Tuttelevoci dello“spreco-day” Donne e lavoro

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Tuttelevoci dello“spreco-day” Donne e lavoro
Anno IV - Numero 20
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
11 Marzo 2011
Reporter
nuovo
Amministrative
Tutte le voci
dello “spreco-day”
Imprenditoria
Donne e lavoro
faticosa bigamia
Biotestamento
Ingiusto morire
come Michele
Natalità
Il parto in acqua
comincia sul bus
LA’ DOVE ROMA
RESTA VERACE
VIAGGIO NEI QUARTIERI E NELLE BORGATE ANCORA SALVI DALLʼ«EFFETTO TRASTEVERE»
Politica
Dopo il no di Maroni, quanto ci costerà andare alle urne tre volte in poco più di un mese
Tutte le voci dello “spreco-day”
Una fonte dell’Interno: come si arriva a 300 milioni buttati al vento
Enrico Messina
E allora è deciso: primo
turno delle amministrative
15 e 16 maggio, due settimane dopo i ballottaggi, il referendum il 12 giugno. Il mancato accorpamento delle tornate elettorali scatena la reazione dell’opposizione. «Significa buttare dalla finestra
300 milioni di euro, solo per
impedire che si raggiunga il
quorum», attacca Franceschini. Per l’Italia dei valori la
cifra è superiore: «Un furto di
350 milioni di euro», afferma
Donadi. Qualche giorno dopo
Idv aumenta la cifra: i milioni sarebbero 400. Il ministro
dell’Interno Maroni corregge
al ribasso: i milioni sprecati
sono “solo” 50. «Una cifra
precisa è impossibile da trovare», dicono dagli uffici competenti del ministero. Però
fare due calcoli è possibile.
Secondo quanto rivela una
fonte dell’Interno, le difficoltà ad avere un computo unitario dello spreco derivano dal
fatto che, a seconda della città dove si vota, vi possono essere delle spese differenti per
lo stesso servizio. Però vi
sono dei costi che si mantengono simili nelle differenti
consultazioni elettorali: l’allestimento delle sezioni, gli
straordinari del personale dell’ufficio elettorale, il gettone
per scrutatori e presidenti,
straordinari del personale di
sicurezza. Sono spese che si
potrebbero “ammortizzare”
unendo le tornate.
Affronteranno le amministrative 1.343 comuni, per
IL CONFRONTO: ITALIA DEI VALORI/LEGA
Borghesi:
«La battaglia
per il 29
continua»
Borghezio:
«Scelta giusta
nel rispetto della
democrazia»
Il vice capogruppo
dell’Idv alla Camera
presenta la mozione
pro-accorpamento
e denuncia Maroni
L’esponente della Lega
all’Europarlamento
difende la decisione
e assicura:
«La base capirà»
CONTRARIO Antonio Borghesi
On. Antonio Borghesi, l’Idv si è opposto allo spostamento dei referendum. Per chiedere l’accorpamento con i ballottaggi è stato fondato il comitato “Io voto il 29 maggio”, di
cui Di Pietro è uno dei principali animatori. Come sta andando
la raccolta delle adesioni?
«In pochi giorni abbiamo raccolto più di ventimila firme e
la raccolta continua».
Quali le altre mosse per portare avanti la battaglia?
«Abbiamo presentato una mozione parlamentare che impegni il governo ad istituire l’election-day e che sarà discussa
(insieme a un’analoga del Pd) la prossima settimana. Inoltre,
abbiamo denunciato il ministro Maroni alla Corte dei Conti
per danno erariale».
Il no all’election-day costerà circa 300 milioni euro. Ma
sono cifre valide solamente se si prende in considerazione
il primo turno, perché si prevede che solo il 30 per cento dei
comuni andrà al ballottaggio e quindi la riduzione dello spreco con l’accorpamento al secondo turno è drasticamente minore. Eppure voi avete chiesto di unire il referendum proprio
al secondo turno. Non è una contraddizione?
«Abbiamo voluto evitare di appesantire eccessivamente il
primo turno, considerato che nel primo turno l’elettore deve
dare la preferenza e nei comuni più grandi si vota anche per
i consigli di circoscrizione. Nel secondo turno il voto del ballottaggio è più semplice e quindi l’impegno complessivo dell’elettore è meno gravoso».
E.M.
FAVOREVOLE Mario Borghezio
On. Mario Borghezio, tre appuntamenti elettorali diversi. La decisione arriva da un ministero targato Lega. Come
si concilia con la cultura leghista contraria alla politica “sprecona”?
«La nostra cultura prevede anzitutto il rispetto degli istituti democratici. Il ministro Maroni ha seguito la stella polare dell’interesse generale, che impone che elezioni importanti come
quelle amministrative non siano distratte da altri argomenti. Il
referendum è un istituto diverso ed è una cartina al tornasole
dell’interesse della collettività: chi è interessato andrà a votare».
Questa decisione non rischia di mettervi in difficoltà con
la base del partito?
«La base della Lega capisce benissimo quali sono i veri sprechi della politica. E sa benissimo che il no alla tornata unica
non rientra fra questi».
La Lega si è opposta a celebrare l’Unità d’Italia con una
giornata di festa nazionale, perchè sarebbe uno spreco. Non
c’è contraddizione con lo sperpero rappresentato dal mancato election day?
«Non c’è contraddizione: la festa è una possibilità, il referendum no. Festeggiare l’Unità d’Italia non è strettamente necessario. Non c’è scritto nella Costituzione che lo Stato debba celebrare il centocinquantesimo. Mentre votare al referendum è un diritto del cittadino costituzionalmente garantito ed
è dovere dello Stato permettere che questo diritto venga esercitato».
E.M.
un totale di 12.889.193 elettori divisi in 15.732 sezioni.
Per allestire ognuna di esse saranno necessari un migliaio di
euro circa, per un totale di
quasi 16 milioni di euro. I gettoni per scrutatori e presidenti
ammontano a circa 3 mila
euro a sezione: poco più di 47
milioni di euro. La fetta più
importante della “torta dello
spreco”, però, è quella che riguarda il personale di sicurezza: 63 milioni di euro, secondo il più “ottimista” dei
calcoli.
Complessivamente andranno buttati quasi 126 milioni di euro. Vanno poi considerati il trasporto schede, il
noleggio delle strutture di
voto, gli straordinari per il personale dei ministeri interessati. Secondo la nostra fonte
«si arriva tranquillamente a
150 milioni di euro».
E queste sono solo le spese dirette, sostenute dagli
apparati dello Stato. La
Voce.info ha poi calcolato i
costi indiretti (tempo impiegato per votare, il costo
sostenuto dalle famiglie per
la chiusura delle scuole, la
giornata lavorativa persa dai
componenti del seggio) sostenuti dai votanti per il
mancato accorpamento delle elezioni del 2009. In quel
caso il computo arrivava a
quota 200 milioni di euro.
Aggiornato al numero di sezioni e votanti di questo turno di amministrative si arriva a 150 milioni circa. Cifra
da sommare ai costi diretti
per uno spreco totale di 300
milioni di euro.
Dati confusi, difficoltà anche per chi volesse aprirne uno
Davide Maggiore
PROMOTRICE Il Ministro Michela Vittoria Brambilla ha la
responsabilità del progetto
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11 Marzo 2011
Partenza in salita per i
Pdl point, tra tempi indefiniti
e informazioni scarse per i
militanti berlusconiani desiderosi di impegnarsi nell’ultima iniziativa del premier.
Dovevano essere allo stesso
tempo centri di assistenza fiscale, patronati e punti informazioni per studenti, donne, anziani, famiglie e imprese. Il ministro Michela
Vittoria Brambilla, al fianco
del premier, aveva esposto
numeri ambiziosi. Cinquecento sportelli già aperti, la
prospettiva di arrivare a ottomila. Tutti targati Pdl, ma
aperti anche a chi il Cavaliere non lo voterebbe mai.
Pdl point: ancora fermi al palo
gli 8 mila ‘sportelli Brambilla’
In realtà anche il sostenitore del Popolo della libertà
che volesse contribuire a
questo passo della sempre
annunciata ‘rivoluzione liberale’ incontrerebbe difficoltà. Sul sito www.alserviziodegliitaliani.it (nome dell’associazione di cui il premier è presidente onorario)
c’è un numero verde. Ma i
centralinisti non sanno dare
informazioni su costi e requisiti per l’adesione. Si limitano a raccogliere i dati
degli interessati, assicurando
che saranno richiamati «appena saranno aperte le sedi».
Giorni, settimane, mesi? Impossibile dirlo.
Dalla sede del Pdl, invece,
rinviano al ministero della
rossa Brambilla. A cui il presidente del Consiglio già in
passato affidò iniziative d’impatto. Ma nemmeno l’ufficio
stampa ha cifre più aggiornate delle duemila chiamate
nei primi quattro giorni. E
mancano anche le informazioni pratiche. Il rinvio è a un
comunicato già uscito, o ad
altri contatti da definire. Perché, spiegano, «questa è una
cosa specificamente politica».
Che siano più affidabili i
dati sostanziosi o le incertezze comunicative, di fatto,
gli ‘sportelli Brambilla’ hanno avuto poca fortuna sulla
Rete. Dove qualcuno ha già
evidenziato possibili conflitti di interesse: ad esempio
sulla consulenza finanziaria, settore in cui saranno impegnati gli sportelli. Ma che
è anche quello di Banca Mediolanum, parte dell’impero
Fininvest. Dubbi anche sulla funzione di consultorio
(teoricamente prevista): richiederebbe complesse autorizzazioni sanitarie, difficili
da ottenere per strutture
nate dall’oggi al domani. Ci
si è chiesto persino se un’iniziativa per aiutare i cittadini
nella giungla burocratica
non sia una dichiarazione di
fallimento del governo ‘semplificatore’.
Infine c’è chi si è richiamato, con più sarcasmo, a
ben altre cronache attuali.
«Pare ci sia un servizio per
tutti, un numero verde per
le iscrizioni al bunga bunga», è stata infatti la conclusione di un anonimo
utente di blog.
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Economia
Al convegno sull’imprenditoria femminile, organizzato dalla Camera di commercio di Roma
Donne e lavoro, faticosa bigamia
Costrette a un doppio “sì” per conciliare vita professionale e privata
Federica Ionta
Aida Ben Amar aveva poco più di
vent’anni quando lasciò la Tunisia per
l’Italia. Aveva scelto Roma, si era iscritta all’università e nei ritagli di tempo
lavorava in una piccola azienda di ricambi per auto d’epoca. Finché un
giorno il proprietario la fece andare
nel suo ufficio e le disse che di lì a
poco l’azienda avrebbe chiuso. Troppi debiti, «più di 120 milioni», e una
cattiva gestione dovuta anche alle liti
dei figli, tutti maschi, che avrebbero
dovuto rilevare l’impresa di famiglia.
A quelle parole, Aida sentì un
grande senso di frustrazione. Avrebbe potuto lasciare «la nave che affondava», cercarsi un altro lavoretto
e continuare i suoi studi. Invece
scelse di lottare, «come una figlia»,
fedele a quel suo «papà italiano» che gato il vice-presidente della Provinle aveva insegnato il mestiere. Era il cia di Roma Cecilia D’Elia – è dedi2001. Aida prese un mutuo per cata a tutte le donne che sono “bicomprare la piccola ditta, si inventò game”, che hanno deciso di “sposaun’attività di import-export con la Tu- re” privato e lavoro e lottano ogni
nisia per raccogliere qualche soldo, giorno per conciliare queste due
convinse i suoi parenti nel Maghreb vite. È per tutte le donne che hanno
a prestarle denaro. E alla fine, dopo detto un “doppio sì”».
quattro anni di sacrifiLe donne sono le
ci, saldò il debito di
prime ad essere allon120 milioni. «Non è
La storia di Aida: tanate dal mondo del
facile gestire un’imlavoro in periodi di
“Con amore e
presa in un settore,
crisi, ma allo stesso
quello automobilistico, sacrificio ho salvato tempo sono più creacosì tipicamente mative e attente ai bisogni
la mia impresa” delle aziende. «I dati –
schile – ha raccontato
– Ma non mi scoragha detto il presidente
gio: e alle donne cliendella Cciaa di Roma
ti faccio sempre il 50 per cento di Giancarlo Cremonesi – parlano chiasconto».
ro. Le donne sono più determinate,
La storia di Aida racchiude in sé tenaci e spesso più preparate di tanil senso più profondo della manife- ti uomini. Offrono un’occasione in
stazione “M’illumino d’impresa”, più per uscire definitivamente dalla
convegno dedicato all’imprenditoria crisi». Come a dire che la loro senfemminile organizzato dalla Camera sibilità femminile e l’innato istinto
di commercio di Roma al Tempio di protettivo possono aiutare le impreAdriano. «Questa giornata – ha spie- se a crescere più sane e forti. Secon-
do noti studi McKinsey le società con
una maggior presenza femminile fra
i consiglieri hanno di solito performance migliori di quelle con una presenza più bassa. I risultati sono notevolmente migliori nei consigli di
amministrazione con tre o più donne, quando la “massa critica” rosa fa
davvero la differenza. E non solo. «Le
aziende femminili sono statisticamente più solvibili – ha sottolineato
il responsabile Cciaa del gruppo di lavoro sul Credito, Tiziana Ferrante –
ma non perchè hanno più soldi: è una
questione di mentalità, di volontà di
gestire l’attività in un modo sano».
