Testo ad uso degli studenti dell`ISSR di Rimini

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Testo ad uso degli studenti dell`ISSR di Rimini
Testo ad uso degli studenti dell’ISSR di Rimini “A. Marvelli”
Estratto da:
ANDREA TURCHINI
“FLEAT PRO TE MATER ECCLESIA”
(De Paenitentia II, 10, 92)
La prassi penitenziale come atto comunitario
in Ambrogio di Milano
ILP - Padova 2010
Capitolo 1
La penitenza nella Chiesa occidentale del III-IV secolo
Prima di addentrarci nello studio specifico dell‘opera di Ambrogio di Milano, è opportuno
proporre una breve sintesi che aiuti a collocare il suo contributo nella scia della tradizione di coloro
che l‘hanno preceduto. In particolare ci soffermeremo sulle testimonianze di Tertulliano e di
Cipriano, gli autori che hanno maggiormente contribuito allo sviluppo della riflessione sulla
penitenza e il perdono nella Chiesa antica.
1.1 La formazione di una prassi
Nell‘epoca antica, due fatti hanno portato le comunità cristiane a precisare la loro posizione
in materia penitenziale: la controversia montanista — riguardo la riconciliazione per i peccati di
adulterio e di fornicazione — e la controversia circa gli apostati della persecuzione di Decio (250) e
di quella di Valeriano (257). Due uomini, Tertulliano (morto dopo il 220) ed il vescovo Cipriano
(morto nel 258), i cui scritti riassumono queste controversie, hanno contribuito all‘elaborazione di
una dottrina penitenziale. Prima della testimonianza di questi due autori, non si può fare altro che
segnalare alcune linee generali. 1
La formazione e lo sviluppo di una prassi penitenziale nella Chiesa è stato oggetto di
numerosi e autorevoli studi. Ai nostri giorni, possiamo affermare con tranquillità che si sia giunti ad
una sostanziale concordanza circa i passaggi fondamentali e i riferimenti storici, superando le
velleità apologetiche che hanno ispirato alcuni interventi dell‘ inizio XX secolo, 2 sostenuti
principalmente dalla preoccupazione di fondare storicamente la prassi della confessione privata.
Rimandando a studi approfonditi la riflessione sulle testimonianze neotestamentarie e le
interpretazioni riguardanti le stesse, 3 possiamo semplicemente rilevare quanto è indicato più
1
Cf. VOGEL, p. 11.
Cf. ODOARDI G., La dottrina della penitenza in sant’Ambrogio, Roma 1941; MAGISTRETTI M., Il sacramento della
confessione secondo sant’Ambrogio, La Scuola Cattolica 30 (1902), pp. 493-512; FABBI F., La confessione dei peccati
nel Cristianesimo, Assisi 1947, p. 107; e altri citati da MARCHIORO, p. 66.
3
Cf. RAMOS-REGIDOR, pp. 113-141; Cf. NOCENT, pp. 143-150, Cf. MAGGIONI, pp. 15-66; Cf. P. DACQUINO, pp. 91108; Cf. LORÌA, pp. 177-180.
2
comunemente:
Gli scritti del Nuovo Testamento testimoniano che Cristo ha trasmesso agli apostoli il
potere di rimettere i peccati. Essi hanno esercitato questo potere trasmettendolo a loro volta
ai loro successori (...) Tuttavia non abbiamo alcun elemento per delineare la «forma
istituzionale» di questo sacramento. 4
Tutti gli storici cattolici affermano l’esistenza del sacramento della Penitenza fin dalle
origini della Chiesa; (...) fin dall’inizio la Chiesa non negava il perdono e la riconciliazione
ai cristiani peccatori veramente pentiti, anche se colpevoli dei tre peccati capitali. 5
La nostra esigenza di conoscere nei dettagli la forma e le modalità che caratterizzavano
l‘istituto penitenziale della Chiesa antica è per lo più destinata a rimanere frustrata. Gli autori
antichi, che rappresentano per noi i testimoni di quella prassi, nelle loro esposizioni, erano
concentrati su altre problematiche e su altre priorità. La questione circa la possibilità per un
cristiano battezzato di fare penitenza fu per lungo tempo essenziale, anzi, costituì talvolta – almeno
parzialmente – il problema principale della storia della penitenza; il problema delle modalità di tale
penitenza passa senz‘altro in secondo piano rispetto a quello fondamentale della sua possibilità. 6
Ciò che conosciamo lo deduciamo dalle informazioni che riusciamo a spigolare negli scritti dei
testimoni, i quali ci danno un‘idea di massima di come doveva svolgersi la penitenza nella Chiesa
antica.
Ci rifacciamo alle conclusioni di M. Righetti, 7 rimandando alla lettura del testo. Egli, al
termine di una rassegna sufficientemente ampia dei testi più importanti dell‘epoca apostolica e subapostolica allusivi ad una disciplina penitenziale, sebbene constati che quasi tutti presentino scarsi
richiami alla prassi, tuttavia attesta che essi presentano una fondata probabilità, e accusano una
sicura universalità di applicazioni presso le maggiori comunità cristiane dell‘epoca. 8
1 – Tutte le testimonianze convengono sul principio assoluto, affermato da Cristo,
riguardante la possibilità di una giustificazione postbattesimale che si estende ai peccatori pentiti e a
tutte le colpe, comprese le più gravi.
2 – La Chiesa gerarchica, incentrata sul presbiterio presieduto dal vescovo, è la dispensatrice
normale del perdono di Dio. Mai la Chiesa ha dubitato di essere depositaria del potere ricevuto da
Cristo di rimettere qualsiasi peccato senza limitazione alcuna.
3 – Manchiamo di dati precisi che suppongano un istituto penitenziale sistematicamente
ordinato, ma possiamo dedurne tre elementi essenziali: la confessione della colpa manifestata (in un
qualche modo) davanti alla Chiesa; una conseguente pubblica penitenza più o meno lunga e severa,
unita ad un‘espulsione temporanea dalla comunità dei fedeli; una riconciliazione da parte del
vescovo, con carattere certamente sacramentale, che restituisce il colpevole alla grazia di Dio ed
alla lecita ricezione dell‘Eucaristia.
4 – Secondo la regola stabilita da Erma
secolo, la penitenza non poteva essere reiterata.
9
e applicata unanimemente fino alla fine del VI
5 – Non è attestata in questo tempo, né fino all‘inizio del VII secolo, la prassi di una
penitenza sacramentale privata.
Un posto particolare tra gli autori di questo primissimo periodo lo occupa Erma, presentato
4
LORÌA, p. 180.
RAMOS-REGIDOR, p. 147.
6
Cf. KARPP, p. XII.
7
Cf. RIGHETTI, p. 183.
8
Cf. RIGHETTI, pp. 183-185.
9
Cf. Herm., Precetto IV, 1-3, in VOGEL, pp. 56-60.
5
dalla tradizione come fratello di papa Pio I e vissuto, quindi, verso la metà del II secolo. Nella sua
opera, rimasta un punto di riferimento, Erma ci da alcune indicazioni sostanziali sulla penitenza. A
lui, come già detto, dobbiamo il principio della non-reiterabilità della penitenza:
(...) Dopo quella grande e santa chiamata, se qualcuno, tentato da diavolo, pecca, ha una
sola penitenza; se poi subito dopo pecca e fa penitenza, è inutile per quell’uomo; poiché
difficilmente vivrà. 10
Si deve notare che, nel difendere questo principio che a noi potrebbe apparire restrittivo e
duro, in realtà egli combatte contro chi vorrebbe escludere ogni possibilità di riconciliazione
postbattesimale.
Udii, … da alcuni maestri, che altra penitenza non c’è se non quella quando scendemmo
nell’acqua e ricevemmo la remissione dei nostri peccati. Mi dice: Bene udisti: così è infatti.
Bisognerebbe che chi ha ricevuto la remissione dei peccati non peccasse più, ma vivesse
nella purità… Essendo il Signore conoscitore del cuore e prevedendo ogni cosa, conobbe la
debolezza degli uomini e l’astuzia del diavolo, cioè che avrebbe fatto del male ai servi di
Dio e avrebbe macchinato contro di essi. Essendo pertanto il Signore assai misericordioso,
s’impietosì per la sua creatura e dispose questa penitenza e diede a me la potestà di questa
penitenza. Però io, dice, dico a te: dopo quella grande e santa chiamata, se qualcuno,
tentato da diavolo, pecca, ha una sola penitenza; se poi subito dopo pecca e fa penitenza, è
inutile per quell’uomo; poiché difficilmente vivrà. 11
In definitiva tale principio di non-reiterabilità ha una valenza inclusiva e non esclusiva.
Infatti per Erma la motivazione della non-reiterabilità è complessa e coinvolge una prospettiva
ecclesiologica all‘interno della quale la proposta penitenziale deve essere letta. Egli insegnerebbe
un‘ultima penitenza perché ormai si è giunti alla fine del mondo; la sua posizione non sarebbe
dunque motivata da ragioni di principio, ma piuttosto da preoccupazioni pastorali: egli desidera
chiamare tutti i membri della chiesa al pentimento prima della fine. 12 È questo il punto decisivo
riguardate la profezia di Erma sull‘unicità della penitenza, ma non è l‘unico. Altri motivi sono da
ricercare nell‘esigenza di un sincero pentimento e nel parallelismo che egli sottolinea tra la
penitenza e il battesimo; tale parallelismo nonn sfugge però le differenze che condivide con la
tradizione e che si evidenziano a livello terminologico: egli, in riferimento al battesimo, per indicare
la remissione dei peccati utilizza sempre il vocabolo afesis, mentre quando si riferisce alla penitenza
post-battesimale utilizza l‘espressione metànoia. 13
La penitenza annunciata da Erma si estende a tutti i peccatori senza eccezioni; fare penitenza
per Erma si esprime nella volontà di convertirsi e nel distacco dal peccato. 14 Il problema non
consiste tanto nella gravità oggettiva del peccato, quanto nell‘intensità e nella sincerità della
conversione: da questo dipende la fruttuosità della penitenza. Si avrà il rinnovamento interno del
peccatore ed il suo reinserimento nello stato d‘innocenza, non appena sarà compiuta l‘espiazione
corrispondente alla colpa. La Chiesa concorre a procurare questo perdono e non si limita a ratificare
formalmente un perdono che il peccatore ha ricevuto da Dio.
10
Ibidem , p. 60
Herm, Precetto IV, 1-3, in VOGEL, pp. 59-60. Una raccolta più ampia dell‘opera di Erma, con la possibilità di un
confronto con l‘edizione critica latina è riportata in KARPP, pp. 41-95. L‘edizione più conosciuta dell‘opera di Erma è
quella inserita nella collana di Sources chrétiennes, n. 53, bis, a cura di M. ROBERT JOLY.
12
Cf. MOIOLI, p. 71.
13
Cf. RAHNER, pp. 415-420.
14
Cf. Herm, Visione I,1; I,3; Precetto IV, 1; XI, 6; Similitudine V,7; VIII, 11, in VOGEL, p. 16, nota 11.
11
1.2 Le liste o cataloghi dei peccati
Negli scritti cristiani più antichi e antecedenti al III secolo troviamo soprattutto la menzione
della prassi dell‘exomologesi, 15 senza ottenere dalle fonti una descrizione univoca dal punto di vista
rituale e delle liste di peccati gravi.
Come attesta O. Michel, 16 il termine exomologesi sia nei testi della Scrittura, come nella
tradizione sub-apostolica, mantiene sempre una doppia valenza che difficilmente si può
disgiungere. Il termine, in modo associato, viene utilizzato sia per indicare la professione di fede e il
rendimento di lode, sia per indicare la pubblica confessione dei peccati. Le testimonianze dei primi
scritti cristiani, soprattutto quelle di Did, 1Clem, ed Herm sono significative riguardo all‘uso
cultuale di tale espressione; i significati del termine sono talmente congiunti che viene usato per
indicare la pratica della confessione dei peccati che precede la celebrazione eucaristica nel giorno
del Signore. 17
La fonte delle liste dei peccati si trova negli elenchi neotestamentari; 18 parecchi termini
usati per designare i peccati sono sinonimi. Semplificando gli elenchi in base a questa
constatazione, si ottiene un inventario di quegli atti e di quegli atteggiamenti che la Chiesa primitiva
riteneva colpevoli. Vogel sceglie di disporre questo inventario in ordine decrescente ―a seconda che
occupano un posto più o meno importante nei testi‖. 19
1 – Impurità: adulterio, fornicazione, pederastia, concupiscenza, parole disoneste.
2 – Omicidio
3 – Idolatria
4 – Magia
5 – Avarizia
6 – Furto
7 – Invidia: gelosia, avidità, amore di vanagloria, odio
8 – Menzogna: falsa testimonianza, spergiuro, ipocrisia, calunnia
9 – Cattiveria: collera, ribellione, lite, perversità, cattivo carattere, maldicenza, ingiurie,
ingiustizia, frode
10 – Orgoglio: millanteria, vanità, arroganza
11 – Incostanza e irragionevolezza
12 – Ubriachezza e intemperanza
Leggendo queste liste, come altre che si possono ricavare dalla omiletica o dalle catechesi
morali dei Padri del IV secolo, ritroviamo peccati che, per il nostro giudizio, non sono considerati
gravi. È importante, a questo riguardo, ricordare quanto precisa Vogel: bisogna guardarsi bene dal
trasportare nel passato le nostre moderne categorie di peccato mortale e veniale, stabilite su
un‘analisi dell‘atto peccaminoso. Tutti gli elenchi antichi, infatti, hanno lo scopo pratico di
assegnare ad ogni atto peccaminoso l‘espiazione richiesta per la remissione, sia riguardo la
mortificazione privata, sia per la penitenza ufficiale. Inoltre nessun catalogo ha la pretesa di essere
esaustivo. 20
La preoccupazione è dunque pastorale e pedagogica: ad ognuno va assegnata ‗la medicina‘
15
Did, 4; 14,1—2; 1Clem, 50—51; 52,1; 51,2-3, cit. in LORÌA, pp. 182-185.
O. MICHEL,
, in GLNT, V, coll. 603. 612—615
17
O. MICHEL, col. 614.
18
Mt 15,19; Mc 7,21; Lc 18,11; Rom 1,29; 13,13; 16,17; 1Cor 6,9; 5,10; 2Cor 12,20; Gal 5,20; Col 3,5; Ef 4,19; Fil
2,3; 1Tess 4,5; 1Tim 1,9-10; 3,2; 6,4; 2Tim 3,2; Tt 3,3; 1Pt 2,1; 4,3; 2Pt 2,18; Gc 3,16; Ap 9,21; 21,8; 22,15. Cf.
VOGEL, p. 12, nota 3. Per l‘elenco delle virtù la nota 4 della stessa pagina.
19
Ibidem.
20
Cf. VOGEL, p. 28; Erma distingue i peccati non tanto secondo la gravità oggettiva dell’atto, quanto piuttosto secondo
le disposizioni perverse che sono supposte nel colpevole. VOGEL, p. 16, nota 10.
16
adeguata alle esigenze della cura. Per tutti i battezzati, c‘è una possibilità di salvezza per ogni
peccato e la Chiesa, attraverso la penitenza, accompagna ognuno, secondo le sue specifiche
necessità. Tale prospettiva pastorale motiva la presenza di liste differenti nelle varie chiese, perché
ognuna di esse si trova a far fronte pastoralmente a circostanze ed esigenze diverse.
La lista presentata risulta significativa anche perché sgombera il campo da quel
fraintendimento che vuole la penitenza indicata solo per la celebre triade (omicidio, adulterio,
apostasia). 21 Gli elenchi che ritroviamo nel Nuovo Testamento come negli scritti di epoca subapostolica ci fanno vedere che la prospettiva penitenziale era ben più ampia.
1.3 La penitenza canonica del III secolo: le testimonianze di Tertulliano e Cipriano di
Cartagine
Se dalle testimonianze dell‘epoca apostolica e sub-apostolica non possiamo trarre alcun
elemento certo circa le modalità secondo cui si attuava la penitenza nella vita delle chiese, queste
testimonianze appaiono invece abbondanti nel terzo secolo. Solo a partire da questo periodo, ci
troviamo di fronte ad una struttura organizzata, ad una penitenza ―canonica‖. Occorre però fare una
precisazione: se è vero che natura non facit saltus, lo è altrettanto che nella storia non può darsi il
sorgere improvviso di un‘istituzione così complessa.
Il principio di continuità storica ci porta ad ammettere che l’istituto della penitenza del
terzo secolo appare come una «maturazione» di quanto già si trovava nella pratica della
vita cristiana fin dal periodo delle origini. Se un’esposizione sistematica della forma dl
sacramento non si trova fin dai primi secoli, ciò non significa che durante quel periodo non
esistesse una qualsiasi forma di penitenza sacramentale. 22
Come già accennato le due figure che maggiormente hanno contribuito allo sviluppo della
riflessione sulla penitenza sono state Tertulliano e Cipriano. Essi, con le loro opere, fortemente
inserite nel contesto storico ecclesiale e nel dibattito loro contemporaneo, hanno contribuito alla
chiarificazione terminologica e alla sistematizzazione della dottrina ecclesiale sul tema del perdono.
Ovviamente, i loro sforzi sono stati protesi a giustificare la possibilità della Chiesa di esercitare il
potere del perdono dei peccati per coloro che cadevano dopo il battesimo, più che a descrivere le
modalità secondo cui tale istituto veniva proposto nella comunità ecclesiale.
1.3.1 Tertulliano e la questione montanista
La figura di Tertulliano è storicamente complessa perché, proprio riguardo il tema della
penitenza, egli ha vissuto personalmente un percorso che lo ha portato dalle posizioni cattoliche di
un suo primo trattato, il De paenitentia, a posizioni dichiaratamente montaniste nel suo trattato
dedicato alla castità, il De pudicitia. Tertulliano nacque a Cartagine verso il 160 dove visse e praticò
l‘ufficio di avvocato. A lui dobbiamo la fissazione terminologica della materia riguardante la
penitenza, sia nell‘ambito teologico che in quello giuridico.23 Il trattato sulla penitenza appartiene al
suo periodo cattolico: Tertulliano vi sostiene, in accordo con i suoi contemporanei, che la Chiesa,
attraverso tutto il processo penitenziale, che egli chiama exomologesi, 24 ha la possibilità di
concedere il perdono ai peccatori, qualunque sia la gravità delle loro colpe. Il perdono si ottiene al
termine di un percorso di espiazione molto gravoso e si può lucrare, dopo il battesimo, una volta
21
Cf. J. RAMOS-REGIDOR, p. 154; RAHNER, p. 482; R. LORÌA, p. 201.
LORÌA, pp. 188-189; Cf. GRYSON, p. 15.
23
Cf. VOGEL, p. 69
24
La exomologesi comprende in un certo qual modo, tutto il processo per cui l’uomo si umilia e si abbassa alla maestà
del Signore, così che professi tutto un sistema di vita adatto a fermare su di lui la divina pietà e misericordia.
TERTULLIANO, De paenitentia, cap. IX, Cf. LORÌA, p. 192.
22
sola nella vita.
Dio ha permesso che, una volta chiusa la porta del perdono e tirato il catenaccio del
battesimo, ci fosse ancora un rifugio aperto: nel vestibolo pose la seconda penitenza, perché
essa apra a coloro che bussano, ma per questa volta soltanto, perché è già la seconda, ma
mai più dopo, se l’ultimo perdono è stato reso vano. 25
Nel De Paenitentia di Tertulliano troviamo diverse pagine in cui si descrive l‘esigenza della
penitenza e il pericolo rappresentato dall‘atteggiamento che porta molti, per pudore, a sottrarvisi.
Si deve avere vergogna di esporsi al pericolo, ma non si deve avere vergogna di liberarsene
un seconda volta; la caduta esige un nuovo rimedio! Tu sarai gradito al Signore, se non
rifiuterai ciò che lui ti offre. Tu lo hai offeso, ma puoi ancora una volta essere riconciliato.
Tu hai qualcuno con cui sdebitarti e questi vi acconsente volentieri. 26
Pur non essendo il suo scopo principale, il trattato di Tertulliano ci fornisce una descrizione
molto interessante del processo penitenziale che veniva proposto nella Chiesa del suo tempo. Egli
suddivide questo momento in tre passaggi di diseguale durata: a) la confessione della colpa, b)
l‘exomologesi, cioè il tempo della penitenza vera e propria, c) la riconciliazione. Proviamo a
cogliere il contributo di Tertulliano e le sue sottolineature nella descrizione di tale processo.
