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Umberto Mucci
we the italians
Cinquanta interviste
sull’Italia negli Usa
Gli italiani d’America
si raccontano
Armando
editore
Sommario
Introduzione
di Umberto Mucci
Angela Alioto
Creatrice del progetto Piazza Saint Francis a San Francisco
Renzo Arbore
Musicista, regista, scrittore, autore e conduttore televisivo
Paul Basile
Direttore dell’Italian American Veterans Museum a Chicago
Lidia Bastianich
Chef, scrittrice, conduttrice televisiva
Mauro Battocchi
Console Generale d’Italia a San Francisco
Edward Bevilacqua
Vice Presidente dell'Italian American Club of Las Vegas
Claudio Bisogniero
Ex Ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti
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John F. Calvelli
Vice Presidente Esecutivo della National Italian
American Foundation – NIAF
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Vito M. Campese
Presidente di Italian Scientists and Scholars in North
America Foundation – ISSNAF
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Dominic Candeloro
Autore del libro Chicago’s Italians: Immigrants, Ethnics,
Americans
Laura Caparrotti
Creatrice di In Scena! Italian Theater Festival NY
Fabrizio Capobianco
Imprenditore in Silicon Valley
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Simone Cinotto
Autore del libro Making Italian America: Consumer
Culture and the Production of Ethnic Identities
Domenick Crimi
Presidente del 9th street Italian market di Philadelphia
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Simone Crolla
Consigliere Delegato dell’American Chamber of Commerce
in Italy
Albert Delauro
Presidente del Ferrari Club of America
Gianluca De Novi
Docente, ricercatore e imprenditore ad Harvard
Andrè DiMino
Direttore Esecutivo di UNICO
Francesco Durante
Autore dei libri Italoamericana Vol. 1 e Vol. 2
Gianluca Fontani
Presidente della Camera di Commercio italiana a Miami
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Mary Jo Gagliano
Creatrice della mostra “La Storia: Birmingham’s Italian
community”
Joseph Gallucci
Ispettore, NYPD Columbia Association
Thomas Gambino
Ex Vice Presidente di “Friends of Italy Society of Hawaii”
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Gerald R. Gems
Autore del libro Sport and the shaping of the Italian
American identity
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Douglas Gladstone
Autore del libro Carving a Niche for Himself: The Untold
Story of Luigi Del Bianco and Mount Rushmore
Michael W. Homer
Console Onorario d’Italia a Salt Lake City
William A. Jennaro
Ex Presidente della Festa Italiana a Milwaukee
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Annalisa Liuzzo
Avvocato, esperta di legislazione sull’emigrazione
negli Stati Uniti
Tony Lo Bianco
Attore
Stefano Luconi
Professore di Storia degli Stati Uniti
Luca Martera
Regista, produttore televisivo
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Frank Maselli
Presidente dell’American Italian Cultural Center
di New Orleans
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Paolo Messa
Direttore del Centro Studi Americani
Antonio Monda
Scrittore, Professore di cinema alla New York University
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Gianfranco Norelli e Suma Kurien
Autori dei documentari Pane Amaro
e Finding the Mother Lode
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Nicola Orichuia
Fondatore e Direttore del «Bostoniano» e di IAM Books
a Boston
Franco Pavoncello
Presidente della John Cabot University di Roma
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Philip R. Piccigallo
Direttore Esecutivo dell’Order Sons of Italy
in America – OSIA
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Portia Prebys
Presidente dell’Association of American College
and University Programs in Italy – AACUPI
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Anthony Riccio
Autore del libro Farm, Factories, and Families:
Italian American Women of Connecticut
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Mark Rotella
Autore del libro AMORE: The Story of Italian American Song 191
Serena Scaiola
Console Onorario d’Italia a Cleveland
195
Joseph V. Scelsa
Fondatore e Presidente dell’Italian American Museum
di New York
200
Bruno Serato
Fondatore e Presidente di Caterina’s Club
Gino Serra
Vice Console Onorario d’Italia a Kansas City
Elena Sgarbi
Console Generale d’Italia a Houston
Anthony J. Tamburri
Preside del John D. Calandra Italian American Institute
Mary Tedesco
Esperta di genealogia, conduttrice televisiva
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208
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Sal Turchio
Ex storico della Gran Loggia del New Jersey dell’Order
Sons of Italy of America
John M. Viola
Presidente della National Italian American Foundation
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Introduzione
di Umberto Mucci
Da anni in Italia ripeto che “Italy needs more America”. Ovviamente è una mia opinione, e quindi c’è chi è d’accordo e chi non lo è,
e va benissimo. A coloro che non la pensano come me, dico sempre:
non dovete credere a me. Ci sono 18 milioni di persone che sono
i migliori testimonial del mio pensiero: gli italoamericani. Persone
di successo, vincenti, appassionate dell’Italia. Persone che hanno lo
stesso DNA di noi Italiani che viviamo in Italia, ma che hanno visto
premiato il loro talento, la loro creatività, la loro attitudine a lavorare duramente, dalla meritocrazia americana, dallo spirito di libertà e
intraprendenza degli Stati Uniti… dal sogno americano. è per questo che in Italia we need more America: perché l’incontro tra Italia e
America genera successo e qualità. E quindi, se siete italoamericani,
non solo Italy needs more America. Italy needs You.
