l ’organizzazione della difesa civile bri­
tannica e del comportamento della po­
polazione. Il titolo italiano non è esatto,
poiché il volume si riferisce solo a Lon­
dra, nè felice, poiché il termine blitz
per gli inglesi significherà i bombarda­
menti tedeschi, ma per noi è legato
alle campagne dell’esercito tedesco del
1940-41.
G. Ro.
A ngelo D el Boca, La guerra d ’Abissinia 1935 - 1941- Milano,
1965, pp. 284, L . 1400.
Feltrinelli,
« Il conflitto italo-etiopico fu appro­
vato, caldeggiato e seguito dalla mag­
gioranza del popolo italiano. Ma esso
non ebbe, di questa guerra combattuta
a migliaia di chilometri dalla madre pa­
tria, che le relazioni e le immagini per­
messe dalla censura fascista, mentre nei
successivi cinque anni alcune centinaia
di scrittori e giornalisti s’incaricavano
di farla entrare nel mito, dipingendola
come la più perfetta e brillante campa­
gna coloniale di tutti i tempi e per di
più condotta con metodi umani e per
fini di civilizzazione. Dopo questo dilu­
vio di libri, per un quarto di secolo si
è fatto sull’argomento il più assoluto si­
lenzio. Cosicché buona parte degli ita­
liani è ancora, suo malgrado, sotto l ’in­
fluenza della propaganda del defunto re­
gime ». Togliamo queste frasi dal ri­
svolto della copertina del volume in
esame : purtroppo la situazione che de­
scrivono va riferita non solo alla guer­
ra d’Abissinia, ma a larga parte della
storia italiana più vicina. Un esempio
deirimpostazione fascista anche della re­
cente produzione è fornito appunto dal
volume del Pignatelli sulla guerra italoetiopica (recensito sul n. 81 di questa
rivista), che in nulla si differenzia dal­
le pubblicazioni di allora.
A trent’anni di distanza dall’aggres­
sione fascista, il volume di Angelo Del
Boca rompe questo muro di complice
silenzio, muovendo da un’ ampia in­
chiesta pubblicata dalla « Gazzetta del
Popolo » di Torino. Le sue fonti sono
varie ed ottime, non si fermano cioè
alla produzione propagandistica italiana
(pur studiata dall’autore), ma compren­
dono anche la produzione meno nota o
non destinata alla pubblicazione (come
vari rapporti sulle operazioni di repres­
sione degli anni posteriori alla conqui­
sta) e soprattutto la produzione stranie­
ra, etiopica o filo-etiopica o semplicemente non fascista. Per la prima volta
uno scrittore italiano prende in esame
la pubblicistica e memorialistica di bat­
taglia, per così dire, contrapposta nel­
Schede
l'Europa 1935-36 a quella di ispirazione
fascista, e consulta la documentazione
abissina e quella della Società delle N a­
zioni. Inoltre .l’autore ha intervistato
protagonisti e testimoni degli avveni­
menti, specialmente italiani residenti in
Abissinia, ed ha potuto interrogare am­
piamente il Negus stesso ed alcuni tra
i maggiori esponenti della resistenza ar­
mata etiopica.
Naturalmente il libro non è comple­
to nè perfetto; non bisogna però dimen­
ticare che buona parte degli argomenti
vengono affrontati per la prima volta
oppure da un angolo del tutto nuovo.
Sono appena accennati gli antecedenti
del conflitto, non ne sono prese in esa­
me le ripercussioni sulla situazione in­
terna dell’ Italia, le complicazioni inter­
nazionali sono riassunte brevemente; an­
che le operazioni delle truppe italiane
sono trattate rapidamente, reazione più
che legittima alle innumerevoli tirate
dei capi fascisti, da Badoglio a Graziani.
La parte migliore e più originale del
libro è invece la narrazione degli avve­
nimenti come furono visti e vissuti da­
gli abissini stessi, dall’organizzazione del­
la campagna ai disperati combattimenti.
Acquista così grande rilievo la denuncia
delle atrocità italiane, dall’uso dei gas
per lo sfondamento delle linee nemiche
ai massacri spaventosi della conquista
e delle successive repressioni.