Di questa penitenza seconda ed unica il procedimento è più rigoroso e la prova più
laboriosa, perché non si tratta soltanto di un fattore interiore della coscienza, ma anche di
un atto esteriore che lo manifesta. 27
a) La confessione della colpa: si tratta del primo atto. Insieme alla colpa occorre confessare
anche il proprio pentimento e il proprio desiderio di conversione. La confessione non riguarda solo
le colpe note, ma anche quelle occulte; non viene mai fatta pubblicamente, ma, probabilmente, in
privato al vescovo 28 che poteva, a seconda dei peccati denunciati, comminare una censura divina,
nella quale si potevano imporre, accanto alla scomunica, anche delle castigationes, cioè la penitenza
ecclesiastica. 29
b) L’exomologesi: questo termine indica una realtà piuttosto complessa. Prima di tutto l‘atto
di riconoscersi colpevoli davanti a Dio, di ammettere la propria colpa e di cambiare vita. Questo
atteggiamento interno deve manifestarsi anche all‘esterno, con un insieme di atti di mortificazione
destinati ad umiliare il penitente; con il ricorso ai sacerdoti, agli amici di Dio (martiri e confessori) e
all‘intercessione di tutti i fedeli. Questi atti esterni, normalmente, si svolgono in un quadro ben
determinato e vigilato dalla Chiesa e non sono lasciati alla libera iniziativa dei singoli.
L’exomologesi è quella disciplina che prescrive all’uomo di umiliarsi e di prostrarsi,
imponendosi un regime di vita, che attiri la compassione. Riguardo al vitto e al vestito, essa
impone che il penitente si corichi sull’aspro sacco e nella cenere, che invilisca il corpo con
luridi stracci e abbandoni l’anima alla tristezza, che sconti con un trattamento rude i
peccati commessi. L’exomologesi conosce solo un cibo e una bevanda molto semplici, in
conformità al bene dell’anima, non al piacere del ventre. Il penitente alimenta d’ordinario
25
TERTULLIANO, De paenitentia, VII, 10. in KARPP, p 175. L‘immagine del vestibolo forse rimanda alla prassi —
testimoniata con maggiore chiarezza in epoca successiva — che relegava i penitenti in una zona della chiesa nei pressi
dell‘ingresso a implorare l‘intercessione dei membri della comunità.
26
TERTULLIANO, De paenitentia, VII, 13-14, cit. in VOGEL, pp. 70-71. Cf anche TERTULLIANO, De Paenitentia, X, 7;
XI, 1; XII, 1.5-7, cit. in KARPP, pp. 181-182.
27
TERTULLIANO, De paenitentia, IX, 1, cit. in VOGEL, p. 71.
28
Cf. RAHNER, p. 484
29
Cf. RAHNER, pp. 483-486.
le sue preghiere con digiuni, geme, mugge giorno e notte al Signore suo Dio, si rotola ai
piedi dei sacerdoti, s’inginocchia davanti a quelli che sono cari a Dio e supplica i fratelli di
intercedere per ottenergli il perdono. Tutto questo l’exomologesi lo fa per dare pregio alla
penitenza, per onorare il Signore nel timore del pericolo, (…) Quando dunque
l’exomologesi prostra l’uomo nella polvere, lo innalza; quando lo insozza, lo purifica;
quando lo accusa, lo scusa; quando lo condanna, l’assolve. Credilo, meno tu avrai
risparmiato te stesso, più ti risparmierà Dio. 30
La scomunica che colpiva il penitente segnava contemporaneamente anche il suo posto nella
comunità. Essere scomunicato, infatti, non significava essere cacciato, ma essere escluso dalla
comunione eucaristica e, per un certo tempo, anche dalla partecipazione alla liturgia comunitaria. Il
peccatore — in un primo tempo — rimane alla soglia del tempio, nel vestibolo o nel nartece; lì in
ginocchio egli supplica il vescovo, i sacerdoti e i fedeli di riammetterlo alla comunità ecclesiastica e
alla penitenza. In un secondo tempo il penitente poteva partecipare all‘assemblea liturgica, ma in un
posto riservato; qui, in ginocchio, supplicava la comunità di intercedere per lui perché potesse
ottenere la riconciliazione e il perdono. Il penitente doveva comparire coperto dal cilicio. La durata
dell‘exomologesi veniva decisa dal vescovo e dal collegio dei presbiteri; normalmente durava
diversi anni. 31
c) La riconciliazione: era il momento della riammissione alla vita della comunità,
dell‘esperienza della rinascita dopo il perdono e dell‘effusione della grazia di Dio che santifica
nuovamente. Secondo Rahner, la penitenza non cessava automaticamente, ma si concludeva con un
atto ufficiale di riconciliazione con la Chiesa. Egli ricorda che Tertulliano non dice quale fosse
esattamente il rito della remissione, quale l‘atto di riammissione del penitente nella piena
comunione con la Chiesa; da Cipriano appare già chiaro che consisteva nella imposizione della
mano. 32 Rinvenendo lo stesso rito praticamente ovunque nella Chiesa, possiamo reputarlo così
antico da supporlo esistente già ai tempi di Tertulliano. 33
Compiuto dunque il tempo della penitenza e dell‘espiazione il penitente viene riconciliato
nella Chiesa e per mezzo della Chiesa. È importante sottolineare, oltre alla potestà del vescovo, la
partecipazione ed il coinvolgimento di tutta intera la comunità. Abbiamo qui una delle pagine più
belle di Tertulliano, che ci interessa particolarmente proprio perché mette in evidenza la mediazione
ecclesiale.
Non può un corpo rallegrarsi della disgrazia di uno dei suoi membri; necessariamente tutto
parteciperà al dolore e collaborerà al rimedio. Dove sono uno o due fratelli, là è la Chiesa,
e la Chiesa è Cristo. Perciò quando tu tendi le braccia verso le ginocchia dei fratelli, tu
abbracci Cristo, tu implori Cristo, e similmente quando essi spargono lacrime su di te, è
Cristo che soffre, è Cristo che supplica il Padre. E si ottiene facilmente quello che chiede il
Figlio. 34
30
TERTULLIANO, De paenitentia, IX, 3-6, cit. in VOGEL, p. 71.
Cf. RAHNER, pp. 487-491.
32
A proposito di chirotonia (
) possiamo affermare che ne‘ nel NT ne‘ nella tradizione sub-apostolica si fa
menzione di una prassi di imposizione delle mani legata alla remissione dei peccati; essa è testimoniata solo per la
guarigione dei malati e per il conferimento di un incarico ministeriale. Cf. C. MAURER,
GLNT, XIII, col.
1248: Vanno distinti due tipi di chirotonia. Da un lato abbiamo l’imposizione delle mani a scopo terapeutico e
dall’altro l’imposizione per trasmettere la benedizione, in particolare per conferire lo Spirito al neofita o
all’ordinando. Il primo ha paralleli nella religione ellenistica, mentre il secondo rappresenta un retaggio più
decisamente veterotestamentario-giudaico. Tuttavia questi due tipi di imposizione si fondano entrambi sulla
convinzione che la mano, divina o umana che sia, rappresenti l’organo specifico per la trasmissione delle virtù
terapeutiche e della benedizione. Cf anche E. LOHSE,
GLNT, XV, coll. 227-230.
33
Cf. RAHNER, p. 492.
34
TERTULLIANO, De paenitentia, X, 5-6, cit. in VOGEL, p. 72. K. Rahner cerca di approfondire il significato ed il valore
31
Nella seconda opera di Tertulliano riguardante la penitenza — il De pudicitia —, non
abbiamo un progresso significativo nella riflessione, perché lo scopo di quest‘opera, appartenente al
suo periodo montanista, è piuttosto quello di contestare la pretesa della Chiesa di poter perdonare i
peccati gravi. Non si contesta radicalmente questo potere — anche se si discute se esso sia stato
concesso solo a Pietro e non a tutti i suoi successori —, ma si ritiene assolutamente
controproducente procedere al perdono dei peccati gravi dopo la penitenza, perché questo
comportamento istigherebbe al peccato: ―La Chiesa può rimettere i peccati, ma io non lo farò
affinché gli altri non abbiano a peccare‖. 35
Questo trattato di Tertulliano risulta per noi particolarmente interessante perché, proprio per
l‘esigenza espressa di determinare quali siano i peccati remissibili e quelli irremissibili, ci propone
una catalogazione che ci aiuta nuovamente a comprendere le posizioni del tempo. Come tutti i
montanisti, Tertulliano si appoggia sull‘interpretazione di 1Gv 5,16, 36 che egli utilizza per
sostenere la sua tesi sulla irremissibilità dei peccati gravi, soprattutto della fornicazione e
dell‘adulterio.
L’adulterio e la fornicazione non sono annoverati tra i peccati leggeri e di media gravità, ai
quali si applicano allo stesso titolo la sollecitudine che previene e la sicurezza che perdona.
Ma dal momento che sono tali da tenere il primo posto tra i crimini, non possono essere ad
un tempo perdonati, come se fossero leggeri, e prevenuti, come se fossero gravissimi… Per
questo con estrema severità cacciamo fuori i risposati … Lo stesso limite sulla soglia
assegniamo agli adulteri ed ai fornicatori, in modo che versino lacrime senza speranza di
riconciliazione e non portino dalla Chiesa niente di più che la pubblicazione del loro
disonore. 37
È in quest‘opera che Tertulliano attacca Erma, accusandolo di essere un falso pastore; 38
irride, con parole durissime, il vescovo Agrippino di Cartagine, che si era permesso di riammettere
alla comunione adulteri e fornicatori: può essere utile leggere le sue parole per comprendere il tono
della polemica in cui Tertulliano è completamente immerso nella sua lotta contro il presunto
lassismo di coloro che si dicono cattolici.
Ho saputo… che è stato promulgato un editto, e, per di più perentorio (…) «Io rimetto i
peccati di adulterio e di fornicazione a chi ha fatto penitenza» (…) E dove lo esporremo
teologico e sacramentale di tale cooperazione da parte della Chiesa.
Che significato ha la cooperazione dell’intera la comunità? (…) Si può affermare che essa consiste nel fatto che tutta la
comunità intercede presso Dio e che tutta la Chiesa ad remedium conlaboret necesse est precisamente con le sue
preghiere (…) sorprende il fatto che questa intercessione non sia concepita come preghiera di molti singoli, ma come
un atto della Chiesa in quanto tale, perché è considerata come atto di Cristo (...) Quando la Chiesa prega insieme a
Cristo, la sua preghiera è esaudita. Questa preghiera non è considerata come un aiuto aggiunto alla supplica
personale del peccatore per il perdono (…) è piuttosto connessa così essenzialmente da Dio con la remissione dei
peccati, da rendere necessaria la collaborazione della Chiesa. Cf. RANHER, pp. 501-505. 512-518.
35
TERTULLIANO, De Pudicitia, XXI, 7, cit. in VOGEL, p. 18.
36
Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vita;
s'intende a coloro che commettono un peccato che non conduce alla morte: c'è infatti un peccato che conduce alla
morte; per questo dico di non pregare (1Gv 5,16).
Altri passi citati dai montanisti e altri gruppi rigoristi erano tratti dalla lettera agli Ebrei: Ebr 6,4-6; 10,26ss; 12,17. Sul
valore di questi testi ci rifacciamo al commento unanime dei teologi cattolici: Questi testi furono abbondantemente
sfruttati dai rigoristi e dagli eretici dei primi secoli. L’impossibilità della salvezza che qui sembra affermata non tocca
la potenza della misericordia divina, ne’ il potere universale di remissione conferito alla Chiesa., ma si riferisce
unicamente alle disposizioni interne del peccatore; chi non intende rinunciare al suo peccato o chi rigetta con
l’apostasia la grazia ricevuta, non ha alcuna speranza di perdono finché resta in queste disposizioni. LORÌA, p. 180;
Dello stesso parere circa l‘interpretazione di questi testi è anche J. Ramos-Regidor: Cf. RAMOS-REGIDOR, pp.139-140.
37
TERTULLIANO, De pudicitia, I, 19-21, cit. in KARPP, pp. 185-187. Può essere interessante considerare anche i testi del
De pudicitia, II-V, cit. in KARPP, pp.187-195.
38
Cf. TERTULLIANO, De pudicitia, X, 8-13, cit. in VOGEL, p. 73-74.
questo generoso regalo? Io propongo di collocare l’editto sulle porte stesse dei lupanari,
con gli altri segnali di libidine. Una penitenza di questo genere è bene promulgarla nel
regno stesso della delinquenza. È necessario che sia letto questo perdono là dove si entra
nella fiducia di ottenerlo poi. 39
In sintesi potremmo descrivere il pensiero di Tertulliano sulla penitenza in questi brevi tratti.
Prima di ogni cosa si deve affermare che, secondo il nostro autore, essa è necessaria per ottenere il
perdono dei peccati dopo il battesimo. Chi fosse caduto in un peccato grave deve supplicare Dio per
le proprie colpe, riconciliarsi ed ottenere la remissione dai supplizi eterni mediante un‘afflizione
temporale. È necessario altresì che tale penitenza sia pubblica ed ecclesiale perché deve ottenere
l‘intercessione orante della Chiesa: anche se importante nel processo penitenziale, la penitenza
personale rimane senza efficacia se non venisse unita alla publicatio sui per ottenere l‘intercessione
della Chiesa e la riconciliazione con la Chiesa. Penitenza ecclesiale e personale devono rimanere
unite per ottenere gli effetti della riconciliazione: la pax con la Chiesa e la riconciliazione con Dio.
Mentre il primo effetto risulta l‘evidente opposto della scomunica comminata all‘inizio della
penitenza, il secondo si deduce dal parallelismo con il battesimo, perché umanamente non può
essere certificato da nessuno. È interessante considerare il valore che Tertulliano attribuisce al
processo penitenziale in vista di tale riconciliazione: esso è decisamente orientato ad ottenere la
remissione dei peccati. Tale sottolineatura emerge chiaramente nel confronto tra i due trattati
perché, mentre nel suo periodo cattolico Tertulliano riconosce la possibilità del perdono per
qualsiasi colpa o peccato — invitando tutti i peccatori alla penitenza —, nella sua fase montanista,
individuando una serie di peccati che non ammettono la riconciliazione, il nostro autore sostiene
che tali peccatori neppure debbano essere ammessi alla penitenza. Per Tertulliano montanista
l‘ammissione alla vera penitenza pubblica è così intimamente legata alla possibilità del perdono
della Chiesa, che essa deve essere negata qualora il perdono non può essere concesso. La penitenza
rende sensibile e pubblico il perdono di Dio ed è tanto intimamente connessa con l‘assoluzione
ecclesiale che non è giusto concederla se dovesse venire meno la condizione per questo atto di
riconciliazione con la Chiesa. 40
1.3.2 Cipriano di Cartagine e la crisi dei lapsi
La figura di Cipriano, vescovo di Cartagine, è strettamente legata alla questione dei lapsi,
cristiani battezzati i quali, durante e persecuzioni di Decio e di Valeriano, avevano mostrato la loro
debolezza di fronte all‘idea della tortura ed avevano rinnegato la loro fede sacrificando agli dei
pagani o con altre azioni. Molti dei lapsi, in realtà la maggior parte dei numerosi casi che si
verificarono durante la persecuzione della metà del III secolo, minacciati di spoliazione e di severe
punizioni (esilio, lavori forzati o morte), non ebbero il coraggio di confessare fermamente la loro
fede: il loro unico desiderio era di salvarsi dalla persecuzione attraverso un atto esteriore di
apostasia, in modo da conservare le proprietà, la libertà e la vita. Dopo la metà del III secolo, la
questione dei lapsi si presentò in parecchie occasioni originando serie dispute all‘interno delle
comunità cristiane e favorendo un ulteriore sviluppo della disciplina pentitenziale della Chiesa.
La prima occasione in cui la questione dei lapsi divenne seria e condusse ad uno scisma fu
durante la persecuzione di Decio (250-251). Un editto imperiale dispose che ogni cristiano avrebbe
dovuto effettuare un atto di culto agli dei pagani. Chiunque si fosse rifiutato, era minacciato con le
punizioni più severe. I funzionari imperiali furono incaricati di cercare i cristiani, di costringerli a
sacrificare e di perseguitare i recalcitranti con la massima severità. 41 Per la Chiesa, le conseguenze
39
TERTULLIANO, De pudicitia, I, 6-8, cit. in VOGEL, p. 72-73.
Cf. MOIOLI, pp. 72-79. RAHNER, pp. 548-563.
41
Cf. CIPRIANO, Epp. 10-12; Sono sopraggiunti i tormenti, e tormenti senza che conosca sosta il torturatore, senza che
cessi la condanna, senza che ci sia il conforto della morte; tormenti che non fanno conquistare facilmente la corona,
40
di questo primo editto di persecuzione generale furono terribili. Durante la lunga pace di cui
avevano goduto i cristiani, 42 molti erano stati allettati dallo spirito della mondanità. Un gran
numero di laici e persino alcuni membri del clero, 43 alla promulgazione dell‘editto, si affollarono
immediatamente agli altari degli idoli pagani per offrirgli sacrifici. Esistono tuttora dettagliate
testimonianze di quanto avvenne in Africa ed a Roma grazie alla corrispondenza 44 di Cipriano di
Cartagine ed ai suoi trattati, De catholicae ecclesiae unitate e De lapsis.
I lapsi furono classificati da Cipriano in vari modi, 45 a seconda della gravità dell‘atto di cui
si erano macchiati:
- Thurificati, coloro che avevano bruciato l‘incenso agli dei.
- Sacrificati, coloro che avevano offerto sacrifici agli dei.
- Libellatici, coloro che si erano procurati documenti falsi che attestavano il loro sacrificio
agli dei, pur non avendolo fatto.
- Traditores, termine riferito a vescovi e presbiteri che avevano consegnato le Sacre
Scritture alle autorità romane.
La maggior parte dei lapsi, in realtà, aveva solo obbedito all‘editto di Decio per debolezza:
essi, nel loro intimo, desideravano rimanere cristiani. Avendo ricevuto — spesso dietro pagamento
— le certificazioni che li ponevano al sicuro da ulteriori persecuzioni, essi desideravano assistere
ancora al culto cristiano ed essere riammessi in comunione con la Chiesa; tuttavia questo desiderio
era contrario alla disciplina penitenziale allora vigente, che prevedeva l‘esclusione dalla comunione
per gli apostati. Tra i lapsi di Cartagine, alcuni riuscirono ad ottenere raccomandazioni e
intercessioni di cristiani che erano rimasti fedeli ed avevano patito la tortura e il carcere. Questi
confessori inviarono lettere di raccomandazione al vescovo in favore dei rinnegati, anche a nome
dei martiri defunti. In virtù di queste ‗lettere di pace‘, i lapsi avrebbero voluto rientrare
immediatamente in comunione con la Chiesa 46 e, alcuni di loro, effettivamente furono riammessi
da membri del clero ostili a Cipriano. 47
Il vescovo Cipriano, rimasto in costante comunicazione attraverso una fitta corrispondenza
con il clero romano durante il periodo di sede vacante dopo il martirio di papa Fabiano, stabilì, in
accordo con la Chiesa di Roma, che nulla avrebbe dovuto essere fatto in materia di riconciliazione
dei lapsi fino al termine della persecuzione ed al suo ritorno a Cartagine. 48 Fu solo deciso da
Cipriano, che quegli apostati che si mostravano penitenti ed erano in possesso di un libellum pacis
scritto da un confessore, avrebbero potuto ottenere l‘assoluzione e l‘ammissione alla comunione
con la Chiesa ed all‘eucaristia, qualora fossero seriamente malati o in punto di morte, 49 o qualora
ma che durano fino ad abbattere… Ep. 11,1
42
Cf. Ep. 31,1,1; Cf. L. PIETRI, Le resistenze: dalla polemica pagana alle persecuzioni di Diocleziano, in Storia del
cristianesimo. Religione, politica, cultura. Vol. 2. La nascita di una cristianità (250-430), Borla-Città Nuova, MilanoRoma 2000, p. 158 [= PIETRI]; Cf. J. ZEILLER, Le grandi persecuzioni della metà del III secolo e il periodo di pace
religiosa dal 260 al 302, in Storia della chiesa, a cura di A. FLICHE-V. MARTIN, vol. II. Dalla fine del II secolo alla
pace costantiniana (313), a cura di J. LEBRETON-J. ZEILLER, edizione italiana a cura di R. FARINA, Saie, Torino 19773,
pp. 227-230 [= ZEILLER].
