[Intermezzo] Il sonetto d`oro Otto e sei verghe d`oro, o Musa, io batto

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[Intermezzo] Il sonetto d`oro Otto e sei verghe d`oro, o Musa, io batto
[Intermezzo]
Il sonetto d’oro
Otto e sei verghe d’oro, o Musa, io batto
su l’incude con fervido martello
ed ognuna di lor piego ad anello
e pongo su ’l cuscino di scarlatto.
Poi, con più grave pazienza, in atto
d’un mastro orafo antico su un gioiello
regale, ognuna a punta di cesello
(m’è Benvenuto nel pensiero!) io tratto.
Le gemmee rime sprizzano barbagli
d’iride, chiuse nei castoni d’oro,
su ’l nobil drappo ov’è trapunto il Gallo.
Impetuosamente io su i fermagli
de l’ultima terzina ancor lavoro;
e mi stride ne l’impeto il metallo.
[La Chimera]
Due Beatrici
I
Musa, l’arguta rima in cui mi piacque
laudare Isotta da la bianca mano
e narrar di Brisenna come giacque
co ’l biondo Astìoco trovador sovrano
e come navigando le bell’acque
facean le donne il canto lor toscano
o ne’ gigli bevean quell’acque chiare,
stando la Luna attonita a guardare,
Musa, dammi l’arguta rima e schietta
al modo de’ poeti fiorentini.
Non la ballata e non la ballatetta
con compagnie di gighe e ribechini,
ma l’ottava, l’ottava tua m’alletta
o grande messer Agnolo Ambrogini,
l’ottava in dove canta un pieno coro
di lusignuoli e ronzan api d’oro.
Ronzano l’api d’or che miele assai
colsero ne’ verzieri di Fiorenza
ne’ verzieri ove un dì m’innamorai,
ove alta e snella in atto di piacenza
risemi Verdespina in tra’ rosai
che ne ’l fiorir sentivan la presenza
ancor de la tua bella Simonetta
e di madonna Ipolita soletta.
Venìan l’acque de l’Affrico declive,
tremando piano i vetrici in su’ cigli,
stormendo i pioppi snelli in su le rive,
questi di fino argento e quei vermigli.
Non apparìan le ninfe fuggitive,
ma pur rideano palpitando i gigli
a lo specchio; e parea l’Affrico tardo
gridare: — O ninfa, un fiume sono ed ardo. —
Parve gridare come un dì l’Ombrone
ad Ambra sua, ne ’l canto medicèo.
A me ne ’l cor gemea la passione
di quel pastore giovine Aristeo
figliuol d’Apollo, e quella sua canzone
ch’ei canta ne la favola d’Orfeo:
— Udite, selve, mie dolci parole,
poiché la bella ninfa udir non vôle. —
Ben m’udì Verdespina. Ella venìa,
alta e sottile quanto li arboscelli,
a me da presso; e viva m’apparìa
tutta pinta di foglie e di fiorelli
come la donna de l’Allegoria
che apparve in sogno a Sandro Botticelli.
Portava in bocca un assai pio messaggio:
— Ben venga maggio e ’l gonfalon selvaggio. —
Io era un buon fanciullo: un poco sciocco.
M’ardea ne ’l petto, di dolcezza, il cuore;
ché non pure una volta aveami tocco
con la sua lancia il cavalier Dolore.
Non sì fiero tenea forse il Marzocco
ne l’unghia l’arme de ’l vermiglio fiore
com’io tenea ne ’l pugno, senza alcuna
guerra, le chiome de la mia Fortuna.
Or n’andavan così per la novella
erba, per l’ombre de ’l beato lido,
il damigello con la damigella,
pensando Cino ed il Petrarca e Guido.
Non così dolce il canto de ’l Casella
sonò ne l’alma de ’l poeta fido,
come in me quel leggero ondeggiamento
de li alberi per l’aria senza vento.
O bei cipressi di Montughi, alzati
ne ’l puro vespro quali fiamme a spiga;
monti de ’l Casentin lunge rosati
che in mille vene copia d’acque irriga;
e voi, poggi di Fiesole odorati,
ove brillano i chiari olivi in riga;
e tu, sì vasta ne ’l seren fulgore
de ’l vasto ciel, Santa Maria del Fiore,
se mai grata vi fu la nostra lode,
oh voi dite a’ poeti il mio gioire
quando ella mormorò, dolce — Non ode?
