la realta dei populismi

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la realta dei populismi
LA REALTA DEI POPULISMI
GIANCARLO BOSETTI
vvicinandosi la fine
della legislatura è il caso di interrogarsi sulla
diffusa convinzione
che la democrazia italiana non
funzioni tanto bene. In effetti,
vista da lontano, è un sistema
che produce governi instabili
oppure leader stravaganti. L'Ulivo si presentava bene, poi bastava qualche nostalgico della
vecchiasinistraperfarlo saltare,
più di una volta. Il centrodestra
metteva ripetutamente al governo l'amicone di Putin, prometteva un sacco di autostrade
e meno tasse, come se fossero
stati gli anni Sessanta; e i voti arrivavano. Se poi, una volta nei
guai più fitti, si affacciavano sulla scena un presidente della Repubblica capace di salvare la situazione, un abile primo ministro e un terzo italiano di valore
a guidare nella tempesta la Banca centrale europea, si sapeva
anche che costoro non erano il
prodotto del voto popolare. Il sistema ha un guasto che non è
dunque etnico, ma politico. Ecco perché si aggravano i sospetti sulla democrazia italiana, anche a guardarla da vicino. Si dice: dip ende dal sistema elettorale che è una porcheria da eliminare, ma anch'esso è un prodotto del sistema politico, che lo ha
generato e che non è capace di
cambiarlo. Si insinua, nel subconscio, la tentazione di pensare che questa democrazia funzioni così male che sarebbe preferibile sospendere le elezioni,
come per esorcizzare una fatale
legge di Murphy: «Se può andare male, lo farà».
Ma non occorre spingersi
tanto in là nella disperazione.
Quella italiana non è l'unica democrazia a presentare risultati
«indesiderabili». La disoccupazione e la paura della povertà
premono dovunque e producono un vento favorevole alle ricette di autodifesa più semplici,
incentivano retoriche del miracolo, e, nei casi peggiori, caccia
ai capri espiatori, che talora se lo
meritano: banchieri fallimentari, politici corrotti, pensionati
d'oro. O immigrati, che funzio-
A
nano anche bene. Marine Le
Pen ha raccolto più di sei milioni di voti riempiendo la Francia
di manifesti con un messaggio
apparentemente molto semplice: «Oui, la France». La ripresa
delnazionalismo, dellocalismo,
ognuno per sé, sono evidenti,
dalla Catalogna alla Germania.
Ha scritto con somma semplicità un politologo di Yale che
l'Europa sta tornando a dividersi su base etnica (Nicholas Sambanis, NyTimes, 26 agosto):
quanto più l'Unione siindebolisce tanto più i cittadini si identificano meno come europei e più
come francesi e tedeschi e tanto
meno accettano che si usino le
loro tasse per salvare quelli del
sud «etnicamente diversi». Agli
italiani che può succedere? Che
potrebbero prendersela con i
cattivi tedeschi, come suggerisce con insistenza la stampa di
destra? Oppure con i vecchi politici da cacciare, come suggerisce il Movimento Cinque Stelle?
O proprio coni «professori», che
- dice Di Pietro - sono degli «asinoni»?
Le vie del populismo sono infinite e chi fa uso di questa droga
fa male a lamentarsi che la si
chiami col suo nome, tecnicamente preciso. Se si guarda a caso il blog del movimento di Grillo si trova la apocalittica ideologia di una democrazia popolare
in cui il popolo si auto determina e riprende nelle mani il suo
destino (preoccupante vaghezza istituzionale) e se si legge il
programma ci si trova l'Eldorado: insegnamento gratuito della
lingua italiana per gli stranieri,
accesso pubblico vialnternet alle lezioni universitarie e poi certo investimenti, molti, nella ricerca, e per la salute investimenti, ancora, sui consultori familiari per promuovere stili di vita salutari e informare sulla prevenzione primaria e secondaria,
screening, diagnosi precoce,
medicina predittiva e poi, ancora, più treniperipendolari, banda larga per tutto il paese e così
via. Non ci sono noiosi dettagli
finanziari.
C'è un vento che soffia da
questaparte, dicono i sondaggi;
si è afflosciato nelle vele dellaLega, ma spinge in quelle di Grillo,
così come rinforza in Germania
sulle ali estreme anti-Euro. Ma
non è detto che prevalga. Ci sono eccezioni alla legge di
Murphy, su scala globale. Il fatto
stesso che Berlusconi esiti a riaprire le ostilità su un terreno che
gli è stato in passato favorevole,
lui «presidente operaio», lui designato alla guida del popolo,
conferma che la situazione dei
venti è ancora «mista», come si
dice in mare. Alla fine in Francia
ha vinto unpresidente socialista
che parla con insistenza di tasse,
in Olanda hanno vinto gli europeisti e il razzista Wilders è nettamente ridimensionato. Una
indagine condotta da tre ricercatori per l'Mit (Bechtel, Hainmueller, Margalit) e pubblicata
sul web, circa la (im) popolarità
dei salvataggi dei paesi europei
in bilico nell'opinione tedesca,
mostra che l'orientamento favorevole dipende più dalla
scuola che si è fatta che dal reddito. Ci sono idee sovranazionaliper cui vale lapenabattersi, come l'Europa, e possono vincere.
Dunque la partita è tutt'altro
che chiusa, ma chi vuole fermare, prima che sia troppo tardi, la
tempesta della retorica populista deve darsi da fare per rimettere rapidamente in onore il
«principio di realtà», se vogliamo chiamarlo in modo impegnativo, o il «controllo dei fatti»,
formula più pragmatica. La
competizione p critica, in demo crazia, è fin dalle origini una
scommessa sulla educazione
degli elettori, sulla loro «maturità»; e dunque si giochi in modo
che le squadre che ne sono dotate facciano valere le armi della
ragionevolezza, allo scoperto,
contro i venditori di miracoli. E
valga sia per il prossimo confronto elettorale sia per le primarie. Dicono bene i non populisti Morando e Tonini, nel loro
recente «manifesto riformista»:
serve una p critica che «favorisca
un'accelerazione della crescita,
consegua il pareggio strutturale
di bilancio, abbattendo lo stock
del debito, e faccia ripartire la
mobilità sociale, riducendo la
disuguaglianza. «È dura» aggiungono - e hanno ragione -
anche solo spiegare come ci si
può provare. Ma il dubbio che
alla fine il senso di responsabilitàrendapiùdiqualsiasiformu-
la magica, anche nella difettosa
democrazia italiana, potrebbe
essere contagioso.