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Antico Oratorio dell’Arciconfraternita dei Bergamaschi
via di Pietra n. 70, Roma
Roma, 15 dicembre 2016
Ha preso il via l'esperienza de "Il cantiere delle ragioni", che prevede nel breve termine una decina di
incontri nei territori italiani che segnalano fermenti civili interessanti, tesi a ricomporre un'offerta politica in
cui conti la qualità e la competenza.
Il Comitato promotore ha annunciato le prime battute di questo percorso, convocando una riunione che si è
svolta giovedì 15 dicembre presso l'Antico Oratorio dei Bergamaschi a via di Pietra nel centro di Roma.
A tenere la riflessione introduttiva è stato chiamato Stefano Rolando, professore all'Università IULM di
Milano, per molti anni direttore generale alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal 2008 presidente
della Fondazione "Francesco Saverio Nitti", membro del comitato di direzione della rivista di
cultura politica "Mondoperaio", tra i punti di riferimento del civismo progressista milanese.
Hanno introdotto la riunione Andrea Lorusso Caputi e Gualtiero Gualtieri. Sergio Miotto ha moderato il
dibattito in cui sono intervenuti, tra gli altri, il giurista professor Gaetano Armao, il presidente della
Fondazione “Luigi Einaudi” Giuseppe Benedetto, l'esponente di Critica liberale Giovanni Vetritto, Ruggero
Maciati già manager di imprese di interesse nazionale, lo storico Aladino Lombardi, il generale Giovanni
Cerbo.
Qui di seguito il testo integrale della prolusione e le indicazioni per l'immediato sviluppo de "Il cantiere
delle ragioni".
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Buona sera e grazie a tutti coloro che hanno ritenuto di partecipare a questa libera riunione1.Grazie a chi
è intervenuto a titolo individuale e a chi qui rappresenta fondazioni o soggetti che si richiamano a culture
politiche che hanno considerato pertinenti e affini gli argomenti che abbiamo evocato.
Siamo stati mossi da impulsi di responsabilità civica rispetto alla evoluzione del nostro quadro politico.
Ma abbiamo avuto, collettivamente, anche pochissimo tempo di confronto e di analisi.
Ritenendo ora importante - subito importante – l’allargamento del perimetro del nostro confronto,
facciamo un passo, oggi, coscienti di un pensiero e di un “prodotto culturale e civile” forse impreciso,
certamente incompleto.
Ha dunque tratti incompleti e forse imprecisi questo
documento di rianimazione civile
attorno ad un progetto di ascolto e di discussione per
“una politica trasgressiva rispetto alla società a-critica e conformista”
(atto costitutivo del Partito d’Azione, 1942);
un progetto che ha l’ardimento di contribuire alla
“coscienza della diretta esperienza della libertà“
(Piero Gobetti, 1922).
Questo draft è stato redatto per avviare i lavori – itineranti nel territorio italiano – de “Il cantiere delle
ragioni”. E ha una costruzione elementare:
 brevi premesse, per spiegare perché e come; aggiungendo doverose opinioni dopo il referendum;
 dieci indirizzi su questioni che consideriamo importanti;
 dieci temi, individuati per intitolare a ciascuno di essi un’occasione di verifica, che consideriamo
prioritari.
Non si tratta dei “dieci comandamenti”.
Si tratta di un quadro di riferimento preliminare che la discussione in crescita, immaginata sia nei luoghi
che nella “piazza digitale” in allestimento, potrebbe benissimo modificare.
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Testo esposto da Stefano Rolando, professore all’Università IULM di Milano, presidente della Fondazione “Francesco
Saverio Nitti”, già direttore generale alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il video integrale in Youtube : https://m.youtube.com/watch?v=bHScjrHYTgI
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Una premessa
Per spiegare la parola cantiere, basta una piccola modifica alla definizione in uso nei dizionari.
Un'area di lavoro temporanea nella quale si svolge la costruzione di un'opera – dicono i dizionari - (di
ingegneria) civile.
Basta mettere in parentesi l’espressione “di ingegneria” (salvo concepirla in modo figurato) e ci siamo.
