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“Dentro e fuori – La bellezza dell’equilibrio”
a cura di Nicol Ranci
Il progetto “Dentro e fuori – La bellezza dell’equilibrio” è iniziato più di un anno fa per cercare di costruire
attraverso la fotografia un percorso di aiuto per le donne che si trovano a vivere in una struttura comunitaria;
nello specifico, il progetto, realizzato grazie alla collaborazione della Fondazione San Gaetano, ha preso vita
all’interno della comunità terapeutica il Colle ad Arquà Petrarca (PD) che ospita donne affette da doppia
diagnosi.
La comorbilità, o doppia diagnosi, è definita dall’Organizzazione mondiale della sanità come la «coesistenza
nel medesimo individuo di un disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive e di un altro disturbo
psichiatrico», in altre parole, una persona con doppia diagnosi è una persona cui è stato diagnosticato un
problema per abuso di alcool o di sostanze stupefacenti in aggiunta ad un problema di natura psichiatrica,
ad esempio, disturbi depressivi o schizofrenia.
L’idea di servirsi della fotografia all’interno di questa realtà è maturata dall’interesse sviluppatosi a livello
mondiale nei confronti della fotografia utilizzata in chiave terapeutica; la fototerapia è infatti una delle
tecniche che permette di esprimere, forse più di altre, il mondo interiore, attraverso costruzioni simboliche
che superano il potere rappresentativo della parola. Proprio per questa ragione, che lega così
profondamente la fotografia all’interiorità, ho scelto di portare avanti il progetto con le donne della comunità.
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"L'omologia fra pelle e pellicola intese come entità capaci di registrare la presenza del mondo e nello stesso
tempo di segnarlo attivamente1”: la
pelle e la pellicola.
La loro pelle così duramente provata dalla vita che si riflette impietosa sui loro volti, nelle rughe scavate,
negli occhi stanchi e nelle cicatrici sulle braccia, e la pellicola, che offre loro una seconda occasione, dove il
fotoritocco soccorre ad edulcorare una realtà così difficile da accettare. La pellicola come silenziosa
complice di una, seppur effimera, nuova possibile realtà.
Dentro e fuori.
La scelta del titolo nasce dalla molteplici sfumature che il progetto porta con sé, ma prima di tutto deriva da
un dato di fatto, tanto semplice quanto fondamentale: l’aver vissuto tutta questa esperienza in prima
persona, appunto, da dentro.
L’imposizione del progetto “da fuori” sarebbe stata infatti percepita dalle ospiti della comunità come
un’intromissione gratuita, come l’intervento improvviso di un estraneo che arriva, fotografa e ruba l’anima, e
questo avrebbe svilito e snaturato tutto il progetto, fondato invece su quel rapporto di fiducia che è stato
indispensabile instaurare con loro per poter essere davvero in sintonia e, che ha consentito che tutto il
momento di preparazione, ed infine lo scatto finale, siano stati vissuti come un percorso congiunto e positivo.
In accordo con la dirigente della comunità abbiamo quindi deciso che il mio ingresso sarebbe stato graduale
e mediato; per un mese e mezzo ho collaborato alle attività ricreative dei laboratori, ho conosciuto i loro
nomi, i loro volti, ed ho iniziato inoltre, ad operare come volontaria notturna. Vivere la comunità di notte, con
la normale ansia della mia prima esperienza, con la paura dell’”altro” che non si conosce e che per sciocca
presunzione si teme, mi ha fatto entrare indubbiamente da una porta preferenziale nelle loro storie,
direttamente catapultata dentro le loro vite. Vite fatte spesso di insonnia, di the “proibiti” bevuti all’alba coi
racconti dei soprusi e delle violenze subite a fare da sfondo, racconti amari dove “il veleno per topi che non
uccide” diventa persino un pretesto per sorridere.
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“Fotografia e pittura nel Novecento – Una storia senza combattimento”, Claudio Marra – Bruno Mondadori, 1999
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Dentro. Dentro la comunità, un mondo fatto anche di regole e chiavistelli.
