Crescere in Compagnìa

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Crescere in Compagnìa
Crescere in Compagnìa
CONCORSO DI NARRATIVA E SAGGISTICA
PER LA DIFFUSIONE DELLA
CULTURA GENOVESE
SEZIONE: NARRATIVA
MA NON NEVICA PIU’
Questa storia narra la vita di una persona realmente esistita e che vive tutt’ora.
Dai suoi racconti, dalle sue testimonianze, ho voluto trarre spunto per ricordare tradizioni, usi e abitudini
in un contesto storico, quello del secondo dopo guerra, nel quale povertà e speranza nel futuro si
intrecciano e si confondono, ponendo le basi di questa narrazione.
Dei fatti tragici realmente accaduti non esiste traccia di documentazione. Solo testimonianze di chi, in
prima persona o per sentito dire, li ricorda ancora e li tramanda.
Nella località che fa da sfondo al racconto il tempo si è fermato: le case sono sempre quelle, solo un po’
più vecchie, ma sono abitate quasi esclusivamente d’estate.
Il titolo indica la malinconica consapevolezza di un tempo felice ormai trascorso, quando la neve
accompagnava il lieto sopraggiungere del Natale, vista con gli occhi di un bambino prima e di un anziano
poi.
Nevica.
Continua a nevicare.
Da quando mi sono alzato, vedo solo bianco attraverso i vetri. Tutto è bianco.
E sono felice.
Mi chiamo Luigi Nicola. Il mio nome deriva da Luigia, la mia nonna materna, e Nicola, il mio nonno
paterno. Qui si usa così. Non puoi rifiutarti di prendere i nomi dei tuoi nonni. Sarebbe un affronto
terribile, un dolore per la famiglia. Te li porti addosso appiccicati anche se non ti piacciono, anche se sono
strani, anche se non si usano più.
Tutti mi chiamano Luigino. O meglio, Gino, data la mia bassa statura. Molti mi chiamano “Gino di
Laghi”, semplicemente perché abito vicino a dei trogoli, vasche di cemento dove la mamma e altre donne
si recano a lavare i panni e intanto chiacchierano e ridono mentre lavorano.
Dietro ad ogni nome, ad ogni soprannome, ci sono una storia, un luogo, un avvenimento, una burla, un
mestiere. E allora ti chiamerai “Gustin di Rabelai”, perché tuo nonno, che in guerra non voleva proprio
andare, è stato letteralmente trascinato via (in genovese “rabelai” dal verbo “rabelà”). Oppure “Beppe u
pullu”, perché cascavi sempre e scioccamente in ogni scherzo a cui ti sottoponevano. O ancora “Terre du
Cuccou”, se la tua famiglia possedeva un’antica osteria chiamata proprio così. Da non confondersi con
“Pino di Cucchi”, uno degli otto fratelli e sorelle (tutti rigorosamente “dei Cucchi”), dal nome della
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località il cui nome, a sua volta, deriva dai “cucchi”, ovvero le primule, fiori gialli che compaiono allo
sciogliersi della neve.
Ecco, è proprio così: un nome, una storia da ricordare e da raccontare. A volte, quando è trascorso tanto
tempo, capita non si sappia neppure più il perché di questo o quel nomignolo, ma una cosa è certa: di
sicuro ha un suo significato, solo che nessuno se ne rammenta più.
Nevica.
In cucina la stufa è accesa da ore e l’odore di legno di castagno si diffonde nella vecchia casa dei Tiassi,
un gruppo di case sulla collina che sovrasta Langasco, il paesino dell’entroterra genovese che si incontra
salendo il Passo della Bocchetta e dove vivo da quando sono nato.
Io abito a Langasco. Sono sempre stato orgoglioso di vivere qui. Forse perché a scuola, la maestra ci ha
spiegato la storia nobile e millenaria di questo paese, la sua importanza quando combatteva contro
Genova, che voleva impossessarsene per la posizione strategica. A volte mi diverto ad immaginare i
combattimenti tra Genuates e Langenses. Ovviamente, vinciamo sempre noi.
Langasco è un paese forte, tenace, in un territorio vasto, che conosce la dignità. Nulla però vi è rimasto
dell’antica potenza: non ci sono né cattedrali, né ponti, né castelli. Ci sono solo un’ antichissima e bella
Chiesa, la scuola e una trattoria. Tutto qui. Ma per me è comunque qualcosa di immensamente grande.
Chi passa da Langasco vi lascia un pezzo di cuore e poi torna a riprenderselo: prima o poi ci si torna
sempre, qui. Gli sfollati che in tempo di guerra hanno trovato rifugio nel nostro paese (anche in casa mia!)
tornano sempre: in villeggiatura, per fare una passeggiata, per ringraziare, per salutare.
Sì, tornano tutti.
Nevica.