Per spiegare la parola ragioni (al plurale) è necessario un filo di laboriosità culturale in più.
Si può dirla con Blaise Pascal: “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Ma si può anche dirla
con il grosso della filosofia post-classica che derivando il termine, proveniente dal latino ratio - traduzione
(Cicerone, Lucrezio) del greco lògos - ne mantiene il duplice significato di ragione e discorso,
determinandosi in vario modo come la facoltà di conoscere attraverso la parola e il discorso piuttosto che
mediante l’intuizione.
Partendo da ciò, nel pensiero medievale – a cominciare, per il tanto richiamo che vi ha fatto tra gli ultimi
Umberto Eco, da san Tommaso – l’espressione identifica l’attività argomentante in qualche modo
sottordinata alla conoscenza intuitiva propria dell’intelletto.
Fino a diventare la facoltà di pensare, mettendo in rapporto i concetti e le loro enunciazioni; e al tempo
stesso diventare insieme la facoltà che guida a ben giudicare, a discernere cioè il vero e il falso, il giusto e
l’ingiusto, il bene e il male, alla quale si attribuisce il governo ovvero il controllo dell’istinto, delle passioni,
degli impulsi. Perché – come ammoniva Norberto Bobbio – “l’uomo di ragione non dovrebbe essere
infatuato”.
Da qui il nostro prioritario interesse per i toni del confronto civile e democratico, che per difendere anche
durissimamente valori ineludibili non ha bisogno della continua rissa demagogica.
Inoltrandoci nella ricerca etimologica troveremmo infinitamente più cose – soprattutto nel trattamento
della filosofia – ma questo approfondimento è necessariamente rinviato alle potenzialità del cantiere
stesso.
Dunque ragioni, si è detto, al plurale perché procedendo la nostra iniziativa per una preliminare fase di
ascolto e confronto altra strada essa non può prendere che dimostrarsi aperta al pluralismo interpretativo
del nostro tempo. Con la sola naturale premessa che anche questa disponibilità è trattata in un contesto di
urgenze (soprattutto etiche) e scadenze (soprattutto connesse alla risorsa limitata del tempo e alla risorsa a
rischio della democrazia). Per cui le sintetiche riflessioni che seguono hanno lo scopo di aiutare a
distinguere – circa l’accesso a quel cantiere - amici potenziali che condividono un quadro sommario ma
ineludibile di pre-condizioni da chi, anche spiegando le cose con l’alfabeto muto, con gesti sommari, con
frasi fatte, sa di non riconoscersi e di trovarsi altrove con i pensieri, con gli obiettivi personali e con i
comportamenti.
Abbiamo qualche resistenza a concepire la politica come distinzione perenne tra amici e nemici. Ma
abbiamo superato l’infantilismo egocentrico di pensare che tutti possano essere “amici” per assecondare la
nostra convenienza. O più biecamente per apprezzare una delle tante ipotesi di nuovo marketing politico.
Una seconda premessa
Il “comitato dei promotori” che sottoscrive questo documento esprime una certa sofferenza per come la
storia politica dell’Italia repubblicana abbia accantonato a più riprese alcune offerte di politica che
contenevano molte qualità utili al progresso civile del Paese. Ma anche pari sofferenza per come lo sviluppo
prima di una politica iper-professionale, poi di una politica gravemente priva di competenza, abbia ridotto,
snaturato, limitato, censurato la tensione partecipativa che poteva essere immaginata ai tempi dell’età
costituente.
E quindi abbia impoverito la qualità stessa della “domanda” di politica.
Abbiamo il convincimento che il giudizio che ogni cittadino dovrebbe maturare sullo stato della democrazia
in cui vive richiederebbe un minimo di educazione civile almeno su un punto: che tale giudizio non può
essere addossato solo all’offerta (cioè ai politici) ma anche alla domanda (cioè ai cittadini stessi). Questa
seconda premessa esprime il segnale che l’impegno di aprire il nostro cantiere di “esame delle cose” (farci,
insieme, un responsabile giudizio sullo stato della nostra democrazia) non esclude ora altre possibili
evoluzioni.