Quando iniziai queste interviste, non avevo ben presente dove sarei arrivato: un po’ come Cristoforo Colombo, che voleva andare ad
est e finì ad ovest e scoprì l’America, non pensavo certo che sarebbero
divenute un libro, e che sarebbero state l’embrione di We the Italians:
un network di comunicazione fatto da una piattaforma online che è
oggi il più completo contenitore di contenuti tra Italia e Stati Uniti,
un magazine, una newsletter che va a decine di migliaia di Italiani in
America, una community sui social network e ora anche questo libro.
E siamo solo all’inizio: il meglio deve ancora venire, vedrete.
Il volume che avete in mano è frutto di un lavoro di squadra: il
team di We the Italians. I protagonisti di questo libro sono 50 persone
talentuose, innamorate dell’Italia, di successo. Alcuni di essi sono in
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Italia, altri negli Stati Uniti; alcuni sono nati in Italia e poi emigrati
in America, altri sono nati americani ma di origine italiana. Questi 50
leader sono stati così gentili da raccontarmi il rapporto tra Italia e Stati Uniti dal loro punto di vista: ogni volta diverso, originale, nuovo, a
descrizione di uno dei tantissimi aspetti che legano i due Paesi. Non
è un elenco che pretende di esaurire questo argomento: mille sono le
possibili lenti con cui analizzare la relazione tra Italia e Stati Uniti,
e le interviste su We the Italians non si fermano. Magari faremo un
secondo volume, a breve.
In questo, intanto, troverete cose interessanti che non conoscete,
persone che frequentate o delle quali avete sentito parlare, storie
che amate e luoghi a voi cari. Il libro non ha una pretesa scientifica:
alcuni degli intervistati hanno scritto molto e pubblicato volumi,
e loro sì, in quel caso, hanno fatto divulgazione scientifica. Questo libro invece è un semplice viaggio alla scoperta di persone e
storie che contribuiscono a renderci orgogliosi di essere italiani e
di amare gli Stati Uniti. Le interviste sono state fatte dal 2012 al
2015; tutte sono state aggiornate cercando di togliere riferimenti
all’attualità di allora.
Concludo con tre ringraziamenti. Il primo è a mio padre, che mi ha
insegnato ad amare e ad essere grato agli Stati Uniti. Fu salvato dalla
Quinta armata durante la Seconda guerra mondiale, era scappato dalle
carceri fasciste perché non voleva arruolarsi con il regime. Gli americani lo salvarono, lo curarono, lo vestirono, gli diedero da mangiare,
lo armarono, liberarono il suo Paese, e poi gli diedero persino una
medaglia. Non parlava inglese, ma nella Quinta armata c’erano gli
italoamericani, che si arruolarono in percentuale altissima, e chiesero
di essere mandati a liberare il Paese che era entrato in guerra contro la
loro nuova patria, l’America. Tre italoamericani in particolare rimasero amici di mio padre: Sal, Tiso e Gastaldo. Anche a loro va il mio
ringraziamento, ora che riposano insieme a mio padre. Ogni anno, per
il Memorial Day, vado a rendere omaggio ai 7.861 soldati americani
sepolti nel Sicily-Rome American Cemetery vicino Roma, e nel farlo
non dimentico quei tre amici senza i quali io non sarei mai nato.
Il secondo ringraziamento va ai 50 leader intervistati, i protagonisti del libro: è un privilegio e un onore per me poter diffondere le loro
storie e il loro sapere, e da loro ho imparato davvero tanto.
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Il terzo ringraziamento è a tutti gli italoamericani o italiani recentemente emigrati negli Stati Uniti che si sono avvicinati a We
the Italians, leggendoci e interagendo con noi: siete tanti, e ogni
giorno crescete in gran numero. Noi siamo gli Italiani che vivono
in Italia e che si interessano a voi, imparano da voi, apprezzano
quello che fate. Saremo sempre, se lo vorrete, il vostro punto di
riferimento in Italia.
Viva l’Italia, e viva gli Stati Uniti d’America. Two flags, one heart.
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Angela Alioto
Creatrice del progetto Piazza Saint Francis a San Francisco
C’è una famiglia che per decenni ha visto un suo membro a
servizio della città di San Francisco: prima Joseph, poi sua figlia
Angela, ora il figlio di lei, Joseph. C’è un progetto chiamato Porziuncola Nuova, che collega San Francisco ad Assisi, la città di
San Francesco. C’è uno spazio di fronte a una chiesa nel North
Beach, la Little Italy di San Francisco, che sta per diventare una
vera piazza italiana. Tutte queste storie hanno qualcuno in comune:
una forza della natura, Angela Alioto.
