1 In treno per la memoria, CGIL-CISL_UIL Lombardia. Auschwitz
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1 In treno per la memoria, CGIL-CISL_UIL Lombardia. Auschwitz
1 In treno per la memoria, CGIL-CISL_UIL Lombardia. Auschwitz 2016. Convegno: Il veleno di Auschwitz: restare umani davanti al male. IL SOCCORSO AGLI EBREI IN PERICOLO DURANTE LA SHOAH Liliana Picciotto, Spazioarte, Sesto San Giovanni, 27 gennaio 2016 (si prega di non usare senza citare) Il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, l’istituto storico che si occupa della storia degli ebrei in Italia in età moderna, sta realizzando, sotto la mia guida, una grande ricerca sui meccanismi di salvezza degli ebrei d’Italia durante il biennio 1943-1945. L’intento è capire come reagì la società ebraica di fronte all’emergenza shoah e come reagì la società civile di fronte alla medesima emergenza, che intrecci ci furono, che generosità furono dispiegate e che viltà, purtroppo, vennero messe in atto attraverso le spiate. Per questa ricerca, sto cercando di registrare quante più possibili storie di salvezza,, attraverso i ricordi degli anziani di tutta Italia che vengono intervistati a tappeto. Sta emergendo il quadro di una massiccia solidarietà esplicata da semplici cittadini, di tutte le età e di tutte le appartenenze sociali. Fu un movimento spontaneo di solidarietà privata, un grande atto di ribellione al fascismo e ai valori che esso voleva ispirare, e che possiamo ben definire resistenza civile, non meno eroica della resistenza armata. Gli ebrei italiani erano pochissimi, l’1 per mille della popolazione. Alla vigilia dell’occupazione tedesca e della costituzione della Repubblica Sociale Italiana, la repubblica neofascista creata da Mussolini e voluta da Hitler, erano circa 36.000. Nel biennio 1943-1945, furono oggetto di una spietata caccia all’uomo da parte della polizia tedesca che effettuò un rastrellamento a Roma nel quartiere abitato dagli ebrei, andando di casa in casa, sfondando le porte che non si aprivano, tagliando i fili del telefono non appena entrata, consegnando un biglietto alle attonite famiglie in cui si diceva che tutti, entro venti minuti, doveano scendere con le loro cose e essere trasferiti altrove. La retata durò sette ore e procurò un bottino di più di mille disperate persone, riunite in un edificio sul Lungo Po e trasferite, dopo due giorni, nel campo di sterminio di Auschwitz. Tra loro c’erano centinaia di bambini. Per tutto il mese di novembre, i nazisti effettuarono altre retate nelle principali città italiane: Firenze, Genova, Milano. 2 Alla fine di novembre del 1943, anche il governo neo fascista italiano dette man forte a questa politica antiebraica, emanando un ordine di arresto nel quale impegnava le nostre autorità di polizia a trarre in arresto tutti gli ebrei che erano scampati alle retate tedesche, per concentrarli nel grande campo di concentramento a Fossoli di Carpi. Da lì in seguito, comodamente, i tedeschi, a partire dal 22 febbraio del 1944, presero in consegna i prigionieri che mano a mano la polizia rinchiudeva in quel luogo e li deportava ( il 22 febbraio è anche la data della deportazione di Primo Levi che subì proprio questo meccanismo: arrestato da parte delle autorità italiane-consegnato a Fossoli-deportato dalle autorità tedesche). L’atmosfera per gli ebrei si fece pesantissima, non avevano per salvarsi che poche possibilità: cercare di raggiungere la neutrale svizzera, cercare di raggiungere al sud le linee di avanzata degli eserciti alleati, cambiare cambiando anche identità. Per queste soluzioni occorreva che i capofamiglia mettessero in campo tutte le loro capacità e tutta la loro intelligenza. Si pensi alle difficoltà che incontrava un papà per salvare la sua famiglia: occorreva trovare casa in una città diversa dalla propria per non essere riconosciuto e arrestato, procurare una carta di identità con nomi falsificati (i nomi di Levi, Coen, Morpurgo, Sonnino, Finzi erano noti come ebraici), procurare carte annonarie falsificate necessarie per ottenere cibo dai negozi di alimentari. Erano tutte cose molto difficili da procacciarsi: gli appartamenti in affitto non erano allora facili da trovare e chi mai conosceva falsari che potessero contraffare i documenti? Anche la soluzione svizzera era difficile: bisognava avvicinarsi alla frontiera con la famiglia senza farsi cogliere dai poliziotti sui treni per Varese, Como, Tirano, bisognava non dare nell’occhio quando si scendeva dal treno, bisognava trovare contrabbandieri abituati a passare clandestinamente attraverso la rete confinaria, bisognava avere denaro per pagarli, bisognava che la Svizzera, piena di rifugiati che entravano anche dalla Francia, praticasse, quel giorno o quella settimana, una politica di accoglienza. Davanti a questa disperante situazione, più di settemila persone furono arrestate e deportate. Gli altri si salvarono nei modi più disparati: 6.000 riuscirono a varcare la rete confinaria con la Svizzera e a venirne accolti. Gli altri, vagarono da una città all’altra vivendo una vita da clandestini. Esi non avrebbero potuto sopravvivere senza l’aiuto della società civile circostante. Vicini di casa si strinsero per accogliere famiglie terrorizzate, impiegati comunali accettarono di procurare