43
Cf. CIPRIANO, Ep. 14,1,1
44
Citiamo solo per esempio: CIPRIANO, Ep. 54; Ep. 55; Ep. 57; Ep. 59; Ep. 60.
45
Cf. PIETRI, p. 159; Cf. ZEILLER p. 227.
46
Cf. CIPRIANO, Epp. 15-17
47
Cf. CIPRIANO, Ep. 34,1,1.
48
Cf. CIPRIANO, Epp. 9 e 20
49
Poiché mi rendo conto che la possibilità di venire da voi è ancora lontana e che già inizia l’estate, stagione che porta
malattie frequenti e gravi, ritengo che sia necessario aiutare i nostri fratelli : coloro che hanno ricevuto dai martiri i
biglietti di indulgenza e possono essere aiutati dal privilegio di cui gli stessi godono presso Dio, se saranno colti da
qualche inconveniente o da malattia grave, senza aspettare che io sia presente, possono confessare i peccati a qualche
prete che si trova a Cartagine; oppure in mancanza del prete, se la morte sarà imminente, anche al diacono; così, con
incombesse il pericolo di una nuova persecuzione. A Roma, invece, dove operava Novaziano —
che aveva raccolto attorno a sé diversi discepoli —, a differenza di Cartagine, in principio fu
stabilito che gli apostati non avrebbero dovuto essere perdonati: avrebbero invece dovuto essere
esortati a fare penitenza, in modo che, nel caso fossero stati richiamati dalle autorità pagane, fossero
pronti a scontare la loro apostasia confessando fermamente la fede e ricevendo il battesimo del
sangue che lava da ogni colpa. 50 Tuttavia, anche a Roma furono d‘accordo nel definire che la
comunione non dovesse essere rifiutata a coloro che erano gravemente malati ed a coloro che
desideravano scontare la loro apostasia con la penitenza.
A Cartagine, la fazione che si opponeva a Cipriano non accettò la decisione del vescovo e
diede vita ad uno scisma. 51 Dopo l‘elezione di Cornelio alla sede di Pietro, il presbitero romano
Novaziano divenne il massimo sostenitore della disciplina più rigorosa, poiché rifiutava senza
riserve la riammissione alla comunione con la Chiesa di coloro che erano caduti. 52 Subito dopo il
ritorno di Cipriano alla sua sede, nella primavera del 251, a Roma ed in Africa furono convocati dei
sinodi. 53 In tali sedi fu trovata una soluzione comune al problema dei lapsi, che di fatto confermava
la linea di Cipriano e sconfessava il rigorismo di Novaziano. Fu adottato il principio che essi
avrebbero dovuto essere incoraggiati a pentirsi e — a determinate condizioni e dopo un‘adeguata
exomologesi — avrebbero potuto essere riammessi in comunione. 54 Nel fissare la durata della
penitenza, i vescovi dovevano prendere in considerazione le circostanze dell‘apostasia; per
esempio, se il penitente aveva offerto il sacrificio immediatamente o solo dopo tortura, se aveva
portato la sua famiglia nell‘apostasia o l‘aveva risparmiata dopo avere ottenuto un certificato.
Coloro che avevano realmente sacrificato (sacrificati o thurificati), avrebbero potuto essere
riconciliati con la Chiesa soltanto in punto di morte; i libellatici, dopo un‘adeguata penitenza. Però,
in considerazione di una imminente e severa nuova persecuzione, in un successivo sinodo
cartaginese fu deciso che tutti i lapsi che avevano fatto pubblica penitenza avrebbero dovuto essere
riammessi in piena comunione con la Chiesa. 55 Il vescovo Dionisio di Alessandria, papa Cornelio, i
vescovi italiani, Cipriano ed i vescovi africani, assunsero tutti lo stesso atteggiamento verso i lapsi.
Ma in Oriente, le posizioni rigide di Novaziano, inizialmente, trovarono terreno fertile. Gli sforzi
dei sostenitori di papa Cornelio riuscirono a portare la maggior parte dei vescovi orientali a
riconoscerlo quale legittimo pontefice romano. Tale riconoscimento, naturalmente, portò
all‘accettazione degli orientamenti sul caso del lapsi. Alcuni gruppi di cristiani in differenti parti
dell‘impero, tuttavia, accettarono le tesi di Novaziano dando vita a piccole comunità scismatiche.
Fu in questo contesto che il vescovo Cipriano dovette affrontare le questioni riguardanti la
penitenza. Mai egli negò la possibilità di una riammissione ed in questo confermò la dottrina della
grande Chiesa, la quale attestava che ogni peccato può essere rimesso. La sua prima preoccupazione
ed i suoi primi interventi furono tesi a garantire un congruo tempo di penitenza, a fronte di un
atteggiamento un po‘ troppo affrettato che tendeva ad una riammissione immediata.
Io provo compassione e dolore per questi nostri fratelli che vinti dalla persecuzione, sono
miseramente caduti (...) A loro la misericordia divina può concedere il perdono. Tuttavia
l’imposizione della mano in segno di penitenza, giungeranno presso il Signore con la pace che i martiri nelle lettere
che ci hanno inviato hanno chiesto per loro. CIPRIANO, Ep. 18, 1, 2
50
Chi subisce il martirio viene battezzato nel suo sangue; non occorre perciò che debba ricevere la pace dal suo
vescovo uno che sta per procurarsela la pace, attraverso la gloria, ed ottenere dalla grazia del Signore mercede più
grande. CIPRIANO, Ep. 57, 4, 1; è una citazione riportata da Cipriano nella lettera sinodale a Cornelio, che
probabilmente testimonia una posizione diversa della chiesa di Roma da quella di Cartagine.
51
Si tratta del caso di Felicissimo di cui Cipriano tratta nelle Epp. 41 e 43.
52
Cf. supra la nota 1.
53
Ne abbiamo testimonianza nelle Ep. 57 e Ep. 59 scritta da Cipriano a papa Cornelio.
54
Cf. CIPRIANO, Ep. 4,4; 49,1; 59,13; 17,2; 55,17; 57,2.
55
Cf. CIPRIANO, Ep. 57
ritengo che in ciò non si debba agire con troppa fretta (...) 56
Benché per peccati meno gravi di questo i peccatori facciano penitenza per tutto il giusto
tempo richiesto e, secondo la regola stabilita dalla disciplina, vengano all’exomologesi e
ricevano il diritto alla comunione mediante l’imposizione della mano del vescovo e del
clero, ora invece, fuori del tempo richiesto, vengono riammessi alla comunione (...) e senza
aver compiuto la penitenza né aver fatta l’exomologesi, senza che sia stata loro imposta la
mano dal vescovo e dal clero, vien data loro l’Eucaristia. 57
La dottrina sulla penitenza di Cipriano è sostanzialmente la medesima di Tertulliano nella
sua fase cattolica. Non si può negare però, che il vescovo di Cartagine approfondisca alcuni
elementi riguardanti soprattutto il legame tra il battesimo — che secondo Cipriano concede la
remissio peccatorum — e la penitenza seconda o ―secondo battesimo‖ — che subordina il perdono
ad un‘espiazione proporzionata ai peccati commessi (satisfactio) —. La riconciliazione sarebbe
vana se non avvenisse senza un‘effettiva penitenza. 58
La riconciliazione, infatti, non è soltanto un atto giuridico esterno di riammissione alla
Chiesa visibile, ma procura al peccatore il perdono divino, il pignus vitae aeternae. Questo è il vero
obiettivo del cammino penitenziale secondo il pensiero di Cipriano come evidenzia K. Rahner. 59
Il processo penitenziale è indicato anche da Cipriano con il termine exomologesi, 60 anche se
propriamente egli identifica con questa espressione quella parte di opere che il penitente compie
davanti alla comunità, accentuando il carattere liturgico di questa espressione appartenente alla
tradizione. Essa ha luogo immediatamente prima della riconciliazione. Non coincide con la
confessione della colpa, atto che è descritto da Cipriano con il termine confessio. 61 La
riconciliazione del penitente, avviene mediante l‘imposizione della mano da parte del vescovo e del
clero; 62 Cipriano è il primo ad attestare questa prassi liturgica in modo esplicito. 63
Riferendosi ancora alla troppa fretta nel domandare o concedere la riconciliazione o
all‘abuso che qualcuno intende fare delle raccomandazioni di martiri e confessori, Cipriano scrive:
È questa una nuova specie di persecuzione, una nuova tentazione, mediante cui il subdolo
avversario si avventa con occulta violenza ancora contro i rinnegati per abbatterli una
seconda volta, facendo sì che il loro lamento si interrompa, il loro dolore si ammutolisca, si
oscuri il ricordo del loro delitto, si soffochi il gemito nel loro petto, si dissecchino le lacrime
56
CIPRIANO, Ep. 17,1-3, cit. in LORÌA, p. 196.
CIPRIANO, Ep. 16,2 , cit. in LORÌA, p. 197.
58
Gli atti della paenitentia sono la prova reale, non solo per gli altri, ma anche per il peccatore stesso, della
paenitentia come disposizione interna. Persistendo la stessa situazione esistenziale, ci si può pentire realmente
dell’azione di cui ci si è resi colpevoli, solo compiendo atti contrari… ciò tanto più in quanto Cipriano sa che tale atto
peccaminoso per lo più deriva da atteggiamenti colpevoli che lo precedono ed in esso vengono alla luce, atteggiamenti,
che per se stessi non necessariamente sono superati con il semplice pentirsi di questa azione come tale. K. RAHNER, La
dottrina sulla penitenza di san Cipriano di Cartagine, in RAHNER, p. 597. Cf. CIPRIANO, Ep. 65,3; De lapsis, 21— 22.
59
Cipriano, nella sua teologia della remissione di questi peccati bada poco alla essenza del peccato come perdita della
grazia. Certo egli sa che il penitente riconciliato riceve di nuovo lo Spirito Santo (Ep. 57,4), ma per il resto non utilizza
chiaramente la teologia dell’essenza del peccato quale perdita della grazia per elaborare quella della remissione
ecclesiologica del peccato. In tal campo il peccato viene quasi esclusivamente considerato sotto un punto di vista
morale ed escatologico. Il peccatore per il suo peccato diventa nemico di Dio ed ha da attendersi un giudizio di
condanna. La remissione del peccato è considerata piuttosto una riconciliazione con Dio; l’importante è uscire assolti
da tale giudizio e di non soggiacere al castigo eterno. RAHNER, p. 576 s.
60
Cf. RAHNER, p. 533.
61
Cf. RAHNER, p. 534.
62
Cf. CIPRIANO, Ep. 15,1; 16,2; 17,2; 18,1; 19,2; 20,3; 71,2; De lapsis 16.
63
Questa imposizione era accompagnata da una preghiera il cui contenuto può essere solo quello che già ci da
Tertulliano: la preghiera della Chiesa per la remissione della colpa e il riconferimento dello Spirito Santo, che si era
perduto per il peccato e il cui riacquisto cancella la colpa. RAHNER, p. 537.
57
dai loro occhi, impedendo che il Signore, gravemente offeso venga da loro implorato con
lunga e completa ammenda (...) Si guardi ognuno dall’ingannare se stesso e gli altri: il
Signore soltanto può fare misericordia. 64
Continuando il percorso iniziato dalla tradizione precedente possiamo cogliere in Cipriano
alcuni tentativi di approfondimento teologico proprio a partire dalla prassi penitenziale che egli ci
tramanda. Come accennato poco sopra ritroviamo negli scritti del vescovo di Cartagine una
particolare insistenza sull‘elemento penitenziale della satisfactio e un‘ampia riflessione sul perdono
finale riservato al Giudice divino; tale sottolineatura, come abbiamo notato precedentemente nel
caso di Erma, coinvolge la visione escatologica nella quale il giudizio divino coincide con quello
finale. 65
Riguardo alla satisfactio e all‘importante ruolo che svolge nel processo penitenziale, gli
scritti di Cipriano presentano due testi di particolare interesse, che sembrano cogliere un tentativo di
approfondimento riguardo il rapporto esistente tra la remissione del peccato concesso da Dio e la
pace con la Chiesa ottenuta in virtù della satisfactio. Scrive Cipriano:
Se troviamo che non si deve impedire a nessuno di fare penitenza e che la misericordia del
Signore può essere concessa dal sacerdote a chi la chiede e supplica nella misura in cui
Egli è misericordioso, bisogna accogliere il gemito dei piangenti e non negare a chi si
affligge il frutto della penitenza. E poiché nell’inferno non esiste confessione, né laggiù è
possibile fare exomológesis, quelli che con tutto il cuore si siano pentiti e abbiano
supplicato, devono essere intanto (interim) accolti nella Chiesa e conservati in essa per il
Signore, che verrà alla sua Chiesa e giudicherà senza dubbio di tutti quelli che troverà in
essa. Ma gli apostati e i disertori, o gli avversari e i nemici e quelli che disgregano la
Chiesa di Cristo, neanche se fossero uccisi, fuori, per il nome, possono essere ammessi,
secondo l’apostolo, alla pace della Chiesa, quando della Chiesa non hanno saputo
mantenere né lo spirito né l’unità. 66
Solo il Signore può avere misericordia. Ai peccati che sono stati commessi contro di lui può
donare il perdono lui solo, che ha portato i nostri peccati, che per noi ha sofferto, che Dio
ha consegnato per i nostri peccati. L’uomo non può essere più grande di Dio, né può il
servo rimettere e condonare per propria indulgenza ciò che, con colpa gravissima, è stato
commesso contro il Signore (...) Il Signore bisogna pregare, il Signore bisogna placare con
la nostra soddisfazione, lui che ha detto che rinnegherà chi lo rinnega, lui che solo ha
ricevuto dal Padre tutto il potere di giudicare. Crediamo perciò che possano moltissimo
presso il giudice i meriti dei martiri e le opere dei giusti, ma quando verrà il giorno del
giudizio, quando dopo il tramonto di questo secolo e di questo mondo, davanti al tribunale
di Cristo starà in attesa il suo popolo. 67
Nell‘intenzione di Cipriano, le espressioni che precedono non vogliono in alcun modo
indurre incertezza riguardo alla corrispondenza tra comportamento penitenziale, ratificato dal
vescovo, e comportamento divino. Tuttavia, pur insistendo su questa corrispondenza, Cipriano non
sembra affatto ignorare la realtà di ciò che si produce nel peccatore per il fatto che egli compie la
penitenza ed entra nella pace con la Chiesa. Tale riconciliazione non deve essere vista — sulla
scorta delle affermazioni precedenti — come una specie di promessa che non muta la situazione
attuale del peccatore. Ciò sarebbe contro l‘ecclesiologia di Cipriano, per il quale la Chiesa è il
luogo dove si può ricevere lo Spirito Santo; ricevere la pace della Chiesa equivale a ricevere lo
64
CIPRIANO, De lapsis, 15—18, cit. in VOGEL, p. 78.
Cf. MOIOLI, p. 83.
66
CIPRIANO, Ep. 55,29; cit. in MOIOLI, p. 82.
67
CIPRIANO, De lapsis 17, cit. in MOIOLI, p. 83.
65
Spirito Santo ed essere esclusi dalla pace della Chiesa significa non avere la Spirito Santo. Il
rapporto tra Chiesa e salvezza è dunque immediato e senza sfumature in Cipriano.
Se qualcuno farà la pace con tutto il cuore (...) può aver misericordia di costoro Colui che
ha manifestato la sua misericordia (...) Egli può donare indulgenza, Egli può cambiare la
sua sentenza in favore di chi si pente e opera, può con clemenza perdonare chi supplica,
può accogliere e gradire qualunque cosa avranno chiesto per costoro i martiri o avranno
fatto i sacerdoti (...) Chi avrà così dato soddisfazione a Dio (...) farà in più lieta la Chiesa:
non meriterà infatti solo il perdono di Dio, ma anche la corona. 68
Probabilmente, possiamo supporre che anche Cipriano abbia ammesso una differenza tra remissio dei peccati — gratuitamente concessa nel battesimo — e venia — perdono concesso nella
penitenza ecclesiastica —: se la differenza sia solo descrittiva, dovuta cioè alla laboriosità della
satisfactio o anche più profonda, quanto agli effetti, non è così facile dire. Basandosi sulle
affermazioni precedenti è dato di pensare che, secondo Cipriano, l‘effetto della penitenza postbattesimale è certamente il concedere lo Spirito Santo, ma essa impegna ancora all‘ottenimento
pieno di un perdono escatologico. Dobbiamo però ricordare che, nel contesto dell‘intero processo
penitenziale esiste un riferimento che ci aiuta molto in queste considerazioni: la possibilità di
partecipare all‘eucaristia. Sia l‘esclusione che la riconciliazione con la Chiesa si rapportano
connaturalmente con essa. Per Cipriano l‘incompatibilità tra eucaristia e peccati gravi — anche
occulti — è assoluta: nessun peccatore può accedervi senza una sufficiente penitenza, sanzionata
dalla riconciliazione. Viceversa l‘essere ammessi alla pace con la Chiesa per avere lo Spirito Santo,
coincide con l‘essere ammessi all‘eucaristia. Le due prospettive di coincidenza e di distinzione
sembrano dunque coesistere in Cipriano. 69
La responsabilità della Chiesa e del vescovo, per la sua parte, non può coinvolgere il
giudizio divino che rimane libero e sovrano, ma è teso a far sì che la penitenza post-battesimale sia
vera, o — come afferma Cipriano — plena, una penitenza in cui i fatti dimostrino concretamente la
satisfactio.
1.4 La penitenza canonica dal IV al VI secolo: accenni agli sviluppi successivi
La fine delle persecuzioni e la pace della Chiesa, segna un momento decisivo
nell‘evoluzione della maggior parte delle istituzioni ecclesiastiche, ma non porta modifiche
essenziali nell‘organizzazione della penitenza. E ciò è tanto più sorprendente se si pensa al grande
afflusso di nuovi battezzati verso la Chiesa. Si potrebbe pensare che ad un maggior numero di
credenti — e di conseguenza ad un maggior numero di peccatori — potesse corrispondere
un‘attenuazione del rigore penitenziale dei primi secoli. Invece ciò non avviene: la Chiesa richiede
la conversione interna e pone la necessità di ricorrere alla penitenza ecclesiastica, con un‘espiazione
dura e lunga come condizione per la riconciliazione e la remissione dei peccati gravi. Il
procedimento penitenziale che conduce al perdono rimane dunque di una severità estrema e non si
può ripetere. 70
1.4.1 Oggetto della penitenza canonica: le liste dei peccati
Soltanto i peccati gravi, senza eccezioni, devono essere sottoposti alla penitenza canonica,
mentre per gli altri più leggeri e non gravi è sufficiente la pratica delle buone opere. La distinzione
denota un‘attenzione ad indirizzare ognuno sul percorso più adatto alla riconciliazione. Il criterio
era il seguente: i peccati cosiddetti leggeri, inerenti alla natura umana, sono comuni a tutti e la loro
remissione è assicurata con la preghiera, il digiuno, l‘elemosina e le opere buone.
68
CIPRIANO, De lapsis, 36, cit. in MOIOLI, p. 84.
Cf. MOIOLI, pp. 84-85.
70
Cf. VOGEL, p. 26.