Langasco è ancora più bello sotto la neve. La neve cancella tutto. I colori, le strade, i sentieri. Cancella il
dolore. Vorrei che cancellasse proprio il dolore e specialmente i ricordi di un fatto terribile accaduto nel
nostro paese. Ancora lei, ancora la guerra.
Siamo in classe, la terza elementare. È una giornata come tutte le altre. Ma per Luigino (mio omonimo),
poco più grande ma in classe con me, no: di solito spavaldo, trascinatore, allegro, sereno e il nostro
capobanda, è particolarmente agitato. Piange, ha paura. Trema. La maestra cerca di consolarlo,
preoccupata, ma non riesce a capire cos’ha. Lo fa sedere vicino a lei, ma lui è terrorizzato. Proprio per
questo motivo la maestra decide di trattenerlo in classe per qualche minuto in più. Nessuno può sapere
che di lì a poco, appena uscito da scuola, il mio amico Luigino verrà ucciso in modo atroce, colpito in
pieno da una bomba lanciata da chissà dove. Mia mamma Maria si trovava a Campomorone in quel
momento, paese lontano circa 3 Km, verso Genova. Appena le arrivò alle orecchie la vaga notizia che un
ragazzino della terza elementare era stato ucciso , col cuore in gola salì di corsa i sentieri ripidi che
portano a Langasco, per scoprire con sollievo che non ero io la vittima, ma annientata dall’angoscia per il
lutto dell’altra mamma, sua amica.
Io ricordo benissimo il boato, la confusione, le urla. Poi, più nulla.
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Si tornò a scuola, ma nulla fu più come prima. Dell’accaduto nessuno parlava più: tasto troppo doloroso.
Nessuno poteva spiegare i fatti e, semplicemente, non se ne parlò più. Il silenzio era rotto solo dalle nostre
cartelle di legno - com’era bella la mia, costruita da mio papà: di legno chiaro, robusto e lucida di vernice
- che si posavano sui banchi all’entrata in classe. Però era uno strano silenzio. Era come se quel silenzio
racchiudesse tutte le nostre emozioni e i nostri sentimenti, le nostre paure e le nostre ansie. Era come se
parlasse per noi.
Nevica.
Un paesino nel paese, i Tiassi. Tante piccole case, stalle e cascine addossate una sull’altra, pare quasi
vogliano tenersi caldo a vicenda in questo inverno freddo come non mai, come da anni non succedeva.
Distano dal paese di Langasco un chilometro, forse nemmeno, i Tiassi, ma quando dal primo giorno di
vacanze natalizie mi trasferisco lì dai nonni, a me sembra veramente di andare in villeggiatura! Preparo le
valigie, i regalini per la nonna, i centrini fatti all’uncinetto dalla mamma, il tabacco per zio Fedele. Parto
pieno di emozioni e intanto penso e ripenso alla notte di Natale che sta per arrivare di lì a poco. Parto per i
Tiassi. L’accoglienza è la stessa ogni volta: sembriamo migranti che giungono dall’America, tanta è l’aria
di festa che regna in casa della nonna. Lo zio Giuseppe, per tutti Barba Beppin, fratello della nonna, è
davvero partito per l’America tanti anni fa.
Dicono si trovi in Argentina e pare abbia fatto fortuna e sia diventato un piccolo imprenditore. Ogni tanto
ci giungono da oltreoceano pacchi di beni di ogni genere, che noi qui neanche ci sognamo. A me lo zio
manda sempre la cioccolata in polvere. “Cocoa” c’è scritto sulla scatola.
Ci ha spedito anche una sua fotografia, che mi è rimasta molto impressa: lui con la macchina che passa
attraverso un gigantesco albero dal tronco cavo.
Talvolta ci giungono tessuti particolari: ricordo una coperta meravigliosa, gialla e calda, che per me
rappresenta tutt’ora l’affetto di uno zio che non ho mai conosciuto personalmente e mai, probabilmente,
conoscerò.
Ogni anno, per Natale, so che dalla nonna Luigia riceverò un’arancia. Ma non una qualsiasi. La mia. Una
splendida e succosa arancia. Poi, come tradizione, io e i miei amici ci riuniamo in cima alla collina che
domina il paese e facciamo rotolare i nostri frutti giù per la discesa. Non ci sono mai né vincitori né vinti,
ma soltanto una bella merenda per tutti, una volta che si riesce a recuperare l’arancia. Spero davvero tanto
che la nonna ne riservi una per me anche quest’anno.
Nevica.
Oggi è la Vigilia di Natale e io sono qui con la mia matita e un foglio.
“Caro Gesù Bambino…”, ma non so ancora cosa chiederGli in dono. Devo sbrigarmi, altrimenti non farà
in tempo a portarmi nulla, Gesù Bambino. Ma come farà a pensare a tutti?