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Una evoluzione è di natura culturale e riguarda – soprattutto pensando a elettori di tradizione liberaldemocratica e formatisi nelle motivazioni del socialismo liberale (quello che Carlo Rosselli diceva “attuarsi
da oggi nelle coscienze dei migliori senza bisogno di aspettare il sole dell’avvenire”) – l’interesse a
riconnettere alle ragioni della discussione almeno una quota significativa di elettori tendenzialmente in
astensione.
Una seconda evoluzione è di natura civica e riguarda l’attenzione e il rispetto che sentiamo di esprimere
per i cittadini che, nella perdurante crisi reputazionale dei partiti politici (pur destinatari di un’alta missione
costituzionale, espressa dall’art.29 della Carta), hanno ritenuto – almeno nei loro contesti locali – di
difendere la possibilità di governare gli interessi generali mettendosi loro stessi in campo.
Il che non significa che vanno prese senza necessità di inventario le “liste civiche locali” che si sono
moltiplicate. Ma che ad esse è interessante guardare offrendo un contributo di raccordo nella riflessione
sugli andamenti nazionali ed europei.
Una terza evoluzione potrebbe anche far maturare dinamiche di “nuova offerta politica” in un quadro di
rigenerazione che può investire contesti attraversati da altri sperimentatori, oppure percepite nel prossimo
futuro con una maturazione di convincimenti autonomi che, nel caso, potranno essere resi pubblici.
Questa seconda premessa spiega che la politica si corregge anche lavorando sulla società e cioè sulla
domanda di politica. E fa appello a una parte importante dell’elettorato valoriale progressista italiano –
fatto da cittadini responsabili, informati e spesso disorientati – affinché non lasci intentata, in questa fase di
verifica, una opportunità di uscire da una reiterata astensione.
Dopo il referendum costituzionale
Non ci si può sottrarre da una riflessione di contesto che le vicende recenti ci consegnano con dati netti,
tutto sommato in linea con i caratteri stressati delle tendenze elettorali di mezzo mondo, magari
compensate dal ritrovato buon senso degli austriaci, ma comunque molto ispirate ad una reattività
oppositiva di elettorati provati dalle crisi, con disagio soggettivo e oggettivo, con crescente rancore per la
politica governativa.
 Fattori reattivi si sono mescolati ad una oggettiva sensibilità per la materia (la Costituzione)
avvertita come un bene pubblico primario, determinando comunque un esito partecipativo
apprezzabile, erodendo l’area degli indecisi e degli astenuti che è progressivamente diminuita.
 Non si può dunque parlare di rancore “generico” per la politica, ma di prevalenza di sfiducia per la
qualità (delle leggi, dei comportamenti, delle promesse) in una lettura in cui la forma di referendum
su una persona (tecnica promossa per primo da Berlusconi che ne aveva tratto benefici) questa
volta ha funzionato sull’elettorato del proponente con pochi flussi attrattivi.
 Nella vicenda del nostro referendum costituzionale si sono visti elettorati molto assertivi e
fortemente contrapposti ma anche tipologie elettorali che si sono assomigliate. Per esempio chi
diceva di votare sì turandosi il naso e chi diceva di votare no turandosi il naso. I primi non hanno
amato molto la qualità di quella riforma, ma ancor di meno l'improvviso potere politico attribuito al
puzzle che non ha potuto togliersi di dosso l'etichetta di "accozzaglia". I secondi hanno faticato a
dare un senso a questa pluralità di diversi soggetti, ma non hanno apprezzato lo stile comunicativo
del capo del governo che non ha lasciato gestire al parlamento una riforma che ha
progressivamente assunto toni divisivi.
 Il risultato – insieme ad un dato di ulteriore preoccupante distanziamento tra nord e sud – azzera
le colombe e dà ragione ai falchi dei due schieramenti. Il risultato è legislativamente un
azzeramento. Il compito di ricostruire una cultura costituzionale è ora enorme.