La gloriosa spedizione coloniale, ul­
tima pagina lieta e serena prima degli
orrori e delle sconfitte della guerra mon­
diale, diventa così attraverso le parole
del Del Boca il primo atto di una tra­
gedia che doveva insanguinare il mon­
do e che ancora oggi lo travaglia. L ’uso
indiscriminato dei gas asfissianti e ve ­
scicatori contro truppe e popolazioni as­
sume significato di tragico simbolo, il
telegramma di Graziani anticipa le glo­
rie della guerra nazista e di quelle colo­
niali attuali ; « Nella giornata di oggi
aviazione compia rappresaglia at gas
asfissianti di qualsiasi natura su zona
dalla quale presu mesi Uondeuossen ab­
bia tratto armati senza distinzione tra
sottomessi e non sottomessi. Tenga pre­
sente V . E . che agisco in perfetta iden­
tità vedute con S. E. Capo Governo »
(11 settembre 1936).
Il nostro autore non si limita a de­
scrivere la guerra dalla parte degli abis­
sini, ma traccia anche un altro capitolo,
ancora più sanguinoso e vergognoso, fi­
119
nora evitato con cura dagli italiani: la
storia della resistenza etiopica dopo il
termine delle operazioni su larga scala.
Una guerriglia mai sopita, con un sus­
seguirsi di massacri cosi vasti e selvaggi
da far tramontare per sempre la leg­
genda di un fascismo più umano del na­
zismo. L ’eroe di questa guerra è il ge­
nerale Graziani: « Tutti i ribelli fatti
prigionieri dovranno essere passati per
le armi ». E dopo l’esecuzione somma­
ria di trecento dignitari, il viceré tele­
grafa a Roma : « Non posso escludere
che alcuni abissini giustiziati abbiano
prima di morire gridato ’ viva Etiopia
indipendente ’ . Faccio però presente che
esecuzioni ordinate di conseguenza noto
attentato vengono fatte in località ap­
partate e che nessuno —• dico nessu­
no — può assistervi ». N ell’elenco dei
danni di guerra, di cui l ’Etiopia chiese
riparazione all’Italia {l’ indennizzo venne
accordato a patto che assumesse l’ano­
dino nome di assistenza tecnica) figura­
no le vittime della guerra, 760.000 morti
in combattimento, nei campi di concen­
tramento, nelle rappresaglie oppure di
fame, in seguito alle distruzioni provo­
cate dalle truppe italiane. Citiamo an­
cora un telegramma, scelto a caso tra
cento e cento, dice il Del Boca : « Co­
lonnello Garelli comunica azione rappre­
saglia et repressione completamente riu­
scita per oltre dieci chilometri di fronte.
Località combattimento 18 et 19 est sta­
ta rasa al suolo e migliaia tucul di­
strutti. Centinaia indigeni conniventi con
ribelli sono stati passati per le armi ».
Su queste scene di lutti campeggia
la figura del Negus, di cui il Del Boca
traccia un ritratto assai complesso, in­
sistendo soprattutto sulla sua volontà di
pace ed attribuendogli il merito della
condotta civile tenuta dagli abissini ver­
so gli italiani dopo il 19 4 1, senza per
questo celare gli aspetti paternalistici e
conservatori della sua politica. E ’ veraramente interessante il rifiuto di coin­
volgere in un’unica condanna italiani e
fascismo: subito dopo il conflitto il N e­
gus diceva ad un esule antifascista ita­
liano, che pochi mesi dopo sarebbe ca­
duto in Spagna : « Il fascismo ha im­
piegato per distruggere l’indipendenza
dell’Etiopia gli stessi violenti metodi che
ha usato e usa ancora per distruggere
le libertà in Italia ». Su questa base fu
condotta la pacificazione del dopoguerra.
Speriamo che queste pur brevi note
possano dare qualche idea della ricchez­
12 0
Schede
za e dell’interesse dell’opera del Del
Boca, che apre una nuova prospettiva
agli studi sulla guerra italo-etiopica :
prospettiva certo non gloriosa per noi,
ma infinitamente più vera e fruttuosa
di quella ancor oggi viva. Non ci rimane che augurare al libro successo di
•lettori e continuazione adeguata.
Giorgio Rachat.
S alvatore F rancesco R omano, Antonio
Gramsci, Torino, U .T .E .T ., 1965,
pp. 606, L . 4800.
