Tuttelevoci dello“spreco-day” Donne e lavoro
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Tuttelevoci dello“spreco-day” Donne e lavoro
Anno IV - Numero 20 Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli 11 Marzo 2011 Reporter nuovo Amministrative Tutte le voci dello “spreco-day” Imprenditoria Donne e lavoro faticosa bigamia Biotestamento Ingiusto morire come Michele Natalità Il parto in acqua comincia sul bus LA’ DOVE ROMA RESTA VERACE VIAGGIO NEI QUARTIERI E NELLE BORGATE ANCORA SALVI DALLʼ«EFFETTO TRASTEVERE» Politica Dopo il no di Maroni, quanto ci costerà andare alle urne tre volte in poco più di un mese Tutte le voci dello “spreco-day” Una fonte dell’Interno: come si arriva a 300 milioni buttati al vento Enrico Messina E allora è deciso: primo turno delle amministrative 15 e 16 maggio, due settimane dopo i ballottaggi, il referendum il 12 giugno. Il mancato accorpamento delle tornate elettorali scatena la reazione dell’opposizione. «Significa buttare dalla finestra 300 milioni di euro, solo per impedire che si raggiunga il quorum», attacca Franceschini. Per l’Italia dei valori la cifra è superiore: «Un furto di 350 milioni di euro», afferma Donadi. Qualche giorno dopo Idv aumenta la cifra: i milioni sarebbero 400. Il ministro dell’Interno Maroni corregge al ribasso: i milioni sprecati sono “solo” 50. «Una cifra precisa è impossibile da trovare», dicono dagli uffici competenti del ministero. Però fare due calcoli è possibile. Secondo quanto rivela una fonte dell’Interno, le difficoltà ad avere un computo unitario dello spreco derivano dal fatto che, a seconda della città dove si vota, vi possono essere delle spese differenti per lo stesso servizio. Però vi sono dei costi che si mantengono simili nelle differenti consultazioni elettorali: l’allestimento delle sezioni, gli straordinari del personale dell’ufficio elettorale, il gettone per scrutatori e presidenti, straordinari del personale di sicurezza. Sono spese che si potrebbero “ammortizzare” unendo le tornate. Affronteranno le amministrative 1.343 comuni, per IL CONFRONTO: ITALIA DEI VALORI/LEGA Borghesi: «La battaglia per il 29 continua» Borghezio: «Scelta giusta nel rispetto della democrazia» Il vice capogruppo dell’Idv alla Camera presenta la mozione pro-accorpamento e denuncia Maroni L’esponente della Lega all’Europarlamento difende la decisione e assicura: «La base capirà» CONTRARIO Antonio Borghesi On. Antonio Borghesi, l’Idv si è opposto allo spostamento dei referendum. Per chiedere l’accorpamento con i ballottaggi è stato fondato il comitato “Io voto il 29 maggio”, di cui Di Pietro è uno dei principali animatori. Come sta andando la raccolta delle adesioni? «In pochi giorni abbiamo raccolto più di ventimila firme e la raccolta continua». Quali le altre mosse per portare avanti la battaglia? «Abbiamo presentato una mozione parlamentare che impegni il governo ad istituire l’election-day e che sarà discussa (insieme a un’analoga del Pd) la prossima settimana. Inoltre, abbiamo denunciato il ministro Maroni alla Corte dei Conti per danno erariale». Il no all’election-day costerà circa 300 milioni euro. Ma sono cifre valide solamente se si prende in considerazione il primo turno, perché si prevede che solo il 30 per cento dei comuni andrà al ballottaggio e quindi la riduzione dello spreco con l’accorpamento al secondo turno è drasticamente minore. Eppure voi avete chiesto di unire il referendum proprio al secondo turno. Non è una contraddizione? «Abbiamo voluto evitare di appesantire eccessivamente il primo turno, considerato che nel primo turno l’elettore deve dare la preferenza e nei comuni più grandi si vota anche per i consigli di circoscrizione. Nel secondo turno il voto del ballottaggio è più semplice e quindi l’impegno complessivo dell’elettore è meno gravoso». E.M. FAVOREVOLE Mario Borghezio On. Mario Borghezio, tre appuntamenti elettorali diversi. La decisione arriva da un ministero targato Lega. Come si concilia con la cultura leghista contraria alla politica “sprecona”? «La nostra cultura prevede anzitutto il rispetto degli istituti democratici. Il ministro Maroni ha seguito la stella polare dell’interesse generale, che impone che elezioni importanti come quelle amministrative non siano distratte da altri argomenti. Il referendum è un istituto diverso ed è una cartina al tornasole dell’interesse della collettività: chi è interessato andrà a votare». Questa decisione non rischia di mettervi in difficoltà con la base del partito? «La base della Lega capisce benissimo quali sono i veri sprechi della politica. E sa benissimo che il no alla tornata unica non rientra fra questi». La Lega si è opposta a celebrare l’Unità d’Italia con una giornata di festa nazionale, perchè sarebbe uno spreco. Non c’è contraddizione con lo sperpero rappresentato dal mancato election day? «Non c’è contraddizione: la festa è una possibilità, il referendum no. Festeggiare l’Unità d’Italia non è strettamente necessario. Non c’è scritto nella Costituzione che lo Stato debba celebrare il centocinquantesimo. Mentre votare al referendum è un diritto del cittadino costituzionalmente garantito ed è dovere dello Stato permettere che questo diritto venga esercitato». E.M. un totale di 12.889.193 elettori divisi in 15.732 sezioni. Per allestire ognuna di esse saranno necessari un migliaio di euro circa, per un totale di quasi 16 milioni di euro. I gettoni per scrutatori e presidenti ammontano a circa 3 mila euro a sezione: poco più di 47 milioni di euro. La fetta più importante della “torta dello spreco”, però, è quella che riguarda il personale di sicurezza: 63 milioni di euro, secondo il più “ottimista” dei calcoli. Complessivamente andranno buttati quasi 126 milioni di euro. Vanno poi considerati il trasporto schede, il noleggio delle strutture di voto, gli straordinari per il personale dei ministeri interessati. Secondo la nostra fonte «si arriva tranquillamente a 150 milioni di euro». E queste sono solo le spese dirette, sostenute dagli apparati dello Stato. La Voce.info ha poi calcolato i costi indiretti (tempo impiegato per votare, il costo sostenuto dalle famiglie per la chiusura delle scuole, la giornata lavorativa persa dai componenti del seggio) sostenuti dai votanti per il mancato accorpamento delle elezioni del 2009. In quel caso il computo arrivava a quota 200 milioni di euro. Aggiornato al numero di sezioni e votanti di questo turno di amministrative si arriva a 150 milioni circa. Cifra da sommare ai costi diretti per uno spreco totale di 300 milioni di euro. Dati confusi, difficoltà anche per chi volesse aprirne uno Davide Maggiore PROMOTRICE Il Ministro Michela Vittoria Brambilla ha la responsabilità del progetto 2 11 Marzo 2011 Partenza in salita per i Pdl point, tra tempi indefiniti e informazioni scarse per i militanti berlusconiani desiderosi di impegnarsi nell’ultima iniziativa del premier. Dovevano essere allo stesso tempo centri di assistenza fiscale, patronati e punti informazioni per studenti, donne, anziani, famiglie e imprese. Il ministro Michela Vittoria Brambilla, al fianco del premier, aveva esposto numeri ambiziosi. Cinquecento sportelli già aperti, la prospettiva di arrivare a ottomila. Tutti targati Pdl, ma aperti anche a chi il Cavaliere non lo voterebbe mai. Pdl point: ancora fermi al palo gli 8 mila ‘sportelli Brambilla’ In realtà anche il sostenitore del Popolo della libertà che volesse contribuire a questo passo della sempre annunciata ‘rivoluzione liberale’ incontrerebbe difficoltà. Sul sito www.alserviziodegliitaliani.it (nome dell’associazione di cui il premier è presidente onorario) c’è un numero verde. Ma i centralinisti non sanno dare informazioni su costi e requisiti per l’adesione. Si limitano a raccogliere i dati degli interessati, assicurando che saranno richiamati «appena saranno aperte le sedi». Giorni, settimane, mesi? Impossibile dirlo. Dalla sede del Pdl, invece, rinviano al ministero della rossa Brambilla. A cui il presidente del Consiglio già in passato affidò iniziative d’impatto. Ma nemmeno l’ufficio stampa ha cifre più aggiornate delle duemila chiamate nei primi quattro giorni. E mancano anche le informazioni pratiche. Il rinvio è a un comunicato già uscito, o ad altri contatti da definire. Perché, spiegano, «questa è una cosa specificamente politica». Che siano più affidabili i dati sostanziosi o le incertezze comunicative, di fatto, gli ‘sportelli Brambilla’ hanno avuto poca fortuna sulla Rete. Dove qualcuno ha già evidenziato possibili conflitti di interesse: ad esempio sulla consulenza finanziaria, settore in cui saranno impegnati gli sportelli. Ma che è anche quello di Banca Mediolanum, parte dell’impero Fininvest. Dubbi anche sulla funzione di consultorio (teoricamente prevista): richiederebbe complesse autorizzazioni sanitarie, difficili da ottenere per strutture nate dall’oggi al domani. Ci si è chiesto persino se un’iniziativa per aiutare i cittadini nella giungla burocratica non sia una dichiarazione di fallimento del governo ‘semplificatore’. Infine c’è chi si è richiamato, con più sarcasmo, a ben altre cronache attuali. «Pare ci sia un servizio per tutti, un numero verde per le iscrizioni al bunga bunga», è stata infatti la conclusione di un anonimo utente di blog. Reporter nuovo Economia Al convegno sull’imprenditoria femminile, organizzato dalla Camera di commercio di Roma Donne e lavoro, faticosa bigamia Costrette a un doppio “sì” per conciliare vita professionale e privata Federica Ionta Aida Ben Amar aveva poco più di vent’anni quando lasciò la Tunisia per l’Italia. Aveva scelto Roma, si era iscritta all’università e nei ritagli di tempo lavorava in una piccola azienda di ricambi per auto d’epoca. Finché un giorno il proprietario la fece andare nel suo ufficio e le disse che di lì a poco l’azienda avrebbe chiuso. Troppi debiti, «più di 120 milioni», e una cattiva gestione dovuta anche alle liti dei figli, tutti maschi, che avrebbero dovuto rilevare l’impresa di famiglia. A quelle parole, Aida sentì un grande senso di frustrazione. Avrebbe potuto lasciare «la nave che affondava», cercarsi un altro lavoretto e continuare i suoi studi. Invece scelse di lottare, «come una figlia», fedele a quel suo «papà italiano» che gato il vice-presidente della Provinle aveva insegnato il mestiere. Era il cia di Roma Cecilia D’Elia – è dedi2001. Aida prese un mutuo per cata a tutte le donne che sono “bicomprare la piccola ditta, si inventò game”, che hanno deciso di “sposaun’attività di import-export con la Tu- re” privato e lavoro e lottano ogni nisia per raccogliere qualche soldo, giorno per conciliare queste due convinse i suoi parenti nel Maghreb vite. È per tutte le donne che hanno a prestarle denaro. E alla fine, dopo detto un “doppio sì”». quattro anni di sacrifiLe donne sono le ci, saldò il debito di prime ad essere allon120 milioni. «Non è La storia di Aida: tanate dal mondo del facile gestire un’imlavoro in periodi di “Con amore e presa in un settore, crisi, ma allo stesso quello automobilistico, sacrificio ho salvato tempo sono più creacosì tipicamente mative e attente ai bisogni la mia impresa” delle aziende. «I dati – schile – ha raccontato – Ma non mi scoragha detto il presidente gio: e alle donne cliendella Cciaa di Roma ti faccio sempre il 50 per cento di Giancarlo Cremonesi – parlano chiasconto». ro. Le donne sono più determinate, La storia di Aida racchiude in sé tenaci e spesso più preparate di tanil senso più profondo della manife- ti uomini. Offrono un’occasione in stazione “M’illumino d’impresa”, più per uscire definitivamente dalla convegno dedicato all’imprenditoria crisi». Come a dire che la loro senfemminile organizzato dalla Camera sibilità femminile e l’innato istinto di commercio di Roma al Tempio di protettivo possono aiutare le impreAdriano. «Questa giornata – ha spie- se a crescere più sane e forti. Secon- do noti studi McKinsey le società con una maggior presenza femminile fra i consiglieri hanno di solito performance migliori di quelle con una presenza più bassa. I risultati sono notevolmente migliori nei consigli di amministrazione con tre o più