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sabato 10 gennaio 2009
LIBRI / KULTUR KLUB
25
La letteratura che omaggia Faber
VITA DI
FABRIZIO DE
ANDRE’. NON
PER UN DIO MA
NEMMENO ...
FABRIZIO DE
ANDRE’. UNA
MUSICA PER
I DANNATI
LUIGI VIVA
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RICORDI
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L’INCHIOSTRO
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FABRIZIO DE
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CHIARELETTERE
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ricorrenze
CHIARELETTERE
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la canzone
Fabrizio De Andrè, dieci anni dopo il suo volo
Fabrizio De Andrè e La guerra di Piero
PIERO FERRANTE
Cominciai a sognare anch’io insieme a loro
poi la mia anima d’improvviso prese il volo.
Fabrizio De Andrè non avrebbe amato, probabilmente, le celebrazioni, le ridondanti
stupidate di chi resta, tese a commemorare la
memoria di colui che forse è volato nel vento
o, forse, vive una seconda vita. Fabrizio De
Andrè, in spregio al fatto di
apparire antipatico, non
avrebbe gradito, forse,
neppure le serate, gli special televisivi, gli spettacoli, l’insistente martellamento di altre voci che
tentano di riprodurre la
sua. Con la sua scomparsa, dieci anni fa, veniva a
mancare, un grande
cantautore, per alcuni
settario, di nicchia. Ed
invece, di contro, moriva a stento e ad appena
58 anni, il portavoce
degli umili, di quelli
costretti a condurre
un’esistenza nel retrobottega della vita e
della società. Le sue
canzoni hanno sempre raggiunto i luoghi di frontiera, piuttosto che le dimore dei possidenti:
nelle carceri, cantate da quelli che si sentivano ultimi, chiusi in un gorgo da cui era impossibile uscire, magari nelle strade, sulla
bocca pittata di qualche puttana. Faber, l’11
gennaio del 1999, scompariva, in prima persona, dalla scena musicale prima ancora che
dalla vita. Perché lui con la vita ha giocato
sempre al suono della musica. Le sue turbe, i
suoi amori, le sue gioie, le sue ubriacature, le
sue angosce, i suoi dubbi, le sue idee politiche
libertarie, le sue letture e finanche il suo rapimento sono stati trasposti dal cantante genovese in musica e parole. Come dotato di una
colonna sonora naturale che balla in mente
in modo incessante, Fabrizio ha sempre avuto la grandezza di trovare la sequenza giusta
di arpeggi e sussurri per ogni singolo evento
della sua esistenza, di saper indirizzare i suoi
pensieri e le sue esperienze su
una chitarra. Così le sue
stesse canzoni, oggi, sono
la più grande testimonianza che di lui resta e ci danno la certezza di averlo ancora vivo. Più delle lacrime,
più degli elogi, più delle
commemorazioni. Chissà,
viene da domandarci, cosa
ne penserebbe oggi, Fabrizio, di questo mondo. Di
questa dimora monopolizzata da tanti politici con la tovaglia sulle mani e le mani sui
coglioni, di questa Terra sfregiata viso e corpo da una guerra che partorisce tanti figli, le
cui spoglie fanno ritorno a casa
avvolte nelle bandiere legate
strette perché sembrassero intere. Chissà cosa avrebbe detto
dei fatti del G8 che hanno insanguinato la sua Genova, crocicchio di tante
“Crêuza de mä”, mulattiere di mare che portano odore di Mediterraneo e d’Atlantico,
con quel dialetto cadenzato così similmente
al portoghese.
Chissà se si stupirebbe ancora di guardare
le nuvole che vanno, vengono, per una vera
mille sono finte e si mettono lì tra noi e il cielo.
Tra lui, che le guarda dall’altro, e noi, che ci teniamo la nostra voglia di pioggia.
Dormi sepolto in campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi.
«Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati,
Non più i cadaveri dei
soldati/ Portati in braccio
dalla corrente».
Così dicevi ed era d’inverno/E come gli altri
verso l’inferno/Te ne vai
triste come chi deve;/ Il
vento ti sputa in faccia la
neve.
Fermati Piero, fermati adesso,/lascia
che il vento ti passi un
po’ addosso,/Dei
morti in battaglia ti
porti la voce:/“Chi
diede la vita ebbe in
cambio una croce”.