A conferma, l’analisi della Camera di commercio di Roma ha messo
in evidenza come le imprese femminili nella provincia Capitale siano aumentate tra il 2009 e il 2010 del 6,2
per cento: un ritmo più sostenuto sia
del Lazio (+5 per cento) che di tutto il territorio nazionale (+2,1 per cento). La maggior parte delle donne lavora nel commercio (il 46 per cento
del totale), seguito da alloggio e ri-
Una condizione che, come ha fatto
notare l’assessore alle Attività produttive della Capitale Davide Bordoni,
«costringe le donne a diventare imprenditrici dopo la maternità», per
non rimanere completamente escluse dal mercato del lavoro. Dall’altro
c’è la questione dell’accesso al credito: una difficoltà che coinvolge anche
i colleghi imprenditori uomini e che
spesso mette le micro-imprese alla
mercè degli usurai.
Quello delle pari opportunità sul
lavoro è un tema su cui sta lavoranBIGAME
do l’Europa, l’ultimo riferimento
Una vignetta ironizza sul doppio ruolo normativo è la Direttiva 54 del 2006
delle donne, a metà tra vita privata e del Parlamento europeo e del Conprofessionale. Sopra, il presidente
siglio, ma anche l’Italia, a cominciadella Camera di commercio di Roma re dal provvedimento sulle quote rosa
Giancarlo Cremonesi
nei consigli di amministrazione e negli organi di controllo delle società,
storazione. In tutti i casi, ha fatto no- che sarà in aula a palazzo Madama il
tare il presidente Cremonesi, «è mol- prossimo 15 marzo. Ma alla realtà giuto elevata la quota di donne che av- ridica formale non sempre corriviano nuove aziende, piuttosto che sponde una realtà sostanziale in gracontinuare l’attività di famiglia». Le do di superare la contraddizione che
donne sono anche più propense a in- vede le donne al centro della vita donovare: nell’ultimo anno il 37 per cen- mestica e ai margini di quella proto delle imprese femminili italiane ha fessionale: solo il 47 per cento delle
acquistato macchinaitaliane lavora, contro il
ri, tecnologie o bre58 per cento della mevetti, contro il 24 per Le aziende in rosa dia Ue. Un dato su cui
cento del dato meincide il “peso” della fadio nazionale che in- sono più solvibili e miglia: basti pensare
clude anche gli uoche in Italia il 30 per
sono gestite in
mini. Ma le donne
cento delle donne riemodo più sano
imprenditrici non
sce a lavorare solo lahanno ancora vita fasciando i figli ai nonni
cile. Quella “bigamia”,
(in Svezia la casistica
che le costringe a scegliere tra una vita scende al 2 per cento).
in casa e una fuori, si trascina dietro
Nel suo romanzo-saggio “Le tre
problemi che le Istituzioni, naziona- ghinee”, Virginia Woolf scriveva:
li ed europee, ancora non hanno sa- «Dietro di noi sta il sistema patriarputo affrontare in maniera compiu- cale; le pareti domestiche, con (...) il
ta. Per il vice-presidente D’Elia «il pri- loro servilismo. Dinnanzi a noi si apre
mo problema si chiama conciliazio- il mondo della vita pubblica, con la
ne: ancora oggi in Italia si perde il po- sua possessività, la sua invidia, la sua
sto di lavoro dopo il primo figlio». aggressività, la sua avidità».
Sorprendente campagna pubblicitaria del governo georgiano su Economist e Time
Investite! Non c’è più corruzione
Ilaria Del Prete
PRESIDENTE Saakashvili è
al governo dal 2004
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“Georgia, the world’s number one in fighting corruption”, l’ambiziosa affermazione è il titolo di una campagna pubblicitaria finanziata dal governo di Tiblisi. Niente di sconcertante, se non
fosse che lo stato transcaucasico è famoso appunto per
l’elevato tasso di corruzione
che attanaglia le sue istituzioni: solo fino a cinque anni
fa, come testimoniano degli
operatori inviati per lavoro in
Georgia, per evadere il fisco gli
hotel non erano neanche for-
niti di insegna a indicarne la
presenza.
A dimostrazione dei successi georgiani, i dati raccolti
dal Trasparency International, organizzazione che misura il livello di corruzione
percepita dalla popolazione
di 178 paesi in tutto il mondo. Come spiega l’ultimo bilancio, datato 2010, la Georgia si colloca al 68esimo
posto della classifica, con
un indice pari a 3.8, dove in
una scala che va da zero a
dieci, lo zero rappresenta il
massimo grado di corruzione. Non che la situazione sia
idilliaca, dunque, nel paese
che tramite la divulgazione
di questo dato spera di attrarre un maggior numero di
investimenti economici sul
territorio, ma di certo a partire dal 2004, anno in cui il
presidente Saakashvili ha
raccolto il 96 per cento dei
consensi elettorali (scesi al
79 per cento alla seconda elezione, nel maggio 2008), la
situazione si è evoluta positivamente. Sette anni fa, infatti, la Georgia occupava la
133esima posizione.
Secondo un altro studio,
condotto dall’International
Republic Institute, la Gallup
Organization e il Baltic Survey,
solo lo 0.4 per cento della popolazione avrebbe pagato una
tangente per ottenere un pubblico servizio negli ultimi tre
anni. I successi del governo di
Tiblisi nella lotta alla corruzione sono testimoniati dal 77
per cento della popolazione,
che si dice soddisfatta delle
sue battaglie, ma anche dal Dipartimento di Stato USA arriva notizia di segnali positivi. Nel Country Profile della
Georgia si legge che “poco
dopo che il presidente Saakashvili si è insediato, la sua
amministrazione ha rinnovato quasi per intero le forze
di polizia e ne ha sostituito i
ranghi con ufficiali meglio
pagati e meglio addestrati,
immediatamente diminuendo
la principale fonte di corruzione”.
Nonostante le classifiche
parlino chiaro, e la Georgia
occupi la posizione immediatamente successiva all’Italia (al 68esimo posto con 3.9
punti, dopo il Ruanda), esiste
ancora un limite posto dalla
ristretta fiducia nel sistema
giudiziario che non consente
di attrarre ingenti capitali
dall’estero nel paese in cui la
guerra delle Rose non è riuscita a portare una vera e
propria democrazia.
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Economia
Le conversazioni via web sui cellulari fanno concorrenza ai gestori di telefonia mobile
Per gli operatori è allarme Skype
Vodafone è corsa ai ripari: abbonamenti più cari per chi vuole usarlo
U
n cellulare e mezzo
per abitante. Prima
di noi solo Emirati
Arabi, Estonia e Hong Kong.
L’Italia si colloca al quinto
posto nella classifica mondiale per numero di cellulari in rapporto alla popolazione. Nonostante i limiti
strutturali della rete italiana,
è cresciuta del 44,4 per cento, rispetto al 2009, la disponibilità di accesso alla
rete con i dispositivi mobili:
6,2 milioni di italiani hanno
dichiarato di avere un cellulare con connessione a internet (fonte dati: Audiweb,
dicembre 2010). Il traffico è
sicuramente destinato ad aumentare nei prossimi anni
anche grazie agli investimenti dei singoli operatori
telefonici.
La nuova frontiera è la
Hspa+, una evoluzione delle
reti 3G, acronimo che sta
per “terza generazione”, e
per il 2012 si parla già di tecnologia di “quarta generazione”. In concreto, navigazione più facile e download
più rapidi. I protagonisti di
quest’evoluzione sono gli operatori telefonici: Vodafone e
Telecom Italia. La compagnia
inglese ha già introdotto la trasmissione dei dati a 43,2 megabit per secondo a Roma e
Milano. Telecom Italia invece
MANIA
Due ragazze
con due
cellulari
ciascuna.
In Italia ci
sono più
cellulari che
persone.
In Europa,
sopra di noi,
solo
l’Estonia
ha già sperimentato la banda
larga a 21 megabit sempre nelle due maggiori città della penisola e punta a raddoppiare
la velocità in tutto il territorio
nazionale entro la fine dell’anno.
I cellulari erano nati per telefonare senza fili, oggi sono
utilizzati sempre più per la trasmissione di dati sul web.
Sempre secondo Audiweb, il
15 per cento degli internauti
italiani si connette esclusivamente dagli smartphone. Il
cerchio s’è chiuso con i programmi Voip (voice over internet protocol), una sigla
che indica le conversazioni
rese possibili da una connessione internet. Le telefonate
sono gratis se gli utenti usano entrambi i software, mentre sono a tariffe bassissime
se uno dei due non lo usa.
Skype, il software più usato
per le telefonate sul web, che
da poco ha toccato la quota
record di 30 milioni di utenti connessi nel mondo nella
stessa giornata, è già sbarcato sui cellulari. Era il 2006 e
l’esordio fu reso possibile
dall’operatore internazionale Tre. Negli anni si è inimicato gli altri operatori di telefonia mobile. Da ultimo
Vodafone che ha vincolato
l’uso di Skype, e di altre applicazioni, alla sottoscrizione di un particolare piano tariffario dal costo non proprio
concorrenziale: bisogna pagare otto euro in più oltre al
prezzo dell’abbonamento.
Altri software hanno seguito l’esempio di Skype. Il
suo concorrente “numero
uno” è Viber, per chiamare
gratis con gli iPhone. In soli
tre giorni, lo scorso dicembre, dal sito della Apple più
di un milione di utenti ha
scaricato l’applicazione. Il
boom di Viber e il consolidamento di Skype hanno
davvero spaventato i gestori telefonici. Fino a quando
le conversazioni gratis via
web avvenivano solo tra pc,
nessuno si preoccupava. Da
quando i cellulari li hanno
sostituiti, gli operatori si
sono sentiti minacciati e
sono corsi ai ripari con alcune restrizioni, come nel
caso di Vodafone. Skype ha
già parlato di “minaccia alla
libertà dei consumatori”. In
Russia alcuni industriali hanno chiesto al governo di intervenire in difesa della sicurezza nazionale e dell’interesse delle imprese di telefonia mobile, i cui profitti
potrebbero calare per colpa
di Skype. Una rete più veloce potrebbe trasformarsi
dunque in un’arma a doppio
taglio per gli operatori: da un
lato aumenterebbero i loro
profitti per il traffico dati,
dall’altro potrebbero perdere terreno nel traffico telefonico.
Pregi e difetti della nuova tecnologia. Scompaiono gettoni e cabine, e nasce il geomarketing
Il telefonino, un guinzaglio che lega tutti
In un cortometraggio del
regista Manoel de Oliveira,
due vecchi amici s’incontrano
per caso a San Paolo. Vogliono raccontarsi cos’hanno fatto negli ultimi anni, ma i rumori del traffico e le frequenti
chiamate che entrambi ricevono al cellulare glielo impediscono. Allora decidono di
telefonarsi. Un paradosso dell’incomunicabilità che rappresenta bene la società di
oggi: i rapporti umani resi difficili, ma al contempo salvati, dalla tecnologia. I colpevoli
sono i cellulari, che ci tengono al guinzaglio, fanno sapere a tutti, e sempre, dove ci
troviamo, con chi siamo e
cosa facciamo. Il telefonino è
come la copertina di Linus,
non riusciamo a staccarci e ci
fa sentire più sicuri. Alcuni
produttori di software hanno
colto la palla al balzo, hanno
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sviluppato delle applicazioni hanno ringraziato la tecno- diventate un prezioso struper la geolocalizzazione, e logia. Con l’avvento dei cel- mento di indagine, che qualhanno reso un servizio alle lulari è diventato più facile cuno ha pensato di evitare
imprese per il geomarketing. rintracciare la vittima di un proprio sfruttando il proAd esempio, c’è un’applica- reato, come un sequestro, gresso. Diversi magistrati
zione per iPhone che si chia- oppure ricostruirne gli spo- impegnati nella lotta contro
ma Foursquare: basta sfiorare stamenti dall’esame delle la criminalità organizzata,
lo schermo per far sapere ai celle telefoniche. Tutti i re- come Maurizio de Luca, sopropri amici
stituto procudove ci si
ratore della
Le intercettazioni hanno reso più agevoli
trova. E gli
Direzione naesercizi comzionale antile indagini, ma Skype resta
merciali hanmafia, e Nino subito apcola Gratteri
una zona franca, come insegna la mafia
profittato
della procura
delle potendi Reggio Cazialità dei social network per centi casi di cronaca – dal labria, hanno denunciato
conquistare i clienti: man caso Scazzi alla scomparsa di l’uso di Skype da parte dei
mano che sale il numero di re- Yara Gambirasio, al delitto di mafiosi. Proprio nelle ingistrazioni nello stesso nego- Cogne – hanno coinvolto tercettazioni una frase rizio, aumentano gli sconti. esperti in telecomunicazio- corrente è «Sentiamoci su
Ecco servito il geomarketing. ne per l’esame del traffico te- Skype», e allora gli inquiCertamente gli investi- lefonico. E le intercettazio- renti devono ricorrere ad
gatori delle forze dell’ordine ni sul traffico mobile sono altri strumenti d’indagine
Pagina a cura di Vito Miraglia
visto che il traffico telefonico su Skype non può essere
intercettato.