Angela, la tua è una famiglia italoamericana molto importante: tuo
padre Joseph L. Alioto è stato sindaco di San Francisco dal 1968 al
1976. Tu sei stata eletta due volte Vice Sindaco ed hai anche scritto
un libro sulle tue esperienze nella politica di San Francisco, chiamato “Straight to the Heart” (Dritto al Cuore). Ora tuo figlio, Joseph
Alioto Veronese è assessore alla sicurezza e alle forze di polizia… c’è
la famiglia, la tradizione, e il servizio nelle istituzioni. è una tipica
storia italoamericana, giusto?
Sì, mio padre, Joseph Alioto, è stato sindaco di San Francisco dal
1968 al 1976. Io ho cinque fratelli, e sono l’unica figlia femmina.
Mio padre era il figlio di un pescatore siciliano, molto povero. Suo
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padre e sua madre cercarono in ogni modo di far studiare i loro figli
(tre femmine e un maschio). La determinazione di mia nonna Alioto è
stata molto importante nell’educazione di mio padre: lui le era molto
affezionato, e tutto ciò che faceva era focalizzato sulle sue radici. è
divertente… secondo lui ogni grande cosa mai fatta nella storia era
merito di un italiano!
Mio padre è stato sindaco per otto anni: non mi piaceva la politica,
perché teneva mio padre lontano da me. Si tratta di un lavoro molto
difficile, giorno e notte, 24 ore al giorno non-stop, e lui è stato il miglior sindaco che San Francisco abbia mai avuto. Ci ha messo il cuore
e l’anima.
Una volta conclusa l’esperienza politica di mio padre sono stata
eletta Vice Sindaco nel 1988 e nel 1992. Erano tempi molto eccitanti,
con moltissimo attivismo: si era nel periodo di espansione dell’AIDS,
c’erano molte proteste pro-gay e anti-gay; e anche proteste contro la
guerra, perché gli Stati Uniti intervennero in Kuwait, proprio mentre
io ero candidata a sindaco di San Francisco…
San Francisco per me è insieme italoamericana e cinese. Mio padre
diceva sempre che candidarsi a sindaco di San Francisco è molto simile
a fare il giro del mondo.
Io sono molto innamorata dell’Italia, e per me San Francisco è stata
costruita dagli italiani e dai cinesi. Chinatown e Little Italy sono simili
tra di loro e vicine a San Francisco, a New York, a Chicago. In entrambe
si trovano la tradizione, la famiglia, i valori e il rispetto per gli anziani.
Puoi dire qualcosa ai nostri lettori a proposito del North Beach, la Little
Italy di San Francisco?
Il North Beach è stato ed è estremamente importante per la storia
della città. Molti italiani ora si sono trasferiti, ma la comunità lavora
per migliorarlo e prendersi cura del quartiere, dove ci sono sempre
bandiere italiane.
È il luogo dove essere italiani ha sempre avuto un senso, per me…
quando ero bambina, ogni giovedì mia madre ci portava laggiù in macchina per comprare i tortellini e ravioli da Florence Ravioli. C’erano diversi negozi italiani: Genova, George’s store, il Caffé Trieste “il primo
cappuccino sulla West Coast”… sai, negozi di comunità, e molti di loro
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non ci sono più. Avevo solo 6 anni ma quello era l’inizio del periodo d’oro dei bar a San Francisco, un periodo molto italiano. Si poteva sempre
andare lì per ascoltare la musica italiana.
Così ora ci sono Caffè Trieste, Caffè Puccini, Caffè Roma, e ancora
oggi si può andare lì e ascoltare la musica italiana come una volta, quando ero bambina; e poi c’è Pantarelli, Colosseo, Melissa e molti nuovi italiani che hanno aperto nel North Beach. Quindi è ancora molto italiano.
Nel 2005 hai creato la Porziuncola Nuova. Cos’è?
è iniziata come una replica esatta dell’originale ad Assisi, dove
San Francesco visse, creò l’ordine francescano, consacrò Santa Chiara e morì: ma oggi la Porziuncola Nuova non è più una replica.
Porziuncola significa “piccola porzione di terra” e si riferisce alla
cappella benedettina di San Francesco ripristinata da giovane. Sono
una francescana da quando avevo 15 anni e nel 2005 andai in Italia e
iniziai a misurare la Porziuncola originale. Ho messo insieme tutte le
pietre, riunito insieme diversi artigiani e artisti. Un mese prima che
aprissimo la Porziuncola a San Francisco, Papa Benedetto ha fatto un
decreto per rinominarla “La Porziuncola Nuova” e ci ha dato il perdono di San Francesco: siamo l’unica cappella negli Stati Uniti con
un’investitura del genere, ce ne sono solo cinque al mondo.
Abbiamo aperto il 27 settembre 2008. Nell’estate del 2008 ho anche dato vita ai Cavalieri di San Francesco, che è un gruppo di persone a guardia della Porziuncola per proteggerla, conservarla e prendersi cura di essa. Il loro sito è www.knightsofsaintfrancis.com: siamo
oltre 1215 e ora visitiamo e aiutiamo anche i poveri, e cerchiamo di
aiutare riguardo diversi problemi della città.
Cos’è il progetto Piazza Saint Francis?