Legata alla pubblicazione delle let­
tere e dei quaderni del carcere con la
quale ha proceduto di pari passo, la
« scoperta » di Gramsci negli anni dopo
la fine della guerra (a partire dal 1947),
il graduale processo di assimilazione del­
la sua opera attraverso un dibattito cul­
turale che, indipendentemente dal gra­
do di consenso raggiunto, significava pur
sempre un fare i conti con essa, tutto
ciò è avvenuto soprattutto sulla base di
quegli scritti postumi che se da un lato
dovevano rappresentare la fase più ma­
tura del pensiero di Gramsci, dall’ altro,
per il loro carattere frammentario e pro­
babilmente lacunoso, rischiavano anche
di condurre ad interpretazioni erronee
o forzate. Perciò, e per la imprescin­
dibile necessità anche ai fini di una va­
lutazione dell’ ultimo Gramsci di cono­
scerne in modo non superficiale il pe­
riodo di formazione e di lotta, mi sem­
bra da accogliersi con il massimo fa­
vore una più recente tendenza di studi
che dell’opera di Gramsci si propone so­
prattutto di illuminare i momenti pre­
cedenti alla data del suo arresto (no­
vembre 1926) e alla susseguente reclu­
sione, dedicando quindi maggiore atten­
zione al periodo della sua diretta par­
tecipazione alla lotta politica, tra guerra
e dopoguerra. A tale tendenza appar­
tiene sostanzialmente anche questa bio­
grafia di Gramsci, di Salvatore France­
sco Romano, apparsa di recente nella
benemerita collana della U .T .E .T . « La
vita sociale della nuova Italia », diretta
da Nino Valeri.
Seguendo un ordine strettamente cro­
nologico, la vita di Gramsci viene in
queste pagine raccontata puntualmente,
dalla nascita alla morte, ponendo una
particolare cura nel cogliere in essa il
rapporto tra biografia esterna e pensie­
ro, e cercando a tal fine di far parlare
soprattutto i testi : le molte testimo­
nianze disponibili, ma specialmente gli
scritti dello stesso Gramsci, sia nei mol­
ti passi che contengono ricordi e note
personali, sia negli scritti del tempo in
cui può cogliersi il farsi del suo pen­
siero; e tutto questo materiale viene
spesso ordinato all’ interno del testo in
un sapiente montaggio di citazioni let­
terali, scelte mi pare non tanto secondo
un intento genericamente documentario,
quanto più ambiziosamente cercando in
esse quelle più rare qualità evocative,
capaci in qualche misura di restituire
al lettore odierno ij senso del passato
e ricreare per lui un po’ di quella ten­
sione morale e intellettuale che tanto
intensamente percorse la vita di Gramsci.
I primi due capitoli di quest’opera
trattano il periodo dell’ infanzia e della
giovinezza, sino al 19 14; in essi, giu­
stamente mi pare, Romano sottolinea
le precoci esperienze di miseria e di do­
lore sofferte dal giovane Gramsci, sia
nell’ambiente della natia Sardegna co­
me più tardi nella vita studentesca a
Torino, le quali ripercuotendosi su di
un animo di eccezionale sensibilità e ca­
pacità affettiva, lo portavano a rinchiu­
dersi in se stesso condannandolo ad una
solitudine particolarmente penosa. Come
lo stesso Romano sembra suggerire (cfr.
spec. p .. 39, 55, 73-75) e pur senza esa­
gerare in rischiosi esercizi di psicolo­
gismo, non appare forzato ricondurre a
questi dati di origine alcuni dei carat­
teri fondamentali della personalità di
Gramsci: il suo radicale pessimismo sul­
lo stato della società in cui egli si tro­
vava ad agire e sulla sua intrinseca ca­
pacità di riformare se stessa, e insieme
una profonda ed istintiva sete di giu­
stizia alimentata dalla coscienza dei torti
che le classi subalterne continuavano a
patire; ancora, quella rigida vocazione
moralistica, rafforzata dal lungo eserci­
zio alle meditazioni solitarie, la quale
conferiva al fondo del suo pensiero e
della sua azione un tono « di severo ri­
gore e di intransigenza impietosa » :
doti, queste e quelle, da cui sembrano
spontaneamente scaturire sia il suo estre­
mismo politico, sia il suo astrattismo
intellettuale.