Più i cellulari si sono diffusi e più velocemente sono
state smantellate le cabine telefoniche: entro il 2015 la Telecom farà piazza pulita,
mentre in Spagna e Francia
alcune sono diventate internet point da marciapiede. I
telefonini hanno mandato
in soffitta gettoni e schede
magnetiche e, con essi, il rituale della conversazione
per strada: fare incetta di
gettoni, cercare una cabina,
attaccarsi alla cornetta e
spesso, far aspettare fuori
gli impazienti. Oggi le cabine sopravvivono solo in alcuni luoghi come le stazioni o gli ospedali: ma è più
raro trovarsi con una scheda
telefonica che con il cellulare fuori uso.
NEL 2012
In cinese
il wi-fi
di Londra
I giochi olimpici di Pechino sono stati l’occasione per sfoggiare il successo economico della
Cina. Ma anche i prossimi
giochi di Londra 2012
potrebbero parlare mandarino: l’azienda cinese
Huawei s’è offerta per costruire la rete wi-fi nella
metro londinese: sì potrà
parlare e connettersi durante i viaggi nel Tube. Un
regalo da 50 milioni di
sterline per la seconda società al mondo di sistemi
di telecomunicazioni dopo
la svedese Ericsson. Huawei pensa di recuperare
l’investimento con i costi
di manutenzione. Nel
2009 il suo fatturato ha superato i 21 miliardi di
dollari. Tra i suoi mercati
di riferimento non ci sono
solo le infrastrutture di
rete (ha contribuito alla
costruzione delle reti nel
Sud Italia), ma anche i cellulari e le applicazioni per
i dispositivi. I suoi prodotti
sono altamente concorrenziali. La ricetta è prezzi low cost più manifattura high quality. Il suo successo ha spaventato i concorrenti occidentali. Gli
Stati Uniti hanno addirittura respinto degli investimenti di Huawei per il
sospetto di contiguità con
il regime cinese. Intanto,
da luglio, il suo brand è finito sugli smartphone,
dopo essere comparso sulle chiavette Usb. Il pezzo
pregiato è uno smartphone che ha sposato il sistema operativo del momento, Android, che oltreoceano ha ormai superato gli omologhi di iPhone e BlackBerry. E Huawei
è pronta a sottrarre altre
quote di mercato alla Apple con il suo tablet che
farà concorrenza all’iPad.
In Italia la sua presenza
potrebbe consolidarsi grazie alla partnership con
PosteMobile, la società
del gruppo PosteItaliane
attiva nelle telecomunicazioni.
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nuovo
La Roma verace
Mini-reportage sui quartieri e su alcune borgate che incarnano la romanità della Capitale
Si trova qui la sua anima profonda
Un altro volto rispetto a quello di Trastevere, inquinato dal turismo
Un viaggio attraverso i quartieri e le borgate
della Capitale alla ricerca degli angoli e dei personaggi più veraci, ma anche il diario di un territorio alle prese con la sfida dell’espansione urbanistica. Per scoprire le trasformazioni sociali
e i fenomeni culturali che attraversano le “nuove Trastevere” e i quartieri lontani dal centro. Lo
sguardo di Reporter Nuovo attraversa la Testac-
cio “industriale” e giallorossa, scivola lungo le viegiardino della Garbatella, scopre il nuovo volto
del Pigneto, getta lo sguardo nella San Lorenzo
dei locali notturni. Oltre a percorrere “nuove” –
ma già tipiche – strade di periferia, dove sorgono il Quarticciolo, Primavalle, Tor Marancia, il
Trullo. Un mondo dove «si rifugia quella Roma
popolare che è evasa da un centro oggi “con-
quistato” dalle aziende, dalla politica, dagli acquirenti stranieri, dai turisti» come spiega Maria Immacolata Macioti, sociologa, che a questi
temi ha dedicato tutta la sua ricerca. Un mondo
che è stato al centro delle riflessioni letterarie e
cinematografiche dei grandi maestri, da Pier Paolo Pasolini a Nanni Moretti, da Vittorio de Sica
ad Alberto Moravia.
Testaccio, la culla giallorossa Garbatella, splendida promessa
dove il mattatoio sforna arte che svende le sue case-giardino
«I
l trambusto? I locali? Non si stupisca,
ce so’ dai tempi de
“Checco e Nina”». Manfredi,
“Manfredino”, è il titolare dell’alimentari di piazza Santa
Maria Liberatrice, quartiere
romano di Testaccio. Il fatto
che abbia ragione su ciò che
accade in questo ventesimo
rione della città eterna non dipende soltanto da quella spiccata veracità che nel ventre
sempre più aperto e contaminato di Roma è garanzia di
vera saggezza popolare. E’
inutile stupirsi del traffico, dei
cantieri e della vita notturna,
e lo si capisce anche con una
breve visita in quei sessanta ettari che sorgono alle pendici
del Monte de’Cocci, la collina di detriti di anfore romane
che da’ il nome al quartiere (le
testae sono, appunto, i “cocci” in latino). Ma è sul dato
storico che la risposta del negoziante è ancora più calzante. Il nuovo mercato, che
probabilmente sarà pronto
ad aprile, consentirà il trasferimento dei 112 banchi di
Piazza Testaccio. E anche se
alcuni lamentano i ritardi
nella costruzione, Manfredi
rassicura: «Funzionerà, d’altronde il mercato lì c’era anche al tempo dei romani». A
Testaccio la storia si ripete. Le
origini del quartiere, d’altronde, parlano chiaro: sorto
in epoca romana come insediamento di contorno al porto - l’Emporium - che garantiva alle navi commerciali un
comodo approdo nel cuore
della città (e una comoda discarica per le anfore in disuso), il quartiere non ha modificato le abitudini dei suoi
abitanti. Il triangolo oggi tracciato da via Marmorata omaggio al traffico di marmi
che dalle rive del Tevere invase presto la capitale dell’Impero - via Galvani e lungotevere, ha dato accoglienza
dal secondo secolo fino ai
Reporter
nuovo
FEDE
Un angolo
“giallorosso”
del quartiere
di Testaccio.
giorni nostri a industrie e
traffici di ogni tipo ma con un
lungo letargo: dall’epoca di
Traiano fino alla seconda metà
dell’800, quando a farla da padrone nelle campagne di
Roma sud erano soltanto le erbacce e la malaria. Il primo
piano regolatore della capitale del Regno d’Italia fece riprendere al quartiere il ruolo
di motore per lo sviluppo in-
Il nuovo mercato
occupa il posto di un
antico mercato romano
dustriale della città. Testaccio
fu individuato da Luigi Pianciani, primo sindaco della
Roma liberata, come l’area
dove dare libero sfogo alle
“arti clamorose”, ovvero rumorose, grazie anche ad una
posizione che avrebbe evitato il transito degli scarti e dei
rifiuti industriali in mezzo al
centro urbano. Una scelta logistica che si è rivelata intelligente, vista la lunga carriera del grande Mattatoio che
fece da protagonista di questa
rinascita e che oggi proprio di
arte si occupa, con il museo
Macro e la facoltà di architet-
tura di Roma Tre. Senza contare poi l’altra “arte”, questa sì
veramente “clamorosa”: quella calcistica. Le prime partite
della Roma sono state giocate qui, al Campo Testaccio,
stadio-simbolo della Lupa,
demolito nel 1940. Il campetto dei “pulcini” che ne ha
raccolto l’eredità è oggi minacciato da un progetto di
parcheggio.
Ma gli anziani testaccini riuniti al bar di via Aldo Manuzio non sono preoccupati.
«Quel campo è come la fede,
indistruttibile», afferma un
distinto signore romanista.
Che ricorda – a baluardo dello spirito di resistenza del
quartiere – il vecchio motto:
«Campo Testaccio c’hai tanta gloria, nessuna squadra ce
passerà». Rumore, fede, sport.
E bagordi. Quando cala la
sera, alle pendici di quel mons
testaceus si accendono i nomi
della movida del venerdì e del
sabato sera: il Joia, le Rune, il
Coyote, il Contestaccio, il
Radio Londra. Nelle stesse caverne - osterie che hanno
dato ospizio, per secoli, ai manovali dell’operoso quartiere.
Almeno “dai tempi di Checco e Nina”.
N
ovantuno anni e non
sentirli. O quasi. Nascosta alla vista dei
centauri di via Cristoforo Colombo dalla silhouette-scudo
del palazzone della Regione
Lazio, la Garbatella vive nei
suoi lotti e nei suoi giardini. La
tranquillità, almeno di giorno,
è d’obbligo. Lo storico quartiere a sud di Roma, progettato dagli architetti pionieri della città-giardino Gustavo Giovannoni e Innocenzo Sabbatini all’alba del Ventennio, è
stato protagonista negli ultimi
quindici anni di una riscossa
sociale e urbanistica senza
precedenti. Una riscossa che
prima si percepisce, poi si
vede, e poi ancora si respira avvicinandosi alle palazzine dai
colori accesi (rosso, giallo,
marrone) costruite durante il
fascismo e ristrutturate di recente, entrando nei cortili delle villette ocra, parlando con i
loro abitanti. «Il merito è dell’Università di Roma Tre», azzarda Francesco Cosimo, che
nell’ateneo lavora.
E nelle villette di via Roberto
De Nobili vive, in subaffitto.
«Pensiamo al Teatro Palladium, che ormai ha raggiunto la notorietà internazionale
grazie al Romaeuropa festival.
Pensiamo al valore aggiunto
delle vicine facoltà di Giurisprudenza e Scienze Politiche, alla nuova Economia:
l’Università ha svegliato gli
abitanti di questo quartiere».
E, con il tempo, li ha resi più
ricchi. Basta chiedere a una
studentessa di Scienze Politiche qual è la situazione delle
abitazioni. «Una stanza in una
casa bilivelli si può arrivare a
pagarla anche 600 euro». Un
prezzo alto, quasi fuori mercato. «C’è la metropolitana, ma
le garantisco che di notte Garbatella non è certo sicura
come il centro storico». Il disagio della periferia preme,
Pagina a cura di Jacopo Matano
INTERNAZIONALE
Il teatro Palladium, protagonista
della riscossa del quartiere
infatti, su questo quartiere,
sulle sue strade, negli sguardi
dei ragazzi in motorino o affacciati ai balconi rigorosamente addobbati con le bandiere della Roma. Edilizia popolare ma affitti paradossali, se
si tiene in conto che a progettare quelle case è stato l’Istituto
autonomo di case popolari
(Iacp, oggi Agenzia territoriale per l’edilizia regionale),
L’Ater svende
le case: 30mila euro
per 50 mq
quando ancora nella zona si
coltivava la vite con il metodo
“a garbata”, che forse le diede
il nome, e lontanissimi erano
l’Ateneo, i ristoranti, i riflettori
del set cinematografico dei
“Cesaroni”.
Cosimo ricorda. «Quando
sono arrivato a Roma, alla
fine degli anni ’90, questo era
ancora un quartiere povero
che credeva e realizzava una
speranza». Ma mentre la Garbatella ideale spiccava il volo,
quella reale restava ancorata a
terra dai problemi burocratici. «Ci sono centinaia di casi
in cui i tempi lunghi, i vinco-
li per l’anzianità delle case e le
pratiche rese faticose dall’indisponibilità degli inquilini
costringono l’Ater a svendere
la casa». Al prezzo irrisorio di
30 mila euro secondo un massimale fissato dalla legge 560
del ’93, quando il valore di
mercato sarebbe almeno sette volte tanto. Una vera e
propria “svendita” - 1.300
abitazioni, una fetta consistente del quartiere – che sta
frustrando i nuovi abitanti. E
lo sfogo di Cosimo diventa
condivisibile: «In cinque anni
di affitto ho già coperto l’intero
valore della casa».
Accanto alla sua abitazione
si scorgono i lavori del mercato di via Passino, avviati nel
2002 e passati attraverso nove
anni, tre giunte e quattro rinvii solo dallo scorso settembre.
Sulla via del centro, poi, si passa davanti al cantiere più importante, che oggi è solo sulla carta: il Campidoglio 2,
grande “hub” di uffici che
consentirà – nelle intenzioni
del sindaco Alemanno - «di liberare il centro, creare un
luogo più addensato e risparmiare notevolmente dal punto di vista finanziario». La
Garbatella continua a promettere. Sperando che la bolla non esploda.
11 Marzo 2011
I
La Roma verace
Lo storico quartiere a est di Porta Maggiore da qualche anno sta vivendo la sua primavera
Pigneto, non chiamatelo borgata
Nel dopoguerra era il paradiso per gli affitti. Adesso tutto è cambiato
Vito Miraglia
Se guardiamo la mappa di Roma,
a est della Stazione Termini vediamo
un triangolo, chiuso tra via Prenestina, via Casilina e via dell’Acqua
Bullicante. La punta di questo triangolo guarda al centro, a piazza di Porta Maggiore, ma si allarga verso la periferia: Prenestino Labicano, Centocelle, Giardinetti. È il quartiere Pigneto, ma guai a chiamarlo “borgata”. Da quattro, cinque anni, è diventato tra i quartieri più in della Capitale. Da quando hanno chiuso
un tratto di via del Pigneto, la sua arteria principale trasformata in isola
pedonale.