“Piazza Saint Francis, La Piazza dei Poeti” è un progetto che vuole realizzare una piazza per onorare portatori di pace e poeti, e la comunità di North Beach. La piazza sarà assolutamente stupenda. Sono
appena tornata da Forte dei Marmi, da dove verrà il marmo – anzi, la
serpentina. Si tratta di un verde incredibile. Questa piazza sarà la più
bella piazza negli Stati Uniti. Il sito web è www.piazzasf.org.
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La piazza sarà a strisce verdi e bianche. Nelle strisce ci saranno citazioni di circa diciotto poeti, in bronzo. Poi ci sarà un “Circolo della
Pace” di fronte alla chiesa, un grosso pezzo di serpentina verde che
rappresenterà il mondo. E attorno ad esso ci saranno rappresentazioni
in bronzo del Mahatma Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela, Madre Teresa, e naturalmente San Francesco.
Sto lavorando su questo con Lawrence Ferlinghetti, e lascia che te
lo dica, lavorare con Lawrence Ferlinghetti è incredibile. Non è facile
lavorare con qualcuno che è un poeta, ha 96 anni e ogni parola, intendo ogni singola parola che dice, ha un grande significato.
Stai raccogliendo fondi nella comunità italoamericana per questo
progetto?
Sto cercando di farlo, ma non è facile. Si tratta di un progetto da
tre milioni e mezzo di dollari. Ho raccolto due milioni e mezzo per la
Porziuncola, riuscirò a realizzare anche questo progetto. Ci sono molti italiani molto ricchi a San Francisco. I Cavalieri di San Francesco
sono disposti a mantenere e a prendersi cura della Piazza, in modo
che la raccolta di fondi possa assicurare che per un lungo periodo di
tempo la piazza rimanga bella, pulita, un luogo dove tutti vogliano
passare del tempo.
Perché il concetto di “piazza” è così importante? C’è solo l’aspetto
architettonico e urbanistico, o c’è qualcos’altro? Forse un omaggio
all’Italia?
è sicuramente un omaggio all’Italia, ed è un omaggio al concetto
di comunicazione. Soprattutto oggi, con tutti i telefoni, i computer e
i tablet… questo progetto parla di comunicazione uno verso l’altro.
Anche Papa Francesco dice, nell’Enciclica Laudato Si, che le piazze di questo mondo sono molto importanti. Non riuscivo a crederci
quando l’ho letto, come la piazza sia un concetto così importante per
unire le persone.
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Renzo Arbore
Musicista, regista, scrittore, autore e conduttore televisivo
La musica è da sempre protagonista importante dello scambio
culturale tra Italia e Stati Uniti: ha avuto un ruolo fondamentale nel
tenere alta la bandiera degli italiani emigrati all’inizio dello scorso
secolo, ed è stata veicolo dell’entusiasmo e dell’ottimismo americano che ha contagiato l’Italia dopo la guerra.
Nessuno potrebbe descrivere questa relazione di meglio di Renzo Arbore, autore del documentario “Da Palermo a New Orleans”
dedicato proprio all’influenza italiana nella musica americana per
eccellenza, il jazz. Nella comunità italoamericana si parla ancora del
suo fantastico tour di 10 anni fa, con uno spettacolo nella mitica Carnegie Hall di New York che lasciò entusiasta ogni singolo spettatore.
Renzo, lei è stato fra gli artefici della diffusione qui in Italia della
musica americana e di ciò che essa rappresentava. Che impatto
ebbe l’arrivo del modo statunitense di fare musica e di intrecciarsi
con la cultura popolare, nel nostro Paese?
Io e Boncompagni lanciammo negli anni ’60 in Italia la musica
inglese e quella americana. In quegli anni da lì arrivava una vera e
propria rivoluzione musicale, che partì da Londra e poi vide arrivare
dall’America il genere rhythm and blues con la scuola di Memphis e
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di Detroit: ci vantammo di aver fatto diventare “più nera” la hit parade
italiana, presentando per la prima volta in Italia Otis Redding, Aretha Franklin, James Brown. Si dice che io sia la persona che ispirò
Renato Carosone a scrivere la canzone “Tu vuò fa l’americano”.
Effettivamente, in quegli anni l’America era un vero punto di riferimento per il progresso della cultura popolare italiana: valeva per
le automobili, gli elettrodomestici, la televisione, che c’erano negli
Stati Uniti e da lì sarebbero arrivati fino da noi. Quando io ero piccolo, era già possibile conoscere qualche contenuto del Perry Como
Show che andava in onda in America. Dopo gli anni del fascismo e
della guerra, vedendo i film dello straordinario cinema americano
di quell’epoca ci innamorammo di quel Paese e della sua cultura
dell’ottimismo.
In più, l’esercito americano che ci aveva liberato aveva lasciato
qui in Italia i V-Disc (V stava per Victory), che erano i dischi che
dagli Stati Uniti erano stati inviati alle forze armate americane in
Europa per ricordare la cultura musicale del loro Paese: e quindi noi
dopo la guerra ci “nutrimmo” di quella musica e ci innamorammo
del jazz e dello swing, che rappresentavano la modernità nella musica di quel tempo.
