Esma Redzepova, la più popolare cantante rom, lancia un

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Esma Redzepova, la più popolare cantante rom, lancia un
[IL PERSONAGGIO]
DI EUGENIO ARCIDIACONO
LA REGINA DEGLI ZINGARI
Esma Redzepova, la più popolare cantante rom, lancia
LA STORIA
씰 I rom (“uomini”
nella loro lingua) sono un
popolo di origine indiana.
Nel V secolo d.C., a causa
di una persecuzione si
incamminarono verso
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Persia e
Armenia
diretti
nel territorio bizantino.
Tra X e XVI secolo le
mete preferite furono
l’Africa settentrionale
e l’Europa. Raggiunsero
Germania,
Italia, Francia
e Spagna con
carri e accampamenti.
E dedicandosi ora alla
vendita di cavalli ora alla
chiromanzia, si diffusero
in tutto il mondo. Ma non
trovarono mai vita facile.
Schiavi in Romania fino
al 1850, durante la
seconda guerra mondiale
furono vittima dello
sterminio nazista:
circa 500.000 i rom
uccisi nei lager.
L.L.
un messaggio (musicale)
L
o scorso 24 luglio al parco Stura di
Torino, che tutti in realtà chiamano
Tossic Park per la presenza di tossicodipendenti a ogni ora del giorno e della
notte, è avvenuto un piccolo miracolo. Quella sera in programma c’era un concerto del
World Music Meeting, una manifestazione
che il Comune ha voluto proprio per riqualificare il parco. Dai due campi nomadi della
zona sono arrivati decine di rom che si sono mischiati agli spettatori italiani e per
tutta la sera hanno cantato e ballato insieme. Il merito è stato della “Regina degli
Zingari”: Esma Redzepova, la più popolare cantante rom del mondo, che in quarant’anni di carriera ha tenuto più di 15.000
concerti, cantando in 20 lingue diverse. È nata a Skopye, la capitale della Macedonia, 65
anni fa, città dove vive e lavora ancora oggi.
La convivenza e il rispetto delle diverse culture e tradizioni ce l’ha nel Dna, avendo avuto una madre musulmana turca, un padre
serbo-albanese, un nonna ebrea irachena e
un nonno rom cattolico. Sposata con il musicista Stevo Teodosievski, il leader del gruppo che l’accompagna durante i suoi tour,
non ha avuto figli naturali. In compenso ha
adottato cinque bambini e ne ha cresciuti altri 47, strappandoli dalla strada. Ha costruito una scuola di musica, un museo d’arte e
tradizioni locali e vari centri d’assistenza, soprattutto per bambini. Per l’impegno a favore del suo popolo è stata candidata nel 2002
al premio Nobel per la Pace.
Cosa significa per lei essere una rom?
«Vuol dire essere una persona di buona indole. I rom sono l’unico popolo che non ha
mai dichiarato guerra a nessuno e per il quale
le frontiere non hanno ragione di esistere».
Perché gli abitanti di Skopye la chiamano “la Madre Teresa dei Balcani”?
«Madre Teresa di Calcutta è irraggiungibile, il paragone mi mette in seria difficoltà. Io
sono una donna troppo piccola al confronto. La grande madre albanese ci appartiene,
ma è molto più in alto di noi. Quanto a me,
direi che ho sempre seguito la regola di dividere quello che ho. Se ho due cose ne regalo
una. Mi basta una stanza, un letto, una cucina e due o tre pasti. Il resto è superfluo. Madre Teresa invece ha dato tutto».
Che cosa insegna ai suoi figli?
«Tutti i miei 47 figli sono istruiti e fanno i
musicisti. Dei miei 117 nipoti, invece, otto
sono già laureati e molti stanno per farlo.
Tutti continuano a studiare musica presso il
mio istituto. Sono fiera di loro. Ogni volta
che qualcuno ottiene il massimo dei voti organizzo una grande festa».
Che cosa dovrebbe fare il Governo italiano per i rom?
«Per prima cosa, non alimentare i pregiudizi, come invece sta facendo con la decisione discriminatoria di prendere le impronte
digitali ai bambini. Non credo che prendere
le impronte digitali dei politici risolverebbe
il problema della corruzione. La strada giusta è lavorare in direzione della piena integrazione, puntando sull’istruzione dei bambini
e sull’emancipazione delle donne».
Molti italiani pensano che i rom siano
tutti ladri. Cosa si può fare per cambiare
quest’immagine?
«Non diamo agli italiani colpe che appartengono in primo luogo ai mezzi d’informazione. Siete voi a formare e influenzare ciò che gli
italiani pensano. Il popolo italiano è quello
più ricco di umanità a livello europeo: parlo
per esperienza personale e per l’aiuto che l’am왎
basciata italiana ci ha sempre dato».