Li usignuoli cominciano ad escire. —
E per man mi trattenne. In su le prode
più forte i gigli presero ad aulire;
onde le man (tremando ella assentìa)
non isciogliemmo più per quella via.
II
O Viviana May de Penuele,
gelida virgo prerafaelita,
o voi che compariste un dì, vestita
di fino argento, a Dante Gabriele,
tenendo un giglio ne le ceree dita,
Viviana, non più forse a la mente
il ricordo di me vi torna omai.
E pure allora, quando io vi parlai,
mi sorrideste a lungo e dolcemente.
Fiorìan, Villa Farnese, i tuoi rosai
ne ’l mattino di maggio e su le antiche
mura il sole una veste aurea mettea:
tra le liete ghirlande si svolgea
la bellissima favola di Psiche;
navigava in trionfo Galatea.
O Viviana May de Penuele,
or vi sovviene de ’l lontan mattino?
Voi sceglieste le rose ne ’l giardino
ove un tempo convenne Rafaele,
muta, con lento gesto, a capo chino.
Non vidi allor la Primavera iddia?
Disser la vostra lode a me li uccelli;
fiori parvero nascer da’ capelli,
come ne la divina Allegoria
cui pinse in terra Sandro Botticelli.
Poi su l’accolta de le vive rose
reclinando la testa agile e bionda,
avidamente, come sitibonda,
tutte beveste l’anime odorose
— oh voluttate mistica e profonda!
Poi smarrita in un sogno, alta levaste
la faccia ove le azzurre èsili vene
languìano, e mi volgeste (or vi sovviene?)
le pupille ne ’l sogno umide e caste.
Non così pura in cielo è mai Selene.
Io sol dissi a la notte alma e felice,
solo dissi a le stelle il novo amore.
Segreto in me de’ vostri occhi il fulgore
io custodii, beata Beatrice.
Tale un raggio di luna il silfo ha in cuore.
Or cantarti m’è dolce, o Viviana.
Splendimi ne la chiara ode, vestita
de la tunica verde e redimita
d’argentei fiori, in calma sovrumana
tenendo un giglio tra le ceree dita!
Al poeta Andrea Sperelli
Sperelli, piange ne ’l tuo cor profondo
l’Anima al fine disperata e sola?
Fa che raccolga ogni dolor del mondo.
Come l’oliva sotto la gran mola
geme un olio soave, il tuo cor franto
geme il verso che esalta e che consola.
Apri una vena al tuo già chiuso pianto.
Corra improvviso un caldo flutto umano
per le tue strofe e s’oda alto lo schianto.
Veggasi tutto il sangue tuo mal sano
rompere fuora e fumigar la piaga
incesa ben da la tua stessa mano.
L’Anima trista che non fu mai paga
narri ai poeti la tremenda angoscia
durata in braccio de l’antica Maga.
Come talora la bandiera floscia,
in cima de l’antenna, alto garrire
s’ode repente se il turbine scroscia,
così, tolta a quel suo lungo morire,
or la tua volontà fiammando forte
al soffio del dolor riprenda ardire.
Tu, co ’l tuo pugno, chiuderai le porte
del cupo laberinto insidioso
ove lasciasti tante cose morte.
Ucciderai quel Sogno che il riposo
ti tolse ed in balia l’Anima tenne
e bevve il sangue tuo voluttuoso.
Quel Sogno che la tua vita contenne,
quel vivo Sogno cadrà, sanguinando
qual mozzo capo sotto la bipenne.
Cadrà, con un sorriso muto; e quando,
muto, ti guarderà con li occhi fissi,
pieni d’ombra e di lacrime, implorando,
tu sentirai salir su da li abissi
de l’esser tuo un grido non umano;
e sarà peggio che se tu morissi.
O amico, o tu che soffri, ecco la mano!
Io fui già prode. Io son che, senza grida,
feci tutti i miei sogni a brano a brano.
La creatura bella ed omicida
che si nutriva del mio cor possente
non più m’attira ne l’alcova infida.
E anch’ella simigliava oscuramente
l’Essere ambiguo, il prodigioso Mito
che Leonardo amò ne la sua mente.