Sono i luoghi amati da Pier Paolo Pasolini, abitati dai suoi ragazzi di
vita, protagonisti dell’omonimo romanzo e del film Accattone, che
ebbe il suo primo ciak proprio a via
Fanfulla da Lodi, al Bar Necci. “Tutt’intorno s’alzavano impalcature e casamenti in costruzione, e grandi prati, depositi di rottami, terreni fabbricabili; da lontano, forse dalla
Marranella, dietro il Pigneto, si sentiva giungere la voce d’un grammofono [...] Quando ch’ebbero lasciato alle spalle, passo passo, Porta Furba e si furono bene internati in mezzo a una Shangai di orticelli, strade,
ISOLA
Uno scorcio
dell’isola pedonale
di via del Pigneto.
La sera i banchi del
mercato lasciano il
posto a gruppi di
ragazzi nei pub che
si affacciano sulla
strada
reti metalliche, villaggetti di tuguri,
spiazzi, cantieri, gruppi di palazzoni”. Così scriveva in Ragazzi di vita
Pasolini. La storia è degli anni ’50;
l’espansione urbana comincerà negli anni a seguire, quando gli operai
della Snia Viscosa e i ferrovieri dello scalo di San Lorenzo troveranno
casa nel quartiere. «Dopo la guerra,
il Pigneto era la zona con gli affitti
più convenienti di tutta Roma», ci
spiega la proprietaria di uno storico
bar di Via L’Aquila, a due passi dal-
l’ex cinema a luci rosse da qualche
anno rilevato dal Comune e riconsegnato alla comunità.
Oggi i prezzi delle case non sono
più concorrenziali. Molti appartamenti sono stati ristrutturati e la speculazione ci ha guadagnato. Il volto
del quartiere è cambiato, non è più
una “borgata”, è un quartiere come
altri, come la Garbatella. Ma i suoi abitanti rivendicano ancora la sua peculiarità. «E’ un paese nella città».
Questa frase l’hanno ripetuta in tan-
ti, ma subito dopo hanno aggiunto
che «non è più il Pigneto di una volta». La periferia si è allargata a dismisura, ha sfondato l’anello del
Grande raccordo. Per questo motivo
i quartieri come il Pigneto sono diventati parte integrante del centro, a
dieci minuti da San Giovanni. Da
quando hanno creato l’isola pedonale,
il Pigneto è diventato una succursale notturna di San Lorenzo, il quartiere universitario in cui si riversano
molti studenti della Capitale. La mo-
vida di San Lorenzo ha investito anche il “quartiere dei pini”. Il commercio ne ha subito approfittato:
accanto alle storiche macellerie, sono
comparsi pub e locali notturni, ristoranti etnici e vinerie. Anche qui si
sono create le comunità di extracomunitari, soprattutto senegalesi e
bangladeshi. Di mattina si confondono con le bancarelle del mercato,
di sera alcuni di loro si perdono nello spaccio di droga. Il traffico di stupefacenti, ormai a cielo aperto, e i bivacchi notturni sono la faccia scura
del Pigneto, quella che la fa somigliare
a San Lorenzo. Farà la fine del quartiere gemello? «Spero di no, anche se
i rischi ci sono. Forse è solo una moda
uscire di sera al Pigneto», risponde un
commerciante.
La parola più frequente nelle parole di chi ci ha descritto il quartiere è “contraddittorio”. Il Pigneto è un
quartiere pieno di contraddizioni: tutto proteso al centro della città, ma con
le radici nella vecchia periferia romana. La metro C, quando sarà costruita, accorcerà le distanze con il resto del territorio, ma l’anima da paese di provincia forse sopravviverà.
Certamente non cambierà il nome,
nonostante su via del Pigneto sopravvivano solo tre pini secolari che
hanno battezzato il quartiere.
L’angolo di città che non si arrese al fascismo affollato di studenti e locali
San Lorenzo, tra guerra e giovani
Ilaria Del Prete
«Quando sono venuta la
prima volta per le vie di questo quartiere dove la gente per
bene passa solo dopo morta,
ho avuto l’impressione di trovarmi in una città dove fosse
avvenuto un gran disastro».
Così Maria Montessori descriveva la sua esperienza
nella borgata di San Lorenzo
circa un secolo fa, quando tra
le strade i cui nomi ricordano
gli antichi popoli italici l’educatrice aprì la prima Casa del
bambino. Oggi tra via dei
Volsci e via degli Equi, il
Piazzale del cimitero del Verano e Porta Tiburtina, di
gente ne passa tanta, soprattutto di notte. San Lorenzo ha
subito nel corso del Novecento una trasformazione tale
per cui da quartiere degradato è diventato prima uno dei
cuori proletari della Roma di
inizio secolo, alloggio di operai, ferrovieri e marmisti sostrato in cui ha da subito attecchito il movimento socialista che lo ha reso noto per
II
11 Marzo 2011
la sua denotazione “rossa” –
fino a diventare centro della
vita universitaria - grazie alla
vicinanza alla Sapienza – e
della movida serale.
Anche se l’architettura del
quartiere, invariata dal 1888,
anno in cui la speculazione
edilizia portò a termine la
costruzione di quella che al-
centri dal maggior fermento
creativo e culturale. Lo stesso dicasi per le ex vetrerie
Sciarra, oggi sede della facoltà di scienze umanistiche della Sapienza.
Passeggiando per le strade
di San Lorenzo durante il
giorno, è difficile immaginare il fermento che le popola
“Molti dei vecchi proprietari hanno lasciato
casa, stanchi di vivere
in un quartiere ormai in balia dei giovani”
lora era una zona periferica,
prova a nascondere il mutamento, basta osservare con un
minimo di attenzione per accorgersi che al posto del pastificio Cerere (datato 1905)
oggi sorge una moderna fondazione culturale (omonima). Negli anni ’70 e ’80 fece
da collettore per un nucleo di
artisti che grazie alla loro
presenza inaugurarono a San
Lorenzo una moderna tradizione che ne ha fatto uno dei
dal tramonto in poi. Sparuti
gruppi di universitari alle fermate dell’autobus non si accorgono delle corone di foglie
d’acanto che pendono sotto
numerose targhe poste a commemorare gli esponenti del
movimento comunista che
finirono i loro giorni nelle
Fosse Ardeatine, non hanno
memoria della strenua resistenza che oppose il quartiere all’avanzata fascista e se non
fossero così visibili, non riu-
scirebbero neanche a individuare i segni indelebili lasciati
dai bombardamenti del 19
luglio 1943. Nando, proprietario di un banco di frutta e
verdura al piccolo mercato di
largo degli Osci, in quei giorni era appena un bambino,
ma non disdegna di raccontare quanto e come è cambiata
la realtà di San Lorenzo a
partire dal secondo dopoguerra.
«Dagli anni ’50 in poi – ricorda con calma, anche se
sono le 11 del mattino, i
clienti scarseggiano - è cominciata nel quartiere una
forte migrazione dal sud e
centro Italia, erano per lo più
ferrovieri che lavoravano allo
scalo San Lorenzo. Ci sono
stati alcuni problemi di integrazione tra noi sanlorenzini e gli altri, ma è stata facilitata dalle opere religiose,
che accanto al movimento
politico hanno sempre creato unità». Parla dell’Opera di
San Pio X e dell’attività parrocchiale della Chiesa dell’Immacolata, eretta non a
LA PIAZZETTA Il quartiere che vive di notte
caso nel cuore di San Lorenzo. Gli abitanti storici del
quartiere sono ancora molto
devoti alla Madonna, tanto
che l’8 dicembre sono ancora soliti organizzare festeggiamenti. «Ma non è più lo
stesso – denuncia Nando -,
molti dei vecchi proprietari
sono andati via, stanchi di vivere in un quartiere ormai in
balia dei giovani».
Sicuramente perché l’università è proprio a ridosso,
quando non proprio all’interno, di San Lorenzo, ma
anche perché lo spirito anar-
chico del quartiere è rimasto
immutato, ora sono proprio
loro a farlo rivivere, ma di notte. In molti hanno affittato una
stanza – a prezzi esorbitanti a
causa della vicinanza alle facoltà – e dall’ora dell’aperitivo
fino alle prime luci dell’alba le
strade sono nelle loro mani.
Studenti, intellettuali alla ricerca di ispirazioni popolarchic, single e professionisti che
vivono in case non sempre ristrutturate; centri sociali, librerie alternative, vecchie latterie, vecchi circoli delle carte. E poi graffiti, ovunque.
Reporter
nuovo
Roma verace
Sui nuovi equilibri della città, intervista alla sociologa urbana Maria Immacolata Macioti
“L’Urbe? Sempre più fuori dal Gra”
Cambiato il modo di vivere in periferia, si è evoluto pure il linguaggio
Federica Ionta
La Roma d’un tempo, quella delle fettuccine e della trippa con la mentuccia, oggi non esiste più. Sopravvive
in qualche trattoria del centro, quelle dai tavolini di legno e dalle sedie
mezze rotte che, alla fine, attirano più
turisti che romani.
Dov’è finita, allora, la “Roma verace”?
«Sicuramente è andata via dal
centro storico – spiega Maria Immacolata Macioti, docente all’università
La Sapienza ed esperta di sociologia
urbana – L’esodo dal centro comincia
con la chiusura delle botteghe artigiane e delle piccole attività commerciali, e con l’arrivo degli uffici, degli spazi della politica, degli acquirenti
stranieri. Gran parte di questo spostamento verso le nuove periferie è legato al costo degli affitti, che sono diventati molto più alti».
Se cambia il concetto di “centro”,
cambia anche quello di periferia?
«Esatto. Le periferie di “ieri”, si
pensi a Cinecittà, al Quarticciolo o all’Alessandrino, oggi sono ben collegate e soprattutto integrate con Roma.
I quartieri marginali si sono spostati
fuori dal Raccordo anulare, dove c’è
più dispersione e minore senso di comunità. Un altro elemento particolare
GHETTI
Il Nuovo Corviale,
progettato nel 1972
nel XV municipio,
doveva essere il
primo quartiere
satellite della città,
ma non è stato mai
completato. Ospita
1200 appartamenti
e più di 14000
residenti
delle nuove periferie è che al loro interno possiamo trovare complessi
residenziali di tipo alto-borghese,
magari con accesso limitato, cancelli e personale di sicurezza all’ingresso».
Per questo capita di sentire un romano che vive fuori dal Gra dire
“scendo giù a Roma”.
«Negli anni Sessanta e Settanta
questo era il linguaggio degli abitanti di quelle zone che oggi sono invece pienamente parte della città. Anche questo tipo di linguaggio si è spostato dalle vecchie alle nuove perife-
rie, quindi fuori dal Raccordo».
Sempre parlando di linguaggio,
esiste ancora il romanesco o è diventato romanaccio?
«Sicuramente il romano del Belli
non si trova più, ma questo è vero da
tempo, ormai. I romani di oggi sono
arrivati anche da altre zone d’Italia, dalle zone meno favorite del Centro ma
anche del Nord e una buona parte dal
Sud. A questo si aggiunga il fenomeno degli immigrati. La lingua cambia,
si evolve, ma questo è un bene».
Tornando alla città “verace”: la
Roma trasteverina era malfamata e
pericolosa. “Romanità” vuol dire
emarginazione?
«Trastevere era una zona insicura
per chi non ci viveva e quindi non la
conosceva. Ma i residenti si conoscevano tutti, era una sorta di microcosmo per cui raramente venivano compiuti atti di devianza verso coloro che abitavano nello stesso quartiere. È indubbio che nelle nuove periferie urbane, fuori dal Raccordo anulare, vengono spinti anche i marginali,
i rom, tutte presenze indesiderate nelle zone centrali».
Lo slittamento delle nuove peri-
Da Pasolini a Moretti, letteratura e cinema raccontano la periferia capitolina
Vite violente e registi in Vespa
Davide Maggiore
Città senza memoria, le
hanno definite. Ma l’impronta delle borgate resta nel ricordo collettivo grazie alla
rappresentazione che libri e
pellicole ne hanno dato negli
anni. Molti grandi nomi della settima arte hanno realizzato o interpretato film sull’argomento. A partire da
Anna Magnani, che impersona una popolana in prima linea contro gli speculatori di
Pietralata in L’onorevole Angelina, di Luigi Zampa. Ingrid
Bergman è invece la protagonista di Europa 51, film di Roberto Rossellini in cui l’inquieta e ricca Irene scopre la
povertà di Primavalle. Anche il regista-simbolo del
Neorealismo, Vittorio De Sica,
dedicò una pellicola al mondo delle allora nuove periferie romane: Il Tetto, storia di
una giovane coppia tra le baracche della Borgata Prenestina.