 Il dibattito è aperto ed è doverosa un’opinione. L’ex-presidente del Consiglio Renzi ha avuto
passione e coraggio. Ma in questa partita sono state trasferite anche imprudenze, incompetenze,
sottovalutazioni in un terreno diventato una palude rispetto alla specifica chiamata referendaria.
Quelle imprudenze, quelle incompetenze, quelle sottovalutazioni debbono essere ora terreno di
analisi - rapide e severe - per ricominciare il percorso di riorganizzazione della riforma e per non far
vincere i professionisti delle paludi.
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Qui si apre il giudizio sul “presente assoluto”, cioè sull’incarico del presidente Mattarella a Paolo
Gentiloni che ha formato il governo in questi giorni. La “riorganizzazione della riforma” non è lo
scopo di un governo che lotta contro i tempi. Non è da qui che bisogna cominciare l’analisi. Ma,
caso mai, dalla correttezza democratica e costituzionale nell’impedire soluzioni che appartengono a
culture a noi lontane, quella del “tanto peggio tanto meglio” e quella della confusione dei ruoli a
garanzia delle responsabilità di governo distinta dai diritti di controllo.
Diciamo che siamo perplessi sul quadro generale e critici rispetto al voltagabbanismo corrente. Ma
il profilo del nuovo premier ha alcuni caratteri interessanti rispetto agli argomenti e ai valori che
stiamo per richiamare. Quindi non c’è pregiudizialità negativa. C’è la speranza che si mantenga la
tensione a fare salvaguardando la reputazione dell’Italia (non è un problema di pura immagine,
come si vede dal duro confronto tra protezionisti e mercatisti riguardo alla natura nazionale delle
nostre maggiori imprese), purché non offendendo la verità, riconoscendo anche la gravità dei dati
economici e sociali del Paese, non mortificando il valore delle autonomie territoriali, non
considerando i cittadini solo elettori, non usando demagogicamente l’Europa come parafulmine,
non imbrogliando i giovani, non svendendo programmaticamente l’Italia a interessi stranieri.
Ancora una osservazione prima di esporre i punti essenziali del documento
Nelle brevi note che seguono si troveranno riferimenti al quadro politico che ha animato la costruzione
della Repubblica e della Costituzione. Non c’è nostalgia fine a se stessa. Lo sguardo resta avanti. Ma ci
sentiamo in obbligo di tirare le somme di esperienze riuscite e fallite che lette molti anni dopo, anni lunghi
quasi come la vita di una persona, ci fanno meglio comprendere successi e fallimenti di una stagione
generosa a cui è giusto richiamarsi pensando alla trasformazione sociale che ha generato politica non solo
al contrario se si ha a cuore la sorte di un paese bello e per la verità drammatico come è l’Italia.
 I partiti della sinistra marxista – in occidente in generale e in Italia in particolare – sia quello
comunista, sia quello socialista, anche se più parzialmente, hanno ritenuto diciamo fino agli anni
’50 necessario creare un ceto politico professionale che pensasse il pensiero del popolo
(l’espressione così varrebbe per il grosso dei nuovi partiti repubblicani e quindi anche per la DC, ma
per la sinistra noi dobbiamo sostituire in quegli anni il prevalere della parola “classe operaia”) per
promuovere con argomentazioni di lotta una dialettica sociale più equa. In ciò senza credere
all’esistenza di una borghesia progressista.
 Il Partito d’Azione – pur in coincidenza di molte argomentazioni “di sinistra” (ne è prova il pensiero
che ispirava da tempo “Giustizia e libertà” e il suo prioritario convincimento antifascista) e di forte
difesa dei lavoratori – non pensava alla necessità di formare un ceto politico professionale ma di
affidarsi in particolare a intellettuali e professionisti, categorie proprie di una borghesia
progressista (sia pure da cercare con il lanternino), reputando che il movimento di trasformazione
sarebbe soprattutto dipeso dalla qualità e dalla responsabilità di un governo realmente
riformatore.