donne, quando la “massa critica” rosa fa davvero la differenza. E non solo. «Le aziende femminili sono statisticamente più solvibili – ha sottolineato il responsabile Cciaa del gruppo di lavoro sul Credito, Tiziana Ferrante – ma non perchè hanno più soldi: è una questione di mentalità, di volontà di gestire l’attività in un modo sano». A conferma, l’analisi della Camera di commercio di Roma ha messo in evidenza come le imprese femminili nella provincia Capitale siano aumentate tra il 2009 e il 2010 del 6,2 per cento: un ritmo più sostenuto sia del Lazio (+5 per cento) che di tutto il territorio nazionale (+2,1 per cento). La maggior parte delle donne lavora nel commercio (il 46 per cento del totale), seguito da alloggio e ri- Una condizione che, come ha fatto notare l’assessore alle Attività produttive della Capitale Davide Bordoni, «costringe le donne a diventare imprenditrici dopo la maternità», per non rimanere completamente escluse dal mercato del lavoro. Dall’altro c’è la questione dell’accesso al credito: una difficoltà che coinvolge anche i colleghi imprenditori uomini e che spesso mette le micro-imprese alla mercè degli usurai. Quello delle pari opportunità sul lavoro è un tema su cui sta lavoranBIGAME do l’Europa, l’ultimo riferimento Una vignetta ironizza sul doppio ruolo normativo è la Direttiva 54 del 2006 delle donne, a metà tra vita privata e del Parlamento europeo e del Conprofessionale. Sopra, il presidente siglio, ma anche l’Italia, a cominciadella Camera di commercio di Roma re dal provvedimento sulle quote rosa Giancarlo Cremonesi nei consigli di amministrazione e negli organi di controllo delle società, storazione. In tutti i casi, ha fatto no- che sarà in aula a palazzo Madama il tare il presidente Cremonesi, «è mol- prossimo 15 marzo. Ma alla realtà giuto elevata la quota di donne che av- ridica formale non sempre corriviano nuove aziende, piuttosto che sponde una realtà sostanziale in gracontinuare l’attività di famiglia». Le do di superare la contraddizione che donne sono anche più propense a in- vede le donne al centro della vita donovare: nell’ultimo anno il 37 per cen- mestica e ai margini di quella proto delle imprese femminili italiane ha fessionale: solo il 47 per cento delle acquistato macchinaitaliane lavora, contro il ri, tecnologie o bre58 per cento della mevetti, contro il 24 per Le aziende in rosa dia Ue. Un dato su cui cento del dato meincide il “peso” della fadio nazionale che in- sono più solvibili e miglia: basti pensare clude anche gli uoche in Italia il 30 per sono gestite in mini. Ma le donne cento delle donne riemodo più sano imprenditrici non sce a lavorare solo lahanno ancora vita fasciando i figli ai nonni cile. Quella “bigamia”, (in Svezia la casistica che le costringe a scegliere tra una vita scende al 2 per cento). in casa e una fuori, si trascina dietro Nel suo romanzo-saggio “Le tre problemi che le Istituzioni, naziona- ghinee”, Virginia Woolf scriveva: li ed europee, ancora non hanno sa- «Dietro di noi sta il sistema patriarputo affrontare in maniera compiu- cale; le pareti domestiche, con (...) il ta. Per il vice-presidente D’Elia «il pri- loro servilismo. Dinnanzi a noi si apre mo problema si chiama conciliazio- il mondo della vita pubblica, con la ne: ancora oggi in Italia si perde il po- sua possessività, la sua invidia, la sua sto di lavoro dopo il primo figlio». aggressività, la sua avidità». Sorprendente campagna pubblicitaria del governo georgiano su Economist e Time Investite! Non c’è più corruzione Ilaria Del Prete PRESIDENTE Saakashvili è al governo dal 2004 Reporter nuovo “Georgia, the world’s number one in fighting corruption”, l’ambiziosa affermazione è il titolo di una campagna pubblicitaria finanziata dal governo di Tiblisi. Niente di sconcertante, se non fosse che lo stato transcaucasico è famoso appunto per l’elevato tasso di corruzione che attanaglia le sue istituzioni: solo fino a cinque anni fa, come testimoniano degli operatori inviati per lavoro in Georgia, per evadere il fisco gli hotel non erano neanche for- niti di insegna a indicarne la presenza. A dimostrazione dei successi georgiani, i dati raccolti dal Trasparency International, organizzazione che misura il livello di corruzione percepita dalla popolazione di 178 paesi in tutto il mondo. Come spiega l’ultimo bilancio, datato 2010, la Georgia si colloca al 68esimo posto della classifica, con un indice pari a 3.8, dove in una scala che va da zero a dieci, lo zero rappresenta il massimo grado di corruzione. Non che la situazione sia idilliaca, dunque, nel paese che tramite la divulgazione di questo dato spera di attrarre un maggior numero di investimenti economici sul territorio, ma di certo a partire dal 2004, anno in cui il presidente Saakashvili ha raccolto il 96 per cento dei consensi elettorali (scesi al 79 per cento alla seconda elezione, nel maggio 2008), la situazione si è evoluta positivamente. Sette anni fa, infatti, la Georgia occupava la 133esima posizione. Secondo un altro studio, condotto dall’International Republic Institute, la Gallup Organization e il Baltic Survey, solo lo 0.4 per cento della popolazione avrebbe pagato una tangente per ottenere un pubblico servizio negli ultimi tre anni. I successi del governo di Tiblisi nella lotta alla corruzione sono testimoniati dal 77 per cento della popolazione, che si dice soddisfatta delle sue battaglie, ma anche dal Dipartimento di Stato USA arriva notizia di segnali positivi. Nel Country Profile della Georgia si legge che “poco dopo che il presidente Saakashvili si è insediato, la sua amministrazione ha rinnovato quasi per intero le forze di polizia e ne ha sostituito i ranghi con ufficiali meglio pagati e meglio addestrati, immediatamente diminuendo la principale fonte di corruzione”. Nonostante le classifiche parlino chiaro, e la Georgia occupi la posizione immediatamente successiva all’Italia (al 68esimo posto con 3.9 punti, dopo il Ruanda), esiste ancora un limite posto dalla ristretta fiducia nel sistema giudiziario che non consente di attrarre ingenti capitali dall’estero nel paese in cui la guerra delle Rose non è riuscita a portare una vera e propria democrazia. 11 Marzo 2011 3 Economia Le conversazioni via web sui cellulari fanno concorrenza ai gestori di telefonia mobile Per gli operatori è allarme Skype Vodafone è corsa ai ripari: abbonamenti più cari per chi vuole usarlo U n cellulare e mezzo per abitante. Prima di noi solo Emirati Arabi, Estonia e Hong Kong. L’Italia si colloca al quinto posto nella classifica mondiale per numero di cellulari in rapporto alla popolazione. Nonostante i limiti strutturali della rete italiana, è cresciuta del 44,4 per cento, rispetto al 2009, la disponibilità di accesso alla rete con i dispositivi mobili: 6,2 milioni di italiani hanno dichiarato di avere un cellulare con connessione a internet (fonte dati: Audiweb, dicembre 2010). Il traffico è sicuramente destinato ad aumentare nei prossimi anni anche grazie agli investimenti dei singoli operatori telefonici. La nuova frontiera è la Hspa+, una evoluzione delle reti 3G, acronimo che sta per “terza generazione”, e per il 2012 si parla già di tecnologia di “quarta generazione”. In concreto, navigazione più facile e download più rapidi. I protagonisti di quest’evoluzione sono gli operatori telefonici: Vodafone e Telecom Italia. La compagnia inglese ha già introdotto la trasmissione dei dati a 43,2 megabit per secondo a Roma e Milano. Telecom Italia invece MANIA Due ragazze con due cellulari ciascuna. In Italia ci sono più cellulari che persone. In Europa, sopra di noi, solo l’Estonia ha già sperimentato la banda larga a 21 megabit sempre nelle due maggiori città della penisola e punta a raddoppiare la velocità in tutto il territorio nazionale entro la fine dell’anno. I cellulari erano nati per telefonare senza fili, oggi sono utilizzati sempre più per la trasmissione di dati sul web. Sempre secondo Audiweb, il 15 per cento degli internauti italiani si connette esclusivamente dagli smartphone. Il cerchio s’è chiuso con i programmi Voip (voice over internet protocol), una sigla che indica le conversazioni rese possibili da una connessione internet. Le telefonate sono gratis se gli utenti usano entrambi i software, mentre sono a tariffe bassissime se uno dei due non lo usa. Skype, il software più usato per le telefonate sul web, che da poco ha toccato la quota record di 30 milioni di utenti connessi nel mondo nella stessa giornata, è già sbarcato sui cellulari. Era il 2006 e l’esordio fu reso possibile dall’operatore internazionale Tre. Negli anni si è inimicato gli altri operatori di telefonia mobile. Da ultimo Vodafone che ha vincolato l’uso di Skype, e di altre applicazioni, alla sottoscrizione di un particolare piano tariffario dal costo non proprio concorrenziale: bisogna pagare otto euro in più oltre al prezzo dell’abbonamento. Altri software hanno seguito l’esempio di Skype. Il suo concorrente “numero uno” è Viber, per chiamare gratis con gli iPhone. In soli tre giorni, lo scorso dicembre, dal sito della Apple più di un milione di utenti ha scaricato l’applicazione. Il boom di Viber e il consolidamento di Skype hanno davvero spaventato i gestori telefonici. Fino a quando le conversazioni gratis via web avvenivano solo tra pc, nessuno si preoccupava. Da quando i cellulari li hanno sostituiti, gli operatori si sono sentiti minacciati e sono corsi ai ripari con alcune restrizioni, come nel caso di Vodafone. Skype ha già parlato di “minaccia alla libertà dei consumatori”. In Russia alcuni industriali hanno chiesto al governo di intervenire in difesa della sicurezza nazionale e dell’interesse delle imprese di telefonia mobile, i cui profitti potrebbero calare per colpa di Skype. Una rete più veloce potrebbe trasformarsi dunque in un’arma a doppio taglio per gli operatori: da un lato aumenterebbero i loro profitti per il traffico dati, dall’altro potrebbero perdere terreno nel traffico telefonico. Pregi e difetti della nuova tecnologia. Scompaiono gettoni e cabine, e nasce il geomarketing Il telefonino, un guinzaglio che lega tutti In un cortometraggio del regista Manoel de Oliveira, due vecchi amici s’incontrano per caso a San Paolo. Vogliono raccontarsi cos’hanno fatto negli ultimi anni, ma i rumori del traffico e le frequenti chiamate che entrambi ricevono al cellulare glielo impediscono. Allora decidono di telefonarsi. Un paradosso dell’incomunicabilità che rappresenta bene la società di oggi: i rapporti umani resi difficili, ma al contempo salvati, dalla tecnologia. I colpevoli sono i cellulari, che ci tengono al guinzaglio, fanno sapere a tutti, e sempre, dove ci troviamo, con chi siamo e cosa facciamo. Il telefonino è come la copertina di Linus, non riusciamo a staccarci e ci fa sentire più sicuri. Alcuni produttori di software hanno colto la palla al balzo, hanno 4 11 Marzo 2011 sviluppato delle applicazioni hanno ringraziato la tecno- diventate un prezioso struper la geolocalizzazione, e logia. Con l’avvento dei cel- mento di indagine, che qualhanno reso un servizio alle lulari è diventato più facile cuno ha pensato di evitare imprese per il geomarketing. rintracciare la vittima di un proprio sfruttando il proAd esempio, c’è un’applica- reato, come un sequestro, gresso. Diversi magistrati zione per iPhone che si chia- oppure ricostruirne gli spo- impegnati nella lotta contro ma Foursquare: basta sfiorare stamenti dall’esame delle la criminalità organizzata, lo schermo per far sapere ai celle telefoniche. Tutti i re- come Maurizio de Luca, sopropri amici stituto procudove ci si ratore della Le intercettazioni hanno reso più agevoli trova. E gli Direzione naesercizi comzionale antile indagini, ma Skype resta merciali hanmafia, e Nino subito apcola Gratteri una zona franca, come insegna la mafia profittato della procura delle potendi Reggio Cazialità dei social network per centi casi di cronaca – dal labria, hanno denunciato conquistare i clienti: man caso Scazzi alla scomparsa di l’uso di Skype da parte dei mano che sale il numero di re- Yara Gambirasio, al delitto di mafiosi. Proprio nelle ingistrazioni