Ma tu non la udisti e
il tempo passava
Con le stagioni, a passo di giava,
Ed arrivasti a passar la frontiera
In un bel giorno di primavera.
E mentre marciavi con l’animo in spalla
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore.
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere a terra a coprire il suo sangue.
«E se gli sparo in fronte o nel cuore,
Soltanto il tempo avrà per morire,
Ma il tempo a me resterà per vedere,
Vedere gli occhi di un uomo che muore».
E mentre gli usi questa
premura,/Quello si volta,
ti vede, ha paura/ Ed imbracciata l’artiglieria/
Non ti ricambia la cortesia.
Cadesti a terra senza un
lamento/E ti accorgesti in
un solo momento/Che la
tua vita finiva quel giorno/E
non ci sarebbe stato ritorno.
«Ninetta mia, a crepare di
maggio/Ci vuole tanto, troppo coraggio,/Ninetta bella,
dritto all'inferno/Avrei preferito andarci d'inverno».
E mentre il grano ti stava a
sentire
Dentro alle mani stringevi il fucile,
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole.
Dormi sepolto in campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi.
Sparagli Piero, sparagli ora,
E dopo un colpo sparagli ancora,
Anniversari
{
Dal 2008 al 2009: un anno nel nome del centenario del Futurismo e del poeta Alfonso Gatto
FRANCESCO GIULIANI
Ogni anno ha i suoi anniversari di spicco. Il 2008 è stato
caratterizzato da alcune importanti ricorrenze, che hanno
lasciato una vistosa traccia anche sulle pagine del nostro
quotidiano. Si pensi, ad esempio, al ventennale della scomparsa di Andrea Pazienza, ad esempio, che è stato ricordato
in molte città, salvo, purtroppo, in quella che lo ha visto crescere (e il riferimento è, ovviamente, a San Severo).
E il 2009? L’evento clou è senz’altro la pubblicazione del
“Manifesto del Futurismo”. Era il 20 febbraio del 1909,
quando sulla prima pagina del quotidiano francese “Le Figaro” appariva il celebre testo che esaltava l’energia vitale,
il dinamismo dell’uomo, contrapposto alla stasi della morte e del conformismo. Nasceva l’avanguardia più imitata e
invidiata del mondo, grazie a Filippo Tommaso Marinetti e
alla sua capacità di infiammare gli animi e le platee, senza
badare a spese, in tutti i sensi. Grande animatore culturale,
generoso finanziatore di libri e giornali, non si tirava mai indietro, anche se c’era da dare o ricevere legnate. Tra i suoi
amici, ci saranno vari pugliesi, che movimenteranno l’arte
di una regione apparentemente troppo tranquilla.
Il miracolo del Manifesto del 1909, che sarà seguito da un
gran numero di altri testi programmatici, consiste nella sua
capacità di apparire sempre più giovane, quasi possedesse
l’elisir di lunga vita. Riletto oggi, appare più luccicante e ra-
dioso che mai, con le sue idee intelligentemente provocatorie: “La letteratura esaltò fino a oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno”. Se il mondo si è arricchito con la
bellezza della velocità, allora bisogna bandire la lentezza, i
giri di parole, le reticenze, i sofismi. Bisogna parlare in modo diretto e intelligentemente conciso. Tutti noi, in fondo,
lo vogliamo o meno, siamo eredi di questo futurismo applicato.
Ma il 2009 presenta anche un altro anniversario che rappresenta un invito alla lettura, e ci riferiamo al centenario
della nascita di Alfonso Gatto, nato a Salerno nel 1909 e
scomparso a Capalbio nel 1976. Poeta ermetico, animatore di una rivista come “Campo di Marte”, in collaborazione con Vasco Pratolini, Gatto ha pubblicato, tra i suoi
molti lavori, un “Diario di Puglia”, che si legge nel volume “Napoli N.N.”. Si tratta di sei brevi brani, dai tioli suggestivi, composti in una prosa ricca di risonanze poetiche, che meritano una sosta di riflessione. La Puglia mostra tutto il suo fascino, con i suoi flash sul Tavoliere, che
ha addosso la solitudine del mezzogiorno, o sul Gargano, che si innalza con forza dal litorale.
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