69
Per quanto possiamo lavoriamo con l’aiuto di Dio affinché possiamo evitare peccati gravi
e redimere quelli leggeri, senza i quali non possiamo vivere, mediante l’amore verso i
nemici e la larghezza nelle elemosine. 71
Lo stesso Cesario d‘Arles viene in aiuto alla sua comunità indicando, nello stesso sermone,
quali siano i peccati gravi da evitare: sacrilegio, omicidio, adulterio, falsa testimonianza, furto,
rapina, superbia, invidia, avarizia, ira (se protratta a lungo), ubriachezza abituale e detrazione. 72
Anche sant‘Agostino nella sua predicazione morale aiuta la sua comunità a stare in guardia
dai peccati mortali:
I cristiani devono mantenersi puri ed integri dai furti, dalle rapine, dalle frodi, dagli
adultéri, dalle fornicazioni, e da ogni lussuria, dagli odi e dalle inimicizie tenaci, dalle
eresie e dagli scismi e da tutti i delitti di questo genere. 73
Volendo proporre una sintesi, possiamo dedurre il seguente elenco di peccati gravi. Esistono
in primo luogo peccati contro il decalogo: sacrilegio, apostasia, pratiche superstiziose, omicidio,
adulterio, concubinaggio, fornicazione, uso del matrimonio nei tempi proibiti (quaresima e vigilia
delle feste), spettacoli lascivi e cruenti, balli licenziosi, furto, falsa testimonianza, spergiuro,
calunnia, aborto. Una seconda categoria riguarda i peccati che rientrano nei vizi capitali: avarizia,
odio, invidia, collera, superbia, ubriachezza abituale. Infine si considerano peccati di vario genere
quali i delitti passibili di pena capitale nel diritto civile o i peccati veniali accumulati in gran
numero. 74
Può essere interessante confrontare gli elenchi proposti per quelle che erano da considerare
come colpe leggere; prendiamo, solo come esempio rappresentativo, un elenco tratto dal sermone di
Cesario d‘Arles già citato. I peccati veniali contro Dio sono: le distrazioni nella preghiera, il ritardo
e la negligenza nel partecipare agli uffici divini, le mancanze al digiuno, i giuramenti sconsiderati, i
voti fatti con leggerezza; i peccati veniali contro il prossimo: la maldicenza, la calunnia, il giudizio
temerario, la durezza verso i genitori, la cattiva accoglienza dei mendicanti, la negligenza nel
visitare i prigionieri e i malati, le mancanze ai doveri dell‘ospitalità, il rifiuto di lavare i piedi agli
ospiti; e poi odio, collera, invidia, negligenza nel ristabilire la concordia, bassa educazione. Infine, i
peccati veniali contro se stessi sono: golosità, pigrizia spirituale, pensieri impuri, sguardi indecenti,
compiacenza nei discorsi osceni, propositi osceni, uso del matrimonio senza l‘intenzione di
procreare, parole oziose, conversazioni inutili in chiesa e fuori. 75
È evidente che i metri di valutazione proposti per la distinzione possono lasciare perplesso il
lettore contemporaneo; in realtà si tratta di elenchi indicativi. Ricordiamo quanto già detto in
precedenza sulla funzione di questi elenchi: essi non volevano essere normativi, ma
rappresentavano un sussidio per individuare quale fosse la penitenza migliore da assegnare a colui
che si rivolgeva al vescovo, o al suo delegato, per ricevere indicazioni circa il suo percorso
penitenziale. Al peccato grave corrispondeva la penitenza canonica, al peccato considerato lieve, la
mortificazione attraverso l‘esercizio delle buone opere. Per la loro finalità pastorale, tali elenchi
sono molto condizionati dalle circostanze e dalle vicende che una singola Chiesa locale si trova a
vivere; per questo motivo non è difficile trovare elenchi diversi, con accentuazioni diverse in realtà
territoriali diverse.
71
CESARIO D‘ARLES, Sermone CIV, cit. in LORÌA., p. 200. Cf. anche AGOSTINO, Serm. 351,3,5; IDEM, La natura e la
grazia, 38, 45
72
Idem. p. 201.
73
AGOSTINO, Serm. 351, cit. in Ibidem.
74
Cf. LORÌA, p. 202.
75
Ibidem.
1.4.2 L’ Ordo poenitentium e lo svolgersi della procedura penitenziale in Occidente.
A partire dal IV secolo, le testimonianze sullo svolgimento del processo penitenziale
divengono più sicure e più diffuse, confermando quanto già abbiamo ritrovato in Tertulliano e
Cipriano. Esso si svolge fondamentalmente in tre tempi: a) l‘ingresso nella penitenza, b)
l‘espiazione nell‘ordine dei penitenti (sotto la sorveglianza della Chiesa), c) la riconciliazione per
mezzo del vescovo. Nel caso della penitenza conferita sul letto di morte — caso che diverrà molto
diffuso —, la riconciliazione segue immediatamente l‘imposizione della penitenza, ma se
l‘ammalato ricupera la salute, è tenuto a compiere il tempo di espiazione tra i penitenti. Permane la
norma antica della non reiterabilità della penitenza. 76
Analizziamo ora questi singoli passaggi.
a) L’ingresso nella penitenza: l‘ordine dei penitenti è, in linea di principio, accessibile a
tutti. L‘ingresso è un atto pubblico che si svolge alla presenza dei fedeli riuniti, anche quando si
tratta di colpe occulte. Il vescovo non deve, in tal caso, fare allusione ad un delitto da lui
conosciuto; l‘atto pubblico non implica necessariamente una pubblica confessione delle colpe; il
peccatore che si presenta di fronte al vescovo e alla comunità dichiara in modo inequivocabile, con
il suo stesso gesto che è gravemente colpevole. 77 A questo proposito è degna di interesse la
citazione che si ritrova in tutti gli autori circa la Lettera 168 di san Leone Magno ai vescovi della
Campania, nella quale condanna la confessione pubblica: egli afferma che in nessun modo i
penitenti sono tenuti a questa pratica e che è sufficiente la confessione fatta al vescovo per mezzo
della quale si viene introdotti nella penitenza canonica.
Riguardo alla penitenza che i fedeli domandano, non si legga pubblicamente la lista
dettagliata di tutti i loro peccati, poiché è sufficiente che essi indichino ai soli vescovi, con
una confessione segreta, lo stato della loro coscienza. 78
Rilevante è pure la dimensione comunitaria che caratterizza questo ingresso nella penitenza:
l‘apparato pubblico da cui è circondata la procedura penitenziale in tutte le sue fasi, non ha come
obiettivo l‘umiliazione del peccatore, ma costituisce un appello solenne alla preghiera di
intercessione dei fedeli.
L‘ingresso in penitenza prevede anche dei riti e dei gesti che vengono sommariamente
descritti;
I penitenti, nel momento in cui chiedono la penitenza, ricevevano dal vescovo, secondo la
regola stabilita dappertutto, l’imposizione della mano e il cilicio sul capo. Se però non si
radessero le chiome e non mutassero d’abito, siano scacciati e, finché non siano
adeguatamente pentiti, non vengano accettati. 79
Particolare rilievo sembra avere il gesto dell‘imposizione del cilicio sul quale Cesario
azzarda una spiegazione allegorica:
Poiché il cilicio è tessuto di peli di capra e le capre simboleggiano i peccatori, colui che
riceve la penitenza confessa pubblicamente di non essere un agnello, ma un capro, gridando
e dicendo con il suo stesso aspetto: guardatemi, o voi tutti, ed effondete lacrime di pietà per
76
Cf. VOGEL, p. 33
Cf. RAMOS-REGIDOR, p. 156.
78
LEONE MAGNO, Ep. 168, cit. in LORÌA, p.190.
79
Concilio di Agde (506), Can. 15: Poenitentes tempore, quo poenitentiam petunt, impositionem manuum, et cilicium
super caput a sacerdote (sicut ubique costitutum est) consequantur. Si autem comas non deposuerint, aut vestimenta
non mutaverint, abjiciantur. Juvenibus etiam poenitentia non facile committenda est propter aetatis fragilitatem.
Viaticum tamen omnibus in morte positis, non est negandum. CCL 148, p. 201. Cf. LORÌA, p. 204.
77
me; e quale appaio al di fuori tale riconoscetemi anche internamente. 80
Alla fine del rito il penitente viene dimesso e, per tutto il tempo della penitenza dovrà stare
insieme agli altri penitenti in un luogo particolare della chiesa ad essi riservato. Essi costituiscono
un gruppo e un ordine speciale, analogo in pratica ai catecumeni, eccetto il carattere infamante
inerente alla penitenza; assistono alla celebrazione dell‘eucaristia, ma è loro proibito accedere
all‘offerta e alla comunione: a questo si riduce la scomunica che viene loro comminata. 81
b) Il periodo dell’espiazione nell’ordine dei penitenti: alcuni concili 82 avevano tentato di
dare indicazioni di massima sui tempi della espiazione, anche se tutti riconoscono che l‘unico
giudice è il vescovo, il quale, avendo ricevuto la confessione, conosce le condizioni e le necessità
‗terapeutiche‘ del penitente. Quest‘ultimo, durante tutto il tempo della penitenza era soggetto ad
alcuni obblighi 83 che possono essere divisi in a‘) obblighi generali, b‘) rituali e c‘) penitenziali.
a‘) Alla prima categoria appartengono gli obblighi di mortificazione personale consistenti
soprattutto nel digiuno, 84 nella elemosina, nel dare prove concrete della propria conversione
interiore.
b‘) Gli obblighi rituali si riferiscono ad alcuni riti che coinvolgevano i penitenti, soprattutto
durante il tempo quaresimale, o ad alcuni atteggiamenti che erano loro propri, come pregare in
ginocchio nei giorni di festa; tra gli obblighi rituali si colloca l‘obbligo dei servizi funerari legati al
trasporto delle salme dei defunti in chiesa e dalla chiesa alla sepoltura.
c‘) Gli obblighi penitenziali erano quelli più dettagliati; spesso avevano conseguenze sul
piano sociale e civile traducendosi in veri e propri interdetti; proprio questo genere di obblighi
risulteranno di impedimento per molti circa l‘accesso alla penitenza, anche perché, a tali obblighi, si
rimaneva vincolati anche una volta ricevuta al riconciliazione.
Al penitente era proibito sia durante che dopo la penitenza, di prestare servizio militare, 85 di
esercitare cariche pubbliche e attività commerciali, di adire ai tribunali civili, di ricevere gli ordini
sacri 86 ed infine di avere rapporti coniugali se sposato, o di contrarre matrimonio se celibe o
vedovo. Non era infrequente che, dopo essere stati riconciliati essi ricadessero nel peccato o
riprendessero i loro normali rapporti coniugali. Nell‘uno e nell‘altro caso, poiché la penitenza non
era reiterabile, incorrevano nella scomunica perpetua. 87
Dopo essere stato solennemente introdotto nello stato di penitente, il peccatore doveva
iniziare una vita nuova: vita di espiazione prima della riconciliazione, vita di santità nell‘innocenza
ricuperata dopo il giorno del perdono. In pratica data la permanenza degli interdetti penitenziali, il
fedele, ancorché riconciliato, continua ad appartenere alla classe dei penitenti fino alla morte. La
riconciliazione gli ha procurato la remissione dei peccati, ma non ha soppresso gli interdetti. 88 A
causa di queste forti limitazioni, in questo periodo si manifesta un doppio movimento. Da parte dei
fedeli c‘è un allontanamento dalla possibilità offerta di accedere alla penitenza perché considerata
eccessivamente onerosa; in risposta a questo atteggiamento troveremo molti inviti da parte dei
vescovi a non tralasciare la penitenza. D‘altra parte saranno gli stessi vescovi, presi singolarmente o
80
CESARIO D‘ARLES, Sermone CCLXI, cit. in LORÌA, p. 204; Cf. VOGEL, p. 34.
Cf. VOGEL, p. 34s; LORÌA, p. 204.
82
Cf. Concilio di Elvira (306/313), Cf. CARRANZA B., Summa conciliorum, Tom. I, ab anno Christi XXXIII usque ad
annum DXCIX, Augustae Vindelicorum 1778, p. 117; Concilio di Arles (314) Cf. CCL 148, p.13.
83
Cf. VOGEL, pp. 36-37; Cf. LORÌA, pp. 205-211.
84
Cf. CESARIO DI ARLES, Serm. CCLXI, cit. In Loria, p. 205
85
Cf. Concilio di Orléans (538), can. 25, CCL 148A, p. 124.
86
PAPA SIRICIO, Ep. a Imerio di Tarragona, c. 14, PL 54,1206.
87
Cf. LORIA, pp. 206-207. In questo testo l‘autore fa riferimento a varie indicazioni decise in sede di concili: Concilio
d’Angérs (453), can. 5, CCL 148, p. 138; Concilio di Vannes (465) can. 3, CCL 148, p. 152; Concilio di Tours (460),
can. 8, CCL 148, p. 146.
88
Cf. VOGEL, p. 37.
81
riuniti in concili, a fissare delle condizioni più esigenti per l‘accesso alla penitenza stessa: da essa
vennero esclusi — per esempio — i troppo giovani e i coniugati che non avessero il consenso del
coniuge. 89
In questo periodo, maturò progressivamente una crisi dell‘istituto penitenziale consegnato
dalla tradizione della Chiesa del III-IV secolo, ma i vescovi ne‘ singolarmente ne‘ nelle riunioni
sinodali pensarono di attenuarlo o alleggerirlo in alcun modo.
c) La riconciliazione: Alla fine del periodo penitenziale, il peccatore è riconciliato per
mezzo dell‘imposizione delle mani da parte del vescovo, cui segue la ‗preghiera sacerdotale‘. Il rito
della riconciliazione si svolge per tutti i penitenti in modo solenne, alla presenza della comunità
riunita in chiesa. La riconciliazione è riservata al vescovo: tutti i testi sono concordi su questo
punto. 90 A partire dal quinto secolo, in tutto l‘Occidente, la cerimonia della riconciliazione
avveniva il Giovedì santo, al termine del periodo quaresimale. 91
La situazione ecclesiale che viene a creare con il passare del tempo, riguardo la penitenza
canonica, sarà sempre più difficile. Essa si trasformerà gradualmente nel sacramento dei moribondi
o dei vecchi. 92 Saranno gli stessi vescovi a mettere in guardia dall‘introdurre troppo facilmente
nella penitenza, soprattutto i più giovani. 93 La norma che prevedeva che, qualora un moribondo
avendo ricevuto la riconciliazione in extremis ritornasse in salute fosse tenuto poi a sottostare alla
penitenza — pena la scomunica perpetua —, 94 rendeva riottosi anche negli ultimi minuti ad
accedere a questa possibilità. 95
Non poche sono le contraddizioni che si vengono a creare tra predicazione dei pastori e
prassi pastorale, tra esigenze richieste per la partecipazione all‘eucaristia e l‘accesso concesso anche
senza aver ricevuto la riconciliazione. La maggior parte dei cristiani caduti in situazione di peccato
grave non potevano ottenere la riconciliazione, perché non potevano entrare in penitenza. La
penitenza si riduce dunque ad un‘esortazione rivolta ai fedeli di condurre una vita mortificata e
piena di buone opere, come preparazione ad una riconciliazione che, forse, avverrà in punto di
morte. È molto probabile che tali fedeli, avendo accolto l‘esortazione al pentimento dei loro pastori,
venissero ammessi alla mensa eucaristica senza la riconciliazione. 96
1.5 Linee conclusive
Abbiamo percorso brevemente un itinerario che coinvolge i primi sei secoli della vita della
Chiesa occidentale, caratterizzata dalla prassi detta della penitenza canonica. Abbiamo rilevato
come nella tradizione della grande Chiesa, non sia mai stata messa in dubbio la possibilità di
perdonare tutti i peccati, anche i più gravi. Le correnti rigoriste come il montanismo e
successivamente i novaziani, pur avendo trovato sostenitori anche celebri, non riuscirono ad
abbattere questa dottrina che si tradusse nella prassi della penitenza canonica. Circa le modalità di
tale istituto penitenziale, la storia dei primi secoli ha visto una progressiva precisazione
nell‘organizzazione, anche se, fin dalle prime testimonianze, ritroviamo la struttura fondamentale
89
Cf. supra nota 81.
Cf. VOGEL, p. 39; RAMOS-REGIDOR, p. 159. Questa idea sarà molto sviluppata nei testi di Ambrogio: Paen. I, 7; II,
12; Exp. ps. CXVIII, X, 17; Exp. Luc., V, 13.
91
Cf. VOGEL, p. 39. Cf anche infra nota 195.
92
Ibidem.
93
Cf. supra, nota 83.
94
Cf. Concilio di Orange (441), can. 3, CCL 148, pp. 78s ; Concilio di Orléans (538), can. 24, CCL 148A, p. 124;
AVITO DI VIENNE, Ep. 15, Lettera a Victurus , MIGNE PL LIX, coll. 233-234.
95
Vi sono di coloro che spinti dalla gravità del male chiedono che venga loro data la penitenza, e poi, quando il
sacerdote arriva per dare loro ciò che chiedevano, se il male è leggermente diminuito rifiutano, e non vogliono ricevere
ciò che vien loro offerto. LEONE MAGNO, Lettera a Rustico di Barbona, c. 9, cit. in LORÌA, p. 211; Cf. LEONE MAGNO,
Lettera a Teodoro di Fréjus, cap. 3, cit. da VOGEL, p. 42; CESARIO DI ARLES, Serm. 56, 60 e 65. cit. da VOGEL, p. 44.
96
Cf. VOGEL, pp. 46-47.
90
che sarà conservata senza alcuna attenuazione fino al termine del secolo VI: essa di fatto consisteva
nel richiedere al penitente che si fosse reso colpevole di peccati gravi, di sottoporsi ad un cammino
di espiazione mediante il quale, con l‘aiuto e l‘intercessione della comunità ecclesiale, doveva
manifestare il suo pentimento e il suo proposito di conversione.
Qualche parola può essere dedicata per riassumere alcune considerazioni e spunti di
interpretazione teologica che aiutino a comprendere il significato attribuito dalla comunità
ecclesiale ad una prassi penitenziale ormai solidamente radicata. 97
Una prima considerazione riguarda la stretta connessione esistente tra la prassi penitenziale
e la concezione della Chiesa che viene progressivamente sviluppandosi in questa fase della storia. Il
problema della remissione dei peccati e il dibattito che caratterizza tale possibilità non è separabile
dal problema del peccato dei cristiani e quindi dalla riflessione sulla natura della Chiesa santa. La
questione vera e il dibattito senza esclusione di colpi che si scatena con i vari esponenti delle
correnti più o meno rigoriste che in quest‘epoca fioriscono, riguarda la remissibilità del peccato nei
battezzati e sfocia inevitabilmente nell‘ecclesiologia. Accettare la penitenza cristiana significa
accettare il fatto che la Chiesa terrena comprende anche i peccatori, e che la ‗giustizia‘ battesimale
non implica l‘impeccabilità. Tutto questo rimanda ad una prassi in cui si suppone che il peccatore
cristiano debba essere riammesso alla Chiesa, in rapporto alla quale è chiamato a definire la propria
posizione. Viceversa nella Chiesa ci si ridomanda se essa abbia o meno il dovere di farsi carico dei
battezzati peccatori e della loro salvezza, concepita anche questa in termini fortemente
ecclesiologici: la pax Ecclesiae. A partire dalla risposta affermativa data dalla grande tradizione
ecclesiale a questa questione fondamentale, si giunge a proporre un‘immagine della Chiesa che non
considera necessariamente escluso il battezzato peccatore, ma lo invita ad un percorso di
riconciliazione molto laborioso. Tale riflessione sulla Chiesa deve necessariamente essere connessa
anche con le vicende storiche che in questo periodo la coinvolgono, le quali, inevitabilmente,
concorrono a caratterizzare e condizionare lo sviluppo della prassi penitenziale, come quello della
dottrina sulla Chiesa (si vedano per esempio le persecuzioni e le conseguenze delle stesse).
Una seconda considerazione può essere opportuna riguardo ad una concezione storica che fa
prevalere l‘idea dello sviluppo della prassi e della dottrina penitenziale secondo una prospettiva di
evoluzione che parte da un rigorismo fondamentale il quale viene progressivamente sostituito
dall‘affermarsi dell‘istituto penitenziale. In realtà occorre ricordare che il problema del cristiano
peccatore e della sua riammissione coinvolge la Chiesa sin dall‘epoca apostolica — come
testimoniano quasi tutti gli scritti del Nuovo Testamento —, e che la documentazione antica ci
mostra una varietà di soluzioni pastorali proposte e attuate.
Ci sembra inoltre importante sottolineare:
a) la dimensione comunitaria di tutto il procedimento: è senza dubbio una caratteristica forte
di questo periodo; la comunità è coinvolta nell‘individuazione dei colpevoli,
nell‘accompagnamento, nell‘intercessione e, a modo suo proprio, nell‘assoluzione e remissione dei
peccati; si pensi al ruolo particolare dei confessori, all‘interno dell‘organismo della comunità.
b) la funzione del vescovo, compreso all‘interno di tutta la comunità, ma con un ruolo molto
ben definito: egli è consapevole di essere il vero responsabile della pace da concedere o da rifiutare
al peccatore; tale consapevolezza è significativamente sviluppata nella teologia dell‘episcopato di
questo periodo.
c) Molto chiara è la coincidenza pratica tra la pace con la Chiesa e la partecipazione
all‘eucaristia; se il peccato, ritenuto incompatibile con la santità del battesimo e l‘appartenenza alla
comunità cristiana, esclude dalla partecipazione alla sinassi eucaristica, altrettanto
significativamente il processo penitenziale può essere interpretato come un lento e progressivo
97
Cf MOIOLI, pp. 118-124; Cf. RAMOS-REGIDOR, pp. 159-171.
riavvicinamento ad essa.