nello stesso nego- Cogne – hanno coinvolto tercettazioni una frase rizio, aumentano gli sconti. esperti in telecomunicazio- corrente è «Sentiamoci su Ecco servito il geomarketing. ne per l’esame del traffico te- Skype», e allora gli inquiCertamente gli investi- lefonico. E le intercettazio- renti devono ricorrere ad gatori delle forze dell’ordine ni sul traffico mobile sono altri strumenti d’indagine Pagina a cura di Vito Miraglia visto che il traffico telefonico su Skype non può essere intercettato. Più i cellulari si sono diffusi e più velocemente sono state smantellate le cabine telefoniche: entro il 2015 la Telecom farà piazza pulita, mentre in Spagna e Francia alcune sono diventate internet point da marciapiede. I telefonini hanno mandato in soffitta gettoni e schede magnetiche e, con essi, il rituale della conversazione per strada: fare incetta di gettoni, cercare una cabina, attaccarsi alla cornetta e spesso, far aspettare fuori gli impazienti. Oggi le cabine sopravvivono solo in alcuni luoghi come le stazioni o gli ospedali: ma è più raro trovarsi con una scheda telefonica che con il cellulare fuori uso. NEL 2012 In cinese il wi-fi di Londra I giochi olimpici di Pechino sono stati l’occasione per sfoggiare il successo economico della Cina. Ma anche i prossimi giochi di Londra 2012 potrebbero parlare mandarino: l’azienda cinese Huawei s’è offerta per costruire la rete wi-fi nella metro londinese: sì potrà parlare e connettersi durante i viaggi nel Tube. Un regalo da 50 milioni di sterline per la seconda società al mondo di sistemi di telecomunicazioni dopo la svedese Ericsson. Huawei pensa di recuperare l’investimento con i costi di manutenzione. Nel 2009 il suo fatturato ha superato i 21 miliardi di dollari. Tra i suoi mercati di riferimento non ci sono solo le infrastrutture di rete (ha contribuito alla costruzione delle reti nel Sud Italia), ma anche i cellulari e le applicazioni per i dispositivi. I suoi prodotti sono altamente concorrenziali. La ricetta è prezzi low cost più manifattura high quality. Il suo successo ha spaventato i concorrenti occidentali. Gli Stati Uniti hanno addirittura respinto degli investimenti di Huawei per il sospetto di contiguità con il regime cinese. Intanto, da luglio, il suo brand è finito sugli smartphone, dopo essere comparso sulle chiavette Usb. Il pezzo pregiato è uno smartphone che ha sposato il sistema operativo del momento, Android, che oltreoceano ha ormai superato gli omologhi di iPhone e BlackBerry. E Huawei è pronta a sottrarre altre quote di mercato alla Apple con il suo tablet che farà concorrenza all’iPad. In Italia la sua presenza potrebbe consolidarsi grazie alla partnership con PosteMobile, la società del gruppo PosteItaliane attiva nelle telecomunicazioni. Reporter nuovo La Roma verace Mini-reportage sui quartieri e su alcune borgate che incarnano la romanità della Capitale Si trova qui la sua anima profonda Un altro volto rispetto a quello di Trastevere, inquinato dal turismo Un viaggio attraverso i quartieri e le borgate della Capitale alla ricerca degli angoli e dei personaggi più veraci, ma anche il diario di un territorio alle prese con la sfida dell’espansione urbanistica. Per scoprire le trasformazioni sociali e i fenomeni culturali che attraversano le “nuove Trastevere” e i quartieri lontani dal centro. Lo sguardo di Reporter Nuovo attraversa la Testac- cio “industriale” e giallorossa, scivola lungo le viegiardino della Garbatella, scopre il nuovo volto del Pigneto, getta lo sguardo nella San Lorenzo dei locali notturni. Oltre a percorrere “nuove” – ma già tipiche – strade di periferia, dove sorgono il Quarticciolo, Primavalle, Tor Marancia, il Trullo. Un mondo dove «si rifugia quella Roma popolare che è evasa da un centro oggi “con- quistato” dalle aziende, dalla politica, dagli acquirenti stranieri, dai turisti» come spiega Maria Immacolata Macioti, sociologa, che a questi temi ha dedicato tutta la sua ricerca. Un mondo che è stato al centro delle riflessioni letterarie e cinematografiche dei grandi maestri, da Pier Paolo Pasolini a Nanni Moretti, da Vittorio de Sica ad Alberto Moravia. Testaccio, la culla giallorossa Garbatella, splendida promessa dove il mattatoio sforna arte che svende le sue case-giardino «I l trambusto? I locali? Non si stupisca, ce so’ dai tempi de “Checco e Nina”». Manfredi, “Manfredino”, è il titolare dell’alimentari di piazza Santa Maria Liberatrice, quartiere romano di Testaccio. Il fatto che abbia ragione su ciò che accade in questo ventesimo rione della città eterna non dipende soltanto da quella spiccata veracità che nel ventre sempre più aperto e contaminato di Roma è garanzia di vera saggezza popolare. E’ inutile stupirsi del traffico, dei cantieri e della vita notturna, e lo si capisce anche con una breve visita in quei sessanta ettari che sorgono alle pendici del Monte de’Cocci, la collina di detriti di anfore romane che da’ il nome al quartiere (le testae sono, appunto, i “cocci” in latino). Ma è sul dato storico che la risposta del negoziante è ancora più calzante. Il nuovo mercato, che probabilmente sarà pronto ad aprile, consentirà il trasferimento dei 112 banchi di Piazza Testaccio. E anche se alcuni lamentano i ritardi nella costruzione, Manfredi rassicura: «Funzionerà, d’altronde il mercato lì c’era anche al tempo dei romani». A Testaccio la storia si ripete. Le origini del quartiere, d’altronde, parlano chiaro: sorto in epoca romana come insediamento di contorno al porto - l’Emporium - che garantiva alle navi commerciali un comodo approdo nel cuore della città (e una comoda discarica per le anfore in disuso), il quartiere non ha modificato le abitudini dei suoi abitanti. Il triangolo oggi tracciato da via Marmorata omaggio al traffico di marmi che dalle rive del Tevere invase presto la capitale dell’Impero - via Galvani e lungotevere, ha dato accoglienza dal secondo secolo fino ai Reporter nuovo FEDE Un angolo “giallorosso” del quartiere di Testaccio. giorni nostri a industrie e traffici di ogni tipo ma con un lungo letargo: dall’epoca di Traiano fino alla seconda metà dell’800, quando a farla da padrone nelle campagne di Roma sud erano soltanto le erbacce e la malaria. Il primo piano regolatore della capitale del Regno d’Italia fece riprendere al quartiere il ruolo di motore per lo sviluppo in- Il nuovo mercato occupa il posto di un antico mercato romano dustriale della città. Testaccio fu individuato da Luigi Pianciani, primo sindaco della Roma liberata, come l’area dove dare libero sfogo alle “arti clamorose”, ovvero rumorose, grazie anche ad una posizione che avrebbe evitato il transito degli scarti e dei rifiuti industriali in mezzo al centro urbano. Una scelta logistica che si è rivelata intelligente, vista la lunga carriera del grande Mattatoio che fece da protagonista di questa rinascita e che oggi proprio di arte si occupa, con il museo Macro e la facoltà di architet- tura di Roma Tre. Senza contare poi l’altra “arte”, questa sì veramente “clamorosa”: quella calcistica. Le prime partite della Roma sono state giocate qui, al Campo Testaccio, stadio-simbolo della Lupa, demolito nel 1940. Il campetto dei “pulcini” che ne ha raccolto l’eredità è oggi minacciato da un progetto di parcheggio. Ma gli anziani testaccini riuniti al bar di via Aldo Manuzio non sono preoccupati. «Quel campo è come la fede, indistruttibile», afferma un distinto signore romanista. Che ricorda – a baluardo dello spirito di resistenza del quartiere – il vecchio motto: «Campo Testaccio c’hai tanta gloria, nessuna squadra ce passerà». Rumore, fede, sport. E bagordi. Quando cala la sera, alle pendici di quel mons testaceus si accendono i nomi della movida del venerdì e del sabato sera: il Joia, le Rune, il Coyote, il Contestaccio, il Radio Londra. Nelle stesse caverne - osterie che hanno dato ospizio, per secoli, ai manovali dell’operoso quartiere. Almeno “dai tempi di Checco e Nina”. N ovantuno anni e non sentirli. O quasi. Nascosta alla vista dei centauri di via Cristoforo Colombo dalla silhouette-scudo del palazzone della Regione Lazio, la Garbatella vive nei suoi lotti e nei suoi giardini. La tranquillità, almeno di giorno, è d’obbligo. Lo storico quartiere a sud di Roma, progettato dagli architetti pionieri della città-giardino Gustavo Giovannoni e Innocenzo Sabbatini all’alba del Ventennio, è stato protagonista negli ultimi quindici anni di una riscossa sociale e urbanistica senza precedenti. Una riscossa che prima si percepisce, poi si vede, e poi ancora si respira avvicinandosi alle palazzine dai colori accesi (rosso, giallo, marrone) costruite durante il fascismo e ristrutturate di recente, entrando nei cortili delle villette ocra, parlando con i loro abitanti. «Il merito è dell’Università di Roma Tre», azzarda Francesco Cosimo, che nell’ateneo lavora. E nelle villette di via Roberto De Nobili vive, in subaffitto. «Pensiamo al Teatro Palladium, che ormai ha raggiunto la notorietà internazionale grazie al Romaeuropa festival. Pensiamo al valore aggiunto delle vicine facoltà di Giurisprudenza e Scienze Politiche, alla nuova Economia: l’Università ha svegliato gli abitanti di questo quartiere». E, con il tempo, li ha resi più ricchi. Basta chiedere a una studentessa di Scienze Politiche qual è la situazione delle abitazioni. «Una stanza in una casa bilivelli si può arrivare a pagarla anche 600 euro». Un prezzo alto, quasi fuori mercato. «C’è la metropolitana, ma le garantisco che di notte Garbatella non è certo sicura come il centro storico». Il disagio della periferia preme, Pagina a cura di Jacopo Matano INTERNAZIONALE Il teatro Palladium, protagonista della riscossa del quartiere infatti, su questo quartiere, sulle sue strade, negli sguardi dei ragazzi in motorino o affacciati ai balconi rigorosamente addobbati con le bandiere della Roma. Edilizia popolare ma affitti paradossali, se si tiene in conto che a progettare quelle case è stato l’Istituto autonomo di case popolari (Iacp, oggi Agenzia territoriale per l’edilizia regionale), L’Ater svende le case: 30mila euro per 50 mq quando ancora nella zona si coltivava la vite con il metodo “a garbata”, che forse le diede il nome, e lontanissimi erano l’Ateneo, i ristoranti, i riflettori del set cinematografico dei “Cesaroni”. Cosimo ricorda. «Quando sono arrivato a Roma, alla fine degli anni ’90, questo era ancora un quartiere povero che credeva e realizzava una speranza». Ma mentre la Garbatella ideale spiccava il volo, quella reale restava ancorata a terra dai problemi burocratici. «Ci sono centinaia di casi in cui i tempi lunghi, i vinco- li per l’anzianità delle case e le pratiche rese faticose dall’indisponibilità degli inquilini costringono l’Ater a svendere la casa». Al prezzo irrisorio di 30 mila euro secondo un massimale fissato dalla legge 560 del ’93, quando il valore di mercato sarebbe almeno sette volte tanto. Una vera e propria “svendita” - 1.300 abitazioni, una fetta consistente del quartiere – che sta frustrando i nuovi abitanti. E lo sfogo di Cosimo diventa condivisibile: «In cinque anni di affitto ho già coperto l’intero valore della casa». Accanto alla sua abitazione si scorgono i lavori del mercato di via Passino, avviati nel 2002 e passati attraverso nove anni, tre giunte e quattro rinvii solo dallo scorso settembre. Sulla via del centro, poi, si passa davanti al cantiere più importante, che oggi è solo sulla carta: il Campidoglio 2, grande “hub” di uffici che consentirà – nelle intenzioni del sindaco Alemanno - «di liberare il centro, creare un luogo più addensato e risparmiare notevolmente dal punto di vista finanziario». La Garbatella continua a promettere. Sperando che la bolla non esploda. 