Meno denuncia sociale e
un po’di ironia, invece, nel più
Reporter
nuovo
recente Caro Diario di Nanni
Moretti. In una scena, parlando di Spinaceto, visitata in
sella all’immancabile Vespa, il
barbuto regista commenta:
«Neppure tanto male...». Ma
proprio in una parrocchia di
borgata il cineasta romano
ha ambientato l’amaro La
messa è finita. Il film più
gazzi delle borgate romane.
Attraverso i loro occhi e con
il loro linguaggio realistico e
crudo, Pasolini descrive realtà come la prigione e il degrado, ma anche l’impegno
politico e l’innocenza dell’infanzia. Restando a metà tra la
denuncia e la speranza, lontana ma possibile, di un ri-
Nel dopoguerra Anna Magnani combatteva
gli speculatori di Pietralata,
oggi trionfano gli insegnanti-scrittori
noto del genere, però, resta
Accattone, opera prima cinematografica di Pier Paolo Pasolini e storia del sottoproletario Vittorio, di Borgata Gordiani.
L’intellettuale friulano trapiantato nella Capitale è il riferimento privilegiato anche
quando dallo schermo si passa alla pagina scritta. Il Riccetto di Ragazzi di vita e
Tommaso Puzzilli di Una vita
violenta sono entrambi ra-
scatto. Dopo le pagine pasoliniane, la letteratura si è ancora occupata di borgate: ma
semplicemente come parte
di una più ampia mappa della Capitale. Lo stesso Vincenzo Cerami, allievo dell’autore di Petrolio, ha raccontato la Magliana solo in un
libro recente e legato alla cronaca, Fattacci, che non ha
avuto la fortuna del celebre
Un borghese piccolo piccolo,
di diversa ambientazione. E
già Alberto Moravia aveva affiancato al suo Addio alla
borgata (ambientato, ancora, a Gordiani) il resto dei suoi
Nuovi racconti romani. Di
cui la falsificazione della vita
di periferia compiuta dalle
cineprese è solo uno dei molti temi. Lo stesso vale per gli
autori contemporanei che ancora frequentano le borgate,
come Marco Lodoli, anche
professore in un istituto professionale a Torre Maura. Che
però, da narratore, non ha privilegiato quest’angolo di
Roma rispetto agli altri raccontati nelle sue cronache
giornalistiche e nei suoi romanzi. Lo ha fatto, invece, un
altro scrittore-insegnante, Sandro Onofri, scomparso nel
1999. Che però, in Registro di
classe, pubblicato postumo,
guarda ai ragazzi del Trullo
nella veste particolare di studenti. E anche gli squarci
sulla società da cui questi
giovani emergono sono riflessioni lontane dai quadri
vivi di Pasolini. Che letterariamente resta senza eredi.
ferie fuori dal Gra ha cambiato lo stile di vita urbano?
«Sì. Restando su Trastevere, la
vita che si faceva cinquant’anni fa resta come ricordo storico. Ma oggi i residenti sono cambiati e hanno problemi diversi. Prima di tutto sono invecchiati, perchè i giovani non possono permettersi di acquistare una
casa in centro e vanno a vivere sempre più lontano. Gli stessi giovani che
poi tornano nel finesettimana, invadono le piazze e i marciapiedi dal venerdì sera alla domenica con il fastidio dei residenti».
Il centro continua ad attrarre,
quindi. Cosa manca nelle nuove
periferie?
«Spesso mancano luoghi dove
vedersi, confrontarsi, dove poter vivere una serata piacevole».
Dove vivono, allora, i “veri romani” oggi?
«Chi può permetterselo sta nel
centro storico o nel più largo “centro”
che comprende zone alto-borghesi
tipo i Parioli. Gli altri vengono spinti fuori. Se consideriamo quelli che
sono arrivati negli anni Sessanta e Settanta, i “veri romani” oggi vivono appena fuori la zona del centro storico,
in una zona intermedia tra le aree ormai appannaggio di stranieri o uffici,
e le zone periferiche extra-Gra».
SULLO SCHERMO E IN PAGINA
Tra disperazione e riscatto
Squarci di una realtà viva
■ EUROPA 51 (1952) Una donna dell’alta borghesia romana,
sconvolta dalla morte del figlio, scopre grazie ad un amico comunista i poveri delle borgate. Li aiuterà, ma sarà internata in
manicomio. Nel cast Ingrid Bergman e Giulietta Masina. Regia di Roberto Rossellini.
■ IL TETTO (1956) La sceneggiatura di Cesare Zavattini portata sullo schermo da Vittorio De Sica racconta di due giovani
promessi sposi senza casa. Tenteranno di occupare un terreno
e costruirne una abusiva in una notte sfruttando un cavillo.
■ LA MESSA È FINITA (1985). Nanni Moretti (anche regista) è
don Giulio, chiamato a confrontarsi con una parrocchia periferica. Ma anche con le esistenze problematiche di amici e familiari e le loro scelte difficili. Nel finale deciderà di diventare
missionario in Sudamerica. Orso d’argento 1986 a Berlino.
* * *
■ RAGAZZI DI VITA (1955). Primo (e per l’epoca scandaloso)
romanzo ‘di borgata’ pasoliniano, attraverso le esistenze di vari
giovani dipinge un quadro corale in cui trovano posto la miseria, la prostituzione e la morte, ma anche l’integrazione nella società tramite il lavoro.
■ ADDIO ALLA BORGATA (1959). Contenuto nei Nuovi racconti romani: Moravia descrive l’arrivo del cinema alla Borgata
Gordiani. La realtà scintillante delle telecamere seduce la giovane Giulia, che abbandona il fidanzato Luigi alla vigilia delle nozze per trasferirsi ai Parioli con un aiuto-regista.
■ FATTACCI (1997) Uno dei capitoli del libro di Vincenzo Cerami, dedicato a episodi italiani di cronaca nera, racconta la vicenda
del cosiddetto ‘canaro della Magliana’, delitto efferato maturato in un’atmosfera di degrado, di cui fu vittima un ex-puglie.
D. M.
11 Marzo 2011
III
Roma verace
Viaggio tra alcuni dei 12 insediamenti legali voluti dal fascismo per celebrare l’impero
Noi borgatari, veri “romani de Roma”
Ragazzi alle prese con la noia ma con tanta voglia di rivalsa sociale
TOR MARANCIA
TRULLO
La nuova “Shangai”
Ex tenuta fondiaria
Con i suoi trentatremila abitanti, la Borgata Tor Marancia si estende all’interno del Municipio XI ed è compresa nel più ampio quartiere Ardeatino. Il suo nome deriva dal latino
Praedium Amaranthianus, cioè fondo di Amaranthus, un liberto della famiglia dei Numisii
Proculi del II secolo d.C.
I primi insediamenti risalgono alla fine degli anni Venti, realizzati sui terreni prevalentemente paludosi nelle vicinanze della zona
Garbatella. Qui trovarono ospitalità i cittadini
espulsi dal centro di Roma a seguito dei primi sventramenti e gli immigrati provenienti dal
Sud Italia. Tor Marancia, conosciuta anche
come “Tor Marancio”, era una sorta di ghetto
composto da casette in muratura o in legname. In seguito, anche l’Istituto fascista case popolari realizzò delle abitazioni, catalogate poi
come “case minime”, composte da una sola
stanza, dove vivevano famiglie fino a dieci persone. Ciò che accomunava le casette spontanee e quelle dell’Ifcp erano i pavimenti in terra battuta, i servizi igienici in comune e piccoli
giardini/orti. La borgata all’epoca era ricordata col nomignolo di “Shanghai”, a causa dei periodici allagamenti e dei frequenti fatti di sangue causati dalla miseria. Con la legge De Gasperi del 1948 sul risanamento delle borgate,
Tor Marancia venne demolita completamente per costruire le attuali case popolari.
Il Trullo è il quarto dei sette quadranti urbani che compongono il Municipio XV, Arvalia – Portuense.
I suoi confini sono dati dal Tevere
(sud), dal fosso della Magliana (ovest), dalla via Portuense (nord) e dal fosso prosciugato di Papa Leone, oggi percorso da
viale Isacco Newton (est).
Il quartiere prende il nome dal “Trullo dei
Massimi”, un sepolcro romano a tumulo posto lungo la riva del Tevere, molto simile ai
celebri trulli pugliesi.
L’area compare già nelle carte medievali, ma è dal Settecento che si verifica un
popolamento diffuso, con la nascita delle
efficienti tenute fondiarie degli Jacobini,
Gioacchini, Neri, Bianchi e altre.
Nel 1939 inizia l’edificazione in forme razionaliste della “Borgata Costanzo Ciano”,
quale residenza temporanea degli abitanti del Rione Monti, sfollati per la demolizione
e costruzione di Via dei Fori Imperiali. Solo
dopo la guerra, col nome di “Borgata
Duca d’Aosta”, l’edificazione diventa intensiva e spontanea, fino a raggiungere i
circa trentamila abitanti di oggi.
Prima della denominazione attuale,
che fu assegnata solo nel 1946, la borgata cambiò nome prima in “Turlone”, poi in
“Torraccio”.
QUARTICCIOLO
Dove fu Resistenza
Il Quarticciolo è un’area urbana del VII
Municipio del comune di Roma. Compreso all’interno del più ampio quartiere Alessandrino, si trova all’angolo fra viale Palmiro Togliatti e via Prenestina. Il nome
“Quarticciolo” deriva dalla distanza del
quartiere da piazza di Porta Maggiore, pari
a quattro miglia.
Nato come borgata ufficiale tra gli anni
Trenta e Quaranta, vi trovarono dimora in
quel periodo soprattutto gli sfrattati dagli
sventramenti edili operati da Mussolini
nel centro di Roma e gli immigrati del Sud
Italia, principalmente provenienti dalla Puglia, tanto che le vie del quartiere sono dedicate proprio a cittadine pugliesi.
Tra il 1943 ed il 1945, il Quarticciolo fu
protagonista della Resistenza contro l’occupazione tedesca della Capitale. Questa
era così intensa che i soldati della Wehrmacht spesso rinunciavano ad addentrarsi per le vie della zona a causa delle violente controffensive dei partigiani.
Il Quarticciolo era all’epoca anche la
base operativa della famosa banda del
Gobbo, dal soprannome di Giuseppe Albano, noto come “il gobbo del Quarticciolo” per la sua malformazione alla schiena
e impegnato nella lotta, al fianco dei partigiani, contro i tedeschi e i collaborazionisti
fascisti.
IV
11 Marzo 2011
POPOLARE Lo scorcio di una strada di periferia a Tor Marancia con negozio di ortofrutta
A
Roma ci sono dodici
piccoli paesi nascosti.
Dietro i “palazzoni”, a
due passi dalle vie che portano
al centro, lontani dagli occhi distratti di chi “guarda e passa”.
Sono le dodici borgate ufficiali
della Capitale, nate dal nulla più
di ottanta anni fa per ospitare gli
“sfollati” dopo gli sventramenti del centro storico imposti dal
Duce.
Primavalle, Val Melaina,
Tufello, San Basilio, Pietralata,
Tiburtino III, Prenestina, Quarticciolo, Gordiani, Tor Marancia, Trullo e Acilia. Tutte uguali, con i palazzi bassi e i muri color ocra, ma ognuna con le sue
sfumature. Proprio come ogni
paesino di provincia è uguale e
al tempo stesso diverso dagli altri.
Il nostro viaggio alla scoperta
della Roma verace inizia da Tor
Marancia per arrivare fino al
Quarticciolo, passando per il
Trullo e Primavalle.
«Qua ce stanno tanti impicciaimbroglia». Questo è il primo impatto con Tor Marancia.
È Alessandro a darne una visione così immediata nella sua
genuinità, la prima cosa che gli
viene in mente quando gli chiediamo di descrivere il suo quartiere. Come dire, qui ognuno cerca di fregare l’altro. Un po’ una
guerra tra poveri. Capelli rasati,
sopracciglia curate e parlata
strascicata. Alessandro, meccanico, 25 anni, è un «coatto»
di periferia. Lui stesso lo dice
senza vergogna. A Tor Marancia ci sono ancora le palazzine
del dopoguerra, mai ristrutturate, e le botteghe «de ‘na vol-
ta»: calzolai, artigiani, falegnami, fabbri, sarti. Un quartiere «né carne né pesce», sospeso in un limbo tra le ricche
zone della Montagnola e dell’Ardeatina. «Qua è come un
paese – dice – si conoscono tutti». E poi si ritrovano al bar, a
guardare la televisione, parlare
di calcio, giocare a carte e
scommettere sui cavalli. «Bar
che se ci entri te fanno fa un tuffo nel passato».
Da un limbo a un altro. È la
sensazione che si avverte percorrendo Via del Trullo, la strada che attraversa il cuore della
borgata omonima, da Via Portuense alla Magliana. Proprio
per la sua posizione intermedia,
il Trullo è un quartiere “di pas-
Daniele del
Quarticciolo: «Chi resta
muore al muretto»
saggio”, a metà tra Monte Cucco e Monte delle Capre. Da una
parte le case popolari, dall’altra
le case private. Il primo è un
ghetto chiuso, con i suoi vicoli
in salita, stretti e senza marciapiedi, che lo rendono un vero
e proprio labirinto impazzito.