carte di identità in bianco, poliziotti corsero ad avvertire le persone che l’indomani avrebbero dovuto arrestare, portinaie accolsero nelle cantine gente terrorizzata, negozianti 3 nascosero nei retrobottega, medici praticarono operazioni di appendicite non necessarie. In più, strutture che avevano possibilità di offrire ricovero e letti si impegnarono a fondo, parlo degli ospedali che accolsero ebrei come finti malati, come l’ospedale del dottor Carlo Angela, il papà del noto giornalista Piero, che accolse come finti malati molti ebrei e altri ricercati nel suo ospedale psichiatrico a San Maurizio Canavese e molti altri. Ma le strutture più in grado di aprirsi ai ricercati erano le case religiose. Soprattutto a Roma dove ve n’erano in abbondanza, corridoi, sottoscala, soffitte si riempirono di rifugiati ebrei che ebbero così salva la vita. Si ebbero migliaia di episodi di solidarietà, per tutti voglio raccontare la vicenda di alcuni bambini salvati grazie alla generosità di persone non ebree che usarono grande senso di umanità. Il piccolo Massimo Foa di pochi mesi, fu arrestato assieme ai genitori e al nonno a Canischio, sopra Cuorgnè. dove la famiglia si era celata. A causa di una denuncia, i carabinieri si presentarono nel loro rifugio la sera dell’8 agosto 1944 e portarono tutta la famiglia alle carceri Nuove di Torino. Suor Giuseppina De Muro si impietosì della povera madre e compì un’eroica impresa per salvare Massimo. Fece in modo da farlo uscire dal carcere avvolgendolo tra le lenzuola sporche da mandare in lavanderia. Poi lo portò, su suggerimento della madre, a Cuorgnè, e lo affidò alla signora Tilde Boggio, che i suoi genitori avevano conosciuto precedentemente. Il bimbo fu salvo, i genitori e il nonno furono deportati, ma la mamma sopravvisse al campo di Auschwitz e potè riabbracciare il suo bambino. David Misrachi di sei anni, fu ricoverato dalla madre che fu poi imprigionata al carcere di San Vittore assieme alle altre figlie, presso la signora Pierina Di Vora che faceva la portinaia a Sesto San Giovanni in uno stabile abitato prevalentemente da antifascisti. Temendo che in un interrogatorio, la mamma di Davide rivelasse dove era il figlio, Pierina affidò il bambino a un donnone dello stabile che, d’accordo con lei, lo mise in un sacco e lo portò alla stazione ferroviaria. Il capotreno lo prese in consegna lo chiuse a chiave dentro il gabinetto e mise fuori il cartello “guasto”. Il piccolo viaggiò in quel modo fino a Como dove una famiglia amica lo accolse, lo riparò nella propria casa a Dongo e gli salvò la vita. Susanna Silberstein, di pochi anni, fu nascosta dai genitori, che vennero purtroppo arrestati e deportati, al Convento del Carmine a Firenze. Il convento fu perquisito da SS tedesche accompagnate da poliziotti italiani. Le donne e i bambini che vi si trovavano furono tutti 4 arrestati e deportati. Susanna fu nascosta da una delle suore sotto la sua gonnona e non fu trovata. La piccola rimase orfana e sola, ma si salvò. La piccola Bianca Coen di Ancona, fu salvata, assieme alla sorella Flora, dai suoi eroici nonni, Arnaldo Coen e Adria Cagli. I quattro, all’arrivo dei tedeschi ad Ancona, fuggirono verso la campagna, prima in casa di un contadino che li accolse fino a che il denaro per la pigione non si esaurì, poi, in inverno, in mezzo alla neve, a dorso di mulo, verso un altro casolare il cui padrone acconsentì a tenerli per qualche giorno in soffitta. Mentre erano lì, furono avvertiti che i tedeschi stavano arrivando, la nonna fuggì con la piccola Flora nei campi, sdraiandosi a terra tra le file dei cavoli , coperte dalle grandi foglie di quegli ortaggi. Il nonno rimase indietro per cercare Bianca che si era attardata a giocare con le galline. Vedendo che non c’era più tempo, il nonno la prese in braccio e volò verso la soffitta. Si sdraiò sul letto come se fosse morto, rimase immobile con le mani incrociate e, dato il terrore, era veramente bianco come un cadavere. Disse alla bimba “vieni , siediti accanto al letto e piangi”. “Piangi!” gridò. Ma la bimba non sapeva come fare a piangere, così, senza ragione. Allora il nonno le tirò un terribile ceffone e la bimba si mise a piangere per davvero. Intanto dabbasso, i tedeschi facevano chiasso e aprivano tutte le stanze, salirono anche in soffitta dando un terribile calcio alla porta. Il tedesco entrò, guardò i due per un secondo o due e si voltò, disse a quelli che gli stavano dietro “kaputt!” e poi tutti se ne andarono. Gli episodi da raccontare sarebbero a migliaia, ma mi fermo qui. La ricerca del mio Centro è riuscito a determinare la sorte di quasi 10.000 ebrei durante la shoah, ne sta uscendo un grande affresco fatto di fughe, di paure, di tensioni fino allo spasmo, di coraggio e di intelligenza da parte degli ebrei, di generosità e senso di umanità da parte di moltissimi non ebrei. Questa ricerca mostra come la shoah non riguardò soltanto gli ebrei ma riguardò tutti indistintamente, fu, alla fine, un’emergenza materiale e morale in cui ognuno giocò una partita: chi subendo, chi perseguitando, chi lasciando fare, chi usando viltà, chi aiutando le vittime. Questa storia ci insegna che le emergenze umanitarie riguardano sempre, in ogni luogo e in ogni tempo tutti, e che nessuno, né oggi né domani può chiamarsene fuori.