11 Marzo 2011 I La Roma verace Lo storico quartiere a est di Porta Maggiore da qualche anno sta vivendo la sua primavera Pigneto, non chiamatelo borgata Nel dopoguerra era il paradiso per gli affitti. Adesso tutto è cambiato Vito Miraglia Se guardiamo la mappa di Roma, a est della Stazione Termini vediamo un triangolo, chiuso tra via Prenestina, via Casilina e via dell’Acqua Bullicante. La punta di questo triangolo guarda al centro, a piazza di Porta Maggiore, ma si allarga verso la periferia: Prenestino Labicano, Centocelle, Giardinetti. È il quartiere Pigneto, ma guai a chiamarlo “borgata”. Da quattro, cinque anni, è diventato tra i quartieri più in della Capitale. Da quando hanno chiuso un tratto di via del Pigneto, la sua arteria principale trasformata in isola pedonale. Sono i luoghi amati da Pier Paolo Pasolini, abitati dai suoi ragazzi di vita, protagonisti dell’omonimo romanzo e del film Accattone, che ebbe il suo primo ciak proprio a via Fanfulla da Lodi, al Bar Necci. “Tutt’intorno s’alzavano impalcature e casamenti in costruzione, e grandi prati, depositi di rottami, terreni fabbricabili; da lontano, forse dalla Marranella, dietro il Pigneto, si sentiva giungere la voce d’un grammofono [...] Quando ch’ebbero lasciato alle spalle, passo passo, Porta Furba e si furono bene internati in mezzo a una Shangai di orticelli, strade, ISOLA Uno scorcio dell’isola pedonale di via del Pigneto. La sera i banchi del mercato lasciano il posto a gruppi di ragazzi nei pub che si affacciano sulla strada reti metalliche, villaggetti di tuguri, spiazzi, cantieri, gruppi di palazzoni”. Così scriveva in Ragazzi di vita Pasolini. La storia è degli anni ’50; l’espansione urbana comincerà negli anni a seguire, quando gli operai della Snia Viscosa e i ferrovieri dello scalo di San Lorenzo troveranno casa nel quartiere. «Dopo la guerra, il Pigneto era la zona con gli affitti più convenienti di tutta Roma», ci spiega la proprietaria di uno storico bar di Via L’Aquila, a due passi dal- l’ex cinema a luci rosse da qualche anno rilevato dal Comune e riconsegnato alla comunità. Oggi i prezzi delle case non sono più concorrenziali. Molti appartamenti sono stati ristrutturati e la speculazione ci ha guadagnato. Il volto del quartiere è cambiato, non è più una “borgata”, è un quartiere come altri, come la Garbatella. Ma i suoi abitanti rivendicano ancora la sua peculiarità. «E’ un paese nella città». Questa frase l’hanno ripetuta in tan- ti, ma subito dopo hanno aggiunto che «non è più il Pigneto di una volta». La periferia si è allargata a dismisura, ha sfondato l’anello del Grande raccordo. Per questo motivo i quartieri come il Pigneto sono diventati parte integrante del centro, a dieci minuti da San Giovanni. Da quando hanno creato l’isola pedonale, il Pigneto è diventato una succursale notturna di San Lorenzo, il quartiere universitario in cui si riversano molti studenti della Capitale. La mo- vida di San Lorenzo ha investito anche il “quartiere dei pini”. Il commercio ne ha subito approfittato: accanto alle storiche macellerie, sono comparsi pub e locali notturni, ristoranti etnici e vinerie. Anche qui si sono create le comunità di extracomunitari, soprattutto senegalesi e bangladeshi. Di mattina si confondono con le bancarelle del mercato, di sera alcuni di loro si perdono nello spaccio di droga. Il traffico di stupefacenti, ormai a cielo aperto, e i bivacchi notturni sono la faccia scura del Pigneto, quella che la fa somigliare a San Lorenzo. Farà la fine del quartiere gemello? «Spero di no, anche se i rischi ci sono. Forse è solo una moda uscire di sera al Pigneto», risponde un commerciante. La parola più frequente nelle parole di chi ci ha descritto il quartiere è “contraddittorio”. Il Pigneto è un quartiere pieno di contraddizioni: tutto proteso al centro della città, ma con le radici nella vecchia periferia romana. La metro C, quando sarà costruita, accorcerà le distanze con il resto del territorio, ma l’anima da paese di provincia forse sopravviverà. Certamente non cambierà il nome, nonostante su via del Pigneto sopravvivano solo tre pini secolari che hanno battezzato il quartiere. L’angolo di città che non si arrese al fascismo affollato di studenti e locali San Lorenzo, tra guerra e giovani Ilaria Del Prete «Quando sono venuta la prima volta per le vie di questo quartiere dove la gente per bene passa solo dopo morta, ho avuto l’impressione di trovarmi in una città dove fosse avvenuto un gran disastro». Così Maria Montessori descriveva la sua esperienza nella borgata di San Lorenzo circa un secolo fa, quando tra le strade i cui nomi ricordano gli antichi popoli italici l’educatrice aprì la prima Casa del bambino. Oggi tra via dei Volsci e via degli Equi, il Piazzale del cimitero del Verano e Porta Tiburtina, di gente ne passa tanta, soprattutto di notte. San Lorenzo ha subito nel corso del Novecento una trasformazione tale per cui da quartiere degradato è diventato prima uno dei cuori proletari della Roma di inizio secolo, alloggio di operai, ferrovieri e marmisti sostrato in cui ha da subito attecchito il movimento socialista che lo ha reso noto per II 11 Marzo 2011 la sua denotazione “rossa” – fino a diventare centro della vita universitaria - grazie alla vicinanza alla Sapienza – e della movida serale. Anche se l’architettura del quartiere, invariata dal 1888, anno in cui la speculazione edilizia portò a termine la costruzione di quella che al- centri dal maggior fermento creativo e culturale. Lo stesso dicasi per le ex vetrerie Sciarra, oggi sede della facoltà di scienze umanistiche della Sapienza. Passeggiando per le strade di San Lorenzo durante il giorno, è difficile immaginare il fermento che le popola “Molti dei vecchi proprietari hanno lasciato casa, stanchi di vivere in un quartiere ormai in balia dei giovani” lora era una zona periferica, prova a nascondere il mutamento, basta osservare con un minimo di attenzione per accorgersi che al posto del pastificio Cerere (datato 1905) oggi sorge una moderna fondazione culturale (omonima). Negli anni ’70 e ’80 fece da collettore per un nucleo di artisti che grazie alla loro presenza inaugurarono a San Lorenzo una moderna tradizione che ne ha fatto uno dei dal tramonto in poi. Sparuti gruppi di universitari alle fermate dell’autobus non si accorgono delle corone di foglie d’acanto che pendono sotto numerose targhe poste a commemorare gli esponenti del movimento comunista che finirono i loro giorni nelle Fosse Ardeatine, non hanno memoria della strenua resistenza che oppose il quartiere all’avanzata fascista e se non fossero così visibili, non riu- scirebbero neanche a individuare i segni indelebili lasciati dai bombardamenti del 19 luglio 1943. Nando, proprietario di un banco di frutta e verdura al piccolo mercato di largo degli Osci, in quei giorni era appena un bambino, ma non disdegna di raccontare quanto e come è cambiata la realtà di San Lorenzo a partire dal secondo dopoguerra. «Dagli anni ’50 in poi – ricorda con calma, anche se sono le 11 del mattino, i clienti scarseggiano - è cominciata nel quartiere una forte migrazione dal sud e centro Italia, erano per lo più ferrovieri che lavoravano allo scalo San Lorenzo. Ci sono stati alcuni problemi di integrazione tra noi sanlorenzini e gli altri, ma è stata facilitata dalle opere religiose, che accanto al movimento politico hanno sempre creato unità». Parla dell’Opera di San Pio X e dell’attività parrocchiale della Chiesa dell’Immacolata, eretta non a LA PIAZZETTA Il quartiere che vive di notte caso nel cuore di San Lorenzo. Gli abitanti storici del quartiere sono ancora molto devoti alla Madonna, tanto che l’8 dicembre sono ancora soliti organizzare festeggiamenti. «Ma non è più lo stesso – denuncia Nando -, molti dei vecchi proprietari sono andati via, stanchi di vivere in un quartiere ormai in balia dei giovani». Sicuramente perché l’università è proprio a ridosso, quando non proprio all’interno, di San Lorenzo, ma anche perché lo spirito anar- chico del quartiere è rimasto immutato, ora sono proprio loro a farlo rivivere, ma di notte. In molti hanno affittato una stanza – a prezzi esorbitanti a causa della vicinanza alle facoltà – e dall’ora dell’aperitivo fino alle prime luci dell’alba le strade sono nelle loro mani. Studenti, intellettuali alla ricerca di ispirazioni popolarchic, single e professionisti che vivono in case non sempre ristrutturate; centri sociali, librerie alternative, vecchie latterie, vecchi circoli delle carte. E poi graffiti, ovunque. Reporter nuovo Roma verace Sui nuovi equilibri della città, intervista alla sociologa urbana Maria Immacolata Macioti “L’Urbe? Sempre più fuori dal Gra” Cambiato il modo di vivere in periferia, si è evoluto pure il linguaggio Federica Ionta La Roma d’un tempo, quella delle fettuccine e della trippa con la mentuccia, oggi non esiste più. Sopravvive in qualche trattoria del centro, quelle dai tavolini di legno e dalle sedie mezze rotte che, alla fine, attirano più turisti che romani. Dov’è finita, allora, la “Roma verace”? «Sicuramente è andata via dal centro storico – spiega Maria Immacolata Macioti, docente all’università La Sapienza ed esperta di sociologia urbana – L’esodo dal centro comincia con la chiusura delle botteghe artigiane e delle piccole attività commerciali, e con l’arrivo degli uffici, degli spazi della politica, degli acquirenti stranieri. Gran parte di questo spostamento verso le nuove periferie è legato al costo degli affitti, che sono diventati molto più alti». Se cambia il concetto di “centro”, cambia anche quello di periferia? «Esatto. Le periferie di “ieri”, si pensi a Cinecittà, al Quarticciolo o all’Alessandrino, oggi sono ben collegate e soprattutto integrate con Roma. I quartieri marginali si sono spostati fuori dal Raccordo anulare, dove c’è più dispersione e minore senso di comunità. Un altro elemento particolare GHETTI Il Nuovo Corviale, progettato nel 1972 nel XV municipio, doveva essere il primo quartiere satellite della città, ma non è stato mai completato. Ospita 1200 appartamenti e più di 14000 residenti delle nuove periferie è che al loro interno possiamo trovare complessi residenziali di tipo alto-borghese, magari con accesso limitato, cancelli e personale di sicurezza all’ingresso». Per questo capita di sentire un romano che vive fuori dal Gra dire “scendo giù a Roma”. «Negli anni Sessanta e Settanta questo era il linguaggio degli abitanti di quelle zone che oggi sono invece pienamente parte della città. Anche questo tipo di linguaggio si è spostato dalle vecchie alle nuove perife- rie, quindi fuori dal Raccordo». Sempre parlando di linguaggio, esiste ancora il romanesco o è diventato romanaccio? «Sicuramente il romano del Belli non si trova più, ma questo è vero da tempo, ormai. I romani di oggi sono arrivati anche da altre zone d’Italia, dalle zone meno favorite del Centro ma anche del Nord e una buona parte dal Sud. A questo si aggiunga il fenomeno degli immigrati. La lingua cambia, si evolve, ma questo è un bene». Tornando alla città “verace”: la Roma trasteverina era malfamata e pericolosa. “Romanità” vuol dire emarginazione? «Trastevere era una zona insicura per chi non ci viveva e quindi non la conosceva. Ma i residenti si conoscevano tutti, era una sorta di microcosmo per cui raramente venivano compiuti atti di devianza verso coloro che abitavano nello stesso quartiere. È indubbio che nelle nuove periferie urbane, fuori dal Raccordo anulare, vengono spinti anche i marginali, i rom, tutte presenze indesiderate nelle zone centrali». Lo slittamento delle nuove peri- Da Pasolini a Moretti, letteratura e cinema raccontano la periferia capitolina Vite violente e registi in Vespa Davide Maggiore Città senza memoria, le hanno definite. Ma l’impronta delle borgate resta nel ricordo collettivo grazie alla rappresentazione che libri e pellicole ne hanno dato negli anni. Molti grandi nomi della settima arte hanno realizzato o interpretato film sull’argomento. A partire da Anna Magnani, che impersona una popolana in prima linea contro gli speculatori di Pietralata in L’onorevole Angelina, di Luigi Zampa. Ingrid Bergman è invece la protagonista di Europa 51, film di Roberto Rossellini in cui l’inquieta e ricca Irene scopre la povertà di Primavalle. Anche il regista-simbolo del Neorealismo, Vittorio De Sica, dedicò una pellicola al mondo delle allora nuove periferie romane: Il Tetto, storia di una giovane coppia tra le baracche della Borgata Prenestina. Meno denuncia sociale e un po’di ironia, invece, nel più Reporter nuovo recente Caro