Ciò doveva in qualche modo predi­
sporlo all’incontro con quelle particolari
forme di reazione culturale e politica
antipositivistica, che furono rappresen­
tate dall’idealismo e dal sindacalismo
Schede
rivoluzionario. In verità, l ’influenza di
Croce e di Sorel sul giovane Gramsci
sembrano essere state per molti aspetti
determinanti di tutto il suo successivo
indirizzo di pensiero e di azione. Ma,
mentre con l ’eredità di Croce egli stes­
so seppe fare i conti superandola alme­
no in parte criticamente, l ’eredità di
Sorel sembra aver agito in Gramsci,
come in molte altre figure minori di
militanti socialisti, più per suggestioni
emotive che per forza di pensiero, riu­
scendo così a sfuggire l ’antidoto di una
valutazione critica e prolungando quin­
di la durata dei suoi effetti ben oltre
quel limite che un controllo intellettua­
le avrebbe potuto imporgli. Che effet­
tivamente Gramsci, sulla linea di Sorel,
abbia scorto nel socialismo soprattutto
lo strumento per fondare una nuova
moralità nel rifiuto di tutti i valori del­
le « democrazie borghesi », mi sembra
emergere assai chiaramente dalle pagine
di Romano (cfr. spec. pp. 177 sgg., 198
sgg., 214). Non si creda tuttavia che que­
sta linea interpretativa finisca in alcun
modo per appiattire ij pensiero di Gram­
sci; al contrario, pur nel quadro di una
immutata prospettiva finale — un « or­
dine nuovo » che, espulso dal corpo so­
ciale il « focolaio della corruzione, la
libera concorrenza del regime capitali­
sta », sanate le menti dalla « illusione
della democrazia liberale », organizzi la
società secondo la nuova moralità socia­
lista {« in modo che ogni uomo dia il
massimo del suo rendimento e la sua
attività sia coordinata all’ attività univer­
sale in una armonia che elimini ogni
sofferenza inutile ») — Romano coglie
poi molto bene il progressivo orientarsi
politico di questo pensiero, cioè la scel­
ta dei mezzi che si ritengono via via i
più atti a conseguire il proprio ideale;
in particolare, egli giustamente pone
l’accento sulla fase di trapasso in Gram­
sci dai propositi di azione rivoluziona­
ria attraverso l ’ attuazione di una « ri­
forma intellettuale e morale », del tutto
compatibile con lo svolgimento di « ci­
vili competizioni » politiche (quindi nel­
l’accettazione del « metodo democrati­
co »), all’adozione invece della « solu­
zione di forza » nella quale la funzione
rivoluzionaria viene assunta dall’opera
di « coercizione e di disciplina » attuata
dallo stato attraverso la dittatura del
proletariato. Questa svolta decisiva vie­
ne individuata tra la fine del 1918 e
la prima metà del 1919, in coincidenza
21
certo non casuale da un lato con la fon­
dazione della Terza Internazionale, dal­
l ’altro con la fondazione de « L ’Ordine
Nuovo »; si tratta del momento più im­
portante del pensiero e della vita di
Gramsci, e ad esso Romano dedica quel­
lo che a me sembra ij capitolo centrale
della sua opera (Cap. V I : Prospettive
e teoria della lotta rivoluzionaria dopo
la prima guerra mondiale), dove si af­
frontano e si mettono a fuoco alcuni
dei temi più vivi della storia del movi­
mento operaio italiano : lo sviluppo del
massimalismo, le ripercussioni della R i­
voluzione russa, l’esempio del lenini­
smo; sono i temi legati alla fondazione
del Partito comunista. Purtroppo non è
possibile dare conto in queste brevi
note dei risultati particolari a cui l’in­
dagine di Romano direttamente condu­
ce o delle conclusioni che essa impli­
citamente invita a trarre. A me sem­
bra, in generale, che venga in gran
parte confermata l’ipotesi secondo la
quale l’ accettazione letterale del modello
russo rispetto alla situazione italiana,
costituì un grave errore politico, di cui
Gramsci ebbe la sua parte, gravido di
effetti funesti l’eco dei quali perdura
ancor’oggi in non lieve misura. Ma, in­
dipendentemente dalle valutazioni che
si ritenga di trarre dalla lettura di que­
ste pagine, indipendentemente dal gra­
do di consenso come dalle riserve che
molti giudizi particolari di Romano pos­
sono suscitare, mi pare che questo la­
voro rappresenti un’occasione e un in­
vito alla riflessione e alla eventuale di­
scussione, che non dovrebbero andare
perduti data l’importanza e anche la
permanente attualità dei temi in que­
stione.