 A distanza di 70 anni, con marginalizzazione strutturale della classe operaia, con un‘articolazione
più complessa del ceto medio (oggi sospinto in modo crescente verso l’inquietudine), con una
continuata crisi reputazionale del ceto politico professionista, si capisce meglio chi era più avanti e
chi aveva una vista più corta, mentre tutti mettevano comunque fervidamente le mani sulla
costruzione delle nuove regole della democrazia italiana.
 La fine del PdA nel 1947 lascia comunque eredità molto riconoscibili nelle storie successive dei
socialisti, dei socialdemocratici, dei repubblicani, dei radicali, dei liberali e anche di alcuni ambiti
cristiano-sociali. E che quindi hanno riverberato suggestioni per anni.
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Ecco, dunque, la parte vera e propria del nostro piccolo e inesaustivo documento di riferimento,
che abbiamo chiamato
“Dieci orti da coltivare”
che si espongono limitandoci a poche parole, a qualche spunto.
Qualcuno potrà pensare che si tratti di uno stile insolito. In realtà abbiamo risorse, conoscenze e
presenze che permetterebbero il trattamento di alcuni nodi di attualità con molto più
tecnicismo, con i linguaggi giuridici, economici o sociologici con cui abitualmente regoliamo il
“traffico delle carte”. Ma per questa occasione – quella diciamo così dei “segnali di base” –
abbiamo ritenuto di immaginare, appunto, una “narrativa di base”, quella valoriale.
Senza la quale il traffico delle carte è routine. Con la quale il traffico delle carte è soltanto
rinviato.
1. Buonapolitica e malapolitica
La domanda largamente inevasa di buonapolitica e la domanda largamente corrisposta di
malapolitica fanno comprendere che partire dal cambiamento sociale è più importante che
immaginare la politica come un insieme di formule artificiali del partitismo professionistico per
acchiappare voti. Ad esso e non al marketing della politica preme ora fare riferimento. Ne va, in
fondo, di un bene supremo, la libertà. E alla libertà – sono parole di Emilio Lussu – “si rimane fedeli
soprattutto nelle ore difficili”.
2. L’archivio delle buone risposte
L’Europa e la stessa Italia hanno un archivio delle “buone risposte”. La storia moderna e
contemporanea ha offerto molte occasioni di alta ispirazione. Occasioni che sono quasi sempre
dipese dai momenti in cui quella storia ha toccato il fondo, quando il disagio si è reso più acuto.
Quando la perdita di speranza ha ucciso la volontà individuale di misurarsi contro soprusi,
arroganze, costrizioni, perdita di diritti. Quell’archivio deve tornare accessibile e il pensiero di non
lasciare mai i cittadini di buona volontà nell’idea di perdere le speranze deve animare ogni nuova
iniziativa. Ugo La Malfa, nel declino della sua vita, disse: ”Non c’è quell’Italia che avevamo in
mente”. Era vero, ma era ancora accessibile quell’archivio dei buoni modelli che poteva tenere
aperti i confronti.
3. Le nostre storie
La globalizzazione comunicativa invade molto il campo. Perché i poteri hanno cavalcato
velocemente la pur affascinante caduta delle barriere (internet e affari) ma parimenti essa ha
aperto una scissione ancora squilibrata tra la globalità consumabile (avere) e la globalità dei valori
e della conoscenza (essere). Così da obbligarci a riprendere il gusto e l’interesse per le “nostre
storie”, non per rivendicare nazionalismi per essere forti e consapevoli nel confrontarci con il
grande oceano delle diversità. Il sogno dell’Europa federale, l’idea cioè di risolvere lo stress
egocentrico dei nazionalismi ma in una crescita di integrazioni identitarie compatibili, resta una
“nostra storia” anche nella fase evidente di criticità e di innalzamento di muri materiali e virtuali
contro gli altri, contro l’altro, nell’idea scientificamente poverissima che la paura (malattia tra le
più immateriali esistenti) si disperda se trova la protezione di un filo spinato. Altiero Spinelli
scriveva che questo sogno andava perseguito anche “per una più lontana, non ancora nata
generazione che riscoprirà il lavoro incompiuto e lo farà proprio”. Nel momento in cui sul mondo
sta per entrare in scena l’imprevedibile caravanserraglio di Trump noi abbiamo il dovere di
misurare problemi, visioni, anche convenienze, alla luce delle nostre “storie migliori” non
sperando di essere schivati dal ciclone perché sappiamo fare la pizza o guidare le gondole con un
solo remo.