Anche se, come si è detto, esiste uno strettissimo rapporto tra la posizione del peccatore e la
Chiesa (dall‘esclusione alla riammissione), non bisogna dimenticare che, secondo la dottrina
penitenziale condivisa in questo periodo, il vero perdono può essere concesso solo da Dio. Il livello
ecclesiologico e quello teologico o pneumatologico della pace ottenuta dal peccatore si implicano
per principio. Nella riconciliazione — in qualche modo — si rinnova la purificazione battesimale
— anche se è mantenuta la distinzione terminologica sostenuta dagli scrittori di lingua greca tra
afesis e metànoia — qualificandosi come cammino di purificazione particolarmente laboriosa.
Infine occorre mettere in evidenza che tutto il processo penitenziale che prende avvio con la
confessione del peccato, ha un carattere liturgico in quanto fortemente ancorato al momento della
preghiera comunitaria e alla celebrazione dell‘eucaristia. La riconciliazione ha una sua
caratterizzazione rituale nel gesto dell‘imposizione della mano del vescovo, accompagnata dalla
preghiera comunitaria.
In questo contesto storico, si collocò la vicenda di Ambrogio di Milano che — tra il 386 e il
390 — decise di scrivere il trattato De paenitentia.
Capitolo 2
Il De paenitentia di Ambrogio
e la prassi penitenziale a Milano nel IV secolo
In questo secondo capitolo intendiamo presentare dettagliatamente la riflessione teologica di
Ambrogio di Milano sul tema della penitenza. Cominceremo con la ricostruzione sintetica della
crisi novaziana inerente la possibilità di riammettere i lapsi nella comunione ecclesiale (2.1), quindi,
analizzeremo dettagliatamente il trattato Paen di Ambrogio cercando di presentare in modo
sistematico la sua dottrina sulla penitenza (2.2); con l‘aiuto di altri testi di Ambrogio cercheremo di
verificare se la Chiesa di Milano del IV secolo proponeva alcune attenzioni particolari riguardo
all‘istituto penitenziale comune a tutte le chiese (2.3) ed infine tenteremo di raccogliere il dossier
scritturistico utilizzato da Ambrogio nella sua esposizione sulla Penitenza (2.4), quasi per ricostruire
i suoi punti di riferimento fondamentali riguardo questo tema.
2.1 La disputa con i novaziani sulla riammissione dei lapsi
Se Cipriano, vescovo di Cartagine, dovette confrontarsi con i montanisti sulle differenti
opinioni riguardanti la possibilità di concedere il perdono a coloro che si erano macchiati di peccati
gravi, specialmente i lapsi, nondimeno Ambrogio, vescovo di Milano, dovette confrontarsi con i
novaziani, corrente rigorista sorta a metà del terzo secolo ad opera di Novaziano, presbitero
eminente della Chiesa di Roma.
Della storia personale di Novaziano 98 possediamo poche notizie: negli ultimi anni del
pontificato di papa Fabiano e soprattutto dopo il martirio di quest‘ultimo — avvenuto all‘inizio
della persecuzione di Decio —, il ruolo di Novaziano della Chiesa di Roma fu molto importante,
soprattutto in virtù della sua ampia preparazione culturale che superava ampiamente la media degli
altri membri del clero; quale membro del presbyterium che guidava la comunità romana in attesa
dell‘elezione del nuovo papa, Novaziano si trovò spesso a svolgere il ruolo di portavoce di questa
Chiesa, anche — come ci testimonia Cipriano — 99 nella questione riguardante i lapsi. 100 Si
98
Cf. VOGT, coll. 3556-3560; Cf. AMANN, col. 816; Cf. Novatiani opera, a cura di G.F. DIERCKS, CCL 4, Turnhout
1972, pp. VIII-XII.
99
Cf. CIPRIANO, Epp. 30 e 34, cit. in AMANN, col. 816.
sostiene che Novaziano aspirasse ad essere eletto quale successore di Fabiano; di fatto, dopo
l‘elezione di Cornelio, 101 egli assunse una posizione d‘opposizione alla linea del papa — giudicato
pericolosamente lassista — e presto riunì intorno a sé un gruppo di sostenitori con i quali costituì la
sua chiesa scismatica. Una tradizione, sostenuta dallo scrittore Socrate, lo vuole martire della fede
nel 258 durante la persecuzione di Valeriano. 102
In realtà dalle opere di Novaziano che ci sono rimaste, 103 noi non abbiamo alcun accenno
diretto alla sua dottrina penitenziale rigorista, ma la conosciamo solo di rimando per le citazioni e i
riferimenti che vengono proposti in varie opere di autori — tra i quali anche Ambrogio — che
polemizzano con lui. Una ricostruzione sistematica della sua dottrina si può ricavare dal Contra
Novatianum attribuito allo Pseudo-Agostino. 104 È possibile affermare che il nocciolo della crisi
novaziana rappresenti sostanzialmente una protesta rigorista contro la facilità con la quale,
all‘indomani della persecuzione di Decio, le autorità delle grandi chiese, hanno ammesso alla
riconciliazione ecclesiale, coloro che avevano peccato. 105
La situazione storica ci è nota; ne abbiamo già trattato soprattutto in riferimento alla vicenda
ecclesiale di Cipriano di Cartagine. Si può aggiungere che, mentre durante la persecuzione le
posizioni presenti nelle varie comunità ecclesiali erano diverse e la preoccupazione era soprattutto
di non affrettare indebitamente la riammissione dei lapsi, con il sinodo di Roma del 251, le varie
chiese assunsero di comune accordo la linea della riconciliazione attraverso la penitenza canonica:
per il libellatici, senza ulteriori restrizioni, per i sacrificati solamente in punto di morte.
La dottrina penitenziale di Novaziano si potrebbe dunque riassumere in questi pochi punti:
- ammissione alla penitenza per tutti i peccatori, anche senza la speranza di riconciliazione; 106
- riconciliazione in tempi adeguati per coloro che si macchiavano di peccati carnali;
- rifiuto fino alla morte del perdono ecclesiale agli apostati di ogni categoria, compresi i libellatici;
- rottura della comunione con coloro che hanno accettato la reintegrazione dei lapsi nella loro
comunità, anche in questo caso senza distinzioni.
In realtà, quelle così descritte, non sono altro che delle conseguenze di un‘impostazione
ecclesiologica che definisce la Chiesa l‘assemblea dei santi e la comunità dei puri: in nessun modo
essa può essere contaminata da coloro che hanno rinnegato la loro fede. La conseguenza non può
100
Cf. GRYSON, p. 16.
Cf. GRYSON, p. 17
102
G. DEL COL, I papi del complesso callistano e alcuni padri e scrittori contemporanei,
http://www.catacombe.roma.it/it/ricerche/ricerca3.html .
103
Secondo la maggior parte degli storici, seguendo le indicazioni date da san Girolamo, le uniche due opere che si
possono attribuire con una certa sicurezza a Novaziano sono il De Trinitate e il De cibis Judaicis. Cf. AMANN, col. 821.
In realtà altri studiosi come Diercks, curatore del volume del CCL sull‘opera di Novaziano, sostiene che, da un‘attenta
analisi letteraria, a lui possono essere attribuiti anche il De bono pudicitiae e il De spectuaculis oltre ad almeno due
lettere dell‘epistolario di Cipriano, Epp. 30 e 36. Certo rimane che la tradizione non ci ha trasmesso alcuna opera di
Novaziano, ma quello che conosciamo di lui lo recepiamo sempre dalle citazioni riportate da altri autori. Cf. G.F.
DIERCKS, in CCL 4, p. V.
104
Cf. AMANN, col. 841.
105
Cf. AMANN, col. 832.
106
Circa la speranza di riconciliazione non è facile definire la posizione precisa di Novaziano. La difficoltà
nell‘assumere una posizione univoca è data dal fatto che non possediamo testi originali di Novaziano, ma le sue tesi
sono per lo più riportate da coloro che lo contestano. Circa l‘efficacia che egli attribuisce alla penitenza la posizione di
Novaziano viene intesa in modo differente anche dai commentatori. Ne citiamo solamente due che abbiamo
ampiamente utilizzato nel seguente lavoro. È un errore dei controversisti cattolici posteriori sostenere che Novaziano
abbia rigettato l’istituto penitenziale e che abbia considerato senza alcuna efficacia la Penitenza. AMANN, col. 840. Di
parere diverso è GRYSON che citando VOGT afferma: Novaziano è persuaso che essi non possano sperare alcun
perdono da Dio e, di conseguenza, che Egli li abbandoni alla loro triste sorte. È inutile per essi fare penitenza: essi
sono definitivamente condannati, qualsiasi cosa facciano. GRYSON, p. 20. Senza dubbio Ambrogio gli attribuisce questa
seconda posizione.
101
essere che l‘espulsione di questi ultimi; la loro sorte potrà essere decisa solamente da Dio, perché è
contro di lui che essi hanno peccato. L‘unica speranza dei peccatori è quella di commuovere Dio
con la loro mortificazione e la loro penitenza. In nessun modo la Chiesa può presumere di
concedere o certificare un perdono e una riconciliazione che spettano solamente alla giustizia
divina. Il testo biblico che viene citato a sostegno di queste tesi è Mt 10,33: ―chi (…) mi rinnegherà
davanti agli uomini, anch‘io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.‖ Sarà proprio
attraverso il confronto sull‘interpretazione di questo e di numerosi passi della Scrittura, 107 che gli
autori cattolici, tra i quali Ambrogio, tenteranno di confutare il rigorismo novaziano e di istruire
sulla dottrina della misericordia divina.
2.2 Gli aspetti principali della dottrina di Ambrogio nel De paenitentia
Chi si accingesse alla lettura del De paenitentiae con la convinzione di trovarsi di fronte ad
un‘esposizione chiara e completa dell‘argomento, rimarrebbe piuttosto deluso. Scopo dell‘autore
non è quello di ammaestrare o catechizzare uditori o lettori profani, ma quello di confutare e
contestare gli errori degli eretici e di commuovere e convertire i destinatari dei suoi scritti. 108
L‘opera di Ambrogio si divide in due libri e questa divisione risulta originaria perché lo
stesso vescovo di Milano li cita in un altro scritto. 109 La distribuzione dell‘esposizione non è ben
schematizzata e spesso l‘autore si lascia prendere dalla vis polemica controbattendo le affermazioni
dei suoi avversari. L‘opera dunque consiste fondamentalmente in una confutazione delle
interpretazioni arbitrarie dei testi scritturali cui ricorrevano i novaziani per sostenere le loro tesi
rigoriste. In entrambi i libri, ampi tratti sono dedicati a criticare gli abusi in materia penitenziale e,
specialmente nel secondo libro, ad illustrare l‘esercizio di una vera e fruttuosa penitenza. 110
Il titolo dell‘opera ci è attestato dallo stesso Ambrogio e l‘autenticità è confermata da
Agostino che la cita ben due volte. 111 Per quanto concerne le fonti che Ambrogio può aver
utilizzato per lo sviluppo del suo trattato, possiamo indicare con altri commentatori le Epistole 52 e
55 di San Cipriano, il De paenitentia di Tertulliano, alcuni passi di Origene e, forse, Paciano di
Barcellona. Tra queste, particolarmente significativa l‘Epistola 55 di Cipriano.
I riferimenti cronologici disponibili per datare quest‘opera sembrano molto più concreti
rispetto ad altre opere di Ambrogio. Il Paen è senz‘altro anteriore alla penitenza assegnata da
Ambrogio all‘imperatore Teodosio, assolto il 25 dicembre del 390, di cui non si fa cenno. Faller
propone il 389 o l‘inizio del 390; Gryson il periodo tra il 387 e il 390. Con buona probabilità si
potrebbe pensare all‘inizio del 390. 112
Il metodo seguito da Ambrogio in questo trattato è quello polemico. Il vescovo di Milano
riporta le affermazioni dei novaziani e le controbatte affidandosi all‘interpretazione della Scrittura
più accreditata dalla tradizione. È proprio questa la questione che viene richiamata più
frequentemente: l‘interpretazione arbitraria dei testi scritturistici. Un‘interpretazione errata della
Scrittura conduce i novaziani ad una concezione errata di Dio e della sua misericordia per gli
uomini peccatori.
Due sono, infatti, le questioni fondamentali su cui l‘opera di Ambrogio vuole portare
l‘attenzione del lettore e combattere l‘errore novaziano: la falsa immagine di Dio che deriva
dall‘idea novaziana secondo la quale egli non possa concedere il perdono ai peccatori che sono
pentiti, idea che, a parere di Ambrogio, contraddice gravemente la Scrittura; la possibilità concessa
107
Cf, MAROTTA, pp. 23-25.
Cf. MARCHIORO, p. 10.
109
De paenitentia duos iam dudum scripsi libellos (Expl. Ps. XXXVII). Citato da BANTERLE G., Introduzione, in
AMBROGIO, Opere dogmatiche III, Spiegazione del Credo. I sacramenti. I misteri. La penitenza, p. 19.
110
Cf. Paen. II, 5, 36 – 11, 107
111
Cf. BANTERLE G., supra la nota 90.
112
Idem.
108
dal Signore alla Chiesa di poter perdonare i peccati, espressa dall‘immagine evangelica del legare e
sciogliere, definita anche il potere delle chiavi. 113
2.2.1 L’immagine di Dio: replica agli argomenti dei novaziani
Ecco un piccolo dossier delle accuse che Ambrogio recepisce come dottrina dei novaziani:
ad esse reagisce per affrontare la prima e fondamentale questione inerente all‘immagine di Dio che
verrebbe messa in gioco aderendo alle idee eretiche.
I novaziani sostengono che non possono essere reintegrati nella comunione dei fedeli coloro
che sono caduti in apostasia. Se facessero eccezione per il solo peccato di sacrilegio come
non passibile di condono, mostrerebbero durezza, ma sarebbero, almeno, coerenti con la
loro dottrina e in contrasto soltanto con gli insegnamenti divini. Il Signore, infatti, ha
condonato tutti i peccati senza alcuna eccezione. I novaziani, invece, alla maniera degli
stoici, pensano che tutte le colpe si debbano valutare parimenti e che debba per sempre
rinunciare ai celesti misteri sia chi abbia sgozzato un gallo, come si dice, del pollaio, sia chi
abbia strangolato il proprio padre. 114
Essi dicono che onorano il Signore, giacché riconoscono il diritto di condonare i peccati a
lui solo. Coloro, invece, che violano coscientemente la legge del Signore e sovvertono il
magistero che egli ha loro affidato offendono assai gravemente Dio. Cristo medesimo ha
detto nel vangelo: “Riceverete lo Spirito Santo” e a chi “rimetterete i peccati” sono a lui
rimessi, “e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. Dunque, rende onore maggiore
chi ubbidisce ai comandi o chi disubbidisce? 115
Ma essi asseriscono di fare ragionamenti del genere, giacché, a loro giudizio, ammettere
che Dio perdoni persone contro le quali ha in precedenza manifestato la sua ira significa
attribuirgli natura mutevole. Dunque? Ripudieremo gli oracoli del Signore e daremo credito
alle opinioni dei novaziani? Dio deve essere stimato sulla base delle sue parole, non delle
affermazioni degli altri. 116
Secondo il suo stile, Ambrogio, nel rispondere fa riferimento fedelmente alla sacra Scrittura
presentandola secondo l‘interpretazione spirituale, l‘unica capace di infondere la vera fede.
Il Signore mi ha insegnato nel Vangelo di quale lievito si tratti. Dice: “Non capite che non
alludevo al pane, quando vi ho detto: Guardatevi dal lievito dei Farisei e dei Sadducei?
Allora essi compresero che egli non aveva detto che si guardassero dal pane, ma dalla
dottrina dei Farisei e dei Sadducei”. Questo è, dunque, il lievito, l’insegnamento, cioè, dei
Farisei e il disputare dei Sadducei, che la Chiesa intride nella sua farina, mitigando il
significato letterale troppo duro della legge mediante l’interpretazione spirituale e
frantumandolo con la macina delle sue argomentazioni. Trae, per così dire, dall’involucro
del senso letterale quello più profondo, ineffabile dei misteri e infonde la fede nella
resurrezione, in virtù della quale si celebra la pietà di Dio e si crede che i morti
risuscitino.117
113
Cf. Mt 16.19.
Paen I, 2, 5
115
Paen I, 2, 6
116
Paen, I, 5, 21
117
Paen I, 15, 82. Ambrogio svolge la dottrina della penitenza attenendosi ai valori biblici con immagini e locuzioni
114
Quali sono i testi biblici che Ambrogio propone per esporre la vera immagine di Dio che si
può ricavare dall‘ascolto della Scrittura, rispetto a quella falsa dei novaziani?
Il vescovo di Milano svolge una capillare requisitoria sui vari testi biblici addotti dai
novaziani per supportare le loro posizioni; utilizzando il metodo dell‘esegesi spirituale, Ambrogio
vuole far comprendere quale sia il senso compiuto di tali testi, senza doversi fermare al senso
letterale. I novaziani si appellano all‘autorità della Scrittura per avvalorare la tesi
dell‘irrimediabilità dei peccati mortali, mentre Ambrogio dimostra che i luoghi biblici indicati dagli
scismatici sostengono la dottrina di Cristo. 118
Egli inizia da due testi chiave tratti dal vangelo di Matteo che costituivano il fulcro della
questione.
Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre
mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò
davanti al Padre mio che è nei cieli. 119
A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia contro lo
Spirito, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro. 120
Afferma Ambrogio:
Le argomentazioni finora addotte sono sufficienti ad intendere in quale misura Gesù è
propenso a perdonare. Tuttavia egli in persona ti sia maestro. (…) Dice: “Chiunque mi
riconoscerà”, cioè, chi mi testimonierà, qualunque genere di vita conduca, qualunque sia la
sua condizione, troverà in me chi saprà ricompensarlo della testimonianza. Quando è detto
“chiunque” non si esclude dalla ricompensa nessuno che lo testimonierà. Non ugualmente
chiunque rinnegherà, sarà rinnegato. Può verificarsi che qualcuno non reggendo alla
tortura ripudi con la bocca, ma nel suo intimo adori Dio. Metteresti forse sullo stesso piano
chi ripudia spontaneamente e chi ha commesso sacrilegio indotto dai supplizi e non già di
sua volontà? È riprovevole sostenere che non è di alcun peso presso Dio la clemenza che,
invece, ha valore presso gli uomini, (…) Cristo tollererà che sia negato il perdono ai suoi
atleti che soltanto per un poco ha visti vacillare davanti ai supplizi della tortura? Non terrà
conto dei tormenti del supplizio, egli che, se ripudia, non rinnega per l’eternità? 121
E ancora solo a modo di esempio:
Siamo a conoscenza che siete soliti muoverci obiezioni, perché sta scritto: “Qualunque
peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo
non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la
bestemmia contro lo Spirito non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro”.
Eppure, sulla base di questo passo, ogni vostra obiezione è distrutta, annientata. Sta scritto:
“Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonato agli uomini”. Perché voi non perdonate?
Perché stringete legami che non sciogliete? Perché intrecciate nodi che non allentate?
Perdonate, almeno, gli altri ed emettete pure verdetto di condanna nei riguardi di persone
che voi sulla base del testo del Vangelo ritenete che non possano mai più ottenere clemenza,
desunte dalla Sacra Scrittura stessa; le citazioni dirette o indirette sono numerose. Egli pensa e scrive biblicamente,
perciò cita continuamente frasi scritturali (…) le adatta alla materia e le collega nella forma che ritiene più
convincente. Partendo dall’interpretazione letterale arriva a quella spirituale, alla allegorica che gli è più congeniale a
penetrare i misteri. MAROTTA, p. 26
118
Cf. MAROTTA, p. 23.
119
Mt 10,32-33
120
Mt 12,32
121
Paen I, 4, 15-20 passim
giacché hanno peccato contro lo Spirito Santo.