A sinistra: Esma Redzepova
durante uno dei suoi concerti.
Sopra: donne e bambini in un
campo rom della capitale
“
”
Basta venire a un mio
concerto e vedere
come ballano i ragazzi
italiani, come cantano
in coro le mie canzoni.
La musica può fare
tanto per avvicinarci
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NONNA ZLATA SI SFOGA
Una visita nel campo rom
di Corbetta (Milano) dove
la normalità non fa notizia
S
Zlata Jovanovic, 55 anni,
davanti alla sua casetta nel
campo di Corbetta
enti parlare di nomadi e pensi a vecchie
roulotte ammassate ai margini della città. Immagini bambini che scappano dietro abiti stesi al sole come topolini inseguiti
dal gatto. Poi vai a Soriano, in uno dei villaggi rom di Corbetta, nell’alto milanese, e devi
ricrederti, anche se non tutti gli accampamenti sono così. Il cancello è
per metà aperto. Sul lastricato sorgono alcuni prefabbricati con un piccolo giardino.
Ad attenderci c’è una coppia di rom serbi: Zlata Jovanovic e il marito Miomir
Dracutinovic, 55 e 56 anni.
IL SOGNO? UNA CASA E UN LAVORO
U
na casa, un lavoro,
l’integrazione. È a questo che
mirano Marcello Aflat, 36 anni, e
sua moglie Lia Daniela Radulescu
di 32, insieme ai figli Marius e
Fabio, 10 e 9 anni, nati e
cresciuti a Milano. In
Romania Marcello era
operaio in una
fabbrica di
asciugamani, «ma
guadagnavo poco. E
siamo venuti qui».
Fuori da un container
di via Triboniano da loro
stessi arredato, i coniugi Aflat
abbassano lo sguardo: «All’inizio
stavamo in un furgoncino senza
acqua, gabinetto, né cucina.
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Vivevamo di elemosina». Marcello
ha lavorato in nero: «Scaricavo
camion, facevo traslochi. Ho fatto
anche il muratore. Ho smesso
quando mi sono ferito e ho
scoperto che guadagnavo
la metà degli altri».
Oggi vendono il
mensile Scarp ’de
tenis, della
Cooperativa Oltre,
promossa dalla
Caritas: «Sabato e
domenica nelle
parrocchie lombarde, di
settimana in metropolitana».
Serve per tirare avanti in attesa di
un lavoro, che chissà se arriverà.
Fabrizio Alfano
Sono loro il riferimento di questo campo.
Da otto anni sono residenti in provincia
di Milano: «Abbiamo comprato questo terreno e costruito questa baracca con il sudore.
Non abbiamo mangiato per tenere da parte i
soldi», racconta Zlata. Hanno fatto richiesta
di condono, dicono. Si mantengono con il lavoro di Miomir, detto Michele, che vende
fiori: «Paghiamo le bollette e facciamo la dichiarazione dei redditi», precisano subito.
Temono che la loro immagine possa essere
associata a quella dei nomadi delinquenti visti in Tv: «Non andiamo contro la legge. In
paese tutti sanno che siamo bravi. Non diamo fastidio a nessuno», afferma Dracutinovic. E la signora Zlata rompe gli indugi:
«Non mi piace che si dica che
tutti i rom rubano nelle case o
fanno cose brutte. Non siamo
tutti uguali. C’è chi lavora,
chi va a scuola. Come gli italiani: non sono tutti uguali».
I vigili sono già passati di
qui, per alcuni controlli e prendere i loro nomi. «Nessuno si
è mai lamentato di quello che
ha fatto uno dei miei figli o un nipote», racconta orgogliosa. Inevitabile parlare di censimento e impronte digitali: «Per me non ci sono
problemi. Ma perché devono prendere le impronte ai bambini? Loro non sanno niente».
Ecco i nipotini: circondano la nonna, scambiano qualche battuta in slavo. Qualcuno le
salta in braccio con dei giochi: «Con loro non
sono mai sola». Come non crederle? Al campo sono in 21, ci dice nonno Michele: «Noi
due, i nostri figli maschi con le mogli e tredici
nipoti». Il più piccolo ha 7 anni, il più grande
15. Ogni giorno Miomir li accompagna a
scuola. Puntuali. Rientrano nel pomeriggio
con il bus e la nonna prepara loro da mangiare, se hanno fame. Come tutti i nonni sono fieri dei piccoli di casa: ci mostrano foto di feste
di famiglia e pagelle. «L’importante è che vadano a scuola e prendano il diploma per lavorare», interviene Zlata.
Laura La Pietra