E’ bello stare qui dai nonni. Quando mi trovo da loro sono sereno, anche se nonna Luigia è da tempo
inferma: ha un grave problema di salute e non cammina più. Trascorre le giornate seduta sulla vecchia
poltrona nell’angolo, ma non è mai triste. Sorride sempre ed ha parole buone per tutti, soprattutto per me,
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ed è per questo che vengo qui volentieri. Suo marito Giovanni Battista – per tutti Nonno Baccicin – è più
in gamba. Lavora ancora la terra e cura gli alberi da frutta e la grande vigna, insieme allo Zio Fedele, che
lo aiuta.
Nevica.
Il Presepe e l’albero addobbato non possono mancare in ogni casa che si rispetti. E quelli dei Tiassi sono
speciali. Nell’ingresso, una vecchia botte, che odora ancora di autunno, posta orizzontalmente, accoglie al
suo interno un piccolo Presepe. Le poche statuine di gesso, pastori e Re Magi, si inginocchiano davanti
alla capanna della Natività. Il profumo di muschio, che qui chiamiamo “pan di bosco” o “bura” in
genovese, si diffonde nella stanza. Il fiumiciattolo e la farina sulle montagne rendono ancora più realistico
il Presepe, tanto semplice e artigianale quanto curato ed apprezzato.
Accanto ecco l’albero di Natale: qui usiamo mettere in un vaso un ramo secco. Poi vi si appendono
mandaranci, noci, maccheroni, castagne secche e qualche raro, rarissimo, cioccolatino. Che meraviglia!
Anche se, tutte quelle leccornie ad un palmo di naso mi fanno quasi desiderare che arrivi presto il
momento di disfarlo!
Nevica.
Il pentolone sulla stufa borbotta e sbuffa vapore, il profumo della gallina bollita invade la casa e non vedo
l’ora di gustarla.
È la Vigilia di Natale, è un’occasione speciale: le galline qui sono preziose e non capita spesso di dover
assaporare cibi così prelibati. Di solito l’odore che prevale è quello di minestrone di verdure, quel
minestrone denso come piace a me e come neanche mia mamma riesce a fare. La minestra non manca
mai, qui ai Tiassi. Avere la terra e i prodotti dell’orto ci fa sentire benestanti: non siamo ricchissimi, ma
abbiamo di che mangiare. E, come dice sempre mio papà, di questi tempi è una fortuna.
Nevica.
Se continua così, finisce che Gesù Bambino non riesce ad arrivarci, ai Tiassi, dove tutto ormai è coperto
da un manto soffice e bianco.
Gioco con la mia trottola in legno sul vecchio pavimento della sala, piastrelle grigie e nere di ardesia che
formano una scacchiera immaginaria. La trottola è il mio giocattolo preferito. Me l’ha portata Gesù
Bambino il Natale scorso. Non che ne abbia molti, di giocattoli. Ho anche un cavallino a dondolo con cui
mi divertivo quando ero piccolo e una bambola di pezza con due bottoni come occhi, cucita da nonna.
Non posso dirlo ai miei amici, sennò sai che risate alle mie spalle!
“Caro Gesù Bambino…”, ritorno a pensare a qualcosa di originale che vorrei ricevere, ma non mi viene in
mente nulla: lo sapevo, dovevo pensarci prima.
Nevica ancora.
Si sente un rumore di chiavi nella toppa. È lo Zio Fedele che torna dopo aver accudito gli animali. Si
toglie gli scarponi e mi viene incontro abbracciandomi. Emana odore di stalla e di freddo, ma a me non
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dispiace: sono i profumi delle mie vacanze! Di solito vado con lui a controllare il bestiame ma oggi no,
non con tutta questa neve!
Va vicino alla stufa sempre accesa e, sedendosi su una poltrona, si sfrega le mani per scaldarsi. Chissà
come fa freddo fuori! Io non ho un buon rapporto col fuoco. Non è mai stato mio amico. Quelle sfumature
di colori caldi, rosso, arancione e giallo, mi portano alla mente un fatto che mi è accaduto qualche anno
fa, durante la guerra. Non ho mai capito la guerra, io. Specialmente nei paesini piccoli come il mio
Langasco, le paure si sentivano. La tensione si sentiva. E io, quel giorno, stavo tornando a casa. Ero
andato ai Tiassi a prendere il latte che la nonna aveva munto dalle mucche della stalla e lo stavo portando
alla mamma. All’improvviso, sentii il rumore del motore di un aereo sopra di me. Bastò una manciata di
secondi per capire che mi avevano visto. Cercai un posto per ripararmi, ma riuscii soltanto ad
accovacciarmi ai piedi di un muretto, inchiodato dal terrore e incapace di muovermi. Misi le mani sulle
orecchie e chiusi gli occhi. Un rumore assordante, un’ esplosione. E una grande luce. Come arrivò, se ne
andò. Fu terribile. Correndo, arrivai a casa e sbattei la porta alle spalle con tanta forza che mi stupii di me
stesso. Mi è rimasta la paura nel sangue, nelle vene. Nel cuore. Non dimenticherò mai che quella bomba
era per me. Soltanto per qualche metro, io sono ancora vivo. Non dimenticherò mai. Nell’estate di
quest’anno, stavo falciando il fieno con papà ed è passato sopra le nostre teste un aereo. Innocuo. Ma per
me rappresentava sempre quell’aereo. E sono svenuto.