Diario di Nanni Moretti. In una scena, parlando di Spinaceto, visitata in sella all’immancabile Vespa, il barbuto regista commenta: «Neppure tanto male...». Ma proprio in una parrocchia di borgata il cineasta romano ha ambientato l’amaro La messa è finita. Il film più gazzi delle borgate romane. Attraverso i loro occhi e con il loro linguaggio realistico e crudo, Pasolini descrive realtà come la prigione e il degrado, ma anche l’impegno politico e l’innocenza dell’infanzia. Restando a metà tra la denuncia e la speranza, lontana ma possibile, di un ri- Nel dopoguerra Anna Magnani combatteva gli speculatori di Pietralata, oggi trionfano gli insegnanti-scrittori noto del genere, però, resta Accattone, opera prima cinematografica di Pier Paolo Pasolini e storia del sottoproletario Vittorio, di Borgata Gordiani. L’intellettuale friulano trapiantato nella Capitale è il riferimento privilegiato anche quando dallo schermo si passa alla pagina scritta. Il Riccetto di Ragazzi di vita e Tommaso Puzzilli di Una vita violenta sono entrambi ra- scatto. Dopo le pagine pasoliniane, la letteratura si è ancora occupata di borgate: ma semplicemente come parte di una più ampia mappa della Capitale. Lo stesso Vincenzo Cerami, allievo dell’autore di Petrolio, ha raccontato la Magliana solo in un libro recente e legato alla cronaca, Fattacci, che non ha avuto la fortuna del celebre Un borghese piccolo piccolo, di diversa ambientazione. E già Alberto Moravia aveva affiancato al suo Addio alla borgata (ambientato, ancora, a Gordiani) il resto dei suoi Nuovi racconti romani. Di cui la falsificazione della vita di periferia compiuta dalle cineprese è solo uno dei molti temi. Lo stesso vale per gli autori contemporanei che ancora frequentano le borgate, come Marco Lodoli, anche professore in un istituto professionale a Torre Maura. Che però, da narratore, non ha privilegiato quest’angolo di Roma rispetto agli altri raccontati nelle sue cronache giornalistiche e nei suoi romanzi. Lo ha fatto, invece, un altro scrittore-insegnante, Sandro Onofri, scomparso nel 1999. Che però, in Registro di classe, pubblicato postumo, guarda ai ragazzi del Trullo nella veste particolare di studenti. E anche gli squarci sulla società da cui questi giovani emergono sono riflessioni lontane dai quadri vivi di Pasolini. Che letterariamente resta senza eredi. ferie fuori dal Gra ha cambiato lo stile di vita urbano? «Sì. Restando su Trastevere, la vita che si faceva cinquant’anni fa resta come ricordo storico. Ma oggi i residenti sono cambiati e hanno problemi diversi. Prima di tutto sono invecchiati, perchè i giovani non possono permettersi di acquistare una casa in centro e vanno a vivere sempre più lontano. Gli stessi giovani che poi tornano nel finesettimana, invadono le piazze e i marciapiedi dal venerdì sera alla domenica con il fastidio dei residenti». Il centro continua ad attrarre, quindi. Cosa manca nelle nuove periferie? «Spesso mancano luoghi dove vedersi, confrontarsi, dove poter vivere una serata piacevole». Dove vivono, allora, i “veri romani” oggi? «Chi può permetterselo sta nel centro storico o nel più largo “centro” che comprende zone alto-borghesi tipo i Parioli. Gli altri vengono spinti fuori. Se consideriamo quelli che sono arrivati negli anni Sessanta e Settanta, i “veri romani” oggi vivono appena fuori la zona del centro storico, in una zona intermedia tra le aree ormai appannaggio di stranieri o uffici, e le zone periferiche extra-Gra». SULLO SCHERMO E IN PAGINA Tra disperazione e riscatto Squarci di una realtà viva ■ EUROPA 51 (1952) Una donna dell’alta borghesia romana, sconvolta dalla morte del figlio, scopre grazie ad un amico comunista i poveri delle borgate. Li aiuterà, ma sarà internata in manicomio. Nel cast Ingrid Bergman e Giulietta Masina. Regia di Roberto Rossellini. ■ IL TETTO (1956) La sceneggiatura di Cesare Zavattini portata sullo schermo da Vittorio De Sica racconta di due giovani promessi sposi senza casa. Tenteranno di occupare un terreno e costruirne una abusiva in una notte sfruttando un cavillo. ■ LA MESSA È FINITA (1985). Nanni Moretti (anche regista) è don Giulio, chiamato a confrontarsi con una parrocchia periferica. Ma anche con le esistenze problematiche di amici e familiari e le loro scelte difficili. Nel finale deciderà di diventare missionario in Sudamerica. Orso d’argento 1986 a Berlino. * * * ■ RAGAZZI DI VITA (1955). Primo (e per l’epoca scandaloso) romanzo ‘di borgata’ pasoliniano, attraverso le esistenze di vari giovani dipinge un quadro corale in cui trovano posto la miseria, la prostituzione e la morte, ma anche l’integrazione nella società tramite il lavoro. ■ ADDIO ALLA BORGATA (1959). Contenuto nei Nuovi racconti romani: Moravia descrive l’arrivo del cinema alla Borgata Gordiani. La realtà scintillante delle telecamere seduce la giovane Giulia, che abbandona il fidanzato Luigi alla vigilia delle nozze per trasferirsi ai Parioli con un aiuto-regista. ■ FATTACCI (1997) Uno dei capitoli del libro di Vincenzo Cerami, dedicato a episodi italiani di cronaca nera, racconta la vicenda del cosiddetto ‘canaro della Magliana’, delitto efferato maturato in un’atmosfera di degrado, di cui fu vittima un ex-puglie. D. M. 11 Marzo 2011 III Roma verace Viaggio tra alcuni dei 12 insediamenti legali voluti dal fascismo per celebrare l’impero Noi borgatari, veri “romani de Roma” Ragazzi alle prese con la noia ma con tanta voglia di rivalsa sociale TOR MARANCIA TRULLO La nuova “Shangai” Ex tenuta fondiaria Con i suoi trentatremila abitanti, la Borgata Tor Marancia si estende all’interno del Municipio XI ed è compresa nel più ampio quartiere Ardeatino. Il suo nome deriva dal latino Praedium Amaranthianus, cioè fondo di Amaranthus, un liberto della famiglia dei Numisii Proculi del II secolo d.C. I primi insediamenti risalgono alla fine degli anni Venti, realizzati sui terreni prevalentemente paludosi nelle vicinanze della zona Garbatella. Qui trovarono ospitalità i cittadini espulsi dal centro di Roma a seguito dei primi sventramenti e gli immigrati provenienti dal Sud Italia. Tor Marancia, conosciuta anche come “Tor Marancio”, era una sorta di ghetto composto da casette in muratura o in legname. In seguito, anche l’Istituto fascista case popolari realizzò delle abitazioni, catalogate poi come “case minime”, composte da una sola stanza, dove vivevano famiglie fino a dieci persone. Ciò che accomunava le casette spontanee e quelle dell’Ifcp erano i pavimenti in terra battuta, i servizi igienici in comune e piccoli giardini/orti. La borgata all’epoca era ricordata col nomignolo di “Shanghai”, a causa dei periodici allagamenti e dei frequenti fatti di sangue causati dalla miseria. Con la legge De Gasperi del 1948 sul risanamento delle borgate, Tor Marancia venne demolita completamente per costruire le attuali case popolari. Il Trullo è il quarto dei sette quadranti urbani che compongono il Municipio XV, Arvalia – Portuense. I suoi confini sono dati dal Tevere (sud), dal fosso della Magliana (ovest), dalla via Portuense (nord) e dal fosso prosciugato di Papa Leone, oggi percorso da viale Isacco Newton (est). Il quartiere prende il nome dal “Trullo dei Massimi”, un sepolcro romano a tumulo posto lungo la riva del Tevere, molto simile ai celebri trulli pugliesi. L’area compare già nelle carte medievali, ma è dal Settecento che si verifica un popolamento diffuso, con la nascita delle efficienti tenute fondiarie degli Jacobini, Gioacchini, Neri, Bianchi e altre. Nel 1939 inizia l’edificazione in forme razionaliste della “Borgata Costanzo Ciano”, quale residenza temporanea degli abitanti del Rione Monti, sfollati per la demolizione e costruzione di Via dei Fori Imperiali. Solo dopo la guerra, col nome di “Borgata Duca d’Aosta”, l’edificazione diventa intensiva e spontanea, fino a raggiungere i circa trentamila abitanti di oggi. Prima della denominazione attuale, che fu assegnata solo nel 1946, la borgata cambiò nome prima in “Turlone”, poi in “Torraccio”. QUARTICCIOLO Dove fu Resistenza Il Quarticciolo è un’area urbana del VII Municipio del comune di Roma. Compreso all’interno del più ampio quartiere Alessandrino, si trova all’angolo fra viale Palmiro Togliatti e via Prenestina. Il nome “Quarticciolo” deriva dalla distanza del quartiere da piazza di Porta Maggiore, pari a quattro miglia. Nato come borgata ufficiale tra gli anni Trenta e Quaranta, vi trovarono dimora in quel periodo soprattutto gli sfrattati dagli sventramenti edili operati da Mussolini nel centro di Roma e gli immigrati del Sud Italia, principalmente provenienti dalla Puglia, tanto che le vie del quartiere sono dedicate proprio a cittadine pugliesi. Tra il 1943 ed il 1945, il Quarticciolo fu protagonista della Resistenza contro l’occupazione tedesca della Capitale. Questa era così intensa che i soldati della Wehrmacht spesso rinunciavano ad addentrarsi per le vie della zona a causa delle violente controffensive dei partigiani. Il Quarticciolo era all’epoca anche la base operativa della famosa banda del Gobbo, dal soprannome di Giuseppe Albano, noto come “il gobbo del Quarticciolo” per la sua malformazione alla schiena e impegnato nella lotta, al fianco dei partigiani, contro i tedeschi e i collaborazionisti fascisti. IV 11 Marzo 2011 POPOLARE Lo scorcio di una strada di periferia a Tor Marancia con negozio di ortofrutta A Roma ci sono dodici piccoli paesi nascosti. Dietro i “palazzoni”, a due passi dalle vie che portano al centro, lontani dagli occhi distratti di chi “guarda e passa”. Sono le dodici borgate ufficiali della Capitale, nate dal nulla più di ottanta anni fa per ospitare gli “sfollati” dopo gli sventramenti del centro storico imposti dal Duce. Primavalle, Val Melaina, Tufello, San Basilio, Pietralata, Tiburtino III, Prenestina, Quarticciolo, Gordiani, Tor Marancia, Trullo e Acilia. Tutte uguali, con i palazzi bassi e i muri color ocra, ma ognuna con le sue sfumature. Proprio come ogni paesino di provincia è uguale e al tempo stesso diverso dagli altri. Il nostro viaggio alla scoperta della Roma verace inizia da Tor Marancia per arrivare fino al Quarticciolo, passando per il Trullo e Primavalle. «Qua ce stanno tanti impicciaimbroglia». Questo è il primo impatto con Tor Marancia. È Alessandro a darne una visione così immediata nella sua genuinità, la prima cosa che gli viene in mente quando gli chiediamo di descrivere il suo quartiere. Come dire, qui ognuno cerca di fregare l’altro. Un po’ una guerra tra poveri. Capelli rasati, sopracciglia curate e parlata strascicata. Alessandro, meccanico, 25 anni, è un «coatto» di periferia. Lui stesso lo dice senza vergogna. A Tor Marancia ci sono ancora le palazzine del dopoguerra, mai ristrutturate, e le botteghe «de ‘na vol- ta»: calzolai, artigiani, falegnami, fabbri, sarti. Un quartiere «né carne né pesce», sospeso in un limbo tra le ricche zone della Montagnola e dell’Ardeatina. «Qua è come un paese – dice – si conoscono tutti». E poi si ritrovano al bar, a guardare la televisione, parlare di calcio, giocare a carte e scommettere sui cavalli. «Bar che se ci entri te fanno fa un tuffo nel passato». Da un limbo a un altro. È la sensazione che si avverte percorrendo Via del Trullo, la strada che attraversa il cuore della borgata omonima, da Via Portuense alla Magliana. Proprio per la sua posizione intermedia, il Trullo è un quartiere “di pas- Daniele del Quarticciolo: «Chi resta muore al muretto» saggio”, a metà tra Monte Cucco e Monte delle Capre. Da una parte le case popolari, dall’altra le case private. Il primo è un ghetto chiuso, con i suoi vicoli in salita, stretti e senza marciapiedi, che lo rendono un vero e proprio labirinto impazzito. Monte delle Capre, invece, appartiene alla media borghesia romana e ai nuovi immigrati. Qui la “romanità” è affidata solo alle insegne anni ’70 delle norcinerie e dei negozi di abbigliamento “cheap”. Più verace è la borgata Primavalle. Palazzine basse in cemento armato grezzo o colora- to, con le corti interne. Una disposizione urbanistica “a blocchi” che ricorda i blocks dei ghetti americani. «Qua ce stanno solo palestre e pizzerie». Così Chiara