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4. Meno ideologie, d’accordo, ma non c’è politica senza teoria
La sconfitta della visione laica e di modernizzazione che ha partecipato con protagonismo ad
ispirare la Costituzione della Repubblica ma che poi non ha resistito alle pressioni deformanti
prima della “guerra fredda” e poi della liquidificazione delle culture politiche, ha fatto molte
vittime. Sia nella qualità delle istituzioni che nella qualità sociale. Se avessero avuto più
radicamento quelle culture e più terreno di sperimentazione – anche negli anni che ora gli storici
chiamano “gloriosi” (’50-’80) – la stagione che poi (ultimi 25 anni) ha azzerato, con varie e
comprensibili motivazioni, il primato delle ideologie non avrebbe visto pressoché azzerato anche il
valore delle teorie nel guidare le politiche, nell’assumere decisioni, nel riorganizzare la
partecipazione democratica. E soprattutto per consolidare la qualità del governo degli interessi
generali. Ricordandoci del moderno monito di Piero Calamandrei: “Le dittature sorgono non dai
governi che governano e che durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici”.
5. La morte di ogni riformismo
Il galleggiamento senza sguardi lunghi è la morte di ogni riformismo. Quello delle “strutture”,
come diceva Riccardo Lombardi; ma anche quello dei “processi” come spiega da anni Giuseppe De
Rita. Per “cambiare” ci vogliono tempi di discussione, di sperimentazione, di metabolizzazione. Ci
vuole cultura della previsione.
Il risultato – pur contrastato, con varie modalità, da più di una figura, da alcuni pensieri, da certe
occasioni non banali – è stato inquinato dal qualunquismo (che era un’offerta sempre presente
nella storia politica italiana) e dal crescente populismo (che si è consolidato nelle varie forme del
fascismo internazionale quasi sempre partendo dal modello novecentesco italiano). Pur con i
contrasti in atto, l’esito è la inquietante perdita di reputazione della politica. Mentre il sistema
istituzionale e amministrativo è riuscito ad espellere la passione riformatrice (e auto-riformatrice)
che la drammatica opportunità dell’immediato dopoguerra aveva aperto e istillato.
6. Risolvere è meglio che sembrare
I partiti politici hanno adottato golosamente – senza capire che bevevano insieme champagne e
veleno - la formula del leaderismo, in una trasformazione infantile (e quindi anche rissosa) della
narrativa politica che ha fatto perdere anche il bisogno di paternità autorevole che, nella vita
pubblica, la politica non dovrebbe mai perdere. Pur facendola convivere con un forte diritto di
parola e di co-decisione ai giovani e alla parità di generi. Il letale lenzuolo steso dai mass-media
della priorità della visibilità rispetto ai contenuti delle soluzioni ha finito per avvolgere tutto e tutti.
E ha fatto prevalere l’età (ottimistica) dell’annuncio rispetto alla prevalenza (critica) delle ragioni.
La seconda richiedeva e richiede soprattutto classe dirigente. La prima si accontenta di festosi
organizzatori. La proposta di riportare in agenda la parola “velocità” non ci lasciato indifferenti,
ma ha posto e riproposto il tema dei “tempi” necessari per radicare i contenuti del cambiamento.