Ell’era l’ideale Ermafrodito,
era il pensato Andrògine. Lo sguardo
suscitava un affanno indefinito,
mordeva il cuore, acuto come un dardo;
senza mai tregua, né tristi né liete
sorridevan le labbra… O Leonardo,
insonne Prometèo, sottile Ermète,
bel semidio, quali Anime divine
chiudesti ne le tue Forme segrete?
Una di quelle mute anime al fine
un giorno mi parlava d’improvviso;
Anima con pupille sibilline,
Anima con le labbra e con un riso,
un riso inestinguibile ed esiguo,
che le labbra effondean per tutto il viso.
Intento mi guardò l’Essere ambiguo.
Dietro il suo capo risplendea lontano
sotto un ciel dolce un bel paese irriguo.
Mi guardò e mi disse: — In vano, in vano,
Giovine, t’affatichi a penetrarmi.
Il mio grande segreto è sovrumano.
Il tuo desire è contro me senz’armi.
Non giunge fino a me la tua preghiera.
Vincermi tu non potrai, né puoi stancarmi.
Io son la Sfinge e sono la Chimera.
O tu che sogni, qui ne le mie dita
la trama del tuo sogno è prigioniera.
O tu che soffri, io so la tua ferita.
Ma nulla più mi turba e più m’accora.
Io conosco le leggi de la Vita.
Io guardo in me. Le tènebre ch’esplora
il mio sguardo profondo, internamente,
m’attraggon più d’ogni più bella aurora.
Che è l’aurora? Che è mai l’ardente
spira de li astri, il mar blando e feroce?
Io guardo in me con le pupille intente.
Sola io contemplo, sola e senza voce,
un mar che non ha fondo e non ha lido.
O tu che soffri, il tuo soffrire è atroce;
ma non saprai giammai perché sorrido. —
[Poema paradisiaco]
Consolazione
Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa. È stanco di mentire.
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.
Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancóra per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
che vela certe cose del passato.
Ancóra qualche rosa è ne’ rosai,
ancóra qualche timida erba odora.
Ne l'abbandono il caro luogo ancóra
sorriderà, se tu sorriderai.
Ti dirò come sia dolce il sorriso
di certe cose che l'oblìo afflisse.
Che proveresti tu se ti fiorisse
la terra sotto i piedi, all’improvviso?
Tanto accadrà, ben che non sia d'aprile.
Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento
sol di settembre, e ancor non vedo argento
su ‘l tuo capo, e la riga è ancor sottile.
Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
La madre fa quel che il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda un po' di sole,
un po’ di sole su quel viso bianco.
Bisogna che tu sia forte; bisogna
che tu non pensi a le cattive cose...
Se noi andiamo verso quelle rose,
io parlo piano, l’anima tua sogna.
Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
tutto sarà come al tempo lontano.
Io metterò ne la tua pura mano
tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.
Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.
In una vita semplice e profonda
io rivivrò. La lieve ostia che monda
io la riceverò da le tue dita.
Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.
Io parlo. Di’: l'anima tua m’intende?
Vedi? Ne l'aria fluttua e s’accende
quasi il fantasma d’un april defunto.
Settembre (di’: l'anima tua m’ascolta?)
ha ne l’odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l’odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.
Sogniamo, poi ch’è tempo di sognare.
Sorridiamo. È la nostra primavera,
questa. A casa, più tardi, verso sera,
vo’ riaprire il cembalo e sonare.
Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,
allora, qualche corda; qualche corda
ancóra manca. E l’ebano ricorda
le lunghe dita ceree de l'ava.
Mentre che fra le tende scolorate
vagherà qualche odore delicato,
(m’odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po’ passate,
sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai nobile, anche un poco
triste; e il suon sarà velato, fioco,
quasi venisse da quell'altra stanza.
Poi per te sola io vo’ comporre un canto
che ti raccolga come in una cuna,
sopra un antico metro, ma con una
grazia che sia vaga e negletta alquanto.
Tutto sarà come al tempo lontano.
L’anima sarà semplice com’era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l’acqua al cavo de la mano.
Hortus Conclusus
Amor con lui parlava
del vostro grande orgoglio...
Cino da Pistoia
L'alta bellezza tua è tanto nova!
Sennuccio del Bene
Alma real, dignissima d'impero...