Così di tutti gli altri testi che solitamente venivano citati per sostenere le tesi rigoriste dei
novaziani. 122 Dunque Ambrogio parte con una risposta puntuale che considera le posizioni dei suoi
avversari, le loro tesi teologiche e i fondamenti esegetici e li affronta proprio sul piano
dell‘interpretazione biblica. Egli non si limita alla polemica ribattendo le affermazione degli eretici,
ma propone un percorso biblico che aiuti il lettore a comprendere quale sia la vera immagine di Dio
in riferimento a questo tema della misericordia e del perdono che, come si può facilmente
immaginare, è centrale ad ogni teologia. Eccone un esempio: fin dall‘Antico Testamento Dio si
mostra propenso all‘indulgenza e alla moderazione verso il peccatore (Cf. Os 6,6); 123 egli non
vuole la sua morte, ma che si converta e viva (Cf. Ez 18,23); nel momento in cui dovrebbe punire,
esita (Cf. Os 11,8.9)124 e spesso lascia al peccatore stesso la scelta del suo castigo. La sua collera
non ha altro scopo che di condurre il peccatore a pentirsi ed egli è soddisfatto quando questo
risultato è raggiunto (Cf Gn 3,5-10). 125
Con l‘incarnazione del Verbo si rivela pienamente al mondo la misericordia di Dio. Se,
infatti, Dio ha inviato il suo Figlio e lo ha consegnato per noi, è affinché il peccato fosse vinto e
perché noi fossimo giustificati grazie a lui (Cf. Rom 8,3-4). 126 Dio agisce con noi come il padre del
figliol prodigo; egli gioisce del suo ritorno come del ritorno di ogni peccatore e non trova difficoltà
a riconciliarsi con lui (Cf. Lc 15,11-32). 127 Il Cristo partecipa pienamente dei sentimenti del Padre;
egli è l‘interprete autentico della tenerezza di Dio e si rivela a noi come un maestro profondamente
umano, consapevole della nostra debolezza, sempre pronto a perdonare. 128 La sua moderazione è il
riflesso della moderazione di Dio Padre. 129 Se si indigna contro noi quando pecchiamo è per
spingerci alla conversione; la sua indignazione non comporta una vendetta, ma piuttosto un avvio al
perdono (Cf. Is 30,15). 130 Egli non desidera essere nostro giudice; al contrario, come lui stesso ci
testimonia, si fa nostro avvocato presso il Padre (Cf. Rom 8,31-34); 131 egli agisce come il buon
pastore di cui parla il vangelo, che si carica sulle spalle la pecora ferita perché è venuto a salvare chi
era perduto (Cf. Lc 15,4-7). 132
È il buon samaritano che si prende cura del ferito percosso dai demoni, perché non è venuto
per i sani, ma per i malati (Cf. Lc 10,29-37).
Voi, dunque, o novaziani, li mettete al bando? Ciò che altro significa se non togliere loro la
speranza del perdono? Il Samaritano non abbandonò chi era stato lasciato mezzo morto dai
predoni. Curò le sue ferite con l’olio e con il vino. Prima, però, vi versò solo l’olio come
lenimento. Caricò il ferito sopra il suo giumento, trasportando su di esso tutti i suoi peccati.
Né il pastore abbandonò la pecorella smarrita. Voi, invece, esclamate: “Non mi toccare”. A
122
1Re 2,25 (Paen I, 9, 40-44); Gv 3,36 (Paen I, 12, 53-56); At 8,20-23 (Paen II, 4, 23; II,5, 29-35); 1Cor 5,6-7 (Paen
I, 15,79-83); Ebr 6,4-6 (Paen II, 6, 12); 1 Gv 5,16 (Paen I, 10, 45-11,52).
123
Cf. Paen I, 3,11; I, 5, 21
124
Cf. Paen I, 5, 21
125
Cf. Paen II, 6, 48
126
Cf. Paen I, 3, 12-13.
127
Cf. Paen II,3, 13-19; Cf. anche Exp. Luc. VII, 212-243.
128
Cf. Paen I, 14, 70; II, 10, 92.
129
Su questo tema della moderazione che Ambrogio considera la massima virtù evangelica (soprattutto nel contesto di
questo trattato), Cf. Paen I, 1,1: Se il fine supremo delle virtù è il progresso delle masse, la moderazione,
indubbiamente, è la virtù che eccelle su tutte. Essa non suscita il risentimento delle persone che giudica colpevoli, anzi,
dopo averle condannate, le mette in condizione di farsi perdonare. E' la sola, inoltre, che, emula del dono divino della
redenzione universale, ha esteso i confini della Chiesa, frutto del sangue del Signore, esercitando un'azione
moderatrice con consiglio salutare e di natura tale che le orecchie degli uomini sono in grado di prestare ascolto, le
menti non fuggono lontano, gli animi non nutrono timore.
130
Cf. Paen I, 5, 22
131
Cf. Paen I, 3, 14
132
Cf. Paen I, 1, 2; I, 6, 27; Cf. anche Exp. Luc. VII, 208-210.
titolo di giustificazione, dite: “Non è il nostro prossimo” con superbia maggiore di quella
del dottore della legge che voleva mettere alla prova Cristo (...) Voi, invece, rifiutate di
prestare le cure a chi avreste dovuto. Ve ne siete allontanati alla maniera del sacerdote e
siete passati oltre noncuranti come il levita. Né date ospitalità nella locanda a colui per il
quale Cristo pagò due denari e di cui ti ordina di diventare il prossimo, per potergli più
agevolmente usare misericordia. Il tuo prossimo non è chi è stretto a te dai vincoli di
identica natura, bensì chi è unito a te da legami di pietà. (…) Quando depauperate la
penitenza di ogni frutto, voi non dite altro che questo: Nessuno che sia stato ferito entri
nella nostra locanda. Nessuno sia sanato nel grembo della Chiesa. Presso di noi non si
prestano cure agli ammalati. Siamo sani, per noi il medico è superfluo. Infatti, Cristo in
persona ha detto: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. 133
Egli è un medico comprensivo e disponibile verso tutti; non esiste un caso disperato per lui:
fosse anche morto da quattro giorni come Lazzaro; Cristo venne alla sua tomba e per la sua parola
colui che era morto è stato restituito alla vita.
Se tu, chiamato da Cristo, ammetterai il tuo peccato, subito si infrangeranno i serrami, si
spezzeranno tutti i legami, anche se il cadavere in putrefazione emani forte fetore. La salma
di Lazzaro che era morto da quattro giorni mandava cattivo odore nella tomba. (…) Il
fetore del cadavere è forte quanto vuoi, ma svanisce del tutto appena il santo profumo si
spande. Ecco, il defunto riacquista la vita. Si ordina alle persone che tuttora vivono nel
peccato di sciogliere i lacci, di liberare il volto del defunto dal sudario con cui occultava la
verità della grazia ricevuta. Viene impartito il comando di togliergli il sudario dal viso, di
denudargli il volto, giacché il reo ha ricevuto il dono del perdono. Chi ha ottenuto la
remissione dei peccati non ha motivo di vergognarsi. 134
Accade oggi, come allora che si trovi qualcuno che rifiuta di unirsi alla gioia di tutti e
vorrebbe uccidere nuovamente colui che Cristo ha risuscitato; mentre il Cristo si mostra mite e
umile di cuore, essi danno prova di una durezza ed una crudeltà impietosa: è chiaro che essi non
sono discepoli del Cristo perché il Signore vuole che i suoi discepoli testimonino la medesima bontà
e misericordia che lui ha verso i peccatori. 135
Gesù ha avuto misericordia di noi non per allontanarci, ma per chiamarci a sé. È venuto
mite, umile. Ha detto: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati, e io vi ristorerò”. Il
Signore, dunque, guarisce senza eccezioni, senza riserve. A ragione, ha scelto discepoli che,
interpreti del suo volere, raccogliessero e non tenessero lontano il popolo di Dio.
Ovviamente, non sono da annoverare tra i discepoli di Cristo coloro i quali pensano che la
durezza sia da preferire alla dolcezza, la superbia all’umiltà e che, mentre invocano per sé
la divina pietà, la negano agli altri, come appunto fanno i dottori novaziani che si fregiano
dell’appellativo di “puri”. 136
Degni di rilievo i corollari che Ambrogio ricava dalla interpretazione dei testi biblici
menzionati. I novaziani, i nemici del nome di Cristo, nella parabola del buon samaritano sono
simboleggiati dal sacerdote, dal levita, che girano alla larga dal ferito. Il fratello del figliol prodigo
che si augurava che il giovane dissipato fosse per sempre bandito dalla casa del padre è il
progenitore degli scismatici che non voglio riammettere nel seno della Chiesa i colpevoli di peccato
mortale. I Giudei che non partecipano alla festa generale che segue la risurrezione di Lazzaro, ma
che tramano, anzi, di ucciderlo, sono gli avi dei novaziani che meditano, contrariamente ai precetti
133
Cf. Paen I, 6, 27-29: Cf. anche Paen I, 11, 51-52.
Paen II, 7, 58. Cf. Paen II, 7, 54- 8, 72
135
Cf. Paen I, 1, 3; I, 2, 9; I, 3,14; I, 16, 88
136
Paen 1, 1, 3
134
di Cristo, non la salvezza, ma la morte del peccatore. 137
In definitiva possiamo affermare che per Ambrogio il vero volto di Dio, così come ci è
testimoniato sia dal primo che dal secondo testamento, è un volto misericordioso: Gesù Cristo, il
Verbo fatto carne, ne rappresenta la rivelazione piena. Ovviamente la misericordia di Dio si
manifesta per colui che si converte dal proprio peccato e decide di mutare la propria vita per seguire
la volontà di Dio.
Sono in grave errore i novaziani che pretendono, avvalendosi della Scrittura, di onorare e
rispettare maggiormente Dio mostrandolo come inflessibile e incapace di perdono: essi si sbagliano
e non possono neppure essere chiamati discepoli di Gesù.
2.2.2 Il potere della Chiesa di legare e di sciogliere
La seconda questione che Ambrogio desidera affrontare nella sua trattazione sulla penitenza
in polemica con i novaziani, riguarda la possibilità concessa dal Signore alla Chiesa di legare e
sciogliere.
Essi [i novaziani] dicono che onorano il Signore, giacché riconoscono il diritto di
condonare i peccati a lui solo. Coloro, invece, che violano coscientemente la legge del
Signore e sovvertono il magistero che egli ha loro affidato offendono assai gravemente Dio.
Cristo medesimo ha detto nel Vangelo: “Riceverete lo Spirito Santo” e a chi “rimetterete i
peccati” sono a lui rimessi, “e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. Dunque,
rende onore maggiore chi ubbidisce ai comandi o chi disubbidisce? La Chiesa ottempera
all’uno e all’altro comando: a quello di non rimettere la colpa e a quello dell’assolverla.
L’eresia, invece, è spietata nell’esecuzione del primo dei due imperativi, disubbidiente
nell’altro. Pretende legare ciò che non intende sciogliere, non vuole sciogliere ciò che ha
legato. Si condanna manifestamente da se medesima. Il Signore, infatti, ha voluto che il
diritto di assolvere e quello di non assolvere siano del tutto identici. Ha garantito entrambi
e a pari condizioni. È ovvio che chi non possiede l’uno, non può possedere l’altro diritto.
Infatti, in conformità agli insegnamenti di Dio, chi ha il potere di condannare ha anche
quello di perdonare. Logicamente, l’affermazione dei novaziani cade. Col negare a sé la
potestà del condonare sono costretti a rinunciare a quella del non assolvere. Come potrebbe
essere lecita l’una e non l’altra potestà? A chi è stato fatto dono di entrambe o è chiaro che
sono possibili l’una e l’altra o nessuna delle due. Alla Chiesa sono, dunque, lecite
entrambe, all’eresia né l’una né l’altra. 138
La questione, nella seguente citazione è ben delineata. Da una parte i novaziani, per rispetto
a Dio – dicono – ritengono di non poter assolvere i peccati commessi contro Dio: a lui solo
spetterebbe il giudizio ed, eventualmente, il perdono. Dall‘altra la testimonianza della Scrittura che,
in virtù del dono dello Spirito Santo, concede alla Chiesa il potere di legare e sciogliere. Questi due
poteri fanno parte di un unico dono e, secondo Ambrogio, non si può usare di questo dono a proprio
piacimento: ―L‘eresia pretende di legare e non sciogliere, non vuole scogliere ciò che ha legato‖. 139
Ambrogio, dopo un duro attacco verso i novaziani, accusati di essere discepoli di colui che
non ha il dono concesso a Pietro 140 — perché Novaziano, aspirando al papato e non essendo stato
scelto, ha provocato uno scisma —, 141 percorre nuovamente la via della Scrittura, per dimostrare
come questo dono sia stato concesso a tutta la Chiesa e sia la mediazione scelta dal Signore per
137
Cf. MAROTTA, pp. 28-29.
Paen I, 2, 6-7
139
Ibidem.
140
Cf Mt 16,19
141
Cf. Paen I, 32-33
138
venire in aiuto ai peccatori che si rendono colpevoli.
Riporto la sintesi di R. Gryson che mi pare appropriata e costituisce una parafrasi del testo di
Ambrogio: 142
È conforme alla volontà del Signore che i suoi discepoli abbiamo dei poteri estesi. È
conforme alla sua volontà che i suoi servitori facciano ora, nel suo nome, ciò che egli stesso
faceva quando si trovava sulla terra. Ha concesso loro di risuscitare i morti. Ha inviato
Saulo da Ananìa anche se avrebbe potuto egli stesso restituirgli la vista (…) Ha detto
riferendosi a loro: «Nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove,
prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno;
imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16, 17-18). In breve possiamo dire
che Cristo ha donato loro ogni cosa. Come stupirsi dunque se ha concesso loro il potere di
rimettere i peccati? I novaziani non hanno alcuno scrupolo nell’utilizzare gli altri poteri che
il Signore ha concesso ai suoi apostoli. Essi impongono le mani sui malati e cacciano i
demòni. Ammettono che i peccati possano essere rimessi nel battesimo attraverso la
mediazione di un sacerdote. Che differenza c’è se i sacerdoti rivendicano questo diritto a
proposito della penitenza o del battesimo? In ambedue i casi gli uomini esercitano un
ministero che è stato loro assegnato da Dio (…) 143
Dunque una prima via percorsa da Ambrogio è quella di considerare la molteplicità dei doni
concessi dal Signore ai suoi discepoli affinché possano portare avanti la missione che egli ha loro
affidato: effettivamente alcuni di questi doni sono sensazionali. Perché pensare di poterne usare solo
alcuni? Perché escludere la Chiesa dalla possibilità di perdonare i peccati, se questa rappresenta la
volontà del Signore?
Una seconda via percorsa da Ambrogio è quella di annullare la differenza creata dai
novaziani, riguardo la possibilità di remissione tra peccati lievi e peccati gravi.
Ma i novaziani affermano che, eccettuate le colpe più gravi, concedono il perdono alle più
lievi. Non certo Novaziano, l’origine prima della vostra eresia. Egli fu convinto che non
dovesse concedersi ad alcuno la possibilità di conseguire il perdono. Evidentemente non se
la sentiva di legare ciò che non era poi in grado di sciogliere, e di incorrere nel rischio che,
una volta condannata la colpa, ci si attendesse da lui il condono. Voi, dunque, mettete sotto
accusa vostro padre con questo modo di ragionare, con la distinzione, cioè, che fate tra
peccati, a giudizio vostro, assolvibili e quelli che reputate irrimediabili. Dio, però, che ha
garantito a tutti clemenza e che ha concesso ai sacerdoti, senza alcuna riserva, la potestà
del perdono, non fa distinzioni. Soltanto, chi avrà ecceduto nella colpa, ecceda parimenti
nel fare penitenza. Più gravi i peccati, più abbondanti lacrime sono necessarie per lavarli.
Non si può, quindi, dare l’assenso a Novaziano che rifiutò a tutti il perdono, né a voi che,
emulando e a un tempo condannando il maestro, spegnete ogni ardore di pietà quando
occorrerebbe maggiormente alimentarlo. La pietà di Cristo ci ha insegnato che più gravi
sono i peccati, più validi sostegni necessitano a sopportarne il peso. 144
La distinzione posta dai novaziani non ha alcun senso se vuole discriminare circa la
possibilità concessa alla Chiesa di perdonare i peccati: la potestà del perdono, non fa distinzioni.
Questa distinzione non appartiene alla volontà del Signore.
Come si può chiaramente vedere, anche Ambrogio, seguendo la tradizione che lo precede,
pone una distinzione tra le colpe gravi e le colpe leggere, ma solo riguardo alla diversa proposta
142
Cf. Paen, I, 8, 34-37.
GRYSON, p. 26.
144
Paen I, 3, 10
143
penitenziale che ne segue. Il Signore ha concesso alla Chiesa il potere di assolvere i peccati senza
alcuna eccezione, l‘unica differenza è che al peccato grave dovrà seguire una penitenza più gravosa.
145
2.3 La prassi penitenziale nella Chiesa di Milano nel IV secolo
Proseguiamo il nostro itinerario cercando di cogliere la proposta della penitenza fatta da
Ambrogio nel suo trattato, supponendo che Paen ci descriva la realtà vissuta nella Chiesa di Milano
all‘epoca del grande vescovo. In realtà, dagli altri documenti che ci sono giunti, non abbiamo alcuna
descrizione rituale o elemento che ci possa aiutare a cogliere le peculiarità della tradizione liturgica
penitenziale di questa chiesa. Abbiamo però la testimonianza di Ambrogio che ci aiuta a penetrare il
senso ed il valore di questa prassi per una grande e importante chiesa del IV secolo.
Ambrogio, nella sua opera, suppone nei lettori una buona conoscenza della prassi
penitenziale milanese e, per tale ragione, sorvola o si degna di uno sfuggevole, talvolta non chiaro,
accenno a questioni e particolari che oggi ci piacerebbe conoscere in maggior dettaglio. In nessuno
scritto di Ambrogio si ritrova una sia pur minima allusione a tale prassi penitenziale. Del rito vero e
proprio della riconciliazione Ambrogio fa soltanto qualche sporadico accenno, così che, basandosi
esclusivamente sulle sue opere, sarebbe ardua fatica, per non dire impossibile ricostruirlo. 146
Ci avevano già avvisati gli storici della liturgia: la prassi penitenziale antica, regolata dai
concili del III secolo, è la stessa per tutte le chiese d‘Occidente e rimane invariata fino alla fine del
VI secolo. Anche Ambrogio non ritiene utile fornirci notizie particolari.
In questa parte del secondo capitolo raccoglieremo in forma sistematica, il materiale che
descrive la penitenza ecclesiale o pubblica così come ci viene consegnato dal Paen.
2.3.1 I peccati destinati alla penitenza ecclesiale
Come è già stato notato poco sopra, Ambrogio, fedele alla tradizione che lo precede,
considera una distinzione tra i peccati gravi e i peccati lievi. Abbiamo già affermato che tale
distinzione interessa solamente la diversa terapia penitenziale che deve essere assegnata al
penitente. Tutti i peccati possono infatti essere perdonati. Mentre per i peccati lievi, quelli che
appartengono alla nostra quotidiana fragilità, è sufficiente la pratica delle buone opere, per i peccati
gravi è necessaria la penitenza ecclesiale: occorre ricorrere alla Chiesa perché solamente là si
troverà Dio che è pronto a perdonare. 147
Ogni giorno, infatti, dobbiamo pentirci del peccato, ma, mentre la penitenza giornaliera è
dei peccati più lievi, la pubblica è delle colpe di maggiore entità. 148
Quali sono le buone opere che aiutano ad ottenere il perdono per le colpe giornaliere o lievi?
Sono le stesse che si consigliano nella penitenza, ma compiute volontariamente: la preghiera, il
digiuno e, soprattutto, l‘elemosina e le altre opere di carità. Per le colpe gravi occorre invece
ricorrere alla Chiesa. Il percorso penitenziale inizia con la confessione della propria colpa.
2.3.2 La confessione della colpa
Ambrogio si diffonde lungamente per descrivere l‘importanza di tale atto e, possiamo dire,
anche per convincere a compiere questo passo coloro che risultavano più reticenti.
145
Cf. P. J. RIGA, Penance in St. Ambrose, Église et Théologie 4 (1973) pp. 213-226.