Rovesciando il discorso, la musica italiana è stata per molti nostri
connazionali emigrati in America motivo di orgoglio, di mantenimento delle proprie radici italiane. Lei lo ha ribadito con l’enorme
successo dei suoi tour negli Stati Uniti, riarrangiando e riportando
in auge la musica popolare italiana e suscitando emozioni e grandissimo entusiasmo.
Noi italiani dobbiamo ringraziare molto i tenori e i soprani della
prima metà del secolo scorso. Sono loro che in quell’epoca hanno
portato in giro per il mondo, non solo negli Stati Uniti, la musica italiana. “O sole mio” è la canzone più popolare (non italiana: in assoluto) al mondo. Artisti come Enrico Caruso, Tito Schipa, Beniamino
Gigli a quel tempo, ma anche di recente Luciano Pavarotti, e oggi
Andrea Bocelli – che canta anche le sue canzoni, naturalmente – sono
stati e sono vere icone della musica e quindi della cultura italiana,
ovunque. Certamente, negli anni del boom dell’emigrazione italiana
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nel mondo, i primi tenori avevano un significato che andava al di
là della musica, e rappresentavano per gli italiani una grande dimostrazione che dall’Italia potevano e sapevano arrivare anche il loro
enorme talento.
Io personalmente, insieme all’Orchestra Italiana, ho il piacere e
l’onore di portare in giro per il mondo la musica napoletana, che ha
sempre un grandissimo successo.
Quando si pensa alla musica americana, è difficile non pensare al
jazz. Lei ne ha parlato nel bel documentario “Da Palermo a New
Orleans”, che descrive la storia di Nick La Rocca…
Ho prodotto questo bel documentario, diretto da Riccardo Di
Blasi, che purtroppo è scomparso di recente: insieme a lui andammo
a New Orleans, Chicago, New York e poi a Palermo e a Salaparuta.
Nell’ultima metà dell’Ottocento il Governo Americano offriva
gratuitamente a chiunque lo coltivasse il terreno acquistato dalla
Francia (l’attuale Louisiana). Dalla Sicilia iniziarono ad arrivare
emigranti, veri e propri coloni, che si occuparono di coltivare queste terre, anche piantando cotone: ogni settimana c’era una nave
che salpava da Palermo a New Orleans. Su queste navi si imbarcarono anche molti musicisti di banda, siciliani, che una volta arrivati
lì iniziarono a suonare insieme con i neri che arrivavano dal Senegal, con i francesi che erano rimasti anche dopo la vendita delle
terre, con i canadesi e con molte altre etnie che si trovavano lì. Si
incontravano e suonavano in una piazza che si chiamava Congo
Square, e che oggi è all’interno del Louis Armstrong Park: è così,
lì, che nacque il jazz. Nick La Rocca era un siciliano che aveva
creato una delle prime bande musicali lì, che si chiamava Original
Dixieland Jass (non c’era ancora la zeta) Band, e nel 1917 incise il
primo disco di jazz della storia. Quando aveva 13 anni, Armstrong
rimase molto impressionato da questa banda musicale di italiani,
che faceva questo nuovo tipo di musica che faceva ballare ed eccitare come niente altro prima. La Rocca era un trombettista: insieme
a lui c’erano altri grandi artisti italiani, come ad esempio il batterista Tony Sbarbaro e il pianista Frank Signorelli. Il primo chitarrista
conosciuto nella storia del jazz, Eddie Lang, si chiamava in realtà
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Tony Massaro, ed era abruzzese; mentre il primo che introdusse lo
strumento del violino in quella musica era di Bergamo, e si chiamava Joe Venuti.
Ma l’influenza italiana nel jazz non si esaurisce a quel tempo.
Molti musicisti di jazz moderno, che hanno fatto arrangiamenti straordinari, hanno origine italiana: uno per tutti Louis Prima, nato in
America ma anch’egli originario di Salaparuta.
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Paul Basile
Direttore dell’Italian American Veterans Museum a Chicago
Tra i tanti campi che hanno visto gli italiani emigrati in America e
le loro successive generazioni dimostrare talento, determinazione e
successo nel loro nuovo Paese, la difesa degli Stati Uniti è particolarmente importante. L’Italia ha fornito diversi eroi all’esercito americano, ai Marines e agli altri rami delle forze armate statunitensi.
A Chicago c’è un museo che porta il dovuto tributo agli italoamericani veterani di guerra, che avranno sempre la mia eterna
gratitudine. Paul Basile è, tra le altre cose, uno di coloro che hanno
reso possibile la creazione dell’ Italian American Veterans Museum
and Library.
Paul, penso che l’idea di un museo come questo sia molto lodevole.
Dicci qualcosa in più su come e quando è stato creato.
L’ Italian American Veterans Museum and Library nasce per
merito di Anthony Fornelli, un leader della comunità italoamericana nazionale e locale di lunga data. Suo zio, Orlando “Lon” Fornelli, fu un eroe della Seconda guerra mondiale. La sua unità era sotto
il fuoco dei cecchini a Guadalcanal, e lui uscì nella giungla da solo,
uccidendo 13 soldati nemici che erano sugli alberi, e liberando i
suoi compagni.