Francesco Petrarca
Giardini chiusi, appena intraveduti,
o contemplati a lungo pe’ cancelli
che mai nessuna mano al viandante
smarrito aprì come in un sogno! Muti
giardini, cimiteri senza avelli,
ove erra forse qualche spirto amante
dietro l’ombre de’ suoi beni perduti!
Splendon ne la memoria i paradisi
inaccessi a cui l’anima inquieta
aspirò con un’ansia che fu viva
oltre l’ora, oltre l’ora fuggitiva,
oltre la luce de la sera estiva
dove i fiori effondean qualche segreta
virtù da’ lor feminei sorrisi,
e i bei penduli pomi tra la fronda
puri come la carne verginale
parean serbare ne la polpa bionda
sapori non terrestri a non mortale
bocca, e più bianche nel silenzio intente
le statue guardavan la profonda
pace e sognavano indicibilmente.
Qual mistero dal gesto d'una grande
statua solitaria in un giardino
silenzioso al vespero si spande!
Su i culmini dei rigidi cipressi,
a cui le rose cingono ghirlande,
inargentasi il cielo vespertino;
i fonti occulti parlano sommessi;
biancheggiano ne l'ombra i curvi cori
di marmo, ora deserti, ove s’aduna
il concilio degli ultimi poeti;
tenue su la messe alta dei fiori
passa la falce de la nova luna;
ne l'ombra i fonti parlano segreti;
rare sgorgan le stelle, ad una ad una;
un cigno con remeggio lento fende
il lago pura imagine del cielo
(desìo d'amori umani ancor l'accende?
memoria è in lui del nuzial suo lito?)
e fluttua nel lene solco il velo
de l’antica Tindaride, risplende
su l’acque il lume de l’antico mito.
Di sovrumani amori visioni
sorgono su da’ vasti orti recinti
che mai una divina a lo straniero
aprirà coronata di giacinti
per lui condurre in alti labirinti
di fiori verso il triplice mistero
cantando inaudite sue canzoni.
Ma quegli, folle del profumo effuso
dal cor degli invisibili rosai,
chino a la soglia come quando adora,
pieni d’un sogno non sognato mai
gli occhi mortali, giù per l’ombre esplora
nel profondo crepuscolo in confuso
il dominio silente ch’egli ignora.
Così la prima volta io vi guardai
con questi occhi mortali. Voi, signora,
siete per me come un giardino chiuso.
[Alcyone]
Lungo l’Affrico nella sera di giugno dopo la pioggia
Grazia del ciel, come soavemente
ti miri ne la terra abbeverata,
anima fatta bella dal suo pianto!
O in mille e mille specchi sorridente
grazia, che da la nuvola sei nata
come la voluttà nasce dal pianto,
musica nel mio canto
ora t’effondi, che non è fugace,
per me trasfigurata in alta pace
a chi l’ascolti.
Nascente Luna, in cielo esigua come
il sopracciglio de la giovinetta
e la midolla de la nova canna,
sì che il più lieve ramo ti nasconde
e l’occhio mio, se ti smarrisce, a pena
ti ritrova, pel sogno che l'appanna,
Luna, il rio che s’avvalla
senza parola erboso anche ti vide;
e per ogni fil d’erba ti sorride,
solo a te sola.
O nere e bianche rondini, tra notte
e alba, tra vespro e notte, o bianche e nere
ospiti lungo l’Affrico notturno!
Volan elle sì basso che la molle
erba sfioran coi petti, e dal piacere
il loro volo sembra fatto azzurro.
Sopra non ha susurro
l'arbore grande, se ben trema sempre.
Non tesse il volo intorno a le mie tempie
fresche ghirlande?
E non promette ogni lor breve grido
un ben che forse il cuore ignora e forse
indovina se udendo ne trasale?
S’attardan quasi immemori del nido,
e sul margine dove son trascorse
par si prolunghi il fremito dell'ale.
Tutta la terra pare
argilla offerta all’opera d’amore,
un nunzio il grido, e il vespero che muore
un’alba certa.
La sera fiesolana
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!
Meriggio
A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se ascolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l'isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d'aria nell'aria,
l'isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgóna.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.
La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d'aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l'oblío silente; e le canne
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.
Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L'Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell'uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m'abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio vólto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dell’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s’affina.
E la mia forza supina
si stampa nell'arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l'alpi e l’isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome né sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.
E la mia vita è divina.
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.