descrive il suo quartiere. Lei, 20 anni, studia e lavora come baby sitter. Primavalle è un quartiere dormitorio. «Qua o ti impegni nel sociale, con qualche associazioni o con la parrocchia – racconta – oppure passi le giornate in comitiva». E allora i giovani “emigrano” altrove. Mentre gli anziani si ritrovano nei giardinetti: «Quand’ero ragazzino qui era tutta prato – ricorda Mario, pensionato – e la gente quando doveva andare al centro diceva “vado a Roma”». Forse non è cambiato molto. «Vado a Roma» lo dice anche Daniele, 26 anni, nato e cresciuto al Quarticciolo. «Per fare un aperitivo bisogna spostarsi, alle otto c’è il coprifuoco». Chi decide di restare, dice Daniele, «vive e muore qua, al muretto». Con gli stessi occhi sfiduciati, ma con qualche decennio in più sulle spalle, Orazio, 80 anni, si racconta: «Qua non si arriva a fine mese, viviamo nelle case popolari ancora senza ascensori». Anche lui, come molti altri anziani del Quarticciolo, è emigrato dalla Puglia da ragazzo in cerca di fortuna. Oggi vive con 370 euro di pensione e fa la spesa al Banco alimentare. Umberto, presidente del Comitato di quartiere, si lascia andare a un’analisi inquietante: «C’è troppo silenzio tra i giovani. Prima o poi qualcuno esploderà». Pagina a cura di Alessio Liverziani PRIMAVALLE “Montagna del sapone” Primavalle è il ventisettesimo quartiere di Roma, all’interno del XIX Municipio. Oggi conta quasi sessantamila abitanti. L’edificazione fu iniziata nel 1936 dall’allora Ifcp (Istituto fascista case popolari) per accogliere la popolazione allontanata dal centro storico per la realizzazione di via della Conciliazione e via dei Fori Imperiali, ma la borgata venne ufficialmente inaugurata nel 1939. A partire dagli anni Cinquanta il nucleo originario del quartiere andrà sempre più ad assumere un ruolo di centralità nei confronti delle aree limitrofe, in parte caratterizzate dall’abusivismo edilizio. Tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta si assiste a uno dei primi interventi di riqualificazione che determineranno l’attuale assetto del quartiere, che ancora oggi si sviluppa lungo l’asse viario centrale di via Federico Borromeo, un tempo conosciuta come via di Primavalle. La borgata veniva soprannominata “la montagna del sapone” per via della sua connotazione popolare. Da allora, dire che qualcuno viene dalla montagna del sapone è sinonimo di fesso, che si fa fregare, perché gli abitanti furono trasferiti in questa zona con la promessa di case confortevoli trovandosi invece in una borgata degradata. Reporter nuovo Primo Piano In attesa che si sbrogli la crisi libica, l’impennata del barile sta sconvolgendo l’economia L’austerità da petrolio fa paura A spaventare è il ricordo delle crisi mediorientali degli anni Settanta L a rivolta libica come la guerra del Kippur, o la deposizione dello scià di Persia? Gli analisti di tutto il mondo si chiedono se il caos che attraversa il Paese nordafricano possa avere, oltre alle conseguenze politiche, ricadute economiche simili a quelle dello shock del 1973. Quando le nazioni esportatrici bloccarono la produzione dopo la guerra arabo-israeliana. O alla crisi del 1978-79, quando l’export iraniano si fermò per la rivoluzione che costò il trono a Reza Pahlavi. Nel primo caso la produzione mondiale di greggio crollò dell’otto per cento in due mesi, nel secondo ‘appena’ del quattro in novanta giorni. Ma ancora oggi quelli sono ricordati ovunque come gli anni della crisi petrolifera. Perché gli idrocarburi non hanno fatto solo la fortuna dei Paesi produttori (e spesso dei loro governanti). Ma anche dell’Occidente, che ora teme la chiusura dei rubinetti del greggio (e del gas) di Tripoli. E il ritorno di quei tempi che in Italia si chiamarono dell’austerity, con lo stop alle auto e i risparmi energetici. Negli anni delle grandi crisi gli shock furono riassorbiti perché l’offerta di greggio era molto superiore alla domanda. Ma oggi, anche se la Libia rappresentava nel 2009 solo l’1,4 per cento circa dell’offerta petrolifera mondiale, persino una piccola variazione del- CHE FARE - L’ANALISI DI FEDERICO RENDINA DEL SOLE 24 ORE L’ESPEDIENTE Non ci sono mezzi, niente benzina, al lavoro in bicicletta nel 1973 «Una Borsa europea anti-contagio» «Parlare di crisi del mercato degli idrocarburi attribuendola solo alla Libia è improprio – esordisce in un’intervista a Reporter Nuovo Federico Rendina, giornalista del Sole 24 ore il vero problema è l’effetto contagio». Tripoli non ‘pesa’ sullo scenario mondiale? «È uno dei Paesi più ricchi di greggio del Nordafrica e rifornisce molti Stati del Mediterraneo. Ma anche in Italia, che da lì importa il 10-12 per cento del fabbisogno di gas e circa il 20 di quello petrolifero, non ci sono stati problemi, per ora. Se però l’Algeria dovesse vivere una situazione simile, per noi sarebbe una catastrofe». E a livello globale? «Dipenderà dalle dimensioni del contagio. Se coinvolgesse tutto il Nordafrica sarebbe assolutamente destabilizzante. Ma la crisi potrebbe anche spingere a investire sulle energie alternative. Il vero fattore incontrollabile è però la speculazione». Chi guadagnerà dalle turbolenze? «In Italia, quasi nessuno. Anche l’Eni perderà dalla Libia (dove è produttore insieme alle compagnie locali) quello che guadagnerà dai maggiori prezzi alla fonte. I consumatori pagheranno di più la benzina: ma così lo Stato avrà maggiori introiti dall’Iva. A livello internazionale, vinceranno i grandi concorrenti dei libici. Per il gas, i russi, ammesso che ne abbiano ancora da fornire. Per il petrolio i Paesi del Golfo, che ne venderanno di più a un prezzo superiore». Cosa possono fare i governi? «Una buona idea è puntare sulla Borsa europea del petrolio e derivati: può controbilanciare gli effetti speculativi. Per quanto riguarda le altre fonti energetiche bisogna calibrare un mix, senza scelte esclusive. Ma sono strategie di medio e lungo termine, indipendenti dalla crisi libica». Il nostro Paese ha saputo differenziare le fonti di approvvigionamento? «In generale siamo strutturalmente impreparati, ci affidiamo troppo al gas. Su questo, dovremo improvvisare. Soprattutto dopo aver rinunciato a diventare un punto di transito delle reti, un metanodotto per l’Europa. Per il petrolio, avremo gli stessi problemi degli altri». Sono state assimilate le lezioni delle crisi petrolifere degli anni ’70? «Dagli altri, più che da noi: in Usa si orientano sul nucleare, e altrove sull’estrazione di gas con tecnologie non convenzionali. Noi non riusciamo ad estrarre neanche quello ‘tradizionale’ che abbiamo». Quali potrebbero essere le conseguenze pratiche dei diversi scenari politici? «Che al potere ci siano Gheddafi o gli insorti, le forniture saranno riattivate. E con una Libia divisa ognuno venderebbe il suo. Ma sarebbe lo scenario peggiore, un’instabilità permanente». l’approvvigionamento può innescare la speculazione. E dunque l’aumento del prezzo del petrolio, che già ha toccato i 120 dollari. La temuta reazione a catena rischia di coinvolgere non solo le tariffe dei carburanti e degli altri derivati, mettendo in difficoltà privati e industrie. Ma anche i prezzi all’ingrosso e al dettaglio. Senza contare che con le maggiori spese dovute all’aumento dei carburanti, quelle correnti delle famiglie normalmente si contraggono in maniera più che proporzionale. La principale paura è quindi la crisi dei consumi, sinonimo di crisi economica pura e semplice. Una prova difficile da affrontare per il mondo in faticosa uscita dalla recessione. Perché l’aumento dei prezzi può compromettere il rilancio: tanto da spingere le istituzioni competenti a intervenire contro l’inflazione. La vera sfida, però, è rappresentata da altri tipi di scelte. Il 1973 e il 1979 portarono, infatti, a sacrifici e difficoltà, alla ricerca di nuovi giacimenti, ma anche di innovazioni che permettessero il risparmio e di alternative nei trasporti e negli approvvigionamenti. Anche oggi l’emergenza petrolio può significare luci tristemente spente o tecnologie ecologiche. Il futuro dipenderà dalle posizioni di Stati e singoli, ancor più che dalle vicende politiche. Le altre energie e le nuove tecnologie riscoperte per effetto della crisi Fotovoltaico, alternativa italiana FUTURO Sul ritorno al nucleare ancora polemiche Reporter nuovo Il dibattito sulle ‘altre’ energie è ormai un tema classico. E riemerge ogni volta che le voci di crisi legate agli idrocarburi si fanno più forti. La strada, in realtà, è ancora lunga da percorrere e l’obiettivo di una parità tra costi e benefici lontano in diversi casi. Ma le promesse sono altrettanto grandi e coinvolgono molti fronti. Uno sul quale l’Italia ha una posizione di avanguardia è il fotovoltaico: il nostro Paese è il numero due al mondo per installazioni, e le competenze di alcune azien- de nostrane sono tanto apprezzate da essere alla base di progetti sostenibili. Realizzati persino in Medio Oriente. Ma oltre alla galassia di fonti rinnovabili, tra le ‘alternative’ ci sono anche energie contestate per diversi motivi. Come il nucleare, per cui le sfide sono sicurezza ed economicità. Su cui le nuove centrali hanno già fatto molti progressi, sempre in attesa di una futuribile ‘quarta generazione’ e del sogno ancora poco realizzabile della fu- sione. Le polemiche che ancora circondano l’atomo (ma anche un’altra fonte tradizionale rinnovata, il cosiddetto ‘carbone pulito’) dimostrano però come la sfida starà anche nella comunicazione. Perché il pubblico è oggi molto più avvertito e sensibile sui temi ambientali, soprattutto nelle fasce giovanili, preoccupate per il futuro. Per conciliare sostenibilità economica e preoccupazioni per il pianeta, quindi, Pagina a cura di Davide Maggiore non basterà rivedere la questione energetica. Altro nodo fondamentale è quello dei trasporti: il progetto storico è quello dell’auto elettrica, stretto tra gli eterni problemi dei costi e del rifornimento dei veicoli. Ma anche in questo campo le premesse per il successo cominciano ad esserci. Grazie soprattutto alla fine dell’era dei prototipi, e all’impegno di grandi marchi dell’auto, come Renault, Volvo, Range Rover e Smart. La questione auto spinge anche a spostare lo sguardo dalla questione delle fonti a quella della tecnologia. Ultima protagonista di un futuro possibile, perché potrebbe permettere di affrontare il problema del risparmio energetico separandolo da quello di esagerati tagli ai consumi. Gli strumenti da utilizzare non sono solo elettrodomestici sempre più efficienti dal punto di vista energetico, ma anche novità apparentemente trascurabili. Come quella del contatore elettronico installato in molte case italiane. E negli ultimi cinque anni, riporta Il Sole 24 ore, il nostro Paese ha risparmiato grazie alle innovazioni circa 6,7 tonnellate di petrolio: quante ne consumano 1,8 milioni di persone in un anno. 11 Marzo 2011 5 Cronaca Testamento biologico, su iniziativa dell’associazione Luca Coscioni, sit-in davanti alla Camera «Non è giusto morire come Michele» Carlo Troilo motiva il “no” a una legge che spinge i malati al suicidio Vito Miraglia “No al sondino di Stato”, “Sì all’eutanasia legale contro l’eutanasia clandestina”. Sono solo alcuni dei cartelli al collo degli attivisti radicali impegnati in un sit-in permanente davanti a Montecitorio. Dal sette marzo, quando la proposta di legge sul testamento biologico è stata portata all’esame della Camera dei deputati, i militanti hanno ricominciato a far sentire la loro voce. Tra questi Carlo Troilo, giornalista ed ex manager, dirigente dell’associazione Luca Coscioni, da anni vicino al partito di Marco Pannella. La sua battaglia personale per la legalizzazione della “dolce morte” dura dal 2004, da quando suo fratello Michele si suicidò a settant’anni. Pochi mesi prima gli avevano diagnosticato una forma rara di leucemia. «Da quel momento ho cominciato a lottare – ci spiega Troilo – diffondendo i dati sui malati terminali che scelgono di togliersi la vita, non potendo scegliere di morire legalmente: sono circa mille ogni anno». Oggi il bersaglio è la legge sul testamento biologico, già approvata al