Monte delle Capre, invece, appartiene alla media borghesia
romana e ai nuovi immigrati.
Qui la “romanità” è affidata solo
alle insegne anni ’70 delle norcinerie e dei negozi di abbigliamento “cheap”.
Più verace è la borgata Primavalle. Palazzine basse in cemento armato grezzo o colora-
to, con le corti interne. Una disposizione urbanistica “a blocchi” che ricorda i blocks dei
ghetti americani. «Qua ce stanno solo palestre e pizzerie». Così
Chiara descrive il suo quartiere. Lei, 20 anni, studia e lavora come baby sitter. Primavalle è un quartiere dormitorio.
«Qua o ti impegni nel sociale,
con qualche associazioni o con
la parrocchia – racconta – oppure passi le giornate in comitiva». E allora i giovani “emigrano” altrove. Mentre gli anziani si ritrovano nei giardinetti: «Quand’ero ragazzino qui era
tutta prato – ricorda Mario, pensionato – e la gente quando doveva andare al centro diceva
“vado a Roma”».
Forse non è cambiato molto.
«Vado a Roma» lo dice anche
Daniele, 26 anni, nato e cresciuto al Quarticciolo. «Per
fare un aperitivo bisogna spostarsi, alle otto c’è il coprifuoco».
Chi decide di restare, dice Daniele, «vive e muore qua, al muretto». Con gli stessi occhi sfiduciati, ma con qualche decennio in più sulle spalle, Orazio, 80 anni, si racconta: «Qua
non si arriva a fine mese, viviamo nelle case popolari ancora senza ascensori». Anche
lui, come molti altri anziani del
Quarticciolo, è emigrato dalla
Puglia da ragazzo in cerca di
fortuna. Oggi vive con 370 euro
di pensione e fa la spesa al Banco alimentare. Umberto, presidente del Comitato di quartiere, si lascia andare a un’analisi inquietante: «C’è troppo silenzio tra i giovani. Prima o poi
qualcuno esploderà».
Pagina a cura di Alessio Liverziani
PRIMAVALLE
“Montagna del sapone”
Primavalle è il ventisettesimo quartiere
di Roma, all’interno del XIX Municipio.
Oggi conta quasi sessantamila abitanti.
L’edificazione fu iniziata nel 1936 dall’allora Ifcp (Istituto fascista case popolari) per
accogliere la popolazione allontanata dal
centro storico per la realizzazione di via della Conciliazione e via dei Fori Imperiali, ma
la borgata venne ufficialmente inaugurata
nel 1939.
A partire dagli anni Cinquanta il nucleo
originario del quartiere andrà sempre più ad
assumere un ruolo di centralità nei confronti
delle aree limitrofe, in parte caratterizzate
dall’abusivismo edilizio. Tra la fine degli anni
Settanta e la prima metà degli anni Ottanta si assiste a uno dei primi interventi di riqualificazione che determineranno l’attuale assetto del quartiere, che ancora oggi si
sviluppa lungo l’asse viario centrale di via
Federico Borromeo, un tempo conosciuta
come via di Primavalle.
La borgata veniva soprannominata “la
montagna del sapone” per via della sua
connotazione popolare. Da allora, dire che
qualcuno viene dalla montagna del sapone è sinonimo di fesso, che si fa fregare,
perché gli abitanti furono trasferiti in questa zona con la promessa di case confortevoli trovandosi invece in una borgata degradata.
Reporter
nuovo
Primo Piano
In attesa che si sbrogli la crisi libica, l’impennata del barile sta sconvolgendo l’economia
L’austerità da petrolio fa paura
A spaventare è il ricordo delle crisi mediorientali degli anni Settanta
L
a rivolta libica come la
guerra del Kippur, o la
deposizione dello scià
di Persia? Gli analisti di tutto il mondo si chiedono se il
caos che attraversa il Paese
nordafricano possa avere,
oltre alle conseguenze politiche, ricadute economiche
simili a quelle dello shock
del 1973. Quando le nazioni esportatrici bloccarono la
produzione dopo la guerra
arabo-israeliana. O alla crisi
del 1978-79, quando l’export
iraniano si fermò per la rivoluzione che costò il trono
a Reza Pahlavi. Nel primo
caso la produzione mondiale di greggio crollò dell’otto
per cento in due mesi, nel secondo ‘appena’ del quattro in
novanta giorni. Ma ancora
oggi quelli sono ricordati
ovunque come gli anni della crisi petrolifera. Perché
gli idrocarburi non hanno
fatto solo la fortuna dei Paesi produttori (e spesso dei
loro governanti). Ma anche
dell’Occidente, che ora teme
la chiusura dei rubinetti del
greggio (e del gas) di Tripoli. E il ritorno di quei tempi
che in Italia si chiamarono
dell’austerity, con lo stop
alle auto e i risparmi energetici.
Negli anni delle grandi
crisi gli shock furono riassorbiti perché l’offerta di
greggio era molto superiore
alla domanda. Ma oggi, anche se la Libia rappresentava nel 2009 solo l’1,4 per
cento circa dell’offerta petrolifera mondiale, persino
una piccola variazione del-
CHE FARE - L’ANALISI DI FEDERICO RENDINA DEL SOLE 24 ORE
L’ESPEDIENTE
Non ci sono
mezzi, niente
benzina,
al lavoro
in bicicletta
nel 1973
«Una Borsa europea anti-contagio»
«Parlare di crisi del mercato degli
idrocarburi attribuendola solo alla Libia è improprio – esordisce in un’intervista a Reporter Nuovo Federico
Rendina, giornalista del Sole 24 ore il vero problema è l’effetto contagio».
Tripoli non ‘pesa’ sullo scenario
mondiale?
«È uno dei Paesi più ricchi di greggio del Nordafrica e rifornisce molti Stati del Mediterraneo. Ma anche in Italia, che da lì importa il 10-12 per cento del fabbisogno di gas e circa il 20 di
quello petrolifero, non ci sono stati problemi, per ora. Se però l’Algeria dovesse
vivere una situazione simile, per noi sarebbe una catastrofe».
E a livello globale?
«Dipenderà dalle dimensioni del
contagio. Se coinvolgesse tutto il Nordafrica sarebbe assolutamente destabilizzante. Ma la crisi potrebbe anche
spingere a investire sulle energie alternative. Il vero fattore incontrollabile è però la speculazione».
Chi guadagnerà dalle turbolenze?
«In Italia, quasi nessuno. Anche l’Eni
perderà dalla Libia (dove è produttore insieme alle compagnie locali) quello che guadagnerà dai maggiori prezzi alla fonte. I consumatori pagheranno di più la benzina: ma così lo Stato
avrà maggiori introiti dall’Iva. A livello internazionale, vinceranno i grandi
concorrenti dei libici. Per il gas, i russi, ammesso che ne abbiano ancora da
fornire. Per il petrolio i Paesi del Golfo, che ne venderanno di più a un prezzo superiore».
Cosa possono fare i governi?
«Una buona idea è puntare sulla
Borsa europea del petrolio e derivati:
può controbilanciare gli effetti speculativi. Per quanto riguarda le altre fonti energetiche bisogna calibrare un
mix, senza scelte esclusive. Ma sono
strategie di medio e lungo termine, indipendenti dalla crisi libica».
Il nostro Paese ha saputo differenziare le fonti di approvvigionamento?
«In generale siamo strutturalmente impreparati, ci affidiamo troppo al
gas. Su questo, dovremo improvvisare. Soprattutto dopo aver rinunciato a
diventare un punto di transito delle reti,
un metanodotto per l’Europa. Per il petrolio, avremo gli stessi problemi degli
altri».
Sono state assimilate le lezioni delle crisi petrolifere degli anni ’70?
«Dagli altri, più che da noi: in Usa
si orientano sul nucleare, e altrove sull’estrazione di gas con tecnologie non
convenzionali. Noi non riusciamo ad
estrarre neanche quello ‘tradizionale’
che abbiamo».
Quali potrebbero essere le conseguenze pratiche dei diversi scenari politici?
«Che al potere ci siano Gheddafi o
gli insorti, le forniture saranno riattivate. E con una Libia divisa ognuno
venderebbe il suo. Ma sarebbe lo scenario peggiore, un’instabilità permanente».
l’approvvigionamento può
innescare la speculazione.
E dunque l’aumento del
prezzo del petrolio, che già
ha toccato i 120 dollari. La
temuta reazione a catena rischia di coinvolgere non
solo le tariffe dei carburanti
e degli altri derivati, mettendo in difficoltà privati e
industrie. Ma anche i prezzi
all’ingrosso e al dettaglio.
Senza contare che con le
maggiori spese dovute all’aumento dei carburanti,
quelle correnti delle famiglie
normalmente si contraggono
in maniera più che proporzionale.
La principale paura è
quindi la crisi dei consumi,
sinonimo di crisi economica
pura e semplice. Una prova
difficile da affrontare per il
mondo in faticosa uscita dalla recessione. Perché l’aumento dei prezzi può compromettere il rilancio: tanto
da spingere le istituzioni
competenti a intervenire
contro l’inflazione.
La vera sfida, però, è rappresentata da altri tipi di
scelte. Il 1973 e il 1979 portarono, infatti, a sacrifici e
difficoltà, alla ricerca di nuovi giacimenti, ma anche di
innovazioni che permettessero il risparmio e di alternative nei trasporti e negli
approvvigionamenti. Anche
oggi l’emergenza petrolio
può significare luci tristemente spente o tecnologie
ecologiche. Il futuro dipenderà dalle posizioni di Stati
e singoli, ancor più che dalle vicende politiche.
Le altre energie e le nuove tecnologie riscoperte per effetto della crisi
Fotovoltaico, alternativa italiana
FUTURO Sul ritorno al nucleare ancora polemiche
Reporter
nuovo
Il dibattito sulle ‘altre’
energie è ormai un tema classico. E riemerge ogni volta
che le voci di crisi legate agli
idrocarburi si fanno più forti. La strada, in realtà, è ancora lunga da percorrere e
l’obiettivo di una parità tra costi e benefici lontano in diversi casi. Ma le promesse
sono altrettanto grandi e coinvolgono molti fronti.
Uno sul quale l’Italia ha
una posizione di avanguardia
è il fotovoltaico: il nostro
Paese è il numero due al
mondo per installazioni, e le
competenze di alcune azien-
de nostrane sono tanto apprezzate da essere alla base di
progetti sostenibili. Realizzati persino in Medio Oriente. Ma oltre alla galassia di
fonti rinnovabili, tra le ‘alternative’ ci sono anche energie contestate per diversi motivi. Come il nucleare, per cui
le sfide sono sicurezza ed
economicità. Su cui le nuove
centrali hanno già fatto molti progressi, sempre in attesa
di una futuribile ‘quarta generazione’ e del sogno ancora poco realizzabile della fu-
sione. Le polemiche che ancora circondano l’atomo (ma
anche un’altra fonte tradizionale rinnovata, il cosiddetto ‘carbone pulito’) dimostrano però come la sfida
starà anche nella comunicazione. Perché il pubblico è
oggi molto più avvertito e
sensibile sui temi ambientali, soprattutto nelle fasce giovanili, preoccupate per il futuro.
Per conciliare sostenibilità economica e preoccupazioni per il pianeta, quindi,
Pagina a cura di Davide Maggiore
non basterà rivedere la questione energetica. Altro nodo
fondamentale è quello dei
trasporti: il progetto storico è
quello dell’auto elettrica, stretto tra gli eterni problemi dei
costi e del rifornimento dei
veicoli. Ma anche in questo
campo le premesse per il
successo cominciano ad esserci. Grazie soprattutto alla
fine dell’era dei prototipi, e all’impegno di grandi marchi
dell’auto, come Renault, Volvo, Range Rover e Smart.
La questione auto spinge
anche a spostare lo sguardo
dalla questione delle fonti a
quella della tecnologia. Ultima protagonista di un futuro
possibile, perché potrebbe
permettere di affrontare il
problema del risparmio energetico separandolo da quello
di esagerati tagli ai consumi.
Gli strumenti da utilizzare
non sono solo elettrodomestici sempre più efficienti dal
punto di vista energetico, ma
anche novità apparentemente trascurabili. Come quella
del contatore elettronico installato in molte case italiane.
E negli ultimi cinque anni, riporta Il Sole 24 ore, il nostro
Paese ha risparmiato grazie
alle innovazioni circa 6,7
tonnellate di petrolio: quante ne consumano 1,8 milioni
di persone in un anno.