Ed ecco allora: gli oggetti. Oggetti che di notte posso tranquillamente esplorare e fotografare; sono loro a
farsi silenziosi messaggeri del loro mondo lì dentro, delle loro necessità e debolezze. Scoprire ogni angolo
della comunità nel silenzio, spesso al buio; le sento e le vedo dormire nello loro stanze, una accanto all’altra.
Essere
dentro ma guardarle da fuori.
Gli oggetti sono lì, intrisi del loro mondo, sono le regole, le dipendenze, sono i miei primi interlocutori, sono le
impressioni di varcare la soglia e di entrare in nuovo mondo, in un altro, che è difficile vivere e che ancor più
difficile è raccontare, e allora quando non si regge lo sguardo si lascia che siano gli oggetti a parlare: i
cartelli, le chiavi, i bicchieri colorati della terapia fotografati nella prima notte insonne, e allora non è più
importante la messa a fuoco, l’inquadratura, quella foto diventa preziosa perché è la traccia, vera, reale,
partecipata, di quel momento, ferma, impressa per sempre sul CCD e in me.
Sarebbe stato naturale limitarsi a ritrarle, quei volti hanno bisogno di pochi chiarimenti per parlare, ma l’idea
del progetto, invece, è stata quella di costruire con ciascuna di loro un percorso che partisse innanzitutto
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dalla conoscenza, reciproca e non a senso unico, che passasse attraverso la valorizzazione ludica di
ragazzine che giocano con trucchi, spazzole e vestiti e che infine portasse allo scatto finale con loro al
centro.
Finalmente. Le loro vicende personali, particolarmente sfortunate, spesso non hanno consentito loro
di essere “viste” con occhi affettuosi dalle persone che avrebbero dovuto prendersene cura e l’obbiettivo è
stato di renderle, forse per la prima volta, grazie alla fotografia, le vere protagoniste.
Fuori.
E fuori c’è la natura, la comunità è infatti situata all’interno del Parco Colli Euganei, un abbraccio protettivo e
materno che accoglie e consola; per tale ragione, con il patrocinio del Parco Colli Euganei, la scelta è stata
di uscire dalla comunità per i set fotografici.
Una cascata, un prato di ranuncoli, un lavandeto, il giardino di una villa seicentesca, tutto diventa un pretesto
per uscire dalla comunità, andare fuori, la normalità del caffè al bar prima degli scatti, l’emozione di sentirsi
speciali, di riconoscersi protagoniste e i “grazie”.
In questo percorso una decisione importante è stata quella di coinvolgere nel progetto un fotografo
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professionista, Franco Rubini, che si è occupato delle foto nelle sedute esterne; il coinvolgimento di un
secondo fotografo mi ha consentito di poter avere, durante le uscite uno sguardo neutrale, non diretto e
quindi più libero e con meno aspettative; sono stata il secondo occhio che fotografava da dietro le quinte,
che scattava la memoria di quell’esperienza, che l’accompagnava con discrezione.
Ogni seduta fotografica è stata preceduta da un percorso di ascolto: i colori prediletti, le storie alle spalle, le
passioni, l’abbigliamento preferito, solo dopo si è passati alla fase operativa del restyling vero e proprio con
la scelta del vestito, le prove trucco, capelli, ecc…
Tutto questo rientra nel progetto e costituisce un passaggio imprescindibile; una volta che ogni particolare è
stato messo a punto viene fissata, a seconda del percorso terapeutico individuale di ciascuna e in accordo
con gli operatori della comunità, una data per la realizzazione delle foto. Per loro è importante
La data.
L’attesa rientra a pieno titolo nel percorso; a pensarci bene è un po’ il concetto hitchcockiano di suspense o
del leopardiano sabato del villaggio. L'attesa del piacere è essa stessa il piacere 2.
La fotografia ha tra i suoi vantaggi la possibilità di rendere credibile ogni espansione nell’immaginario,
trasformando anche la messa in scena più esasperata in qualcosa di mentalmente accettabile; così, per loro,
vestire i panni di moderne dee della natura diventa la strada per una maggiore consapevolezza di sé,
diviene presa di coscienza dell’esserci, dell’esistenza stessa del loro corpo, la propria corporeità che,
attraverso l’impiego di un medium, permette una sorta di ricomposizione, sia da un punto di vista emotivo
che funzionale.