Senato. Troilo sta facendo il digiuno della fame: «Una legge che riteniamo abietta, incostituzionale. Serve una normati- PRESIDIO I radicali manifestano nella piazza di Montecitorio. Il voto in occasione del dibattito sulla legge per il testamento biologico è previsto per aprile va che blocchi l’eutanasia clandestina, come accadde con la legge 194 che legalizzò l’aborto», continua. «Vogliamo che il Parlamento apra un’indagine conoscitiva su questo fenomeno. In Olanda, la legge è nata proprio in seguito a un’indagine conoscitiva che ha rivelato una realtà inquietante». I punti più controversi del testo riguardano l’alimentazione e l’idratazione. Nel testamento biologico che ognuno di noi potrà sottoscri- vere, potranno essere indicati i trattamenti sanitari e l’“orientamento in merito […] in previsione di un’eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere”, recita il testo. Ma fra i trattamenti sanitari sono state escluse proprio l’alimentazione e l’idratazione. «La legge vuole renderle obbligatorie perché i suoi promotori le definiscono non terapie, ma sostegni vitali, a dispetto di quanto dice l’Organizzazione mondiale della sanità e mol- tissimi medici italiani. Per questo la legge è incostituzionale», spiega Troilo. L’altra disposizione su cui si concentra la protesta è la non vincolatività della Dat, la “dichiarazione anticipata di trattamento”. Il medico non è dunque obbligato a seguire le indicazioni del paziente. La proposta di legge è sostenuta dalla maggioranza e anche dall’Udc. Ma tra i ranghi del Pdl qualcuno ha cominciato a storcere il naso, come il ministro dei Beni Culturali Bondi Al posto dell’ospedale un poliambulatorio e niente pronto soccorso Al San Giacomo riapertura-beffa Andrea Pala Era stato chiuso tra molte proteste il 31 ottobre di tre anni fa. Si parlava di una sua imminente riapertura. Ma i cancelli dell’ospedale San Giacomo sono ancora sprangati. La struttura, edificata a pochi passi da Piazza del Popolo, sorge nel cuore del centro storico romano in via Canova, una delle traverse della centralissima via del Corso. Al suo posto è nato, poco più avanti, un poliambulatorio che, nelle intenzioni della Asl, dovrebbe rimpiazzare la struttura ospedaliera. «Erano scesi in piazza anche i pazienti per impedirne la chiusura – racconta un’infermiera addetta al ricevimento – ma nonostante ciò le autorità competenti non avevano nessuna intenzione di tornare indietro e così l’ospedale venne chiuso». Il nuovo poliambulatorio non è in grado di soddisfare le necessità dei pazienti. «Non è attivo nemmeno un servizio di 6 11 Marzo 2011 pronto soccorso – continua l’infermiera – e se arriva qualcuno colpito da un infarto siamo costretti a chiamare un’ambulanza per il trasferimento del paziente in un’altra struttura, molto spesso al Santo Spirito in Saxia». La riapertura del San Giacomo non sembra vicina. ta Polverini, il nuovo San Giacomo dovrebbe diventare un Ptp, presidio territoriale di prossimità. Un decreto, il numero 82, aveva anche stabilito che la struttura avrebbe avuto 15 posti letto, riservati però soltanto alla degenza infermieristica. Questo nuovo tipo di struttura sanitaria do- Secondo la Regione dovrebbe diventare un presidio territoriale di prossimità, assieme ad altre 32 strutture «Ogni tanto se ne sente parlare – si sfoga un altro addetto – ma per il momento siamo ancora qui nel poliambulatorio. Per evitare l’occupazione dell’ex ospedale ci sono dei vigilantes sempre di piantone davanti al portone d’ingresso. Eppure erano stati acquistati anche nuovi macchinari per il centro dialisi e per il reparto d’ortopedia». Nelle intenzioni della Giunta regionale guidata da Rena- vrebbe riguardare anche altre 32 strutture: 13 in città, il resto sparso per la provincia di Roma e tutto il territorio regionale. La chiusura del San Giacomo era stata decisa dalla Giunta di centrosinistra presieduta da Piero Marrazzo. Venne deciso anche un piano di riconversione che prevedeva, fra le altre cose, anche una Casa dei servizi sociosanitari integrati, un centro Alzheimer, servizi di diagnostica, una Residenza Sanitaria Assistita, un centro per medici di medicina generale e laboratori. Il cambio di maggioranza ha però fatto naufragare questo progetto e, in sostituzione, si è pensato di far nascere un semplice presidio territoriale, che non è ancora venuto alla luce. Il San Giacomo è uno degli ospedali storici della città. Fu il terzo ad essere costruito, dopo il Santo Spirito in Saxia e il Santissimo Salvatore, edificato presso la Basilica di San Giovanni in Laterano. Fu fondato dal cardinale Giacomo Colonna per riparare al male fatto dalla sua famiglia al Papa Bonifacio VIII, acerrimo rivale del casato. Agli inizi del 1500 fu profondamente trasformato diventando così un ospedale specializzato anche nella cura della sifilide, i cui malati affollavano la struttura. Per l’ospedale passò anche Camillo de Lellis, poi fatto santo, prima come degente e in seguito come inserviente e maestro economo. («Il testo ha dei punti deboli») e Peppino Calderisi, deputato azzurro che parla di «dubbi di incostituzionalità». Il testo sicuramente ritornerà al Senato, perché è già stato modificato. Forse potrebbe tornare in commissione Affari Sociali della Camera. È proprio ai dissidenti della maggioranza che si appellano i radicali affinché si pronuncino secondo coscienza sulla legge. Se l’iter dovesse continuare e la legge dovesse passare così com’è restano tre strade percorribili: la Corte Costituzionale potrà pronunciarsi sulla legittimità della legge; i cittadini potrebbero pronunciarsi con un referendum e non è detto poi che il presidente della Repubblica firmi senza fare osservazioni. Il caso che ha sottolineato la necessità di legiferare è stato quello di Eluana Englaro, morta due anni fa dopo 17 anni di stato vegetativo e diventata il simbolo della libertà di scelta, assieme a suo padre Beppino. Una libertà che secondo il medico e deputato Udc Paola Binetti «conduce solo ed esclusivamente alla morte». Per i promotori, la legge è una buona legge; per Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare, è una legge liberale che introduce finalmente il consenso informato. GLI ALTRI POLI SANITARI Policlinico, il più affollato Il più esteso è il San Camillo ■ UMBERTO I La realizzazione del Policlinico fu iniziata il 19 gennaio. Inaugurato nel 1904, fu pensato come sede universitaria, vista la vicinanza con la Sapienza, e poi riconvertito a uso ospedaliero di assistenza. La struttura è frequentata mediamente da 20 mila persone al giorno per ricoveri, degenze e pronto soccorso. L’anno scorso è stato aperto un centro di eccellenza per le immunodeficienze primitive. ■ SANDRO PERTINI L’ospedale si trova nel quartiere di Pietralata. Pensato nel 1908, ci vollero quasi 80 anni per la sua realizzazione. Aperto l’8 agosto 1990, si estende per circa 16 ettari e ha un bacino d’utenza di più di 700 mila persone, in gran parte per il servizio psichiatrico. Con il suo pronto soccorso, copre una fascia di utenti che si estende fino ai Castelli. ■ SAN FILIPPO NERI La struttura è stata costruita nel 1940 e poi ampliata negli anni ’60. Sorto nella zona nord di Roma, lungo la via Trionfale, dal 1994 è un ospedale di rilievo nazionale e di alta specializzazione. I reparti di neurochirurgia, cardiologia, oncologia e chirurgia vascolare sono centri di riferimento per la regione Lazio. L’ospedale dispone di 592 posti letto, mentre il numero di ricoveri supera i 28.000 mila. ■ SAN CAMILLO L’idea di costruire la struttura nel quartiere di Monteverde risale alla fine dell’800. I lavori per la costruzione erano partiti nel 1919, per poi essere ripresi nel 1927. Inaugurato il 28 ottobre 1929 come Ospedale del Littorio, nel 1945 è dedicato al santo protettore della sanità militare. Ha 270 posti letto e si estende per 40 ettari. Nel reparto di ostetricia e ginecologia prestano servizio circa 150 persone. Fa parte di un polo sanitario che comprende Spallanzani e Forlanini. A. P. Reporter nuovo Costume & Società Sulle vetture Atac la pubblicità di una clinica ostetrica del Prenestino. L’unica del Lazio Il parto in acqua comincia sul bus Su 2000 “arrivi” alla Fabia Mater solo 200 in vasca. Modalità e vantaggi Ilaria Del Prete Accanto a reclami di formaggi spalmabili e offerte telefoniche, scuole di canto e abbonamenti a teatro, al di sopra delle teste dei passeggeri degli autobus romani spicca da qualche settimana l’immagine di un bel pancione di donna incinta immerso in acqua. È la pubblicità voluta dalla casa di cura Fabia Mater per far conoscere a un pubblico il più ampio possibile i benefici di una modalità tutta naturale di partorire, appunto, immersi nelle acque di una vasca. La clinica è l’unica struttura in tutta la regione ad offrire il servizio alle partorienti, ma a causa della scarsa informazione, l’originale possibilità è per lo più sconosciuta alle puerpere: su un totale di 2000 parti all’anno effettuati alla Fabia Mater, meno del dieci percento si avvale del metodo acquatico. Per conoscere i pro e i contro della pratica, è sufficiente rivolgersi al personale della clinica. Conversando con la capo ostetrica Ileana Colantoni, si viene a sapere che per partorire in acqua non c’è da corrispondere alcun costo aggiuntivo, essendo l’azienda accreditata presso il Sistema Sanitario Nazionale, ma anche che non tutte le future mamma possono scegliere di farlo: la gravidanza deve essere “fisiologica”, cioè non problematica. Ad esempio una donna che sta per parto- UNA MAMMA DATI E CURIOSITÀ Più bebè “bagnati” in Toscana E il loro “papà” si chiama Igor In Italia la maggior parte degli ospedali con una vasca per il parto è al centro-nord. In Toscana è persino possibile affrontare la preparazione al grande giorno nel relax di uno degli agriturismi della provincia di Siena, a patto che non disti più di 30 minuti dall’ospedale. Molto quotato tra americani e inglesi, che si fanno rimborsare il costo di tutto il pacchetto dal loro servizio sanitario nazionale: dai 2.500 ai 4.500 euro. Il padre della pratica acquatica è il siberiano Igor Charkovsky, controverso personaggio mai abilitato alla professione medica, ma semplicemente laureato in educazione fisica all’Università Statale di Mosca. Dedicatosi anche a lezioni di nuoto e acquamotricità per neonati, è stato indagato in Israele e gran Bretagna per il decesso per annegamento di alcuni bambini suoi pazienti. A perfezionare la tecnica e diffonderla in Europa ci hanno pensato due francesi nel 1960. Sia il medico chirurgo Michel Odent, che nei suoi studi ha anche professato l’importanza dell’amore tra madre e figlio durante il parto, che il ginecologo e ostetrico Frédérick Leboyer, precursore del cosiddetto parto dolce e del massaggio neonatale, hanno esaltato l’efficacia del parto naturale in acqua. I. D. P. rire un bambino che pesa più di quattro chilogrammi dovrà accontentarsi di un più tradizionale lettino. In realtà non è possibile decidere con certezza che tipo di parto eseguire, tutto dipende dalle esigenze del momento, anche perché ci sono da considerare i tempi tecnici di riempimento della vasca e di attesa per raggiungere la temperatura giusta dell’acqua, sempre che in quel momento la “mini-piscina” non sia occupata. E poi: «può capitare che, anche se il travaglio comincia in acqua – spiega l’ostetrica – poco prima del momento del parto alcune donne chiedano di uscire per avere l’epidurale». Infatti, nonostante il calore dell’acqua a 37 gradi centigradi dovrebbe riuscire a rilassare i tessuti e attenuare il dolore, la sofferenza è appunto solo diminuita, anche perché «essendo un metodo completamente naturale – Da immersa doglie sopportabili NELLA VASCA Maggior contatto tra mamma e figlio aggiunge Ileana – non è previsto che venga somministrato alcun antidolorifico». Una volta immersa nella vasca, dopo che il collo dell’utero ha raggiunto una dimensione di almeno cinque centimetri, la partoriente riceve dall’esterno solo indicazioni, ma nessun intervento materiale da parte di medici e ostetrici: «il parto in acqua è assenza totale di medicalizzazione». Tra i motivi per scegliere