Cf. MARCHIORO, pp. 10. 57. 71
147
Cf. GRYSON, p. 32
148
Paen II, 10, 95
146
La parola del Signore ha stabilito senza possibilità di equivoco che la grazia del
sacramento deve essere restituita alle persone che si sono macchiate di colpe quanto vuoi
infamanti, purché ne facciano ammenda con cuore contrito e con confessione sincera. È
ovvio, dunque, che voi novaziani non avete possibilità di legittimare la vostra condotta. 149
Se desideri essere perdonato, confessa la tua colpa. Una confessione fatta con cuore
contrito scioglie i nodi del peccato. 150
Versiamo, dunque, lacrime finché c’è tempo, perché ci sia assicurata l’eterna felicità.
Temiamo il Signore, sollecitiamone la pietà con il confessare le nostre colpe. (…) Perché
provi vergogna di confessare le tue colpe innanzi al Signore? Egli dice: “Confessa le tue
infamie, affinché sii giustificato”. Agli occhi di chi è tuttora nella colpa è fatto balenare il
premio della giustificazione. Infatti, chi ammette spontaneamente le colpe è giustificato. “Il
giusto nel proemio del suo discorso accusa se stesso”. Il Signore sa tutto, vuole, però,
sentire la tua voce, non già per punire ma per perdonare. Non vuole che il diavolo si faccia
gioco di te, ti accusi di tenere celate le colpe. Previeni il tuo accusatore. Se ti accusi da te
stesso, non dovrai temere alcun accusatore. Se ti denunzierai da te medesimo, morto che tu
sia, risusciterai.151
Due sono le idee fondamentali che Ambrogio svolge nel suo trattato e anche in altre opere a
proposito della confessione della colpa: non c‘è perdono possibile senza la confessione della colpa;
al contrario colui che riconosce il proprio peccato può essere assicurato della giustificazione. 152
Come dovesse essere svolta ritualmente tale confessione non è deducibile chiaramente dalle
opere di Ambrogio. In qualche testo si potrebbe capire che essa debba essere fatta davanti ad un
sacerdote, o ad un vescovo. 153 Certamente, essendo la penitenza espiatoria, proporzionata alla
gravità della colpa, come avrebbe potuto il vescovo giudicare sufficiente un‘espiazione senza
conoscere dettagliatamente la gravità della colpa? 154 Ovviamente tale confessione non era
necessaria qualora la colpa fosse pubblica. Una descrizione interessante dell‘operato penitenziale di
Ambrogio lo possiamo ricavare dalla descrizione affettuosa che ne fa il diacono Paolino nella
biografia del suo vescovo.
[Ambrogio] gioiva con quelli che gioivano, e piangeva con quelli che piangevano; difatti
tutte le volte che alcuno gli avesse confessato i suoi peccati per ricevere la penitenza, così
piangeva da indurre anche quello al pianto: gli sembrava infatti di essere caduto con il
caduto. Dei delitti in causa che egli apprendeva in confessione, a nessun altro parlava se
non al Signore soltanto, presso il quale intercedeva, lasciando buon esempio ai vescovi
venturi, affinché fossero in maggior misura intercessori presso Dio che accusatori presso
gli uomini. 155
Questa descrizione ben coincide con l‘invocazione che Ambrogio stesso, ormai al termine
del suo trattato Paen, eleva a Dio per se stesso:
Preserva, o Signore, il tuo dono. Custodisci il bene che mi hai elargito, anche se da esso
149
Paen II, 3, 19
Paen II, 6, 40
151
Paen II, 7, 52-53
152
Cf. GRYSON, p. 33
153
Sulla questione terminologica che definisce il ministro della penitenza Cf. MARCHIORO pp. 84-87. Questi sostiene la
tesi che nelle opere di Ambrogio il termine sacerdos sia usato come sinonimo di vescovo. Secondo la tradizione
occidentale è abbastanza raro trovare l‘attribuzione di tale termine ad un presbitero.
154
Cf. Gryson, p. 33
155
PAOLINO DA MILANO, Vita di Ambrogio, n. 39, p. 103.
150
rifuggissi. Ero consapevole, infatti, di non meritare di essere chiamato vescovo, giacché mi
ero votato al secolo. Ma “per grazia” tua “sono ciò che sono”. Sono senza dubbio l’infimo
di tutti i vescovi, l’ultimo per merito. Tuttavia, poiché mi sono sobbarcato a qualche
travaglio per la tua santa Chiesa, custodisci questo frutto. Non permettere che chi già
sull’orlo della perdizione è stato da te chiamato al sacerdozio, ora, che è tuo ministro,
soccomba. Mi hai chiamato, perché impari a condolermi di tutto cuore dei travagli del
peccatore. Virtù questa davvero grande. (…) Mi hai chiamato, perché, ogni volta che si
tratta della colpa di un lapso, senta di lui pietà e non lo riprenda con durezza, bensì provi
dolore e pianga. Ciò, affinché, nel momento in cui verso lacrime su di un altro, pianga su
me stesso e possa dire: “Tamar è più giusta di me”. 156
La confessione della colpa però non risulta un gesto spontaneo. Per questo buona parte
dell‘opera del vescovo, attraverso la predicazione o la correzione personale, è orientata ad aiutare i
fedeli che sono caduti in peccato grave, ad accedere alla penitenza confessando le loro colpe.
Il Signore, quando dice: “Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino”, ha
sufficientemente ammonito coloro che rinviano la penitenza. Ignoriamo in quale ora viene il
ladro, non sappiamo se la nostra anima ci sarà richiesta la notte stessa. Dio scacciò Adamo
dal paradiso subito dopo la colpa. Non frappose indugi, ma, perché facesse penitenza, lo
privò delle delizie e, immediatamente, lo rivestì di una tunica di pelle, non già di seta. Quale
giustificazione c’è perché tu debba rinviare? Forse quella di commettere un maggior
numero di peccati? Dunque, perché Dio è buono, tu vuoi essere malvagio, e “ti prendi gioco
dei tesori della sua bontà e pazienza”? La mitezza del Signore dovrebbe, al contrario,
essere per te incitamento a pentirti.
Nella Chiesa si arreca disonore col non confessare le colpe, giacché tutti siamo peccatori.
157
Interessante il parallelismo medico che Ambrogio richiama: non puoi essere curato se non
presenti al medico la tua piaga.
Fai vedere, dunque, al medico la tua piaga, perché tu sia curato. Se non gliela mostrerai,
egli la conosce, ma desidera ascoltare la tua voce. Netta le tue cicatrici con le lacrime. 158
Questo invito deve essere fatto con determinazione, senza riguardo per alcuno, neanche dei
ricchi e delle autorità. 159 Una parola a parte, proprio in questa prospettiva, merita il famoso caso
della penitenza pubblica richiesta e imposta da Ambrogio all‘imperatore Teodosio in seguito ai fatti
di Tessalonica nell‘anno 390.
156
Paen II, 8, 73.
Paen II, 11, 99-100; Paen II, 10, 91; Umiliamoci, dunque, innanzi a Dio. Non rimaniamo nella soggezione della
colpa. Paen II, 5, 38;
158
Cf. Paen II, 8, 66.
159
Sono soprattutto i ricchi e la gente di rango che reagisce in tal modo. Ma il sacerdote non deve fare alcuna
eccezione di persone e, se ce n’è necessità, non deve esitare a riprendere anche i re. GRYSON, p. 36. L‘autore cita
diversi testi di Ambrogio che riportano questa particolare attenzione che deve guidare il vescovo: Fuga dal mondo, 8, a
cura di BANTERLE G. (OOSA, 4), Milano – Roma 1980, pp. 118-127; Apologia di Davide, 5-6, a cura di LUCIDI F.
(OOSA, 5), Milano – Roma 1981, pp. 75-87; Elia e il digiuno, 22,83, a cura di GORI F. (OOSA, 6), Milano – Roma
1985, pp. 123-125; Commento a dodici salmi/1. Salmo XXXVII, 43, a cura di PIZZOLATO L.F. (OOSA, 7), Milano –
Roma 1980, pp. 309-311; Esp. Lc. V, 10; 91; p. 429; Discorsi e lettere II/1 (Lettere 1-35), Lettera II, 5-7; Lettera XIX,
5, a cura di BANTERLE G. (OOSA, 19), Milano – Roma 1988, pp. 39-41; p. 199.
157
2.3.3 Il caso di Teodosio
Teodoreto di Cirro nella sua Historia Ecclesiastica in cinque libri, ci lascia una narrazione
avvincente e didatticamente interessante di questa vicenda che ha portato l‘imperatore Teodosio
a sottoporsi a pubblica penitenza nell‘anno 390. Questi era stato responsabile di un massacro nella
città di Tessalonica dove furono trucidate circa settemila persone. Ambrogio gli inviò una lettera
che rimarrà prudentemente segreta, nella quale, probabilmente, lo invitava alla penitenza facendogli
notare la gravità del peccato commesso. Questi riconosce di aver sbagliato, detesta pubblicamente il
suo peccato e, nel Natale del 390, ottiene la riconciliazione. In due testi, tratti dall‘orazione funebre
composta in onore dell‘imperatore dallo stesso Ambrogio, viene descritta tale penitenza e viene
indicato Teodosio come un modello.
160
Teodosio fece penitenza e, riconosciuto il suo peccato, domandò perdono: per la sua umiltà
pervenne alla salvezza (…) Egli abbassò fino nella polvere ogni insegna regale, che gli
spettava, pianse pubblicamente nella Chiesa il suo peccato, che pure lo aveva preso di
sorpresa, perché altri lo avevano male informato, e, tra le lacrime, invocò perdono. Mentre
i privati si vergognano di fare pubblica penitenza, lui, imperatore, non se ne vergognò e in
seguito non ci fu più un giorno in cui non provasse rincrescimento per quell’errore. 161
Il caso di Teodosio ci mette di fronte a delle circostanze eccezionali: ―straordinario il
peccatore, straordinaria la colpa, straordinario anche il modo di fare penitenza, (…) ma l‘essenza
della penitenza pubblica rimane intatta‖. 162
2.3.4 La penitenza espiatoria dei peccati gravi
La confessione della colpa nel caso di Teodosio, come negli altri casi più comuni,
determinava l‘ingresso nello stato di penitente.
―La prassi penitenziale, almeno a Milano, stabiliva che il penitente venisse iscritto
nell‘ordine dei penitenti‖. 163 Ne abbiamo una breve, ma rivelatoria annotazione quando a proposito
di un reo confesso Ambrogio domanda: ―in quale ordine di peccatori, in quale grado di penitenti?‖.
164
Questo inciso ha molto interessato gli studiosi perché, mentre dalle indicazioni di Basilio di
Cesarea noi sappiamo che nella chiesa orientale vigeva una rigida divisione dei penitenti in quattro
ordini ben definiti, la tradizione occidentale — testimoniata da Tertulliano e Cipriano — ci
trasmette una certa flessibilità prevedendo due o tre categorie di penitenti.
Secondo Marchioro gli ordini erano i seguenti:
1. Fletus et luctus: consente ai penitenti soltanto di sostare fuori del portico della chiesa a
supplicare di intercedere per loro.
2. Auditio: i penitenti ascoltavano dalla porta della chiesa la lettura della S. Scrittura e il
catechismo o l’omelia; dopo di che si allontanavano con i catecumeni ed erano esclusi
dal resto della liturgia.
160
TEODORETO DI CIRRO, Storia ecclesiastica V, 17-18, a cura di GALLICO A. (Collana di testi patristici, 154),Città
nuova, Roma 2000, pp. 354-359.
161
AMBROGIO, In morte di Teodosio, 27; 34, in AMBROGIO, Discorsi e lettere / I. Le orazioni funebri, a cura di
BANTERLE G., Milano – Roma 1985 (OOSA, 18), pp. 231; 235.
162
MARCHIORO, p. 112.
163
IDEM, p. 55.
164
Paen II, 7, 53-54. Il testo intero è riportato al par. 2.4.2 dedicato al dossier scritturistico di Paen. Cf. infra nota 240.
3. Substratio: i penitenti entravano in chiesa, ma dovevano stare in ginocchio ed uscire
insieme agli audientes.
4. Consistentia: i penitenti rimanevano in chiesa oltre la liturgia dei catecumeni, ma non
potevano portare le offerte e partecipare all’eucaristia. 165
Non sappiamo se a Milano esistessero tutti questi ordini; è bene però precisare che essi non
costituivano un elemento essenziale della penitenza. Era prerogativa del vescovo indicare e stabilire
a quale categoria il penitente dovesse essere iscritto.
Il fatto di maggiore evidenza con l‘ingresso tra i penitenti, consisteva nell‘esclusione
dall‘eucaristia, tanto che alcuni pensavano, come denuncia Ambrogio nel Paen, che la penitenza
ecclesiale consistesse in questo. 166 Per Ambrogio è evidente che non è sufficiente astenersi dalla
comunione, ma, per ottenere il perdono dei propri peccati, occorra impegnarsi in opere penitenziali
appropriate. Al posto dell‘offerta nell‘eucaristia il peccatore deve offrire a Dio i sacrifici della
penitenza che corrispondono al sacrificio espiatorio menzionato nell‘AT (Cf. Sal 51,17-19). 167
Fare penitenza suppone un coinvolgimento di tutta la persona, una rinuncia totale al mondo
e a se stessi: l‘obiettivo è cambiare vita, divenire un‘altra persona.
Prestino attenzione le persone che fanno penitenza, come debbano attendervi, con quale
ardore d’animo, con quale interiore sconvolgimento, con quale mutamento di cuore:
“Guarda, o Signore, quanto sono in angoscia; le mie viscere sono agitate” dal mio pianto,
“il mio cuore è sconvolto dentro di me”.
Bisogna dire con decisione addio al secolo, abbandonarsi al sonno meno di quanto la
natura esiga, alternarlo con lamenti, romperlo a mezzo con gemiti, riservarlo alla
preghiera. È necessario, insomma, vivere come se fossimo per sempre morti al nostro modo
di condurre l’esistenza terrena. L’uomo deve rinnegare se stesso, trasformarsi
radicalmente. 168
Concretamente il penitente ha a disposizione molti mezzi per invocare che il suo debito sia
rimesso dal Signore: la preghiera, le lacrime, i digiuni, l‘elemosina e altre opere di penitenza.
Sia, dunque, nostro convincimento che bisogna fare penitenza e che ad essa tiene dietro il
perdono. Una remissione, tuttavia, frutto di fede e non, per così dire, di un nostro credito.
C’è profondo divario tra il rendersi meritevoli di qualche cosa e l’arrogarsene il diritto.
(…) Comportati da onesto debitore, così che per pagare la cambiale non debba far ricorso
ad altro prestito, bensì possa soddisfare, mediante le ricchezze che ti provengono dalla fede,
all’interesse del debito contratto a tuo nome. Ha maggiore possibilità di pagare chi è
debitore di Dio che dell’uomo. (…) Le preghiere, le lacrime, i digiuni, sono le ricchezze del
buon debitore e beni più sostanziosi che se uno offra senza fede il denaro ricavato dalla
vendita di proprietà (...) La colpa, credo, può essere mitigata mediante elargizioni ai poveri,
purché la fede aggiunga credito ai donativi. A che offrire le proprie sostanze, se l’ardore di
carità non si accompagna all’oblazione? (…) Ma chi esercita la penitenza non deve affatto
avere rincrescimento in materia, perché non abbia a pentirsi di essersi pentito. Non pochi,
infatti, per timore dell’eterno castigo, consapevoli delle loro colpe, domandano di fare
penitenza e, una volta ammessi, si tirano indietro per la vergogna di doverla esercitare
pubblicamente. Essi, a mio parere, hanno domandato di fare penitenza delle malefatte e la
165
MARCHIORO, p. 56.
Cf. Paen II, 10, 89.
167
Cf. GRYSON, p. 37.
168
Paen II, 6, 46; Paen II, 10, 96.
166
fanno, invece, delle buone opere da loro compiute. 169
Al primo posto tra le opere e i sacrifici della penitenza sta la preghiera. Dio non domanda
che di perdonare, ma ha disposto che lo si preghi, come gli abitanti della città di Ninive.
Il Signore vuole essere pregato, esige fede, suppliche in suo onore. Tu sei uomo, eppure
pretendi di essere pregato per elargire il perdono. Pensi, dunque, che Dio sia disposto a
concederti misericordia senza che tu lo solleciti? 170
Il penitente non deve esitare ad interrompere il sonno per dedicarsi alla preghiera. 171
Senza farsi impedire da un sentimento di vergogna, deve anche elevare suppliche
pubblicamente nella Chiesa e la sua preghiera deve essere accompagnata da lacrime abbondanti.
Non pochi, infatti, per timore dell’eterno castigo, domandano di fare penitenza e, una volta
ammessi, si tirano indietro per la vergogna di doverla esercitare pubblicamente.
Non vuoi che, se preghi, ci sia gente che lo sappia e possa riferirlo? Eppure se si tratta di
dare soddisfazione all’uomo, non ti accosti forse ad un gran numero di persone, le scongiuri
perché interpongano buoni uffici, ti prostri alle ginocchia, baci i piedi, (…) Ostenti, tuttavia,
schifiltosità di fare ciò nella Chiesa, di supplicare Dio, di ricercare il patrocinio dei fedeli,
perché preghino per te. Nella Chiesa si arreca disonore col non confessare le colpe, giacché
tutti siamo peccatori. In essa merita di più chi è più umile, ed è più giusto chi maggiormente
disprezza se stesso. 172
Ambrogio non si accontenta di dare delle indicazioni di carattere concreto sulle pratiche, ma,
sapientemente, fornisce anche dei modelli di riferimento tratti dalla Scrittura: il re Davide, il popolo
di Ninive, la peccatrice che ha coperto di lacrime i piedi di Gesù e soprattutto Pietro dopo che ha
rinnegato il Signore. 173
Le preghiere e le lacrime non sono sufficienti per ottenere il perdono, perché questo richiede
anche una conversione e un cambiamento di vita che si dimostra attraverso opere espiatorie che
devono in qualche modo compensare le colpe commesse. Un mezzo privilegiato è senza dubbio
l‘elemosina la quale, come afferma la Scrittura, ―copre una moltitudine di peccati‖ (1Pt 4,8). È
evidente che essa deve essere fatta con sincerità, secondo le indicazioni del vangelo (Cf. Mt 6, 1-4).
174
Accanto all‘elemosina l‘altra opera efficace per sradicare il peccato dall‘anima è il digiuno.
Oltre alla privazione della carne e di alimenti sofisticati, ai penitenti è richiesto di privarsi del sonno
e di astenersi dai rapporti coniugali. 175 Essi devono indossare abiti grossolani e rinunciare alla cura
del proprio corpo, alla ricerca delle dignità; al contrario, in ogni maniera devono umiliare se stessi.
176
Osservate queste persone: sono lì a passeggiare. Indossano abiti nuovi, mentre sarebbe
169
Paen II, 9, 80 – 86 passim
Paen II, 6, 48.
171
Cf. supra nota 171.
172
Cf. Paen II, 9, 86; II, 10, 91.
173
Cf. Paen, II, 36, 48-52,; 66, 92-94.
174
Cf. Paen II, 9, 83-86.
175
Cf. Paen I, 5, 26; I, 16, 91; II, 10, 96.
176
Cf. Paen, I, 8, 37 ;
170
stato loro conveniente essere in gramaglie, lamentarsi per avere infangato la veste della
grazia battesimale. Le donne si sovraccaricano le orecchie di grosse, preziose perle: sono
costrette, addirittura, a piegare le nuche, mentre bene avrebbero dovuto tenerle basse per
amore di Cristo e non dell’oro, e versare, a un tempo, lacrime su se stesse per aver perduto
la perla preziosa, la celeste. 177
Racconta ancora Ambrogio per descrivere in cosa consista la penitenza:
Ho conosciuto persone che nell’esercitare la penitenza hanno scavato il volto con le
lacrime, solcato le guance con il pianto irrefrenabile, disteso a terra il corpo perché tutti lo
calpestassero. Con il volto scarno e pallido per il digiuno hanno rivelato fattezze di morte in
un corpo ancora vivo. 178
Tutta la durezza della penitenza, al contrario di quanto affermano i novaziani, dovrebbe
aiutare a comprendere che è molto più facile conservare l‘innocenza battesimale, che svolgere
un‘adeguata penitenza. Ambrogio lo ricorda esplicitamente:
Mi sono imbattuto più spesso in persone che hanno conservato la loro innocenza che non in
gente che abbia atteso a pentirsi con coerenza. 179
In questo percorso penitenziale cui la Chiesa consegna i penitenti, essa compie il gesto del
legare, primo elemento del binomio evangelico legare/sciogliere. Nonostante le apparenze, l‘azione
che compie la Chiesa nel legare rappresenta già un atto di misericordia perché è tutto orientato al
secondo elemento del binomio: lo sciogliere, o slegare. 180 Per Ambrogio, che ragiona biblicamente,
l‘atto del legare della Chiesa nella penitenza, non è altra cosa dall‘atto di bendare le ferite compiuto
dal buon samaritano. 181 La penitenza che il vescovo assegna è già una grazia perché è per il
perdono. Anche la scomunica dai sacramenti ed il relegare il penitente in un ordine particolare è per
il suo bene: l‘umiliazione permetterà al peccatore di rientrare nella pace della Chiesa con un cuore
purificato.