Nevica.
La neve è pace, tranquillità, silenzio. Stasera, invece, regnerà l’allegria. Lo so. Saremo tutti a tavola, tutti.
Non mancherà nessuno! Ci saranno i miei genitori, Maria ed Angelo, ed io, i miei zii Rosita, Nita, Pippo,
con le rispettive famiglie, lo zio Fedele ed, ovviamente, i miei nonni. Tutti nella grande sala col
pavimento a scacchiera: che festa sarà assaporare i ravioli in brodo e poi la gallina, la cima e il cappone.
Dopo la frutta, ecco il momento da me tanto atteso: il pandolce genovese con l’uvetta, i deliziosi canditi e
i pinoli! Ah! Che prelibatezza, che bontà! Ho già l’acquolina in bocca!
Collaborano tutti alla cena, tutti portano qualcosa, tutti questa sera devono sentirsi in festa. È quasi
Natale! E’ quasi Natale… e io non ho ancora scritto la mia letterina a Gesù Bambino.
Nevica ancora.
Non riusciremo a raggiungere la Chiesa per la Messa di Mezzanotte! E la Messa è il momento più
importante del Natale. Gesù, Tu nasci… ed io non Ti ho ancora scritto. Ah, ma io verrò in Chiesa.
Dovessi anche sprofondare, dovesse anche arrivarmi la neve fino al collo. Puoi scommetterci che verrò. E
sono certo che vicino a me avrò sicuramente il sostegno della mamma, molto devota. E pazienza se è
freddo, pazienza se verrà tardi, pazienza se c’è tanta neve. Io so che andremo tutti a Messa, ci andremo
tutti. Lo so. Partiremo avvolti nei nostri cappotti, con le sciarpe calde al collo e i berretti, fatti a mano
dalla nonna riutilizzando la lana dei vecchi maglioni, ma ogni volta così nuovi e graditi. Certo, col freddo
vengono ancora più apprezzati. Porteremo delle lanterne per non perdere il sentiero e, divertendoci a
seguire le impronte di chi ci ha preceduto, raggiungeremo la Chiesa, illuminata dalle luci delle candele e
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dai volti allegri e spensierati. Gesù Bambino, Tu stai nascendo. I 12 rintocchi delle Campane ci
annunciano che è giunta l’ora tanto attesa. Non ti ho scritto la lettera, ma ho il cuore pieno di gioia e di
calore. E capisco che è questo il dono che hai custodito per me.
Dodici rintocchi.
Dodici lenti rintocchi.
L’orologio a pendolo nell’ingresso mi ricorda che la notte è ancora lunga.
Forse troppo lunga.
Lunga come le giornate che non scorrono mai, in questo mio elegante appartamento del centro, tra i
palazzi signorili, col portinaio e l’ascensore. Mi alzo a fatica, ed esco dalla stanza con indosso la
vestaglia. La mia cartella di legno è ancora lì e la guardo con malinconia. È posata nell’ingresso sullo
scrittoio in noce che domina il salone. È ancora bellissima, in legno chiaro, robusta e lucida di vernice.
Sembra nuova. Sono un po’ invidioso. Per lei non è cambiato niente, lei è sempre uguale. Non ha visto il
tempo scorrere, non ha subito il mio cambiamento. Mi avvicino alla finestra e guardo il traffico cittadino.
Ma dove dovranno andare tutti a quest’ora? Sorrido, sotto la mia folta barba bianca. Ricordare la mia
infanzia e il mio paese natio è l’unica mia fonte di serenità. Le emozioni e le tradizioni della mia terra
scorrono davanti ai miei occhi come fossero immagini reali, nitide. Fotografie della mia vita che mi
passano davanti, a volte veloci, a volte lente. A volte vorrei fermarle per osservarle un po’ di più. Altre
volte vorrei scorrerle il più velocemente possibile. Vorrei non ricordare. Poi mi rendo conto che non devo
dimenticare, niente e nessuno. Sento nuovamente il cuore colmo di pace. Sono stanco. Mi risiedo e
sprofondo nella poltrona, quella che un tempo fu di nonna Luigia. Caro Gesù Bambino, Ti ringrazio per
avere esaudito la mia richiesta: quella di non dimenticare.
Ma non nevica più.
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