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Tony ha trascorso diversi anni a cercare di convincere varie organizzazioni della comunità a creare un museo in onore dei milioni di
italoamericani che, come suo zio, hanno combattuto così coraggiosamente al servizio del loro Paese. Quando suo zio morì, Tony prese
la faccenda nelle sue mani, utilizzando le proprie risorse per creare il
museo e mettere insieme una squadra di persone attive nella comunità
per portare avanti il museo. Inaugurammo il museo nel giorno del
Memorial Day del 2006.
Chi sono i più importanti eroi italiani commemorati nel museo?
Coloro che hanno ricevuto la Medaglia d’Onore, che è la nostra
più alta decorazione militare. È conferita solo ai più coraggiosi tra i
coraggiosi, per atti di eroismo che lasciano assolutamente interdetti.
Solo in 500 ne sono stati insigniti, durante la Seconda guerra mondiale, su 16 milioni che hanno prestato servizio. Ventisei italoamericani
hanno ottenuto la Medaglia d’Onore dalla Guerra civile a oggi.
Tu sei anche produttore e sceneggiatore del documentario “5000 Miles From Home”…
“5000 Miles From Home” parla dell’impatto della Seconda guerra
mondiale sulla comunità italoamericana di Chicago. In una situazione in cui ogni giorno morivano 2.000 veterani della Seconda guerra
mondiale, Tony Fornelli capì che spettava a noi raccontare le loro
storie mentre erano ancora vivi, per condividerle con tutti. Abbiamo
predisposto un elenco di domande che abbiamo poi chiesto a 25 veterani italoamericani della Seconda guerra mondiale e ai loro familiari.
Le loro risposte furono al tempo stesso notevoli nella loro omogeneità
e affascinanti nella loro diversità.
Per qualcuno, questi veterani erano figli di immigrati italiani che
non parlavano inglese fino a che non andavano all’asilo, cresciuti
pensando di essere sia italiani che americani, e che divennero veramente americani solo nel crogiolo del conflitto militare. La guerra li
trascinò fuori dalla comodità delle loro enclave etniche, mostrò loro
il mondo, e diede loro, quando tornarono a casa, l’occorrente per lasciare il passato etnico alle spalle per perseguire il sogno americano.
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Il nostro documentario ha vinto sei premi Telly nazionali e due
Emmy locali. Un documentario di quel calibro sarebbe costato tra
$ 200.000 e $ 300.000, ma siamo stati in grado di produrlo grazie a una
sovvenzione di soli $ 22.000, a noi donata dagli amici di UNICO. Per
saperne di più, si può andare sul sito www.5000milesfromhome.com
Un altro ruolo importante che hai all’interno della comunità italoamericana è quello di direttore della rivista mensile «Fra Noi»…
Sono il direttore di «Fra Noi» dal 1990. «Fra Noi» fu lanciato nel
mese di aprile del 1960 come veicolo di raccolta fondi per Villa Scalabrini, una casa di cura fondata 10 anni prima dai Padri Scalabriniani
specificamente per aiutare le esigenze della comunità italoamericana.
è partito come una newsletter di quattro pagine, ma si è rapidamente trasformato in un tabloid di 24 pagine. Allora, la politica editoriale di «Fra Noi» era semplice: più contributi doni alla Villa, più
spazio hai in «Fra Noi».
I padri scalabriniani vendevano tanti spazi pubblicitari e abbonamenti quanti potevano, spedivano il giornale gratuitamente a migliaia
di famiglie, e operavano sempre con significative perdite. Quando
un’agenzia di servizi sociali dell’Arcidiocesi prese il controllo di Villa Scalabrini a metà degli anni ’80, la Villa era un istituto ormai conosciuto, che non richiedeva il medesimo iniziale livello di marketing
di massa. Capirono subito che «Fra Noi» era una pubblicazione che
perdeva denaro e abbonati a un ritmo allarmante.
Io divenni Direttore nel 1990, con l’obiettivo di invertire quella
tendenza, e ci riuscimmo riducendo molto i costi e migliorando la
qualità dei contenuti allargandoci al più ampio pubblico che il nostro
budget ci potesse consentire. Nel 1995, cinque leader della comunità
– Anthony Fornelli, Antonio Spina, Amy Mazzolin, Renato Turano e
Paolo Butera – sono intervenuti e hanno salvato «Fra Noi», versando fondi personali nella neonata impresa per coprire il considerevole
debito accumulato.
Il consiglio attuale comprende Fornelli, Spina, Mazzolin e Turano,
così come Lewis Affetto, Nicholas Giuliano, Carol Gentile. è importante ricordare che i membri del consiglio di «Fra Noi» non hanno mai
tratto profitto dal loro ruolo di membri del consiglio, e sarà sempre così.
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Si considerano genuinamente i custodi di una fiamma che non deve
mai essere estinta. Due anni più tardi il giornale raggiunse il pareggio
di bilancio.
Ci sono un paio di ragioni per questa grande inversione di tendenza. In primo luogo, ci sono gli inserzionisti, che vedono il loro impegno finanziario a favore di «Fra Noi» non solo come un investimento
aziendale, ma come un investimento nel patrimonio culturale della
loro provenienza. Altrettanto importanti sono gli individui enormemente dedicati e di talento che compongono la famiglia «Fra Noi»,
sia come membri del personale che come corrispondenti.