La rimanente parte del libro segue
soprattutto la parte avuta da Gramsci
nel preparare la scissione di Livorno,
e ne descrive poi la vita di combattente
comunista, rincontro con Giulia Schucht,
l’ultimo doloroso periodo del carcere.
M a, a partire circa dal 1921 la narra­
zione di Romano si fa molto più rapi­
da, come di chi in sostanza abbia già
dato fondo ai problemi che soprattutto
aveva in animo di indagare. Che ciò
renda in tutto e per tutto giustizia a
Gramsci non direi; non solo si sarebbe
desiderato sapere di più sull’attività po­
litica di Gramsci dal 1923 (anno in cui
assunse la guida del P.C.I.) sino alla
data del suo arresto (e credo che in
proposito si sarebbe potuto trovare moi-
122
Schede
to materiale inedito e di grande inte­
resse presso l’Archivio Centrale dello
Stato); ma, soprattutto, rispetto ai qua­
derni del carcere, che pure rappresen­
tano un eccezionale sforzo intellettuale
inteso anche ad approfondire e giustifi­
care precedenti scelte politiche, il deli­
berato silenzio di Romano non appare
giustificabile.
E tuttavia, parlare per questa bio­
grafia di un Gramsci « senza testa »,
come hanno suggerito alcuni precedenti
recensori, non mi par giusto. Il valore
intellettuale di Gramsci, che volle so­
prattutto essere uomo politico militante,
emerge con estrema evidenza da quel­
l’azione politica, tra guerra e dopoguer­
ra, che Romano analizza con tanta cura
e di cui l’attività giornalistica fu parte
sostanziale e spesso preponderante; e
anche se, per avventura, i quaderni del
carcere non fossero giunti a noi, Gram­
sci rimarrebbe ugualmente una delle per­
sonalità più ricche di pensiero che il
socialismo italiano abbia saputo espri­
mere.
Roberto Vivarelli.
A . D e G a speri , Lettere dalla prigione,
1927-28, Milano, Mondadori, 1965,
pp. 182.
Nel generale dima di reazione che
seguì alla vittoria del fascismo sull’ultimo tentativo dell’opposizione democra­
tica raccolta, dopo il delitto Matteotti,
nell’Aventino, anche Alcide De Gaspe­
ri, ex segretario del partito popolare,
venne arrestato, nel 1927. Fu quello il
periodo in cui si ebbero il processo con­
tro Rosselli-Parri-Pertini per l ’espatrio
di Turati dall’Italia e, poco dopo, l’al­
tro grande processo — il processone,
come è stato detto — contro i dirigenti
comunisti. Erano i gesti con cui il fa­
scismo intendeva dimostrare sia al Pae­
se sia all’opinione pubblica internazio­
nale che teneva ormai ben saldamente
il potere e che aveva vinto ogni resi­
stenza e piegato gli avversari. Così, in
tale clima anche un esponente dei vec­
chi partiti democratici, come De Ga­
speri, fu imprigionato, senza un motivo
apparente, almeno così risulta dalle let­
tere che egli scrisse alla moglie e che
(ora è uscita la seconda edizione, Mon­
dadori) questa ha voluto pubblicare per­
chè si possa meglio « apprezzare lo spi­
rito cristiano e la grande fede di lui,
che non hanno mai vacillato, neanche
nei momenti più tristi della vita ».