7. Riconoscimento di un civismo progressista nel territorio
Insieme a vecchia politica contrabbandata, insieme a eccessi di localismi che non alzano per
principio lo sguardo al mondo, non poche parti del territorio – in Italia e in Europa – hanno visto
progredire un civismo progressista ispirato all’idea di agire localmente ma di pensare con
l’innovazione presente nel mondo. Ciò ha offerto una soluzione interessante alla crescita culturale
e di esperienza della cittadinanza attiva con le competenze individuali e collettive per costituirsi in
ceto politico responsabile. Anche il ‘900 italiano ha offerto storie e modelli densi di significato
rispetto a queste esperienze (da Aldo Capitini a don Lorenzo Milani, da Danilo Dolci a Adriano
Olivetti). Grazie a queste esperienze – con nuove generazioni di stimolatori, di pensatori, di
attivisti civici - è stata contenuta la corruzione. E si sono spesso trovate soluzioni corrispondenti
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agli interessi della collettività non al peso delle lobbies. Sono esperienze che hanno un rapporto
diretto con tantissimi “cantieri” educativi nella scuola e nei processi formativi che hanno fatto
accumulare un bagaglio di metodo e un rafforzamento etico di base (che in alcuni territori
contaminati o controllati dalle mafie assume valore speciale).
8. I veri servitori dello Stato
La connessione sociale, culturale, esperienziale di queste parti della comunità nazionale è possibile
e doverosa, sapendo che essa non sopporta la strumentalizzazione. Ed essa deve comprendere
almeno un’altra categoria, sottraendola alla misconoscenza e alla silenziosità.
Si deve cioè avere il coraggio di una attenta ricognizione con il rapporto che queste storie hanno
con ambiti della pubblica amministrazione in cui la dedizione di veri “servitori dello Stato” si
esprime ancora contro l’evidenza di altri ambiti di opportunismo e contro l’immagine che va
combattuta di molti privilegi e pochi servizi. Quei “funzionari” che – come diceva Carlo Azeglio
Ciampi – hanno a cuore “la libertà dei cittadini al pari dell’unità della Patria”.
9. Le interdipendenze per tornare a crescere
L’economia, il lavoro, l’occupazione sono un mantra della comunicazione politica. Ma dichiarare il
problema non è sempre la premessa ad agire per invertire tendenze su cui agiscono cause globali
unite ad insipienza della nostra classe dirigente. Non è questa la sede dunque per fare uno
strapuntino di questo stesso mantra. Quello che appare evidente nella vicenda italiana è che la
crisi non è né tutta né solo imputabile – come è abitudine generalizzata fare – alla classe politica.
C’è stata una involuzione progettuale e di coraggio nella cultura degli investimenti da parte
dell’imprenditoria italiana; e c’è stata una evanescenza della cultura co-decisionale altrove
esercitata dai sindacati e dai noi rimasti ad oscillare tra il “no” e la pur comprensibile difesa dei
pensionati. Pare evidente che le tre “risposte” di sistema - difesa dell’economia industriale e della
manifattura; coraggio nell’innovazione e nella ricerca attorno alle grandi trasformazioni
tecnologiche e in mezzo lo sviluppo (sensatissimo per l’Italia) delle industrie culturali e creative –
creano tutte le sinergie necessarie, territorio per territorio, tra sistema dell’impresa, della
formazione e delle responsabilità istituzionali (fisco, semplificazione, regole, eccetera). In un
rispetto per la nostra qualità sociale e per il nostro ambiente entrambi messi a prova da corruzioni,
abusivismi, incurie e scorrerie che non hanno pari in Europa. Questa è una visione che si legge
talvolta sui manuali ma che si perde spesso per strada nei corporativismi, negli attendismi e negli
assistenzialismi del nostro paese. Questo “orto” (questa parola connessa alle storie è stata pensata
da Marco Pannella) è in verità un grande “parco” delle opportunità che chiede nuova
alimentazione di sapere e di saper fare.
10. Diritti e doveri
La lezione storica a cui sentiamo – se è concesso dirlo - mazzinianamente di aderire è quella di
un’etica pubblica capace di essere convincente con tutti e soprattutto con i giovani (a cui, se
spiegata, essa può apparire non solo giusta ma anche salvifica) quando si tratta di parificare nella
politica e nella comunicazione pubblica la sollecitazione ai diritti e ai doveri, come fa infatti la
nostra Costituzione. Compenetrare culturalmente, civilmente, comportamentalmente
l’aspirazione ai riconoscimenti sanciti ormai diffusamente e la conoscenza e il rispetto per obblighi
che se assolti migliorano le condizioni generali della società (uno per tutti portando a conoscenza
generalizzata l’evasione fiscale senza la quale il debito pubblico del paese sarebbe un piccolo peso
sostenuto per mantenere condizioni di welfare costantemente più caro, mentre così è diventata
una macchina auto-divoratrice) è un obiettivo che comporta il coraggio di una impopolare servizio
alla verità da cui oggi sfugge suicidariamente il grosso dell’offerta politica del paese.