di partorire in acqua, c’è senz’altro la consapevolezza di una scelta naturale, che permette al bambino un passaggio più dolce dalla vita intrauterina a quella extrauterina, da un mondo “liquido” all’altro. Il rischio di annegamento è nullo: interviene da subito l’istinto apneico, e l’immersione dura solo pochi secondi, giusto il tempo che lo staff medico impiega a intervenire per tirare fuori il neonato. Dal 31 marzo necessaria la patente per le terribili macchinette che imperversano in città Ci vorrà un esame per guidare le minicar Eloisa Moretti Clementi Quelle scatolette di lamiera motorizzate che sfrecciano rumorosamente infilandosi tra macchine e motorini? Sono le minicar, passione sfrenata degli adolescenti moderni o almeno di quelli che, al brivido dell’aria sulla faccia e delle curve piegati su due ruote, preferiscono la comodità di un abitacolo al riparo da vento e pioggia e la compagnia di un passeggero. In Italia sono 80mila, delle quali il 15 per cento sfreccia a Roma. Reporter nuovo Molto costose, molto ambite e, soprattutto, abbastanza pericolose, secondo i dati Aci-Istat sugli incidenti stradali. Sono 682 i sinistri che in Italia hanno avuto le minicar come protagoniste, un dato che appare basso se non si considera l’indice di mortalità, che sfata il mito del motorino come mezzo più rischioso: 2,64 per le mini macchine, mentre è 1,96 per le moto e 1,03 per i ciclomotori. Inoltre, stando all’Associazione nazionale delle imprese assicuratrici (Ania), le minicar coinvolte in inciden- ti in Italia sono circa l’8 per cento di quelle assicurate, mentre nella capitale si sfiora il 14,5 per cento. Fra pochi giorni, però, entrerà in vigore una norma che forse tranquillizzerà i genitori ma di certo farà storcere il naso ai neo-piloti: il patentino, già obbligatorio per le minicar, si arricchirà di una prova pratica, finora assente. Le cose cambieranno dal 31 marzo: per questa data, infatti, dovrebbe essere pronto un decreto del governo che recepisca una direttiva europea che impone un esame sia teorico che pratico per mettersi alla guida di questi veicoli. Allarme fra tutti i 14enni allo sbando sulle loro macchinette? Non c’è motivo: il primo passo sarà entrare in possesso del foglio rosa – esattamene come per le auto – per impratichirsi alla guida nel periodo di tempo che separa l’esame teorico da quello pratico. La prova su strada non potrà essere sostenuta prima di un mese dal rilascio del foglio rosa, mentre ai trasgressori trovati alla guida sprovvisti potranno essere comminate sanzioni da 555 a 2.220 euro. Insomma, un sistema molto simile a quello previsto per conseguire la patente B. Basterà a evitare gli incidenti? In realtà, il vero problema delle minicar è l’illusione di sicurezza che trasmettono in chi le guida: la loro struttura, infatti, non è adeguata a proteggere i passeggeri in caso di scontro, e pneumatici, freni e struttura non sono pensati per le alte velocità, per cui in caso di incidente si comportano come quelli di un motorino, anziché come un’auto vera e propria. Nadia G. ha 32 anni e due bambini. La prima, Francesca, ha quattro anni ed è nata con un parto tradizionale che non ha lasciato un buon ricordo nella mamma: tra manovra di Kristeller (in pratica una gomitata sul pancione), episiotomia, dieci punti di sutura e sofferenze varie, non è stato facile per Nadia decidere di mettere in cantiere un fratellino. Quando è arrivato il turno del secondogenito, non ha avuto dubbi: «Avrei partorito in acqua – ha detto – così nessuno mi avrebbe toccata». L’esperienza è stata «meravigliosa, mi sentivo libera e consapevole, il calore dell’acqua mi alleviava il dolore e agevolava i movimenti, e appena è nato il mio bimbo me lo hanno dato in braccio subito, senza neanche staccare il cordone ombelicale, che ha poi tagliato mio marito». In acqua il dolore delle contrazioni è più sopportabile, «appena immersa nella vasca ho sentito un sollievo immediato» ha ricordato Nadia, e poi è possibile scegliere la posizione più comoda: «la mia preferita per le pause è stata girata sul fianco, con mio marito che mi sosteneva il capo e accarezzava». Per agevolare le contrazioni, poi, «c’erano anche delle corde intrecciate appese al soffitto e quando i dolori aumentavano dondolavo il bacino tenendomi aggrappata alle corde». Certo, non è stato proprio come fare una nuotata. «A un certo punto dal dolore credevo di morire – ha ammesso Nadia – ma poi ho sentito che stava accadendo da sé: Davide era nato». I. D. P. 11 Marzo 2011 7 Costume & Società È considerato uno strumento femminile, mentre la tromba è il simbolo della mascolinità La dolce arpa non è soltanto donna Il musicista Aiello sfata un mito: «Ci vuole molta forza per suonarla» Eloisa Moretti Clementi L’arpa è delicata, antica, sinuosa. La tromba è dirompente, fiera, aggressiva. Ogni strumento ha una propria anima e un suo modo unico di interpretare il suono e vivere la scena. Così i musicisti, che scelgono il proprio compagno di lavoro e di vita attraverso un innamoramento fugace, coltivato nel tempo. L’arpa, strumento al femminile per eccellenza il cui suono dolce e armonioso sposava l’ideale mitologico della femminilità, da Santa Cecilia in poi - è oggi un patrimonio di possibilità musicali senza genere, adottata con passione da molti musicisti maschi che la scelgono per la sua forza espressiva. Fabrizio Aiello, giovane arpista 23enne, l’ha scoperta a 14 anni: «All’inizio suonavo il piano, ma ascoltando Lo Schiaccianoci di Tchaikovsky mi sono innamorato di questo strumento». Aiello, che fa parte dell’Orchestra italiana di arpe, non è mai stato criticato per la sua scelta, anzi «c’è sempre una curiosità posi- L’ECCEZIONE Un arpista impegnato in un concerto con uno strumento “femminile” tiva nei miei confronti, e poi il pregiudizio sull’arpa è prettamente italiano, all’estero al contrario viene scelta soprattutto da uomini». Un provincialismo tutto nostrano, dunque, quello che ci spinge ad associare le corde dell’arpa alle mani piccole delle ragazze. Aiello lo sfata senza riserve: «Non tutti sanno che per suonarla è necessaria una grande forza fisica, infatti le arpiste devono essere allenate, anche perché è uno strumento pesante e scomodo da trasportare». Certo, le mani piccole possono aiutare in certi passaggi, ma «anche una mano più lunga può avere dei vantaggi, non c’è un fisico perfetto per nessuno strumento». L’entusiasmo del giovane musicista pugliese è confermato dal collega Davide Burani, uno dei più noti arpisti in Italia e all’estero: «La fascinazione è arrivata dal suono, molto particolare ed evocativo. Non mi sono mai posto il problema che a suonare l’arpa fossero in prevalenza delle donne, e poi c’era Nicanor Zabaleta». Morto nel 1993, lo spagnolo è stato il più celebre arpista a livello internazionale, sulla cui scia di popolarità si sono formati tanti musicisti. Anche per la tromba si pensava a uno strumento da rudi uomini. Già nota agli antichi egizi, è negli anni del jazz e del ragtime che trova la sua consacrazione, nelle mani larghe di Joe “King” Oliver e poi Louis Armstrong e Chet Baker. Oggi la trombettista del momento è una donna e si chiama Allison Balsom: bionda e affascinante, è stata premiata come “Female artist of the year” nel 2009 ai Classical Brit Awards. Il suo talento musicale non ne sminuisce di certo la femminilità: fasciata in lunghi abiti couture spesso color ghiaccio, la Balsom ha incantato le platee cimentandosi sia con il tango di Astor Piazzolla che, in Italia, con gli ardui capricci di Paganini. Su di lei, è stato realizzato anche un documentario dal titolo “A musical life”, dove l’artista racconta il suo innamoramento per la tromba, avvenuto a soli sette anni. Non avrà i baffetti di Roy Paci, ma il suo fiato incanta. Nelle “Avventure in città”, quadri in dialetto sulle orme di Giancarlo del Re Taverna: «Così ‘dipingo’ la mia Roma» L’ispirazione dagli incontri fatti al bar o in un taxi Alessio Liverziani Ogni settimana racconta la “romanità” sulle pagine del Messaggero. Il lunedì cura la storica rubrica “Avventure in città”, portando avanti l’idea che fu del collega Giancarlo del Re, inviato speciale del quotidiano romano. “Avventure in città” è una finestra aperta sulla Roma verace: storie e personaggi di fantasia, ma non troppo. Tutto rigorosamente in dialetto romanesco. È Salvatore Taverna, giornalista e scrittore. Un romano doc. In che misura Giancarlo del Re ha contribuito a formare il suo repertorio? «L’inventore è sempre l’inventore. L’idea è nata da Giancarlo del Re, grande giornalista e inviato speciale del Messaggero. Oggi la rubrica è curata da un giornalista per ogni giorno della settimana. Io mi occupo del lunedì. Quando c’era Giancarlo, invece, la faceva tutta da solo. Mi raccontava che quando andava in ferie doveva lasciare in redazione le storie già pronte per l’impaginazione» Quanta ricerca linguistica 8 11 Marzo 2011 c’è dietro la sua rubrica? «Io per trent’anni ho fatto la cronaca mondana del Messaggero, che prevede stili di scrittura e linguaggi completamente diversi. Quindi questa rubrica per me è un’esperienza nuovissima. Ovviamente c’è stato bisogno di studiare, anche se “so romano e me piace parlà romanaccio”. Mi sono persino iscritto al Centro romanesco Trilussa, diretto dal contato un aneddoto che ha ispirato un mio racconto. Poi capita spesso che quando prendo il taxi i tassisti mi raccontino storie divertenti» Che riscontri ha avuto? «Il riscontro è positivo e continuo. Basti pensare che l’attuale direttore del Messaggero, Roberto Napoletano, ha deciso di reintrodurre questa rubrica ed estenderla a tutti i giorni della settima- Dopo anni di cronaca mondana al Messaggero, un’esperienza nella rubrica fortemente voluta dal direttore Napoletano presidente Gianni Salaris, per studiare il dialetto. Anche perché per scrivere in romanesco non basta la trascrizione diretta dal parlato. Ci sono delle regole linguistiche ben precise». Come nascono i racconti? «A volte prendo spunto da episodi di vita quotidiana, dalle cose curiose che mi capitano. Altre volte dagli incontri che faccio. Per esempio una volta ho incontrato l’attore Ben Gazzara che mi ha rac- na, dopo che il vecchio direttore, Gambescia, l’aveva eliminata. Io c’ho sempre qualcuno che mi telefona e mi chiede chi era questo o quell’altro personaggio, perché capita che somiglino a qualcuno che conoscono» Quali sono i personaggi che raccontano la romanità? «Oltre ai tassisti, mi vengono in mente i barman degli alberghi, i ristoratori, i baristi, tutte quelle persone che servono un certo mondo, che sono sempre a contatto con la gente. E che a volte sono geniali nel loro essere genuini. Le mie storie nascono proprio dal mondo che si muove, che gira» Esiste ancora la romanità? «I romani “de Roma”, quelli veri, secondo me non esistono più. Se oggi vai a Trastevere senti parlare americano, se vai in borgata trovi l’extracomunitario e non trovi più il romano verace. O comunque sono rimasti in pochi. C’è però un piacere nel riscoprire il dialetto romanesco anche tra persone che vengono da altre parti d’Italia che però si sono radicate a Roma e hanno scoperto il Belli, Trilussa o Giggi Zanazzo, un grande poeta romanesco. Oggi la ricerca della romanità è diventata una moda». Secondo lei quale personaggio rappresenta al meglio Roma e la romanità? «Sicuramente se parliamo di romanità mi vengono in mente Alberto Sordi e Gigi Proietti. I grandi attori romani di una volta. Oggi in televisione troviamo il romano becero, che si esprime solo a parolacce. ROMANESCO Sordi tassista, ispiratore per Taverna Reporter nuovo Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini” della LUISS Guido Carli Direttore responsabile Roberto Cotroneo Comitato di direzione Sandro Acciari, Alberto Giuliani, Sandro Marucci Direzione e redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 0685225558 - 0685225544 fax 0685225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Amministrazione Università LUISS Guido Carli viale Pola, 12 - 00198 Roma Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] ! www.luiss.it/giornalismo Reporter nuovo