Non abbiamo mai avuto abbastanza soldi per promuovere la pubblicazione, ma nonostante ciò essa ha goduto di una crescita incrementale perché il prodotto è così buono che si vende da solo. Attraverso una varietà di articoli ben scritti che coprono contenuti locali,
nazionali e internazionali, «Fra Noi» offre alla comunità non solo uno
specchio in cui può vedere sé stessa, ma anche una finestra attraverso
la quale può vedere il mondo.
«Fra Noi» ha attraversato diverse incarnazioni come giornale,
prima che lo trasformassimo in una rivista, nel mese di aprile del
2011. Operiamo anche attraverso i due siti Internet www.franoi.com
e www.italianamericanvoice.com, e partecipiamo alla realizzazione
di altre tre pubblicazioni: «La Voce» a Las Vegas; «Bostoniano» a
Boston; e «ComUNICO», la rivista di UNICO.
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Lidia Bastianich
Chef, scrittrice, conduttrice televisiva
Lidia Bastianich è la numero uno tra gli chef negli US, ma è anzitutto una splendida persona. Una storia di successo, di talento, di
duro lavoro: in una parola, una storia di italianità. Siamo molto felici
di avere l’opportunità di incontrarla e farle alcune domande: la ammiriamo, amiamo la sua cucina, siamo i suoi primi fans. Go Lidia!
E grazie molto per essere come sei.
Lidia, è vero che devi la tua passione per la cucina a tua nonna? Milioni di donne italoamericane probabilmente si riconoscono in questa
storia…
è vero, mia nonna ha avuto una grande influenza su di me. Sono
cresciuta in una situazione post guerra e, nonostante ci sentissimo
al 100% italiani, non potevamo parlare la nostra lingua né andare in
chiesa. Mia madre aveva spedito me e mio fratello dalla nonna in una
città fuori dai grandi centri urbani. Lì potevo parlare italiano e mia
nonna mi portava regolarmente in chiesa. Mangiavamo quello che
coltivavamo e allevavamo noi: avevamo polli, conigli, capre e maiali.
Facevamo l’olio e il vino; pulivamo piselli e fagioli per l’inverno. Il
cibo era in tutto quello che facevo: lo coltivavo, lo gustavo, aiutavo
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a cucinarlo. Quando i miei genitori decisero che dovevamo partire,
sperando in una vita migliore, non dissero a me e a mio fratello che
stavamo andando dall’altra parte del mondo. Così mi è stato bruscamente tolto qual paradiso, in maniera… inaspettata, e penso che la
mia passione per il cibo sia dovuta al fatto che c’era – e c’è ancora –
un legame con le mie radici e con mia nonna.
Quando voglio ricordarla, cucino i piatti che faceva lei. Ho sempre
avuto questa volontà di tornare alle mie radici, alla loro semplicità, la
semplicità della terrà. Non c’è niente di meglio.
Il tuo nuovo libro è un compendio della cucina italiana, “Mastering
the Art of Italian Cuisine”: più di 400 pagine di consigli, ricette e
tutto ciò che serve sapere per essere un grande chef italiano…
Questo libro parla di come gli italiani cucinano nella realtà. La cucina riguarda i prodotti, non le persone. Se si hanno i prodotti giusti, e
per me quelli giusti sono i prodotti italiani, la cucina è molto migliore
e più facile. In questo libro spiego diverse tecniche. Ad esempio, se si
conosce la tecnica per cucinare il risotto si può fare il risotto ai funghi, o con gli scampi, o in molti altri modi. Mi concentro anche sulla
gestione dei prodotti grezzi, come pulirli, come conservarli.
Mia figlia, Tanya Bastianich Manuali, è la coautrice del libro. Lei
ha fatto ricerca e ne ha scritto una parte. Entrambe abbiamo condiviso
l’idea di un glossario: è importante capire le parole italiane e utilizzare i riferimenti giusti per i prodotti italiani. Il glossario si intreccia con
la mia filosofia: alla fine, il cibo unisce le persone. Tutti noi abbiamo
questo unico comune denominatore. Cucinare per qualcuno, per me,
significa entrare nella loro vita, nella loro anima. Il cibo è sociale: è
comunicazione, molto più che la tecnologia che oggi viene data come
una priorità. E non c’è bisogno di avere un grande pasto complicato,
anche se si mettono sul tavolo le cose più semplici ci si connette con
le persone.
Prima di aprire il tuo primo ristorante, hai lavorato in pasticceria.
Ci sono migliaia di panetterie e pasticcerie italiane, in tutti gli Stati.
Anche loro sono veri ambasciatori dell’eccellenza italiana per la cucina e il cibo, giusto?
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Quando ho iniziato a lavorare avevo solo quattordici anni e ho
iniziato in una pasticceria di Astoria, nel Queens. Era una pasticceria
tedesca, di proprietà della famiglia dell’attore Christopher Walken.