A partire dagli anni 60 si è ufficialmente autorizzati a non porsi più il problema dell’”artisticità” di una
fotografia, proprio perché a partire da quegli anni a dominare la scena artistica sono stati i comportamenti
estetici e non più l’oggetto prodotto con abile e sapiente techné; la fotografia, pertanto, utilizzata non come
oggetto visivo ma come
oggetto sociologico, capace cioè di “cogliere sul vivo quella dialettica
per cui un comportamento diventa significativo” 3,
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diviene lo strumento principe per la registrazione di
Gotthold Ephraim Lessing, 'Minna von Barnhelm', 1763
G. Pane, L’art vivant, 1972, riportato in L. Vergine, Dall’informale LL Body art, Forma, Torino, 1976.
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performance individuali come quelle che hanno visto, vedono e vedranno, le donne della comunità uniche
protagoniste di un ritratto che diventa paradigma di un possibile riscatto.
Dee contemporanee che vivono un’istantanea immersione nella natura, che godono di quel rapporto
privilegiato di compenetrazione in cui divenire un tutt’uno con l’ambiente circostante dimenticando la propria
condizione attuale; nocciolo del progetto è infatti la ricerca del legame con la natura, con le radici, di
quell’indagine esistenziale che passa al recupero del sé mediante un’osservazione diretta e una
compartecipazione all’ambiente e alla natura stessa.
Pensiamo alla dimensione di recupero del corpo tipica di molte body artist; un esempio fra tutte è certamente
quello di Ana Mendieta, che deforma, traveste, mimetizza ed esibisce il suo corpo, tramutandosi di volta in
volta in creatura animale, vegetale o minerale, congiungendosi in una sorta di rituale estatico e simbiotico
alla terra e all’universo naturale, per ritrovare le radici della vita, per morire e rinascere, in un continuum
vitale senza fine, “usando la terra come una tela e l’anima come strumento”.
In questa particolare esperienza del vivere nella natura, del mimetizzarsi o celarsi in essa, alfine di
conservare l’aspetto terapeutico, è stato importante che le sedute esterne non siano state mai percepite
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come vere e propri set fotografici; sono sempre state presenti soltanto due, al massimo tre persone (io, il
fotografo e qualche operatore) e si è sempre provveduto a trattare questo momento come una sorta di
piccola performance individuale.
Tutto il percorso è stato sempre documentato per testimoniare l’intero iter procedurale e fatto visionare a
ciascuna di loro e ai loro familiari.
La bellezza dell’equilibrio
Un ritratto non è mai una mera riproduzione statica delle fattezze di un individuo, non è una maschera di
cera che si modella direttamente su un volto o una semplice traccia su una pellicola, sebbene
tecnologicamente aggiornata, no, vi entra sempre e comunque in gioco la ricettività dello sguardo di chi lo
produce, che deve saper parafrasare ogni lineamento secondo il riflesso che ravvisa nei propri occhi. Un
ritratto è sempre un gioco a due parti e vive della rifrazione vicendevole e reciproca che è l’unica matrice in
grado di assicurarne l’esistenza.
La bellezza dell’equilibrio
Questo progetto si fonda sulla convinzione che il disagio sociale debba essere combattuto, non soltanto
attraverso i percorsi terapeutici tradizionali, ma anche tramite nuove sperimentazioni, mediante il recupero
del “bello” che è possibile trovare, pur vivendo una situazione di grave disagio, in qualche ora passata nella
natura, all’aperto, con un bel vestito e i capelli in ordine, quel bello di una condizione che è e comunque
rimane precaria, al limite, in costante equilibrio, e che la fotografia ha il merito di congelare e rendere eterna.
Il progetto, ancora oggi attivo nella comunità “Il colle”, vive di quell’ insolita sensazione di equilibrio che con i
volti di queste donne ho provato a raccontare.
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