11 Marzo 2011
5
Cronaca
Testamento biologico, su iniziativa dell’associazione Luca Coscioni, sit-in davanti alla Camera
«Non è giusto morire come Michele»
Carlo Troilo motiva il “no” a una legge che spinge i malati al suicidio
Vito Miraglia
“No al sondino di Stato”, “Sì all’eutanasia legale contro l’eutanasia
clandestina”. Sono solo alcuni dei
cartelli al collo degli attivisti radicali
impegnati in un sit-in permanente
davanti a Montecitorio. Dal sette
marzo, quando la proposta di legge
sul testamento biologico è stata
portata all’esame della Camera dei
deputati, i militanti hanno ricominciato a far sentire la loro voce. Tra
questi Carlo Troilo, giornalista ed ex
manager, dirigente dell’associazione
Luca Coscioni, da anni vicino al partito di Marco Pannella. La sua battaglia personale per la legalizzazione della “dolce morte” dura dal
2004, da quando suo fratello Michele
si suicidò a settant’anni. Pochi mesi
prima gli avevano diagnosticato
una forma rara di leucemia. «Da quel
momento ho cominciato a lottare –
ci spiega Troilo – diffondendo i dati
sui malati terminali che scelgono di
togliersi la vita, non potendo scegliere di morire legalmente: sono circa mille ogni anno». Oggi il bersaglio è la legge sul testamento biologico, già approvata al Senato. Troilo sta facendo il digiuno della fame:
«Una legge che riteniamo abietta, incostituzionale. Serve una normati-
PRESIDIO
I radicali
manifestano nella
piazza di
Montecitorio.
Il voto in occasione
del dibattito sulla
legge per il
testamento
biologico
è previsto
per aprile
va che blocchi l’eutanasia clandestina, come accadde con la legge 194
che legalizzò l’aborto», continua.
«Vogliamo che il Parlamento apra
un’indagine conoscitiva su questo fenomeno. In Olanda, la legge è nata
proprio in seguito a un’indagine
conoscitiva che ha rivelato una realtà inquietante».
I punti più controversi del testo
riguardano l’alimentazione e l’idratazione. Nel testamento biologico
che ognuno di noi potrà sottoscri-
vere, potranno essere indicati i trattamenti sanitari e l’“orientamento in
merito […] in previsione di un’eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere”, recita il testo. Ma fra i trattamenti sanitari sono state escluse proprio
l’alimentazione e l’idratazione. «La
legge vuole renderle obbligatorie perché i suoi promotori le definiscono
non terapie, ma sostegni vitali, a dispetto di quanto dice l’Organizzazione mondiale della sanità e mol-
tissimi medici italiani. Per questo la
legge è incostituzionale», spiega
Troilo. L’altra disposizione su cui si
concentra la protesta è la non vincolatività della Dat, la “dichiarazione anticipata di trattamento”. Il
medico non è dunque obbligato a seguire le indicazioni del paziente.
La proposta di legge è sostenuta
dalla maggioranza e anche dall’Udc.
Ma tra i ranghi del Pdl qualcuno ha
cominciato a storcere il naso, come
il ministro dei Beni Culturali Bondi
Al posto dell’ospedale un poliambulatorio e niente pronto soccorso
Al San Giacomo riapertura-beffa
Andrea Pala
Era stato chiuso tra molte
proteste il 31 ottobre di tre anni
fa. Si parlava di una sua imminente riapertura. Ma i cancelli dell’ospedale San Giacomo sono ancora sprangati. La
struttura, edificata a pochi
passi da Piazza del Popolo, sorge nel cuore del centro storico romano in via Canova, una
delle traverse della centralissima via del Corso. Al suo posto è nato, poco più avanti, un
poliambulatorio che, nelle intenzioni della Asl, dovrebbe
rimpiazzare la struttura ospedaliera.
«Erano scesi in piazza anche i pazienti per impedirne la
chiusura – racconta un’infermiera addetta al ricevimento –
ma nonostante ciò le autorità
competenti non avevano nessuna intenzione di tornare indietro e così l’ospedale venne
chiuso».
Il nuovo poliambulatorio
non è in grado di soddisfare le
necessità dei pazienti. «Non è
attivo nemmeno un servizio di
6
11 Marzo 2011
pronto soccorso – continua
l’infermiera – e se arriva qualcuno colpito da un infarto
siamo costretti a chiamare
un’ambulanza per il trasferimento del paziente in un’altra
struttura, molto spesso al Santo Spirito in Saxia».
La riapertura del San Giacomo non sembra vicina.
ta Polverini, il nuovo San Giacomo dovrebbe diventare un
Ptp, presidio territoriale di
prossimità. Un decreto, il numero 82, aveva anche stabilito che la struttura avrebbe
avuto 15 posti letto, riservati
però soltanto alla degenza infermieristica. Questo nuovo
tipo di struttura sanitaria do-
Secondo la Regione dovrebbe diventare
un presidio territoriale di prossimità, assieme
ad altre 32 strutture
«Ogni tanto se ne sente parlare
– si sfoga un altro addetto – ma
per il momento siamo ancora
qui nel poliambulatorio. Per
evitare l’occupazione dell’ex
ospedale ci sono dei vigilantes
sempre di piantone davanti al
portone d’ingresso. Eppure
erano stati acquistati anche
nuovi macchinari per il centro
dialisi e per il reparto d’ortopedia».
Nelle intenzioni della Giunta regionale guidata da Rena-
vrebbe riguardare anche altre
32 strutture: 13 in città, il resto sparso per la provincia di
Roma e tutto il territorio regionale.
La chiusura del San Giacomo era stata decisa dalla Giunta di centrosinistra presieduta
da Piero Marrazzo. Venne deciso anche un piano di riconversione che prevedeva, fra le
altre cose, anche una Casa
dei servizi sociosanitari integrati, un centro Alzheimer,
servizi di diagnostica, una Residenza Sanitaria Assistita, un
centro per medici di medicina
generale e laboratori. Il cambio di maggioranza ha però fatto naufragare questo progetto
e, in sostituzione, si è pensato di far nascere un semplice
presidio territoriale, che non è
ancora venuto alla luce.
Il San Giacomo è uno degli
ospedali storici della città. Fu
il terzo ad essere costruito,
dopo il Santo Spirito in Saxia
e il Santissimo Salvatore, edificato presso la Basilica di San
Giovanni in Laterano. Fu fondato dal cardinale Giacomo
Colonna per riparare al male
fatto dalla sua famiglia al Papa
Bonifacio VIII, acerrimo rivale del casato. Agli inizi del 1500
fu profondamente trasformato diventando così un ospedale
specializzato anche nella cura
della sifilide, i cui malati affollavano la struttura. Per
l’ospedale passò anche Camillo de Lellis, poi fatto santo,
prima come degente e in seguito come inserviente e maestro economo.
(«Il testo ha dei punti deboli») e Peppino Calderisi, deputato azzurro
che parla di «dubbi di incostituzionalità». Il testo sicuramente ritornerà
al Senato, perché è già stato modificato. Forse potrebbe tornare in
commissione Affari Sociali della
Camera. È proprio ai dissidenti della maggioranza che si appellano i radicali affinché si pronuncino secondo coscienza sulla legge. Se l’iter
dovesse continuare e la legge dovesse
passare così com’è restano tre strade percorribili: la Corte Costituzionale potrà pronunciarsi sulla legittimità della legge; i cittadini potrebbero pronunciarsi con un referendum e non è detto poi che il presidente della Repubblica firmi senza fare osservazioni. Il caso che ha
sottolineato la necessità di legiferare è stato quello di Eluana Englaro,
morta due anni fa dopo 17 anni di
stato vegetativo e diventata il simbolo della libertà di scelta, assieme
a suo padre Beppino. Una libertà che
secondo il medico e deputato Udc
Paola Binetti «conduce solo ed
esclusivamente alla morte». Per i
promotori, la legge è una buona legge; per Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare, è una legge liberale che introduce finalmente il
consenso informato.
GLI ALTRI POLI SANITARI
Policlinico, il più affollato
Il più esteso è il San Camillo
■ UMBERTO I La realizzazione del Policlinico fu iniziata il 19
gennaio. Inaugurato nel 1904, fu pensato come sede universitaria, vista la vicinanza con la Sapienza, e poi riconvertito
a uso ospedaliero di assistenza. La struttura è frequentata
mediamente da 20 mila persone al giorno per ricoveri, degenze e pronto soccorso. L’anno scorso è stato aperto un centro di eccellenza per le immunodeficienze primitive.
■ SANDRO PERTINI L’ospedale si trova nel quartiere di Pietralata. Pensato nel 1908, ci vollero quasi 80 anni per la sua
realizzazione. Aperto l’8 agosto 1990, si estende per circa 16
ettari e ha un bacino d’utenza di più di 700 mila persone, in
gran parte per il servizio psichiatrico. Con il suo pronto soccorso, copre una fascia di utenti che si estende fino ai Castelli.
■ SAN FILIPPO NERI La struttura è stata costruita nel 1940
e poi ampliata negli anni ’60. Sorto nella zona nord di Roma,
lungo la via Trionfale, dal 1994 è un ospedale di rilievo nazionale e di alta specializzazione. I reparti di neurochirurgia,
cardiologia, oncologia e chirurgia vascolare sono centri di riferimento per la regione Lazio. L’ospedale dispone di 592 posti letto, mentre il numero di ricoveri supera i 28.000 mila.
■ SAN CAMILLO L’idea di costruire la struttura nel quartiere
di Monteverde risale alla fine dell’800. I lavori per la costruzione erano partiti nel 1919, per poi essere ripresi nel
1927. Inaugurato il 28 ottobre 1929 come Ospedale del
Littorio, nel 1945 è dedicato al santo protettore della sanità
militare. Ha 270 posti letto e si estende per 40 ettari. Nel
reparto di ostetricia e ginecologia prestano servizio circa
150 persone. Fa parte di un polo sanitario che comprende
Spallanzani e Forlanini.
A. P.
Reporter
nuovo
Costume & Società
Sulle vetture Atac la pubblicità di una clinica ostetrica del Prenestino. L’unica del Lazio
Il parto in acqua comincia sul bus
Su 2000 “arrivi” alla Fabia Mater solo 200 in vasca. Modalità e vantaggi
Ilaria Del Prete
Accanto a reclami di formaggi spalmabili e offerte
telefoniche, scuole di canto e
abbonamenti a teatro, al di sopra delle teste dei passeggeri degli autobus romani spicca da qualche settimana l’immagine di un bel pancione di
donna incinta immerso in
acqua. È la pubblicità voluta
dalla casa di cura Fabia Mater per far conoscere a un
pubblico il più ampio possibile i benefici di una modalità tutta naturale di partorire,
appunto, immersi nelle acque
di una vasca.
La clinica è l’unica struttura in tutta la regione ad offrire il servizio alle partorienti, ma a causa della scarsa informazione, l’originale
possibilità è per lo più sconosciuta alle puerpere: su un
totale di 2000 parti all’anno
effettuati alla Fabia Mater,
meno del dieci percento si avvale del metodo acquatico.
Per conoscere i pro e i contro
della pratica, è sufficiente rivolgersi al personale della
clinica.
Conversando con la capo
ostetrica Ileana Colantoni, si
viene a sapere che per partorire in acqua non c’è da corrispondere alcun costo aggiuntivo, essendo l’azienda
accreditata presso il Sistema
Sanitario Nazionale, ma anche che non tutte le future
mamma possono scegliere di
farlo: la gravidanza deve essere “fisiologica”, cioè non
problematica. Ad esempio
una donna che sta per parto-
UNA MAMMA
DATI E CURIOSITÀ
Più bebè “bagnati” in Toscana
E il loro “papà” si chiama Igor
In Italia la maggior parte degli ospedali con una vasca
per il parto è al centro-nord. In Toscana è persino possibile affrontare la preparazione al grande giorno nel relax
di uno degli agriturismi della provincia di Siena, a patto
che non disti più di 30 minuti dall’ospedale. Molto quotato tra americani e inglesi, che si fanno rimborsare il costo di tutto il pacchetto dal loro servizio sanitario nazionale: dai 2.500 ai 4.500 euro.
Il padre della pratica acquatica è il siberiano Igor Charkovsky, controverso personaggio mai abilitato alla professione medica, ma semplicemente laureato in educazione
fisica all’Università Statale di Mosca. Dedicatosi anche a
lezioni di nuoto e acquamotricità per neonati, è stato indagato in Israele e gran Bretagna per il decesso per annegamento di alcuni bambini suoi pazienti.
A perfezionare la tecnica e diffonderla in Europa ci hanno pensato due francesi nel 1960. Sia il medico chirurgo
Michel Odent, che nei suoi studi ha anche professato l’importanza dell’amore tra madre e figlio durante il parto, che
il ginecologo e ostetrico Frédérick Leboyer, precursore del
cosiddetto parto dolce e del massaggio neonatale, hanno
esaltato l’efficacia del parto naturale in acqua.
I. D. P.
rire un bambino che pesa
più di quattro chilogrammi
dovrà accontentarsi di un
più tradizionale lettino. In realtà non è possibile decidere
con certezza che tipo di parto eseguire, tutto dipende
dalle esigenze del momento,
anche perché ci sono da considerare i tempi tecnici di
riempimento della vasca e
di attesa per raggiungere la
temperatura giusta dell’acqua, sempre che in quel momento la “mini-piscina” non
sia occupata. E poi: «può capitare che, anche se il travaglio comincia in acqua –
spiega l’ostetrica – poco prima del momento del parto alcune donne chiedano di uscire per avere l’epidurale».
Infatti, nonostante il calore dell’acqua a 37 gradi centigradi dovrebbe riuscire a rilassare i tessuti e attenuare il
dolore, la sofferenza è appunto solo diminuita, anche
perché «essendo un metodo
completamente naturale –
Da immersa
doglie
sopportabili
NELLA VASCA Maggior contatto tra mamma e figlio
aggiunge Ileana – non è previsto che venga somministrato alcun antidolorifico».