Le pasticcerie sono particolarmente significative per il ricordo
delle tradizioni: perché si cucina tutti i giorni, ma dolci e dessert
sono per le occasioni speciali. In Italia, ogni santo ha un suo dessert speciale dedicato, poi c’è il Natale, la Pasqua, e c’è sempre
una ricetta diversa. La pasticceria tipica italiana è stata estremamente importante per la comunità italoamericana, perché segnava
e segna la celebrazione di occasioni speciali.
Sei stata la prima a dire forte e chiaro che la cucina italoamericana e la cucina italiana sono due cose diverse. Hai avuto l’intelligenza di farlo con grande rispetto per la cucina italoamericana,
e questo è probabilmente il motivo che ha portato tutti ad accettare serenamente questa fondamentale dichiarazione. Pensi che
sia possibile fare la stessa cosa con i prodotti Italian sounding
realizzati in America?
Penso di sì. Penso che i prodotti simil italiani realizzati in America sono stati realizzati quasi per necessità, una risposta ad un
bisogno che non veniva soddisfatto dall’Italia. Quando aprii il mio
primo ristorante nel 1971, non riuscivo a trovare il Grana Padano,
il Parmigiano Reggiano, l’Aceto Balsamico. Se non hai tutti gli
ingredienti italiani è difficile sostenere che il tuo sia un ristorante
italiano: perché la cucina italiana si basa sui suoi prodotti tradizionali. Penso che il modo in cui oggi l’Italia dovrebbe affrontare
questo problema è di non essere negativi contro i prodotti simil
italiani: perché gli americani sono aperti, amano gustare tutto ciò
che è buono e italiano. L’Italia ha bisogno di investire nella promozione, nella didattica, nella degustazione, nella diffusione dei
buoni prodotti italiani. Gli americani sono abbastanza intelligenti
per imparare: se si dà loro un buon pezzo di Grana Padano o Parmigiano, sapranno capire la differenza tra ciò che è autentico e ciò
che non lo è. Forse non lo comprenderanno immediatamente, ma
è per questo che dobbiamo educarli. Bisogna investire in comunicazione positiva.
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Qual è il piatto che preferisci cucinare? E quale quello che preferisci
mangiare?
Di base mi piace mangiare e mi piace che nei miei ristoranti si
offrano piatti basati sui prodotti di stagione. Amo cucinare le verdure
e la pasta: spaghetti o linguine con le vongole, non c’è niente di meglio, è uno dei miei piatti preferiti. Se non si hanno le vongole, vanno
bene anche spaghetti aglio olio e peperoncino. Fantastico! Così semplice, facile: del buon olio, pasta italiana, tutti ingredienti tradizionali.
Tu sei parte della squadra che ha dato alla luce al grande successo
di Eataly a New York. Ora c’è anche un Eataly a Chicago e uno a
Boston. Avete in programma di aprire Eataly in altre città americane?
Sì. Stiamo lavorando su una seconda location qui a New York,
presso il World Trade Center; e stiamo progettando di aprire a Los
Angeles. Penso che questo tipo di attività abbia un buon successo.
Abbiamo aperto l’anno scorso a San Paolo, in Brasile, stiamo parlando con Toronto. Ci stiamo espandendo… abbiamo molti progetti.
Perché sentiamo che stiamo portando un messaggio, noi apriamo la
porta, in modo che tutti i prodotti tradizionali possano venire. Penso
che ciò che funziona è il fatto che insieme con Mario Batali, con mio
figlio Joe e con me, copriamo un grande territorio.
Cosa consiglieresti a un giovane chef italiano che ha il sogno di aprire un ristorante negli Stati Uniti?
Prima di tutto, conoscere il proprio cuore, la propria passione. Poi
devi conoscere il mercato americano. Devi venire qui e lavorare un po’,
prima: capire la mentalità americana. Poi stiamo parlando di cibo, quindi serve la passione per questa professione; ma è anche un business. è
necessario sapere di marketing, conoscere i dati finanziari relativi alla
gestione di un ristorante in America. Se si va in una grande città, ci sono
grandi spese. Se in tre mesi non si decolla, è la fine. Alcuni iniziano
portando i sapori italiani e collaborando con qualcuno che è già in questo business. In America ci sono sempre opportunità per qualcuno che
è bravo, competente e appassionato, e capisce di business.
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Quale pensi che sarà il futuro della cucina italiana negli Stati Uniti?
Penso che abbia un grande futuro. Ogni regione italiana ha fantastici prodotti, sapori e ricette. Penso che la cucina italiana è ormai
entrata definitivamente nel modo di cucinare americano. Vado in giro
nei ristoranti americani e vedo giovani chef, che lavorano in ristoranti
di qualsiasi etnia: ma quando guardo il menu, inevitabilmente vedo
qualche prodotto italiano.
Per proporre la cucina italiana, devi essere uno specialista della
cucina regionale; ma per usare in cucina prodotti italiani, basta essere
un buon cuoco, qualunque sia la tua provenienza o lo stile etnico del
tuo ristorante. Quindi c’è una straordinaria opportunità di crescita per
i prodotti italiani, che entreranno sempre di più nelle case di tutti gli
americani.
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