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Qui finisce il primo, piccolo ma al tempo stesso grande, pannello di riferimento.
Chi pensa che si tratti di “belle parole”, di sermoni laici d’altri tempi, di rifugi ideali divenuti
merce invendibile, non tiene in considerazione che tutto il contenuto rivoluzionario della storia
dell’arte e della creatività si è sempre fondato su idee semplici non barattabili.
Chi pensa che ci sia “ben altro” a cui pensare, con i tempi che corrono, avrà forse anche qualche
ragione. Si accomodi, lo dica, ci convinca, ci aiuti ad ampliare l’elenco.
La nostra conclusione, intanto, si limita a due postille operative
L’agenda del 2017
Al centro di un percorso di approfondimento di questi spunti ci dovranno essere assemblee
macro-tematiche in tanti luoghi, corrispondenti a storie significative nelle direzioni indicate.
Vorremmo immaginare anche seminari di formazione per generare con i giovani una scuola di
politica non calata dall’alto, ma limitata a contenitori di metodo in cui si cercano insieme le
competenze adeguate per accompagnare esperienze in forma tendenzialmente diversa da quella
dei sistemi formativi istituzionali. Vorremmo poi aprire la ricognizione delle buone pratiche –
soprattutto negli ambiti sociali indicati (dunque nelle amministrazioni, nelle imprese, nelle scuole,
nei servizi, nelle professioni, nella creatività e nella cultura) – per dare “omogeneità e dimensione”
alle tendenze del civismo progressista diversamente in atto. Abbiamo considerato il 2017 –
almeno nella sua parte prevalente – come agenda di questo quadro di indicazioni operative.
Sapendo che il calendario delle scadenze formali segna tappe che obbligano anche a maturare
risposte. Ma avvertendo la necessità di far compiere un percorso di consapevolezza necessaria in
coloro che, in prima istanza, vorranno considerarsi “fondatori e pionieri” di questa esperienza.
Dieci temi per i nostri “cantieri”
Ipotesi di lavoro da verificare
1. Riformare lo Stato
- Prima parte – Le regole generali (Roma)
- Seconda parte – La cultura dei corpi qualificanti (sicurezza, giustizia, salute,
educazione) (Bari)
2. I caratteri della buona politica (Trento)
3. La classe dirigente (Milano)
4. La qualità del dibattito pubblico – Democrazia e media (Perugia)
5. Locale e globale. Un’idea di patria, tra Italia ed Europa (ricordando che il 25 marzo 2017
ricorrono i 60 anni dei Trattati di Roma) – Avremmo scelto qui l’isola di Ventotene, che è
stata tuttavia di recente luogo di memoria di una iniziativa di governo. Molti sono i luoghi
di confino o di detenzione dove vi era chi, nella sofferenza, pensava intensamente al
futuro, così come vi furono luoghi alternativi che aiutarono alcuni a fare scelte decisive per
l’avvenire dell’Italia (dalla Biblioteca Vaticana per De Gasperi, all’esilio in Francia per Turati,
Nitti, Nenni, Saragat, Pertini, Treves, Tarchiani, Cianca, Sturzo, i Rosselli e tanti altri).
6. Meriti e responsabilità di imprenditori e sindacati (Catania)
7. Scienza, tecnologia, innovazione (Genova)
8. Economia della creatività (Torino)
9. Cambiamenti famigliari, sociali, identitari nella prioritaria analisi del ruolo delle donne
(Padova)
10. Diritti e doveri, l’etica pubblica e la percezione dei giovani (Napoli)