Una volta immersa nella vasca, dopo che il collo dell’utero ha raggiunto una dimensione di almeno cinque
centimetri, la partoriente riceve dall’esterno solo indicazioni, ma nessun intervento
materiale da parte di medici
e ostetrici: «il parto in acqua
è assenza totale di medicalizzazione».
Tra i motivi per scegliere di
partorire in acqua, c’è senz’altro la consapevolezza di
una scelta naturale, che permette al bambino un passaggio più dolce dalla vita intrauterina a quella extrauterina, da un mondo “liquido”
all’altro. Il rischio di annegamento è nullo: interviene da
subito l’istinto apneico, e
l’immersione dura solo pochi
secondi, giusto il tempo che
lo staff medico impiega a intervenire per tirare fuori il
neonato.
Dal 31 marzo necessaria la patente per le terribili macchinette che imperversano in città
Ci vorrà un esame per guidare le minicar
Eloisa Moretti Clementi
Quelle scatolette di lamiera motorizzate che sfrecciano
rumorosamente infilandosi
tra macchine e motorini?
Sono le minicar, passione sfrenata degli adolescenti moderni o almeno di quelli che,
al brivido dell’aria sulla faccia
e delle curve piegati su due
ruote, preferiscono la comodità di un abitacolo al riparo
da vento e pioggia e la compagnia di un passeggero. In
Italia sono 80mila, delle quali il 15 per cento sfreccia a
Roma.
Reporter
nuovo
Molto costose, molto ambite e, soprattutto, abbastanza pericolose, secondo i dati
Aci-Istat sugli incidenti stradali. Sono 682 i sinistri che in
Italia hanno avuto le minicar
come protagoniste, un dato
che appare basso se non si
considera l’indice di mortalità, che sfata il mito del motorino come mezzo più rischioso: 2,64 per le mini macchine, mentre è 1,96 per le
moto e 1,03 per i ciclomotori. Inoltre, stando all’Associazione nazionale delle imprese assicuratrici (Ania), le
minicar coinvolte in inciden-
ti in Italia sono circa l’8 per
cento di quelle assicurate,
mentre nella capitale si sfiora
il 14,5 per cento.
Fra pochi giorni, però, entrerà in vigore una norma che
forse tranquillizzerà i genitori ma di certo farà storcere il
naso ai neo-piloti: il patentino,
già obbligatorio per le minicar,
si arricchirà di una prova pratica, finora assente. Le cose
cambieranno dal 31 marzo:
per questa data, infatti, dovrebbe essere pronto un decreto del governo che recepisca una direttiva europea che
impone un esame sia teorico
che pratico per mettersi alla
guida di questi veicoli.
Allarme fra tutti i 14enni
allo sbando sulle loro macchinette? Non c’è motivo: il
primo passo sarà entrare in
possesso del foglio rosa –
esattamene come per le auto
– per impratichirsi alla guida
nel periodo di tempo che separa l’esame teorico da quello pratico. La prova su strada
non potrà essere sostenuta
prima di un mese dal rilascio
del foglio rosa, mentre ai trasgressori trovati alla guida
sprovvisti potranno essere
comminate sanzioni da 555 a
2.220 euro. Insomma, un sistema molto simile a quello
previsto per conseguire la patente B.
Basterà a evitare gli incidenti? In realtà, il vero problema delle minicar è l’illusione di sicurezza che trasmettono in chi le guida: la
loro struttura, infatti, non è
adeguata a proteggere i passeggeri in caso di scontro, e
pneumatici, freni e struttura
non sono pensati per le alte
velocità, per cui in caso di incidente si comportano come
quelli di un motorino, anziché
come un’auto vera e propria.
Nadia G. ha 32 anni e
due bambini. La prima,
Francesca, ha quattro
anni ed è nata con un
parto tradizionale che
non ha lasciato un buon
ricordo nella mamma:
tra manovra di Kristeller
(in pratica una gomitata
sul pancione), episiotomia, dieci punti di sutura e sofferenze varie, non
è stato facile per Nadia
decidere di mettere in
cantiere un fratellino.
Quando è arrivato il turno del secondogenito,
non ha avuto dubbi:
«Avrei partorito in acqua
– ha detto – così nessuno mi avrebbe toccata».
L’esperienza è stata «meravigliosa, mi sentivo libera e consapevole, il
calore dell’acqua mi alleviava il dolore e agevolava i movimenti, e
appena è nato il mio
bimbo me lo hanno dato
in braccio subito, senza
neanche staccare il cordone ombelicale, che ha
poi tagliato mio marito».
In acqua il dolore delle contrazioni è più sopportabile, «appena immersa nella vasca ho sentito un sollievo immediato» ha ricordato Nadia, e poi è possibile scegliere la posizione più comoda: «la mia preferita
per le pause è stata girata sul fianco, con mio
marito che mi sosteneva
il capo e accarezzava».
Per agevolare le contrazioni, poi, «c’erano anche
delle corde intrecciate
appese al soffitto e quando i dolori aumentavano
dondolavo il bacino tenendomi aggrappata alle
corde».
Certo, non è stato proprio come fare una nuotata. «A un certo punto
dal dolore credevo di
morire – ha ammesso
Nadia – ma poi ho sentito che stava accadendo
da sé: Davide era nato».
I. D. P.
11 Marzo 2011
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Costume & Società
È considerato uno strumento femminile, mentre la tromba è il simbolo della mascolinità
La dolce arpa non è soltanto donna
Il musicista Aiello sfata un mito: «Ci vuole molta forza per suonarla»
Eloisa Moretti Clementi
L’arpa è delicata, antica, sinuosa.
La tromba è dirompente, fiera, aggressiva. Ogni strumento ha una
propria anima e un suo modo unico
di interpretare il suono e vivere la scena. Così i musicisti, che scelgono il
proprio compagno di lavoro e di vita
attraverso un innamoramento fugace, coltivato nel tempo. L’arpa, strumento al femminile per eccellenza il cui suono dolce e armonioso sposava l’ideale mitologico della femminilità, da Santa Cecilia in poi - è
oggi un patrimonio di possibilità
musicali senza genere, adottata con
passione da molti musicisti maschi
che la scelgono per la sua forza
espressiva. Fabrizio Aiello, giovane
arpista 23enne, l’ha scoperta a 14
anni: «All’inizio suonavo il piano, ma
ascoltando Lo Schiaccianoci di Tchaikovsky mi sono innamorato di questo strumento». Aiello, che fa parte
dell’Orchestra italiana di arpe, non è
mai stato criticato per la sua scelta,
anzi «c’è sempre una curiosità posi-
L’ECCEZIONE Un arpista impegnato in un concerto con uno strumento “femminile”
tiva nei miei confronti, e poi il pregiudizio sull’arpa è prettamente italiano, all’estero al contrario viene scelta soprattutto da uomini».
Un provincialismo tutto nostrano,
dunque, quello che ci spinge ad associare le corde dell’arpa alle mani piccole delle ragazze. Aiello lo sfata senza riserve: «Non tutti sanno che per
suonarla è necessaria una grande forza fisica, infatti le arpiste devono essere allenate, anche perché è uno strumento pesante e scomodo da trasportare». Certo, le mani piccole
possono aiutare in certi passaggi, ma
«anche una mano più lunga può avere dei vantaggi, non c’è un fisico perfetto per nessuno strumento».
L’entusiasmo del giovane musicista pugliese è confermato dal collega Davide Burani, uno dei più noti arpisti in Italia e all’estero: «La fascinazione è arrivata dal suono, molto
particolare ed evocativo. Non mi
sono mai posto il problema che a suonare l’arpa fossero in prevalenza delle donne, e poi c’era Nicanor Zabaleta». Morto nel 1993, lo spagnolo è
stato il più celebre arpista a livello internazionale, sulla cui scia di popolarità si sono formati tanti musicisti.
Anche per la tromba si pensava a
uno strumento da rudi uomini. Già
nota agli antichi egizi, è negli anni del
jazz e del ragtime che trova la sua consacrazione, nelle mani larghe di Joe
“King” Oliver e poi Louis Armstrong
e Chet Baker. Oggi la trombettista del
momento è una donna e si chiama Allison Balsom: bionda e affascinante,
è stata premiata come “Female artist
of the year” nel 2009 ai Classical Brit
Awards. Il suo talento musicale non
ne sminuisce di certo la femminilità:
fasciata in lunghi abiti couture spesso color ghiaccio, la Balsom ha incantato le platee cimentandosi sia con
il tango di Astor Piazzolla che, in Italia, con gli ardui capricci di Paganini. Su di lei, è stato realizzato anche
un documentario dal titolo “A musical life”, dove l’artista racconta il suo
innamoramento per la tromba, avvenuto a soli sette anni. Non avrà i
baffetti di Roy Paci, ma il suo fiato incanta.
Nelle “Avventure in città”, quadri in dialetto sulle orme di Giancarlo del Re
Taverna: «Così ‘dipingo’ la mia Roma»
L’ispirazione dagli incontri fatti al bar o in un taxi
Alessio Liverziani
Ogni settimana racconta la
“romanità” sulle pagine del
Messaggero. Il lunedì cura la
storica rubrica “Avventure in
città”, portando avanti l’idea
che fu del collega Giancarlo del
Re, inviato speciale del quotidiano romano. “Avventure in
città” è una finestra aperta
sulla Roma verace: storie e
personaggi di fantasia, ma non
troppo. Tutto rigorosamente in
dialetto romanesco. È Salvatore
Taverna, giornalista e scrittore. Un romano doc.
In che misura Giancarlo
del Re ha contribuito a formare il suo repertorio?
«L’inventore è sempre l’inventore. L’idea è nata da Giancarlo del Re, grande giornalista e inviato speciale del Messaggero. Oggi la rubrica è curata da un giornalista per ogni
giorno della settimana. Io mi
occupo del lunedì. Quando
c’era Giancarlo, invece, la faceva tutta da solo. Mi raccontava che quando andava in ferie doveva lasciare in redazione le storie già pronte per
l’impaginazione»
Quanta ricerca linguistica
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11 Marzo 2011
c’è dietro la sua rubrica?
«Io per trent’anni ho fatto la
cronaca mondana del Messaggero, che prevede stili di scrittura e linguaggi completamente diversi. Quindi questa
rubrica per me è un’esperienza nuovissima. Ovviamente
c’è stato bisogno di studiare,
anche se “so romano e me piace parlà romanaccio”. Mi sono
persino iscritto al Centro romanesco Trilussa, diretto dal
contato un aneddoto che ha
ispirato un mio racconto. Poi
capita spesso che quando prendo il taxi i tassisti mi raccontino storie divertenti»
Che riscontri ha avuto?
«Il riscontro è positivo e
continuo. Basti pensare che
l’attuale direttore del Messaggero, Roberto Napoletano, ha deciso di reintrodurre
questa rubrica ed estenderla
a tutti i giorni della settima-
Dopo anni di cronaca mondana al Messaggero,
un’esperienza nella rubrica
fortemente voluta dal direttore Napoletano
presidente Gianni Salaris, per
studiare il dialetto. Anche perché per scrivere in romanesco
non basta la trascrizione diretta
dal parlato. Ci sono delle regole
linguistiche ben precise».
Come nascono i racconti?
«A volte prendo spunto da
episodi di vita quotidiana, dalle cose curiose che mi capitano. Altre volte dagli incontri
che faccio. Per esempio una
volta ho incontrato l’attore
Ben Gazzara che mi ha rac-
na, dopo che il vecchio direttore, Gambescia, l’aveva
eliminata. Io c’ho sempre
qualcuno che mi telefona e mi
chiede chi era questo o quell’altro personaggio, perché
capita che somiglino a qualcuno che conoscono»
Quali sono i personaggi
che raccontano la romanità?
«Oltre ai tassisti, mi vengono in mente i barman degli alberghi, i ristoratori, i baristi, tutte quelle persone che servono
un certo mondo, che sono
sempre a contatto con la gente. E che a volte sono geniali nel
loro essere genuini. Le mie
storie nascono proprio dal
mondo che si muove, che gira»
Esiste ancora la romanità?
«I romani “de Roma”, quelli veri, secondo me non esistono più. Se oggi vai a Trastevere senti parlare americano, se vai in borgata trovi l’extracomunitario e non trovi più
il romano verace. O comunque
sono rimasti in pochi. C’è però
un piacere nel riscoprire il
dialetto romanesco anche tra
persone che vengono da altre
parti d’Italia che però si sono
radicate a Roma e hanno scoperto il Belli, Trilussa o Giggi
Zanazzo, un grande poeta romanesco. Oggi la ricerca della
romanità è diventata una
moda».
Secondo lei quale personaggio rappresenta al meglio
Roma e la romanità?
«Sicuramente se parliamo di
romanità mi vengono in mente Alberto Sordi e Gigi Proietti. I grandi attori romani di una
volta. Oggi in televisione troviamo il romano becero, che si
esprime solo a parolacce.
ROMANESCO Sordi tassista, ispiratore per Taverna
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