Senza un motivo apparente, abbia­
mo detto, ed infatti si scorge la sua
alta meraviglia per l’arresto, per la
« sventura immeritata » che l ’aveva col­
pito. Evidentemente, non voleva ancora
rassegnarsi alla logica ineluttabile della
dittatura, profondamente diversa da quel­
la dei regimi democratici. Ma, alcuni
mesi più tardi, quando una certa ras­
segnazione era scesa ne) suo animo,
trovava che l’ arresto era stato dovuto
al fatto che aveva resistito 0 fino al­
l’ultimo, sulla trincea avanzata, alla
quale mi aveva chiamato il dovere »,
la trincea che gli avevano imposto le
sue convinzioni, « la dignità, il rispetto
di [se] stesso, la fedeltà alla [sua]
bandiera e alla [sua] vita ». Ed affer­
mava con vigore di rimanere sempre
un « popolare », « il De Gasperi dei suoi
giovani o dei suoi anni maturi, come
un chirurgo rimane un chirurgo, anche
se muta ospedale, e un ingegnere un
ingegnere ». La sventura immeritata, co­
sì, invece di piegarlo lo rendeva ancor
più consapevole di ciò che era stata la
sua vita, intessuta del programma che
gli « aveva imposto di lavorare per l’e­
levazione degli umili e per la giustizia
e per j diritti, diritti relativi, lo so,
popolari ». Da questa vicenda dolorosa,
pertanto, usciva con una fede più inten­
sa negli ideali ai quali aveva dedicato
la sua esistenza e con la ferma volontà
di non « giocare la propria coscienza e
riputazione ». Nelle seguenti parole è
tutta la sua esperienza, resa più consa­
pevole dal fascismo, che spingeva non
pochi ad abdicare alla propria dignità,
ma che educava in altri una vita mo­
rale più alta, preparazione, come diceva
lo stesso De Gasperi, alla futura vita
democratica :
« Voi che mi siete congiunti da tan­
ta solidarietà spirituale, ricordatevi di
me presso il Signore, affinchè se così
debba essere, affronti con coraggio il
mio destino, faccia cioè nè più nè me­
no del mio dovere. Perchè questo cam­
mino della Croce è pur anche un cam­
mino e quest’ inerzia io mi lusingo che
possa essere azione. Se soffrendo digni­
tosamente e virilmente darò buon esem­
pio, se portando il peso che pur tocca
a tanti, meno sorretto da forze morali,
io porterò più in alto anche la fama
della nostra idea, non è vero, che an-
Schede
che tale servizio, umile ma tenace, sarà
pure un servizio utile? ».
Giungeva, in tal modo, a risentire
ancor di più il valore della sua prece­
dente fedeltà all’idea e l’importanza di
aver difeso questa idea con accanimento
di fronte a « coloro che si dicono catto­
lici come me e spesso con maggior ve­
ste di rappresentare tale pensiero », ma
che avevano troppo facilmente applau­
dito « al successo » e che avevano « col
loro contegno lasciato credere che la
Chiesa abbandonasse i vinti: accusa con­
tro la quale era insorto tutta la vita ».
« Qui sta la tragedia — soggiungeva —
del nostro, del mio sacrificio », cioè
nella presenza di « uomini di preda, uo­
mini del piacere » che avevano grave­
mente compromesso la fermezza e la
resistenza degli uomini di buona fede.
Questi sono i soli accenni alla pre­
cisa responsabilità dei clerico - fascisti
nella vittoria della dittatura, in queste
lettere che sono volte piuttosto ad una
acuta ricerca dei propri stati d’animo,
con brevi accenni alla sua ansia di ri­
manere in contatto con il mondo ester­
no e di non venire tagliato fuori ( « de­
scrivetemi ■—- scriveva alla moglie il
io giugno ’27 — i particolari della vo­
stra vita ch’io possa tenervi compagnia
almeno con la memoria » : è la stessa
ansia che traspare chiaramente dalle let­
tere dal carcere del Gramsci), oppure
con qualche sorridente ironia sul nuovo
regime, come nella lettera dell’ n giu­
gno ’ 28 : « Esprimendomi sinteticamen­
te, com’ è lo stile imperiale deH’anno V I,
posso dire che la battaglia contro i pi­
docchi delle rose procede serrata e vit­
toriosa. Vedo già spuntare il giorno in
cui, non essendoci più rose, saranno
sterminati anche i pidocchi. Più ardua
è la battaglia delle lumache [ ...] . Per­
ciò, quando le scovo, le tiro fuori al
sole e, mancandomi l’animo di ammaz­
zarle, decido tuttavia di mandarle al
confino, il quale, non avendo isole a
disposizione, si espia... nell’orto dei vi­
cini. Nel qual proposito ho veramente
dei dubbi, prima dal punto di vista del­
la coscienza e secondo anche dal punto
di vista della riuscita, perchè i fuo­
riusciti possono sempre tentare di rien­
trare, come i Neri ai tempi di Dante ».