È necessario, infatti, da una parte, che chi è caduto in colpa grave resti segregato, perché
“un poco di lievito” non faccia fermentare “tutta la pasta”, dall’altra, che il vecchio lievito
sia purificato. Occorre, cioè, sia purificare in ciascuno l’uomo vecchio, l’uomo esterno con
le sue azioni, sia nella moltitudine chi ha messo radici nel peccato e si è infangato di colpe
di ogni specie. Opportunamente è detto che bisogna purificarlo, non già gettare via. 182
La Chiesa non rigetta il peccatore, anzi proprio attraverso la penitenza se ne prende carico.
La penitenza, dunque, è un bene. Se essa non esistesse, tutti differirebbero la grazia del
battesimo alla vecchiaia. A una ipotesi assurda del genere, valga come risposta che è
preferibile possedere un qualcosa da rattoppare che non avere da ricoprirsi. Ma nemmeno
gli abiti rappezzati una sola volta possono ancora essere usati come nuovi, quelli, invece,
cuciti e ricuciti finiscono con il logorarsi del tutto. 183
Questa citazione ci aiuta a ricordare che anche per Ambrogio, come per tutti i rappresentanti
della grande tradizione che lo hanno preceduto a partire da Erma, la penitenza è unica e irripetibile.
177
Paen II, 9, 88
Paen. I, 16, 91
179
Paen II, 10, 96.
180
Cf. Paen I, 7-10.
181
Gioco di parole tra ligare (= legare) e alligare (= bendare). Cf. Exp. Luc. VII, 75.
182
Paen I, 15, 79. 86.
183
Paen II, 11, 98.
178
Egli lo esprime con ancora maggiore chiarezza e determinazione nei passi che seguono.
Alcuni sono convinti che si possa più volte fare penitenza. Essi “sono presi da desideri
indegni di Cristo”. Se attendessero, infatti, alla penitenza di tutto cuore, non crederebbero
alla necessità di doverla ripetere. “Uno solo è il battesimo”, una sola è la penitenza, quella,
s’intende, che si fa in pubblico. Ogni giorno, infatti, dobbiamo pentirci del peccato, ma,
mentre la penitenza giornaliera è dei peccati più lievi, la pubblica è delle colpe di maggiore
entità. 184
Perciò, meglio fermarsi, quando non si è in grado di attendere alle opere della penitenza,
affinché nell’esercitarla non capiti di agire in modo da dovere ancora ad essa far ricorso.
Se, infatti, non è stata una sola volta bene usata e opportunamente praticata, non si ricava
alcun frutto dalla penitenza cui si è atteso e ci è tolta la possibilità di valercene
successivamente. 185
Dunque, abbiamo appreso innanzi tutto che occorre fare penitenza, e ciò quando la
bramosia di peccare si è spenta; ancora, che nella schiavitù del peccato dobbiamo essere
rispettosi, non già arroganti. A Mosè che desiderava sempre più addentrarsi nella
conoscenza del mistero celeste, è detto: “Togliti i sandali dai piedi”. A maggior ragione è
necessario, quindi, che noi liberiamo i piedi della nostra anima dai legami del corpo e
sciogliamo i passi dai nodi che ci avvincono a questo mondo. 186
2.3.5 La celebrazione della riconciliazione
È la parte finale del processo penitenziale iniziato con la confessione della colpa. Possono
essere trascorsi anche diversi anni da quel primo momento. Quando, attraverso la penitenza la
conversione è avvenuta, è necessario il secondo intervento della Chiesa, quello che, simbolicamente
— riferendosi al vangelo — Ambrogio aveva indicato nel gesto dello ‗sciogliere‘. Infatti, come
afferma Gryson, 187 non sono sufficienti ne‘ le opere della penitenza, ne‘ l‘intercessione del popolo
in favore de peccatore per avere la garanzia decisiva che i peccati siano perdonati di fronte a Dio.
Tale garanzia il peccatore la può trovare solamente nell‘intervento sacerdotale mediante il quale il
ministro scioglie ciò che precedentemente era stato legato (solvere, resolvere), 188 solleva dalla
penitenza che aveva imposto (relaxare paenitentiam), 189 restituisce alla comunione colui che ne era
stato escluso (reddere communioni o sacramentis caelestibus, reddere o refundere communionem
alicui). 190 Solamente in questo momento il penitente può considerare che il Signore si rivolga a lui
nello stesso modo in cui si rivolse alla peccatrice: «I suoi peccati sono rimessi». 191 Perché
solamente al sacerdote è stato concesso il diritto di sciogliere, quel diritto che, propriamente,
appartiene solo a Dio.
Questo atto della Chiesa risulta dunque fondamentale e decisivo; è quello stesso atto cui i
novaziani negano la possibilità riservando a Dio il potere di perdonare i peccati.
Da alcune allusioni e accenni si può comprendere che il rito si componeva a Milano degli
elementi che, nel IV secolo, erano prassi comune a tutte le chiese. Questo atto della Chiesa si
184
Paen II, 10, 95.
Paen II, 11, 104.
186
Paen II, 11, 107.
187
Cf. GRISON, p. 41
188
Cf. Paen, I, 2, 7- 3, 10.
189
Cf. Paen, I, 4, 40 ; II, 6, 45.
190
Cf. Paen, I, 5, 78, 80, 90 ; II, 9, 87.
191
Cf. Paen, I, 9, 90.
185
svolgeva il Giovedì santo; consisteva in un gesto — l‘imposizione delle mani —, in una preghiera
— con ogni probabilità fatta in forma deprecativa —, e culminava con la partecipazione
all‘eucaristia. 192
a) Sul gesto dell’imposizione delle mani: è il gesto ecclesiale consueto che, come in altri
sacramenti, trasmette la grazia dello Spirito e rimette il peccato. Ambrogio ricorda il gesto
dell‘imposizione delle mani per altri sacramenti: unzione dei malati, confermazione, ordine sacro,
ma non per la penitenza. Secondo Galtier ―il gesto dell‘imposizione delle mani, fin dai primi tempi
della Chiesa, era comune a tutti i sacramenti‖. 193 Ambrogio da un accenno nel Paen al gesto
dell‘imposizione delle mani, 194 ma si tratta di un contesto polemico in cui non ci si riferisce
direttamente alla penitenza, anche se, forse, tutto il contesto del trattato, potrebbe aiutare a
collocarlo. Sul valore di questo gesto gli studi sembrano concordi nel ricuperarne l‘antico
significato che mette in relazione la penitenza con la confermazione: in ambedue i casi il gesto è
unito all‘invocazione del sacerdote ―che arreca all‘anima la grazia: Signaculum Spiritus Sancti‖. 195
b) Sulla preghiera del vescovo: anche se non possediamo un testo certo di riferimento, gli
autori si trovano concordi anche in questo caso nel definire questa preghiera un gesto riservato al
vescovo che lo svolge in forma deprecativa. 196 Si può trovare un testo di Ambrogio, nel trattato
sullo Spirito Santo, da cui si potrebbe dedurre la forma di questa preghiera. 197 Di fatto gli storici ci
ricordano che era di uso comune una formula deprecativa fino al XII secolo. 198 Tale preghiera non
solo invocava il perdono, ma lo produceva efficacemente perché Dio esaudiva la preghiera di coloro
(i vescovi) che aveva delegato a legare e sciogliere. 199
c) Sul giorno della riconciliazione: due passi di Ambrogio 200 indicano chiaramente il
Giovedì santo come il giorno della riconciliazione. Confrontando questi testi con gli usi liturgici
attestati dai libri milanesi posteriori, si può affermare che l‘assoluzione venisse concessa il Giovedì
santo. 201
d) Sulla conclusione eucaristica della penitenza: Il rito della riconciliazione dei penitenti
culmina con la celebrazione eucaristica in cui il penitente ―restituito ai sacramenti celesti‖ può
accostarsi nuovamente all‘altare. Come la penitenza determina l‘esclusione dall‘eucaristia, così la
riconciliazione determina la sua riammissione. L‘eucaristia rappresenta anche il compimento di
tutte le ‗icone evangeliche‘ che Ambrogio aveva citato lungo il suo trattato per descrivere la
192
Cf. GRYSON, p. 42; Cf. MARCHIORO, p. 88. Nella raccolta di E. Lodi abbiamo la descrizione di due riti di
riconciliazione da celebrare il Giovedì santo tratti dal Sacramentario Gelasiano; il primo, secondo l‘autore della
raccolta, sembra ―corrispondere al rito descritto dallo storico Sozomeno, verso il 450, a Roma‖ (Cf. MIGNE PG
67,1460); Cf. LODI, pp. 866-870.
193
Citato in MARCHIORO, p. 89
194
Cf. Paen I, 8, 36.
195
Cf. Paen, II, 3, 18; MARCHIORO, p. 90. Non ci sono indizi di ereditarietà rispetto ad una tradizione precedente che
metta in rapporto questa espressione di Ambrogio con l‘uso del termine
, riservato dalla letteratura subapostolica al battesimo. Cf. FITZER G.,
, GLNT XIII, coll. 411-418.
196
Cf. LODI, p. 867. Come già detto, il testo è tratto dal Sacramentario Gelasiano, ma ci fornisce un esempio.
197
Ecco che ad opera dello Spirito Santo vengono rimessi i peccati! Ma gli uomini nella remissione dei peccati attuano
il loro ministero, non esercitano il diritto di una potestà: non rimettono i peccati nel proprio nome, ma nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Gli uomini pregano e Dio concede: degli uomini è l’ossequio, ma la generosità
appartiene al potere superno. AMBROGIO, Lo Spirito santo, III, 18, 137, a cura di MORESCHINI C. (OOSA 16), MilanoRoma 1979, p. 341.
198
Cf. MARCHIORO, p. 90
199
Su questo ruolo particolare del vescovo (sacerdos) quale ministro delegato alla riconciliazione, Cf. GRYSON, pp. 4243.
200
Il primo è tratto dalla Ep. 20, 25-26: Il giorno seguente viene letto solitamente il libro di Giona … Era anche il
giorno in cui il Signore si è consegnato per noi, nel quale in Ecclesia poenitentia relaxatur; il secondo tratto
dall‘Esamerone 2,24: Sed jam tempus est quocelebratur indulgentia peccaotrum … et ad corpus Jesu conveniat aquilae
peccatorum abluationae renovatae. Cit. in MARCHIORO, p. 98.
201
Ibidem.
penitenza. Essa sarà dunque la comunione desiderata dal figliol prodigo quando rimpiangeva il pane
che mangiava nella casa del padre; è sempre l‘eucaristia che simboleggia il vitello grasso immolato
per la festa del ritorno a casa del prodigo; come è la festa nella casa di Betania cui prende parte
Lazzaro risuscitato. L‘eucaristia risulta, in questo modo, il coronamento della riconciliazione, così
come la comunione eucaristica diviene il compimento del perdono. ―è nell‘eucaristia che
definitivamente ci viene concessa la remissione dei peccati‖. 202
e) Sugli effetti della riconciliazione: sul piano eminentemente spirituale, la riconciliazione
rimette i peccati e concede la pace interiore: ―essa da la ‗veste nuziale‘ 203 e concede la possibilità di
entrare nella vita eterna‖. 204 Ambrogio esprime gli effetti della riconciliazione attraverso una serie
di immagini prese dal vangelo e adattate alla situazione.
Venga la remissione dei peccati, la vita dei morti, la loro resurrezione, “venga il tuo regno”
a questo peccatore. 205
Vedete, infatti, che nel suo grembo i morti ritornano alla vita, risuscitano, quando il
perdono dei peccati è stato loro elargito. 206
Tutte le immagini utilizzate da Ambrogio sono evocative di una situazione completamente
nuova, simile alla risurrezione; attraverso la penitenza colui che si è riconosciuto peccatore, ―sarà
restituito alla pienezza perfetta della sua innocenza‖. 207 Il parallelismo proposto spesso con quanto
accade nel battesimo può essere utile per una comprensione sintetica: anche dalla riconciliazione
scaturisce una vita nuova.
Sul piano disciplinare, come già abbiamo osservato nel capitolo precedente, la
riconciliazione concedeva al penitente la riammissione all‘eucaristia e la pace con la Chiesa, ma
conservava ancora ‗il marchio della penitenza‘ facendo permanere le interdizioni che sarebbero
durate per tutta la vita. 208 Non poteva essere ammesso agli uffici ecclesiastici, né a quelli civili; non
poteva prestare servizio militare e gli era proibito anche il commercio. L‘effetto più grave, o
meglio, maggiormente percepito come tale, era la proibizione dei rapporti coniugali, se sposato, e di
contrarre matrimonio se celibe o vedovo: ―Chi è morto al peccato vive in Dio. Le lusinghe, perciò,
della carne cessano. Essa muore ai desideri per rinascere alla castità e alle opere sante.‖ 209
Nonostante la riconciliazione il cristiano era chiamato a continuare a comportarsi come penitente.
Diversi concili dell‘epoca si sono occupati di questa questione, ma come abbiamo osservato in
precedenza, nessuno ha mai valutato l‘opportunità di attenuare il rigore della penitenza; piuttosto, la
sensibilità pastorale ha orientato ad escludere dalla penitenza coloro che avrebbe potuto ricadere nel
peccato. Infatti una delle conseguenze più importanti era che, in caso di ricaduta, in nessun modo si
sarebbe potuto essere riammessi ad un percorso di riconciliazione.
f) Attenzione al lassismo: se il trattato Paen vuole prima di ogni altra cosa contrastare il
rigorismo espresso dai novaziani, nello stesso trattato troviamo molte indicazioni e ammonimenti
che mettono in guardia dal lassismo. Probabilmente anche Ambrogio, come Cipriano, prima di lui,
si trovò a constatare la tentazione di una certa facilità nel concedere la riconciliazione.
202
R. JOHANNY, L’Eucharistie centre de l’histoire du salut chez saint Ambroise de Milan, Paris 1968 (Théologie
historique, 9), pp. 185-205, cit. in GRYSON, p. 48. Sulla relazione tra penitenza ed eucaristia Cf. B. STUDER.,
L'eucaristia, remissione dei peccati, secondo Ambrogio di Milano, in Catechesi battesimale e riconciliazione nel padri
del IV secolo a cura di S. FELICI (Biblioteca di scienze religiose, 60), LAS, Roma 1984, pp. 65-79.
203
Cf. Paen II, 3, 18.
204
MARCHIORO, p. 104.
205
Paen II, 7, 55
206
Paen II, 7, 59
207
Cf. Paen I, 15, 83.
208
Cf. LORÌA, p. 206.
209
Paen I, 17, 95.
La regola fondamentale che viene ribadita è che, nell‘esercizio del ministero della
riconciliazione, il ministro — il vescovo — deve rispettare la volontà del Signore: ciò vale per gli
eccessi di rigorismo, ma anche per il lassismo. Non per nulla, proprio in apertura del suo trattato,
Ambrogio inneggia alla virtù della moderazione, come il giusto atteggiamento che meglio riflette i
sentimenti divini.
Se il fine supremo delle virtù è il progresso delle masse, la moderazione, indubbiamente, è
la virtù che eccelle su tutte. Essa non suscita il risentimento delle persone che giudica
colpevoli, anzi, dopo averle condannate, le mette in condizione di farsi perdonare. È la sola,
inoltre, che, emula del dono divino della redenzione universale, ha esteso i confini della
Chiesa, frutto del sangue del Signore, esercitando un’azione moderatrice con consiglio
salutare e di natura tale che le orecchie degli uomini sono in grado di prestare ascolto, le
menti non fuggono lontano, gli animi non nutrono timore. 210
In nessun modo tale moderazione può essere confusa con la debolezza del ministro. Essa
deve conservarsi in un equilibrio che non ecceda in una severità che giunge a rifiutare il perdono
per i peccati gravi (è il caso dei novaziani), ma neppure in una facilità di cui è evidente il pericolo
sul piano pastorale: un perdono troppo facilmente accordato rischia di divenire, per altri, quasi un
invito al peccato. Il ministro deve considerare come normale che chi ha ecceduto nella gravità
peccato, debba avere una penitenza corrispondente. ―La pietà di Cristo ci ha insegnato che più gravi
sono i peccati, più validi sostegni necessitano a sopportarne il peso.‖ 211 Gryson 212 sintetizza il
pensiero del vescovo di Milano ricuperando da Ambrogio delle immagini molto evocative: sarebbe
come un medico che si lasciasse intenerire dalle suppliche di un malato e diventasse negligente nel
cauterizzare una piaga purulenta, rifiutasse di incidere un ascesso giunto a maturazione o di
procedere all‘asportazione di un tumore maligno. Come anche occorre favorire l‘uscita del pus e
all‘infiammazione il tempo di calmarsi. 213 È meglio pervenire alla salvezza di un gran numero
condannando alcuni colpevoli, piuttosto che mettere in pericolo la maggioranza, assolvendo
facilmente un colpevole. 214
Interessante questo criterio che ritroviamo nel Commento al Salmo 118: se si deve scegliere,
è meglio eccedere in rigore, piuttosto che nel lassismo, perché nei confronti del ‗gran numero‘, tale
scelta appare meno dannosa. Un ministro che per mancanza di discernimento, o perché non avrà
valutato correttamente le buone disposizioni di colui che cammina nella penitenza, ammetterà una
persona indegna all‘eucaristia, ne porterà le conseguenze.
Dopo questa breve rassegna sui riti di riconciliazione che concludevano il cammino
penitenziale secondo Ambrogio, possiamo trarre due prime conclusioni.
La prima è che, secondo la dottrina di Ambrogio espressa nel Paen occorre osservare che
l‘atto di legare e l‘atto di sciogliere si richiamano a vicenda, anche se è importante notare che essi
non sono equivalenti. Il secondo coinvolge il peccatore ad un livello molto più profondo del primo:
infatti il vescovo, nell‘atto di riconciliazione, non scioglie solamente dai legami della penitenza che
era stata imposta, ma anche da quelli del peccato con cui il peccatore stesso si era incatenato. 215
La seconda conclusione consiste in una sottolineatura. In tutte le pagine del Paen, ciò che
salta agli occhi è che nella disputa con i novaziani — causa immediata della redazione del trattato di
Ambrogio — la posta in gioco è la dimostrazione del ‗potere‘ di rimettere i peccati di fronte a Dio e
non appena del porre termine alla penitenza ecclesiastica. La riconciliazione celebrata dalla Chiesa
210
Paen I, 1, 1.
Paen I, 3, 10.
212
Cf. GRYSON, p. 46.
213
Cf. Exp. ps. CXVIII, VIII, 26.
214
Cf. Exp. ps. CXVIII, XVIII, 11.
215
Cf. Paen I, 14, 73.
211
è una riconciliazione che avviene con il Padre. In nessun luogo si pone il problema di una
riconciliazione con la Chiesa. 216
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216
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TESTI LITURGICI
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SIGLE E ABBREVIAZIONI
CCL
Corpus Christianorum, series Latina
DthC
Dictionaire de Théologie catholique
NDPAC
Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane
OOSA
Opera omnia di sant’Ambrogio
GLNT
Grande lessico del Nuovo Testamento
RL
Rivista liturgica
PG
MIGNE, Patrologia greca
PL
MIGNE, Patrologia latina
Ep. / Epp.
Epistola / Epistole
Serm.
Sermone
Did
Didaché
Herm
Pastore di Erma
1Clem
Prima lettera di Clemente ai Corinzi
Exp. Luc.
Esposizione del vangelo secondo Luca
Exp. Ps CXVIII Commento al salmo CXVIII