La speranza si infiltrava anche in que­
ste osservazioni in apparenza scherzose
e ironiche, la speranza che anche ai
fuoriusciti politici o agli esuli in patria
fosse un giorno concesso di ritornare
123
nel pieno possesso del proprio paese,
in cui tutti i cittadini fossero democra­
ticamente eguali e non classificati se­
condo l’avvilente distinzione messa in
voga dal fascismo, fra cittadini con tutti
i diritti e cittadini con nessun diritto
perchè considerati anti-nazionali.
Ma, come abbiamo detto, queste let­
tere si dilungano soprattutto nella de­
scrizione di stati d ’animo, e fra questi
ci pare interessante quello relativo alla
sua religiosità che si ricollega alla sua
concezione della vita e della realtà:
infatti, quando era entrato nel carcere
era disposto a rimettersi del tutto alla
Provvidenza: « Cara Francesca — di­
ceva alla moglie il 26 aprile ’27 —
quando si fa ogni sforzo per capire ciò
che succede, e non si riesce, vuol dire
che la Provvidenza per suoi disegni im­
perscrutabili ha disposto così e preghia­
mola, perchè ne ricavi il bene per noi
e per gli altri ». Era stato, quello, il
periodo in cui, come scrisse più tardi,
il 18 giugno ’28, pensava che il centro
fosse lui solo e tutto il resto si trovas­
se sulla circonferenza: « Dio, la fami­
glia, gli amici. Iddio? Perchè mi aveva
lasciato trattare così? La famiglia, che
cosa farà senza di me? Gli amici, che
cosa diranno di me? ». La dedizione
alla Provvidenza, perciò, una dedizione
assoluta e senza riserve, aveva nasco­
sto, come deve avvenire in chi si sente
sempre sorretto da una grande forza
soprannaturale, una certa esaltazione di
se stesso, come se egli vedesse le cose
« dal centro del proprio io ». Ma, poi,
a poco a poco, una fiducia così concreta
nella Provvidenza si era rivelata vana,
ed allora, « lentamente, faticosamente,
gemendo e sospirando sotto la pressura
dell’esperienza », il suo centro si era
spostato : « al centro ora stava Dio ed
io mi trovavo sulla periferia, col resto
del mondo; un pulviscolo in un vortice
inesplorabile. Mi provai allora a spie­
gare gli avvenimenti dal Suo punto di
vista [ ...] . La vita di quaggiù... un
breve tratto di una traiettoria lunghis­
sima che si perde in un disegno eterno,
che si prolunga al di là di ogni nostro
orizzonte e di ogni nostra esperienza ».
De Gasperi, perciò, aveva superato
lo stato d’animo in cui, ritenendosi in
diretto contatto con la Provvidenza, si
credeva anche superiore agli altri, per­
chè prediletto da quella, ed era entrato
in un nuovo stato d ’animo in cui la sua
esistenza si immergeva « nel resto del
124
Schede
mondo» e in «un vortice inesplicabile».
Ora veramente poteva realizzare un con­
tatto sereno e proficuo con la vita, sen­
tire, con la « fantasia viva » o con « il
senso acuto », « il rigoglio dell’erba ma­
tura o, più in basso, il profumo del­
l’erba che secca ». L e notazioni politi­
che si fanno meno frequenti nella se­
conda parte di questo carteggio, forse
perchè egli si sente immerso in una
esperienza più vasta di cui non è che
un piccolo momento, ma, in compenso,
si avverte che è sceso nel suo cuore un
maggior spirito di rassegnazione, una
rassegnazione che non è tanto attesa
passiva della giustizia divina quanto con­
sapevolezza della utilità umana e so­
ciale anche di una modesta esistenza,
quale poteva essere quella da lui con­
dotta nel carcere. Ecco perchè si im­
merse nel lavoro, dimenticando i la­
menti per la sua triste sorte, e, quasi
meravigliandosi di tale sua nuova e pa­
ziente attività, scriveva, alla fine di feb­
braio del ’28, che « il vecchio polemi­
sta s’è abituato ad inquadrare ed irregimentare anche le idee, le reminiscen­
ze della storia e le conclusioni dei sa­
pienti ». Era il nuovo stato d ’animo,
più sereno e meno affannato, che gli
dava anche una più profonda fiducia
nella vita, da vivere rendendosi ragione
di tutto quanto avviene e non mitica­
mente, come forse faceva quando ri­
portava ogni cosa alla Provvidenza.
Franco Catalano.